Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: JoiningJoice    02/03/2015    2 recensioni
È un'esplosione nel deserto ciò che unisce per sempre le vite di Levi Ackerman ed Erwin Smith, rispettivamente soldato senza fissa dimora e medico devoto alla propria professione, durante una missione in Iraq. Quando Erwin salva Levi da morte certa, ancora non sa che sarà proprio lui l'uomo che renderà reale il suo sogno di una vita: qualcosa che nessuno dei due ha mai avuto, e che entrambi desiderano più di ogni altra cosa al mondo.
Una famiglia. La più grande, stramba e unita delle famiglie.
Ci fu di nuovo una pausa, questa volta più lunga; tanto che la voce di Erwin tornò a riempire gli altoparlanti. - Posso dirlo io, se preferisci. -
- No. - Levi scosse la testa senza giustificare il suo silenzio, tornando a guardare in camera con quanta più intensità possibile; e per la prima volta da quando il video era cominciato, i dodici spettatori riconobbero in quello sguardo l'uomo che aveva combattuto mille guerre senza arrendersi. L'uomo che aveva cresciuto tutti loro.
- La priorità della nostra famiglia. - ogni parola di Levi era carica di forza distruttiva. - È sopravvivere. Assieme. -
Genere: Angst, Fluff, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Irvin Smith, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La luce di un mattino tutto nuovo illuminò il volto di Erwin, rilassato e addormentato, il corpo nudo coperto da lenzuola sottili. Levi aveva aperto gli occhi da molto prima che il sole sorgesse, e aveva potuto godere di tutte le sfumature che la neonata luce aveva dipinto sui lineamenti del compagno.

Non dormiva molto. Non lo aveva mai fatto, ma da qualche anno a quella parte era diventato ancora più difficile convivere con quei dannati incubi, con le immagini che affollavano la sua mente non appena rimaneva solo con se stesso.

“Hai già fatto abbastanza”, aveva detto ad Erwin, ma quell'espressione non rendeva esattamente l'idea di quanta gratitudine Levi provasse per lui – non esistevano termini per esprimerla, e se fossero esistiti lui non sarebbe comunque stato capace di pronunciarli. Si alzò appena, sentendo i muscoli scrocchiare a causa della rigidità della notte e scostando le lenzuola per scendere dal letto. Eseguì paio di esercizi per riscaldare il corpo, mentre si muoveva per la stanza con passo leggero, raccattando tutti i vestiti che Erwin aveva lasciato cadere sul pavimento alla rinfusa la sera prima – pessima abitudine, secondo lui. Di cattivo esempio per i ragazzi.

Mentre chiudeva meglio le tende per far sì che il sole non svegliasse Erwin almeno per un paio d'ore ancora non potè fare a meno di notare la data segnata dal calendario digitale sul comò della stanza, tra fotografie dei piccoli e documenti di entrambi. 22 Marzo. Non che avesse davvero bisogno di sapere che giorno fosse – ne era dolorosamente consapevole – ma leggerlo rendeva i ricordi molto più reali e vicini. Si avvicinò al calendario e lo abbassò lentamente, in modo che lo schermo di questi fosse rivolto verso il legno e non verso di lui. Lo specchio dietro al comò gli restituì l'immagine di un uomo terribilmente stanco, più spaventato di quanto avrebbe mai voluto ammettere.

- Stai invecchiando. - mormorò; e sussultò appena, nel sentire come la sua voce stessa suonasse roca e vecchia. Calò lo sguardo di nuovo sul comò e lasciò scivolare le dita verso un foglio bianco e una penna lì a fianco, per poi chinarsi meglio a scrivere qualche breve parola. Erwin avrebbe compreso. Quel giorno non necessitava di spiegazioni – voleva solamente che fosse sicuro di dove si sarebbe trovato.

Posò il foglio sul proprio cuscino, nella direzione in cui sapeva Erwin avrebbe guardato non appena avesse aperto gli occhi, e si voltò per prendere i vestiti preparati la sera prima su una sedia e uscire dalla stanza. Sarebbe stata una giornata incredibilmente lunga.



* * *



Come Levi aveva previsto, la prima cosa che Erwin notò svegliandosi fu la sua assenza, e la presenza di un biglietto di scuse. L'uomo si stropicciò gli occhi per mettere meglio a fuoco le parole che il compagno gli aveva lasciato, per poi posare il biglietto sul proprio comodino ed alzarsi.

Sarebbe stata una giornata impegnativa, ma almeno avrebbe avuto passarla a casa coi ragazzi e non alla clinica. Affondò un'ultima volta il volto nel cuscino, prima di rialzarsi e stendere i muscoli intorpiditi dal sonno. Sul volto sentiva la poco familiare sensazione di un accenno di barba, che doveva essergli cresciuta durante i giorni di viaggio. Non era particolarmente spiacevole – si chiese cosa ne avrebbero pensato a lavoro, e cosa ne avrebbero pensato i bambini. Il loro giardiniere aveva barba e baffi, ed Erwin era sicuro si fosse lamentato almeno una volta perchè i bambini tendevano a chiedergli di abbassarsi per tirarglieli.

Gli bastò un'occhiata al suo riflesso per decidere che la barba non gli donava affatto. - Sembro un sessantenne con brutte intenzioni. - borbottò, inclinando il collo per scrocchiarlo. - E parlo anche da solo, come un sessantenne con brutte intenzioni. -

Si alzò dal letto, dirigendosi in fretta verso il bagno e procedendo ad eliminare ogni traccia della barba incolta; una ventina di minuti dopo abbandonava la stanza vestito di tutto punto. Il corridoio che portava alla scalinata principale era deserto, ma dal piano di sotto arrivavano le voci dei bambini, probabilmente intenti a fare colazione; si fermò ad ascoltarle in silenzio, osservando il giardino della tenuta e sorridendo appena. Levi era da qualche parte là fuori, e vi sarebbe rimasto fino a sera tarda. Ricordava perfettamente le prime volte in cui era ricorso quell'anniversario, e la paura irrazionale di non vederlo mai più sulla porta di casa.

Era una paura morta con gli anni e l'abitudine, riflettè. Non aveva nulla da temere.

Un movimento agli angoli della sua visuale attirò la sua attenzione: l'arrivo del postino, povero ragazzo. Si fiondò di sotto preoccupato per la sua salute, correndo in maniera molto poco matura per il corridoio e giù dalle scale e rallentando solo una volta uscito dalla porta principale, nel vialetto d'ingresso – ma era troppo tardi. Ebbe una fugace visione del giubbotto blu del ragazzo, prima che questi venisse seppellito sotto una montagna di pelo e latrati canini.

- Hanji! - urlò a pieni polmoni, correndo ad aiutare il povero malcapitato. Affondò le braccia nel pelo dell'enorme Leonberger impegnato a lappare il volto del ragazzo, tirandolo indietro. Alle sue spalle, appoggiata alla cassetta delle lettere, Hanji rideva di gusto. - Ti ho detto mille volte di tenere i tuoi cani al guinzaglio! -

Hanji smise di ridere e fischiò appena; il Leonberger si voltò verso la propria padrona e le corse incontro, scodinzolando felice e poi toccando con il muso la testa dell'altrettanto mastodontico Mastino Italiano che sbuffava annoiato ai piedi di Hanji. - Ma a Sawney e Bean Colby piace tanto! - si giustificò, carezzando la testa di Bean (il Leonberger). Erwin scosse la testa, allungando la mano al ragazzo e aiutandolo ad alzarsi.

- Mi... mi chiamo Moblit, signora. - Erwin fissò il ragazzo mentre si sistemava il cappellino caduto a terra e spolverava la giacca. Era rosso in volto, ed Erwin non seppe decidere se lo era a causa della caduta e dell'assalto di Bean o c'era qualcos'altro. Moblit si voltò poi verso Erwin, consegnandogli un pacco rimasto miracolosamente intatto e salutandolo con un cenno del capo. - Buona giornata ad entrambi. - augurò, tornando alla sua bicicletta a capo chino.

Erwin rimase a guardarlo mentre pedalava via, spostando poi lo sguardo su Hanji, impegnata a sorseggiare da una tazza di caffè con la figurina stilizzata di Nikola Tesla disegnata sopra. - Ho perso il conto delle denunce che quel ragazzo non ci ha ancora rivolto, sai? - borbottò, riabbassando le maniche della camicia.

Hanji fece spallucce. - Io ho l'impressione che non gli dispiaccia troppo. Che ti ha portato? -

Erwin esaminò il pacco, sorridendo appena nel vedere da dove arrivasse. - Non importa. I ragazzi sono in casa? -

- Hanno finito di fare colazione e li ho spediti a fare i compiti, sì. - annuì Hanji. La sua curiosità sul pacco di Erwin ebbe la meglio, e si avvicinò per guardarlo; fece in tempo ad intravederne la provenienza, prima che Erwin le sfuggisse, incamminandosi sul vialetto di casa per tornare dentro.

- Najaf? - rise Hanji. Chiamò a sé i cani, che la seguirono dietro all'uomo. - Che ti mandano dall'Iraq, dottor Smith? -

Erwin si fermò nell'ingresso e si voltò a sorriderle. Fu solo dopo un paio di secondi che Hanji si rese conto che il suo sorriso non era rivolto a lei, ma al giardino ormai alle loro spalle.

- È una lunga storia. - si giustificò Erwin.

Per una volta sensibile all'argomento, Hanji si limitò a sorridere furbescamente all'interno della propria tazza di caffè. Non chiese altro.



* * *


Sette anni prima

Nei pressi di Najaf, Iraq


Mentre era sdraiato con il volto rivolto al cielo roseo, qualcosa tornò in mente a Levi. Un pensiero stupido, venuto da una parte di sé che non credeva nemmeno esistesse più.

“Non ho mai visto un cielo così bello.”, pensò. E probabilmente non ne avrebbe più rivisti.

Il fianco aveva smesso da tempo di fargli male, ma sapeva che se solo avesse provato a spostarsi sarebbe tornato, più forte che mai. Non poteva permettersi di rimanere lì, però: c'era troppo silenzio, il terreno tremava per le esplosioni troppo vicine. Strinse i denti e affondò le dita nel terreno sabbioso, tirandosi su in preda ai più dolorosi spasmi che avesse mai provato. Sentiva la scheggia di metallo esplosa con la bomba infilarsi sempre più a fondo sotto il suo costato, squarciarlo e aprirlo come un animale al macello. Non poteva permettersi di rimanere lì.

Doveva trovare Farlan ed Isabel.

Si voltò per strisciare a pancia in giù sulla terra, tossendo e vomitando sangue nel processo. Allungò il braccio in avanti tremando – l'esplosione lo aveva sbalzato dietro una serie di rocce che gli impedivano la visuale sulla città, ma se soltanto fosse riuscito ad aggrapparsi e tirarsi su, se soltanto fosse riuscito ad arrivare più in alto, ad assicurarsi che i suoi amici stessero bene...

Tastò a vuoto fino a che la sua mano non trovò la pietra; poi, chiusi gli occhi, vi si aggrappò con tutte le forze e si trascinò in avanti, cacciando un urlo nel sentire la scheggia muoversi dentro di lui, il sangue scorrergli via dal corpo e ricoprire il terreno. L'urlo si trasformò ben presto in un incoraggiamento a se stesso – come se urlare fosse l'unico motivo per rimanere sveglio e cosciente, per andare avanti – nonostante la sordità improvvisa gli impedisse quasi di sentire la propria voce. E all'improvviso la superficie scavata della roccia era sotto di lui, un vento caldo alitava sul suo volto; Levi lasciò la presa per aggrapparsi a un punto più in là e vi rimase saldamente aggrappato nonostante la sorpresa iniziale del sentire qualcosa di caldo e morbido al posto della pietra.

Sarebbe svenuto presto, ma doveva almeno provare ad aprire gli occhi, doveva provare a trovarli. Lo fece, e un mondo di devastazione gli si aprì davanti. Il fumo impedeva quasi di vedere chiaramente, ma Levi avrebbe preferito avesse coperto anche quel poco che c'era di visibile; frammenti di corpi ricoprivano il deserto fino a dove fosse possibile guardare, e in quel quadro macabro e scarlatto non c'era posto per distinzioni di genere – i cadaveri erano sparpagliati, alcuni vestiti della divisa scura dei marines, altri delle vesti semplici e colorate dei civili. Alcuni corpi erano troppo ustionati perchè Levi riuscisse a capire a chi erano appartenuti, altri lo fissavano da orbite prive di vita, imputandogli una colpa.

Sei stato tu.

Tu hai azionato la bomba.

Tu hai premuto il grilletto.

In preda alla paura più primordiale e allucinata, Levi abbassò lo sguardo sul punto in cui si era appoggiato. Due occhi scuri e pieni di lacrime lo fissavano spaventati; la parte inferiore della mascella era spostata in maniera più che innaturale, il corpo pieno di graffi e ustioni.

La mano di Levi era stretta attorno a quella piccola e scura della bambina, ma per poco – fu in quell'attimo che gli ultimi legamenti rimasti attaccati al braccio si spezzarono con un rumore secco. Non seppe mai se avesse immaginato quel rumore o l'avesse sentito veramente, ma rimase ad ascoltare la voce della bambina mentre quella moriva qualche metro sotto di lui, rantolando e piangendo ogni lacrima che fosse ancora in grado di piangere. E quei lamenti erano tutto tranne che immaginari.

Ebbe la forza di svenire soltanto quando lei aveva smesso di piangere da un pezzo, e l'unico rumore udibile era quello delle bombe ancora inesplose, in lontananza.


* * *


Riaprire gli occhi richiese più coraggio di quanto Levi ne avesse mai avuto in vita sua – e non se ne sarebbe mai vantato, ma ne aveva avuto. Non potè esimersi dal farlo quando sentì delle pinze afferrare il pezzo di metallo nel suo corpo ed iniziare ad estrarlo; cacciò un altro urlo, alzandosi di botto.

- Ah... no, dannazione! Ti prego, rimani giù! - sentì urlare. La vista era sfocata, e Levi sentì una mano premere contro il suo petto e rimandarlo su qualunque superficie fosse sdraiato prima ancora di aver compreso dove si trovasse. La mano si spostò dal suo petto alla sua bocca e vi infilò uno straccio a forza, ignorando le proteste e le urla soffocate di Levi.

- Mi dispiace trattarti così, ma devi capirmi. Abbiamo finito gli anestetici, sto... sto facendo il possibile. - spiegò la voce. Aldilà del dolore personale, Levi ne percepì l'ansia e la preoccupazione, e cercò di rimanere il più fermo possibile. - Ti ringrazio. -

Levi non si preoccupò di trattenersi dall'urlare, mentre l'uomo tirava la scheggia via dal suo corpo; alzò appena il capo in tempo per vederla, un pezzo di metallo affilato lungo almeno una ventina di centimetri. Ruotò gli occhi all'indietro e svenne per un'altra decina di minuti. Quando tornò in sé l'uomo stava finendo di suturare la ferita – Levi sentiva le sue dita correre sulla propria pelle lacerata, lo sentiva mormorare frasi in inglese e pregare divinità che non potevano aiutarlo. - Dio, non farmene perdere un altro... - borbottò. Levi abbassò le palpebre, in qualche modo consapevole che il vederlo sveglio avrebbe distratto l'uomo dall'attenzione che stava mettendo nel curarlo. Al buio, lo sentì festeggiare piano quando un ragazzino iracheno entrò ad annunciargli qualcosa. Un attimo dopo una maschera in lattice venne posizionata sul suo volto – Levi aprì gli occhi prima di addormentarsi, e tutto quel che vide furono capelli biondi e due occhi azzurri, pieni di lacrime.

Riprese i sensi qualche ora dopo, a giudicare dalla luce più bassa e cupa della sera. Il dolore non era minimamente diminuito, ma ora era sordo, faceva di sottofondo a tutti gli altri pensieri che occupavano la sua testa. Aveva ripreso conoscenza da solo qualche minuto quando sentì qualcuno avvicinarsi al suo letto – richiuse gli occhi come d'istinto, per lasciare che il dottore facesse il suo lavoro. Le dita dell'uomo sistemarono i bendaggi sul suo costato, per poi passare a controllare delle ferite alla testa che Levi quasi non si era accorto d'avere; si costrinse a rivelarsi sveglio quando lui gli alzò appena il capo e aprì le palpebre per constatare il suo stato.

La voce dell'uomo era profonda e rimbombava, come fosse lontano metri e metri. - Come ti senti? - chiese piano. Levi strizzò gli occhi e scosse piano la testa, e lui ripetè la domanda un po' più forte. Levi non rispose comunque, scopertosi inabile a parlare.

Il dottore doveva essersene accorto, perchè gli porse un bicchiere d'acqua appoggiato da qualche parte oltre il suo letto. Alla fine fu più quello che cadde sulle sue guance e sul cuscino che quello che riuscì a bere, ma per una volta non vi badò; non aveva smesso di fissare il tendaggio che faceva loro da tetto, né le ombre degli elicotteri rumorosi sopra di loro.

- Sai dirmi come ti chiami? -

Lasciò vagare lo sguardo sul volto del dottore. Era un occidentale dai tratti del volto duri e gli zigomi alti – sembrava tedesco, ma il suo accento era molto più simile a quello inglese. Gli ripetè la domanda in arabo, e Levi scosse la testa.

- Levi Ackerman. - rispose. Il tempo di parlare, sentì l'acqua risalirgli in gola e si alzò di scatto per vomitare accanto al suo letto, mentre l'uomo mormorava qualcosa dispiaciuto e lo aiutava a rimettersi sdraiato, passandogli un fazzoletto sulle labbra. Levi scosse la testa, evitando di guardarlo negli occhi. Stava odiando quel dolore, e odiando il suo corpo per quanto poco si stesse dimostrando in grado di affrontarlo.

- Levi. - ripetè l'uomo, tornando seduto e massaggiandosi le tempie. Sembrava stanco morto, eppure attese paziente che Levi riprendesse a parlare.

Lui chiamò sé i ricordi, immagini confuse e difficili da riordinare.

- Levi Ackerman. - ripetè. Il suo stesso nome suonava estraneo – come se il soldato fosse morto, scomparso. - Tenente della tredicesima divisione GCE della USMC. Al comando dell'operazione Alpha contro le truppe Afghane appostatesi attorno a Najaf. -

L'uomo sembrò impressionato; incrociò le braccia sul petto e lo fissò intensamente. - Un Marine. - constatò.

Levi annuì. Il silenzio che cadde tra di loro dopo quelle parole suonava come una condanna a morte sulle teste di tutti coloro che Levi conosceva, che ricordava.

- Sono l'unico sopravvissuto. - mormorò. Non si sorprese del proprio tono apatico, né la intese come domanda. L'uomo chinò il capo e si alzò, incamminandosi verso l'uscita della stanza, lontano dalla vista di Levi.

- Ho azionato io la prima bomba. - sussurrò. Lo sentì fermarsi – lo immaginò sull'uscio, una mano sulla tenda, l'altra stretta a pugno attorno al fianco.

- Lo immaginavo. - lo sentì rispondere. - Si capisce dal tuo sguardo. -

Non si dissero altro, e Levi attese di scivolare di nuovo in un sonno chimico popolato da incubi.


* * *


Il dottore si chiamava Erwin Smith e, come Levi aveva compreso, era inglese. Glielo spiegò – assieme a un'altra novantina di annedoti poco interessanti e decisamente fuori luogo – mentre procedeva a controllare che le suture sul suo fianco non stessero infettandosi, imbottendolo di medicinali. Sarebbe sembrata quasi una visita dentistica, non fosse stato per l'odore di sangue che aleggiava per tutta la stanza, e soprattutto per i nervi di Levi pronti a cedere in qualunque momento.

- Senti, signor dottore. - sbraitò a un certo punto. - Non so se tu sia abituato a conversare coi cadaveri, ma inizierai presto a farlo se non stai attento alla ferita. -

Appena sorpreso da quell'interruzione, Erwin alzò il capo ed abbassò gli occhialini dal naso al petto. - E invece sopravviverai, signor marine. - sorrise. - E no, effettivamente non ci sono abituato. Non sono un medico di guerra, ma un volontario. Lavoro con i ragazzi e le loro famiglie, di solito, e loro... -

Rimase a rimuginare sulle sue parole, evitando di incontrare lo sguardo impassibile e pesante di Levi. Si massaggiò il volto e rilassò sulla sedia. - Beh, immagino la situazione sia cambiata. -

Levi si riscoprì a odiare ogni sillaba pronunciata dal dottor Smith; non perchè l'uomo fosse fastidioso – lo era, nel suo entusiasmo e nella sua attenzione e nella cura che metteva nel guarirlo – ma per la frase che aveva pronunciato poco prima. Per la certezza che si sarebbe salvato; nessuna incapacità di camminare, nessun arto andato perduto, niente di niente.

Prima o poi si sarebbe rialzato per scavare due fosse vuote per Isabel e Farlan e sarebbe tornato a combattere. Gli avrebbero rimesso in mano un fucile, il tasto d'avviamento per uccidere di nuovo decine di innocenti e di soldati impegnati soltanto a fare il loro lavoro. E tutto questo perchè il dottor Smith lo aveva salvato.

Aveva ogni motivo di detestarlo.

- Chi mi ha portato qui? - si ritrovò a chiedere, senza nemmeno guardarlo in volto. Osservava interessato quella porzione di cielo rosato visibile dalla finestrella della sua stanza, l'immobilità del mondo fuori.

- Amir. - mormorò il dottore. - È un ragazzino del villaggio. Lui e i suoi fratelli erano lontani dalla linea di fuoco quando siete arrivati, ma sono tornati indietro appena le bombe hanno smesso di esplodere. Ti hanno trovato dietro a delle rocce e portato qui. Se non fosse stato per lui, probabilmente saresti morto a causa dell'emorragia nel giro di poche ore. -

Levi annuì piano. Amir – quante volte aveva sentito nomi simili, in quei mesi di servizio e anche prima? I soldati della sua divisione – no, buona parte dei soldati erano soliti scherzare su quanto quella gente sembrasse tutta uguale, tutta pronta a combattere per una causa persa e idiota. Non sembravano volersi rendere conto della spietata, ironica evidenza – tutti loro combattevano per cause perse e idiote. Non si era mai sentito parte di quella massa di idioti, nonostante combattesse al loro fianco.

E così, Amir. Questo Amir era diverso. Era il ragazzino che aveva deciso se sarebbe vissuto o morto, e aveva deciso senza sapere niente di lui, senza giudicarlo.

- Non ti sto chiedendo di essergli grato. - sentì dire al dottor Smith. - Probabilmente in questo momento ti senti confuso, arrabbiato... -

- Risparmiami i libri di psicologia. - Levi si lasciò scivolare più in basso sul materasso rigido. - Non sto pensando di ammazzarmi. -

- Non volevo dire questo. - fu la risposta. - Credo tu stia pensando che non meriti di essere sopravvissuto. Sei un Marine, dopotutto. -

Levi evitò di rispondere, ma questa volta il suo sguardo non vacillò da quello azzurro dell'uomo. Fu lui il primo a scostarlo, per tornare alle sue medicazioni con rinnovata fermezza. - Come si chiamava? - chiese.

- Non voglio parlare di me. -

Le dita del dottore premettono sulla ferita con molta poca cura. Levi scattò in su e lo fissò inviperito. - Come si chiamava? - ripetè Erwin, il fantasma di una risata nella voce. Levi cercò di ignorare quell'eco – in parte perchè lo trovava incredibilmente fuori luogo, in parte perchè non era mai stato bravo a tirare ganci con la mano sinistra e la destra era ancora fuori uso e dolorante. Scosse la testa, raccogliendo le parole da usare - Si chiamavano Isabel Magnolia e Farlan Church. - cominciò. Solo pronunciare i loro nomi innescò una serie di ricordi caldi, domestici; i loro volti sorridenti, i loro abbracci. Il tempo passato assieme. - Erano la cosa più simile a una famiglia che abbia mai avuto. -

Sentiva che parlarne ancora avrebbe sporcato il loro ricordo, quelle memorie che erano sue e sue solamente. Si limitò a rispondere alle domande di Erwin: come si erano conosciuti (non lo ricordava; erano sempre stati assieme), come si erano uniti all'esercito (era stata una decisione di Levi, e loro l'avevano seguito), com'erano (non c'erano parole che facessero loro giustizia. Non ce ne sarebbero mai state).

- Io non ho mai avuto amici. - rivelò Erwin. Come se Levi gli avesse chiesto qualcosa. - E nemmeno fratelli. Siamo sempre stati solo io e mio padre. -

Levi non potè fare a meno di esibire una smorfia, al ricordo dell'unica figura paterna che avesse mai avuto. Ma quelli erano ricordi ancora più intimi, e non desiderava condividerli con il dottore. Lui non sembrava della stessa opinione; era straordinariamente aperto ed estroverso, nonostante stesse praticamente avendo una conversazione con sé stesso. Poi il suo sorriso tranquillo mutò in qualcosa di più profondo, che attirò l'attenzione di Levi. - Lo odiavo. - sussurrò appena. Sembrava quasi non lo vedesse; come se il ricordo l'avesse riportato indietro, oltre quella tenda, oltre quel deserto.

Per un momento Levi fu quasi in attesa di sapere il perchè di quel sentimento, ma il racconto di Erwin si interruppe nell'attimo in cui un ragazzo sulla ventina spuntò sull'uscio e chiamò il suo nome. Riportato alla realtà dal nuovo arrivato, Erwin si congedò con un sorriso mesto.


* * *


La notte gettò Levi in uno stato febbricitante e un dolore che non aveva mai provato in vita propria; a volte si ritrovava a contorcersi su se stesso, in attesa di ritrovarsi in una posizione che potesse far scomparire il dolore lancinante e incurante della possibilità che i punti della ferita si aprissero. Urlò senza emettere alcun suono fino a non sentire più nemmeno i muscoli del volto. Era perso in quella condizione, e nella sua mente si susseguivano allucinazioni miste a ricordi.

I loro volti. Il braccio della bambina che si strappava con un rumore ai limiti dell'osceno. Il giorno in cui era stato investito tenente. La risata amara di suo zio quando aveva annunciato che sarebbe diventato un soldato, e quel suono che si trasformava in urla infantili...

Quando la mano estranea si posò sul suo petto non ebbe neanche la forza di dimenarsi a causa della paura; cercò il contatto umano come mai aveva fatto prima d'ora in vita sua, stringendosi contro le dita che lo sollevavano e aggrappandosi al braccio che lo stringeva mentre il dottor Smith iniettava qualcosa nel suo braccio.

Non era sicuro che si fosse trattata di un'allucinazione – ma mentre singhiozzava in quell'abbraccio che in altre circostanze avrebbe odiato, gli era sembrato di sentire Erwin fare lo stesso.


* * *


- La signora Jaeger è entrata nel nono mese di gravidanza. -

Levi abbassò il giornale e fissò Erwin. - Beh, yuppi-yee. Mandale dei cioccolatini e una bottiglia di vino da parte mia. -

Erwin rise di gusto, abbandonando la borsa coi medicinali a fianco del tavolo e sedendosi nel posto accanto a quello di Levi. Erano passate poco meno di due settimane da quando lo avevano portato lì, ma aveva ripreso a camminare da cinque giorni solamente, e con delle grucce. Ora sedeva in una specie di saletta per i degenti con tanto di televisore, unica compagnia due anziani impegnati a discutere animatamente in dialetto.

- Ma no, è una bella notizia. Quando... beh, quando il marito è morto temevamo che il dolore avrebbe portato a un aborto spontaneo che non c'è stato. E ora invece scoppia di salute e si prepara al parto. - sospirò un momento, in attesa di una risposta da parte di Levi...che era di nuovo immerso nella lettura del giornale. - Fammi indovinare. Non ti piacciono i bambini? -

Un grugnito in risposta. Erwin posò un dito sulla carta e la piegò in modo da avere una visuale sul volto di Levi, distorto da una smorfia orripilata. - Davvero non ti piacciono i bambini? - mormorò, la delusione negli occhi, nel cuore e nel labbro sporto in fuori in maniera ridicola e infantile.

Levi scosse la testa. - Parliamo d'altro, dottore? Per esempio di quando mi lascerai uscire da questa trappola per topi formato gigante? -

Erwin si rilassò sulla sedia, portandosi una mano dietro la nuca e grattandola. - Non posso permetterti di lasciare l'ospedale finchè non sarai completamente guarito. L'USMC è già stato avvisato circa le tue condizioni, ma i ribelli bloccano la strada tra Najaf e la vostra base. -

- Non che i fottuti Stati Uniti d'America muoverebbero mai il culo per un solo superstite... - mormorò, voltando pagina. L'operazione Alpha era stata un disastro totale, e avrebbero rigettato tutta la colpa su di lui se Erwin non lo avesse dichiarato immediatamente incapace di comprendere e di volere. Gli era costato un pugno sulla spalla, ma Levi aveva apprezzato il favore. Il Governo non avrebbe addebitato la morte di un intero squadrone a un pazzo.

- Anche questo è vero. - Erwin rivolse la propria attenzione al telegiornale, che annunciava una serie di bombardamenti a nord-est di Najaf. Levi lo vide aggrottare la fronte e mormorare qualcosa sottovoce, ma non indagò oltre. Quando si voltò di nuovo verso di lui, era tornato il se stesso abituale. - Allora, davvero non ti piacciono i bambini? -

Levi evitò di pensare all'ultima volta che aveva effettivamente interagito con un bambino, o a braccia strappate dai propri corpi. Represse quel ricordo in una parte di sé, optando per una risposta antipatica. - Creature abominevoli. Io non sono mai stato un bambino. -

Erwin gettò la testa indietro e rise. Lo faceva spesso – ridere. Sembrava trovare tutto divertente e meritevole di una sana e piena risata, ma Levi non ci aveva molto a capire che si trattava di un modo per nascondere quanto in realtà nulla di ciò che lo circondava fosse minimamente divertente. Era una specie di meccanismo di autodifesa, o una manovra adottata per i pazienti e poi rimastagli appicicata addosso. - No, in un certo senso neanche io. - ammise, abbassando lo sguardo. - Quando tuo padre non fa altro che trascinarti tra un campo feriti all'altro, non hai molto tempo per pensare a dover essere un bambino. A cinque anni gli passavo gli strumenti, a sette sapevo suturare ferite minori e ad otto conoscevo i principi di almeno trecento diversi medicinali. -

Quindi aveva passato tutta la sua vita a fare quello? Levi schioccò le labbra, piegando il giornale e riponendolo sul tavolino in plastica. - Mio zio mi ha messo un'arma in mano la prima volta quando avevo sei anni. - rivelò, per nessuna ragione particolare. Forse gli piaceva solamente vedere gli occhi azzurri di Erwin sgranarsi per la sorpresa, interessarsi. - Mi diede questo coltellino svizzero e mi disse di andare a squartare il cane dei vicini così che la smettesse di abbiare dalla mattina alla sera. Fu mio nonno a fermarmi. Il vecchio era l'unico sano in una famiglia di pazzi. -

Erwin aveva poggiato i gomiti sul tavolo e lo ascoltava rapito. - E dei tuoi genitori che mi dici? - domandò. Levi afferrò le grucce abbandonate vicino alla sedia e si alzò in piedi, puntando poi una di esse verso il naso di Erwin.

- Ti è scaduta la licenza sulla mia vita privata, dottore. Rinnovala, sarà per un'altra volta. -

Di nuovo quella risata forzata. Levi alzò gli occhi al cielo, sistemando le grucce per allontanarsi da lui al più presto.. ma lo sentì al suo fianco in un battito di ciglia, pronto ad aiutarlo. Scosse la testa deciso, consapevole che avrebbe dovuto farcela da sé. Era già abbastanza l'essersi mostrato tanto debole durante una delle prime notti, ed era grato che Erwin non avesse mai sollevato l'argomento; ma se avesse contato troppo sull'aiuto non sarebbe mai guarito del tutto. Inoltre il dottore tendeva a perdersi in sproloqui infiniti, e se fosse riuscito ad arrivare in camera da solo almeno Levi avrebbe potuto chiuderlo fuori.

Non ebbe bisogno di gareggiare contro di lui a lungo, tuttavia. - Ora del controllo generale. - mormorò Erwin, guardando l'orologio che teneva al polso. - È stato un piacere conversare, Levi, ma devo scappare. -

- Il piacere è tutto tuo. - borbottò Levi, ma il dottore era già scomparso dietro l'angolo. E a dire il vero, si riscoprì grato che non l'avesse sentito: poteva essere particolarmente noioso, ma era comunque una presenza amica in quel mondo sconosciuto. Levi iniziava ad abituarsi a lui.


* * *


Comprese che qualcosa era andato storto ancora prima che Erwin facesse irruzione nella sua stanza, qualche minuto dopo l'una. Il piccolo personale dell'ospedale era in preda a un'agitazione mai vista prima, e il primario non si vedeva da nessuna parte; masticava poco il dialetto della gente del posto, ma doveva essere successo qualcosa con la signora gestante.

Quando poi Erwin ricomparve, era raggiante nonostante avesse le mani sporche di sangue praticamente fino al gomito. Si diresse al lavabo della camera come fosse quello del suo ufficio, sotto lo sguardo lievemente attonito di Levi. - È un maschietto, un bel bimbo energico. - annunciò. Levi scosse la testa, alzando gli occhi al cielo, ma lui non parve farvi caso. - Ci ha fatto penare un po', ma alla fine è venuto fuori. -

- Risparmiami i dettagli, te ne prego. -

- Devo andare a controllare la signora Jaeger. - si asciugò le mani in un panno accanto al lavabo e gli rivolse il sorriso entusiasta di un bambino alle prese coi regali di Natale, per poi riscomparire nel corridoio.

- Ma cos'hai, un solo lavandino in tutto l'ospedale? - gli urlò dietro Levi, scuotendo la testa incredulo. Altro che compagnia, quel tizio l'avrebbe mandato fuori di testa se solo fosse rimasto un altro giorno in quel posto. Si alzò e per una volta ignorò le stampelle, sentendosi in grado di camminare senza il loro aiuto. Se quel folle aveva intenzione di andare a disturbarlo ancora e fargli perdere quel poco sonno che riusciva ad avere, tanto valeva dargli una mezza delusione e fuggire nella saletta comune.

La familiare sensazione della plastica consumata sotto il culo aveva un che di confortevole. Nel silenzio totale concentrò le proprie attenzioni sul televisore. Da qualche parte qualcuno aveva urlato, ma era un rumore tanto familiare che non vi aveva fatto neanche caso. Aveva lasciato che il crepitio dello schermo lo catturasse, cullandovisi fin quasi ad addormentarsi; a svegliarlo era stato un rumore forte e improvviso, vicino a lui. Era scattato in piedi alla ricerca di un qualunque oggetto da utilizzare come arma, rilassandosi appena nel notare che si trattava del dottor Smith.

Doveva aver passato ore su quelle sedie, perchè qualcuno aveva spento il televisore e l'unica luce che illuminasse la stanza era quella della luna. Dipingeva strane ombre sul volto dell'uomo, che non guardava nella sua direzione ma verso un punto imprecisato nel muro, le mani unite appena davanti al naso e i gomiti poggiati sulle ginocchia. Levi rimase a fissarlo, stranamente rapito dal suo silenzio. Non sembrava nemmeno lui, eppure aveva la netta sensazione che l'uomo che stava guardando fosse il vero Erwin, quello nascosto dietro la facciata del buon dottore e le risate esagerate. E in segno di rispetto a quella rivelazione, attese di capire cosa lo stesse turbando tanto.

- Non ho mai sopportato il silenzio. - rivelò, lo sguardo ancora perso da qualche parte. - Casa mia era piena di silenzi, dopo la morte di mia madre. Una casa troppo grande, troppo vuota. Credo sia stato quello il motivo per cui mio padre decise di portarmi con sé in Medio Oriente, condannandomi a una vita di sacrifici. Non che la situazione cambiò molto, dato che a malapena mi rivolgeva la parola se non per chiedermi di aiutarlo o infilarmi nella testa... -

Levi era arrivato addirittura a risedersi, senza smettere di fissare Erwin incuriosito. Eccolo qui, il vero dottore. Un uomo con una vita distrutta, una realtà che per qualche distorto motivo non gli dispiaceva.

- Quando avevo sedici anni decisi che ero stufo. - proseguì. - Litigai con mio padre. Non fu il nostro primo scontro verbale, ma fu il peggiore. All'epoca non c'erano blocchi territoriali di sorta, questo paese era un luogo vagamente più pacifico, e mi ci volle poco a prendere la decisione di ritornare in Inghilterra. Il resto fu...come un sogno. Per la prima volta passavo i miei giorni nella civiltà per un periodo più lungo dei radi momenti in cui io e mio padre eravamo tornati a casa. Per la prima volta ero circondato da menti brillanti quanto la mia, all'università; conoscenti che preferivano la mia presenza a quella dei loro pazienti. Mi laureai prima ancora di rendermene conto, e quando ebbi quel foglio in mano...ebbi paura. Ora dovevo finalmente decidere se diventare l'uomo che era mio padre o farmi una vita lì, dov'ero stimato e rispettato. Scelsi la seconda opzione, ma decisi anche di mettere a posto le cose con l'uomo che era comunque stato accanto a me come figura paterna, per quanto distratta e spesso assente. E quando riuscii a mettermi in contatto con l'ospedale per cui lavorava... -

Non ci fu bisogno che concludesse la frase. Invece di farlo, Erwin scostò finalmente lo sguardo dal nulla e guardò Levi negli occhi. Levi li trovò incredibilmente familiari e caldi, e ci volle un attimo perchè ricollegasse quell'immagine alla prima cosa che aveva visto dopo aver riaperto gli occhi in seguito al bombardamento: due enormi occhi azzurri pieni di lacrime. E in quegli occhi, una verità terribile quanto la morte. La morte di suo padre, la morte di Isabel e Farlan, e la morte della signora Jaeger, che Levi non aveva mai visto. Ma per quale altro motivo Erwin avrebbe dovuto trovarsi lì, tanto sconvolto? Quando aprì di nuovo la bocca per parlare, la sua voce suonava tanto rotta da toccare anche l'animo di un uomo stoico come Levi. - Non so perchè te lo sto dicendo. - ammise, soffocando le proprie labbra dietro una mano. - Non ti conosco nemmeno. -

Levi allungò piano una mano verso di lui, per poi ritrarla rapidamente. Era un'immagine pietosa, un uomo tanto grande e forte scosso dai singhiozzi troppo deboli, echi di scuse mai rivolte, di rimorsi e ferite troppo profonde per essere curate. Erwin lo aveva tenuto mentre era nelle stesse condizioni, cullato fino al sonno, ma lui non sarebbe mai riuscito a fare lo stesso. Non ne era capace, e basta. Erwin sembrò comprendere, evitando ogni approccio fisico e calmando piano il proprio pianto silenzioso.

- Il bambino è vivo? - si ritrovò a chiedergli, senza nessuna ragione particolare. Era il meglio che potesse fare: distrarre Erwin dalle proprie colpe, convincerlo che esisteva qualcos'altro per cui vivere. Era una bugia fin troppo evidente per entrambi – Erwin era troppo cresciuto per credervi, e Levi aveva imparato a convivere con le proprie colpe fin dalla più tenera età.

- Sì. - annuì, apparentemente di nuovo in sé. - Sì, se ne stanno occupando le infermiere. È in salute, e se la caverà. -

- Certo. - Levi annuì assieme a lui, distogliendo lo sguardo e portandolo verso la finestra. Pensò a come il conflitto sarebbe solamente peggiorato nei mesi successivi, a quanti bombardamenti avrebbero seguito il raid di qualche settimana prima. Il bambino era europeo, ma quante probabilità c'erano che un qualche lontano parente se la facesse fino a Najaf per riportarlo con sé? Il frugoletto sarebbe stato fortunato a vedere l'alba dei propri cinque anni.

- Credo dovrei andare a vedere come sta. - ammise Erwin, alzandosi piano. - Vorresti... uhm... venire con me? -

Levi non lo guardò. Sentiva nuovamente quella sensazione di assoluto disgusto da qualche parte nei pressi del suo stomaco, ma se poteva fare davvero un favore a Erwin, allora era quello. Il dottore era un figlio di puttana con dei seri problemi personali, ma lo aveva riportato in vita dal mondo dei morti. - Certo. - ripetè. Almeno per una volta, avrebbe stretto i denti e sopportato.

Seguì la grande figura del dottore per corridoi di un reparto dell'ospedale che non aveva mai visitato, fin troppo consapevole dei mostriciattoli che vi si nascondevano. Non aveva mai davvero amato i bambini, ma dopo il bombardamento provava nei loro confronti qualcosa diverso – vero e innegabile terrore. L'idea era talmente ridicola da farlo quasi ridere. In prossimità della nursery iniziò a rallentare il passo, restio ad avvicinarsi davvero a quel luogo. Ebbe anche dei ripensamenti riguardo la sua gratitudine nei confronti di Erwin, ma proprio nel punto di esprimerli una donna in camice aprì la porta della nursery con in braccio un bimbo addormentato. Levi si irrigidì di colpo, mentre Erwin si faceva avanti per scambiare due parole con l'infermiera e la sollevava dal peso del neonato, ricevendo un rapido ringraziamento. Quando si voltò verso di lui, aveva di nuovo quell'accenno di una luce negli occhi. Pur spaventato e confuso, Levi decise che ciò che illuminava Erwin tanto era semplice autogratificazione.

- Puoi tenerlo, se vuoi. - offrì. Levi fece mezzo passo indietro, badando bene di non farsi notare dall'altro. - Sta dormendo, per cui non si muoverà. Basta che tu stia attento a non premere troppo sulla testa, sono molto fragili... -

Fragili. Quella parola richiamò alla mente di Levi un'immagine che soffocò in un battito di ciglia, inspirando e facendosi poi di nuovo avanti. - Va bene. - decise, tendendo mani leggermente tremanti in direzione del piccolo. Poteva farcela. Era sopravvissuto a uno zio psicotico, a anni di guerra. Era sopravvissuto.

Erwin sorrise comprensivo e posò piano il bambino tra le sue braccia, indicandogli come posizionarle. Sperò che non avesse sentito il tremore che lo scuoteva piano, ma il suo sguardo rivelò altrimenti. Levi sentì il nodo allo stomaco ultimarsi quando Erwin fece un passo indietro, abbandonandolo con quella piccola, stupida palla di carne. E ora che avrebbe fatto? Erwin sembrava così lontano, e il bambino – il bambino aveva la pelle olivastra arrossata e grossi ciuffi di capelli neri sulla testolina, ed era così stupidamente inoffensivo, così innocente, che per un attimo Levi si chiese davvero di che diavolo avesse avuto paura.

Solo per un attimo. L'istante successivo, il neonato aprì le labbra e il suo volto si contrasse in un unico movimento, e dalla sua gola salì un lamento gutturale. L'istante dopo, nella mente di Levi quel lamento basso si trasformò in urla disperate; e quello dopo ancora, si rese conto che era ancora nascosto dietro a un sasso come un verme inutile, e la pelle del piccolo era troppo simile a quella del braccio di una bambina sconosciuta e morente, e non riusciva a respirare e doveva allontanarsi da lui il prima possibile...

- Levi, no! -

La voce di Erwin lo riportò alla realtà, come già aveva fatto tempo prima. Si rese conto solo allora di quanto il bambino avesse rischiato di scivolare dalle sue braccia, e di come lui fosse corso in avanti per levarglielo dalle mani prima che accadesse l'inevitabile. Fece un passo indietro, scacciando dalla sua testa gli ultimi rimasugli di quella visione – le ultime grida, le ultime esplosioni. Erwin lo fissava genuinamente sconvolto, il bimbo stretto al petto in lacrime. Non ebbe scuse per lui, o giustificazioni. Si fece indietro come un animale braccato, fino a raggiungere la fine del corridoio.

- Me ne vado. - mormorò. - Domani stesso. -

Non era sicuro che Erwin avesse sentito, ma non gli importava; ripercorse i propri passi fino a raggiungere la propria stanza, e vi rimase chiuso dentro senza dormire fino all'alba.



* * *


Lo aveva sentito. Entrò nella stanza mentre Levi chiudeva il borsone che già una settimana prima lui stesso gli aveva portato per raccogliere i vestiti che l'ospedale era stato in grado di fornirgli, e gli porse le grucce. Levi scosse la testa.

- Ne farò a meno. - mormorò, evitando di guardarlo in volto. Era sicuro che vi avrebbe trovato compassione, e avrebbe fatto volentieri a meno anche di quella.

- Prendile. - insistette Erwin. - Ti dichiareranno inabile appena metterai piede nell'infermeria, ma queste e il rapporto che ho qui potrebbero aiutare. - agitò una cartelletta, che Levi afferrò. Continuò comunque ad ignorare le stampelle.

- E se volessi continuare ad operare sul campo? - domandò a nessuno in particolare. Erwin rimase in silenzio, camminando poi fino a quando Levi fu costretto a guardarlo per bene. Non aveva mai notato quanto fosse alto rispetto a lui, o quanto sembrasse autoritario e pacato assieme. Forse era riuscito a picconare la facciata del dottore simpatico abbastanza perchè Erwin si dimostrasse per ciò che era anche alla luce del giorno.

- Tu non vuoi tornare sul campo, Levi. - dichiarò, abbastanza deciso per farla suonare come la verità assoluta. - Ho visto cosa ti è successo. Ho chiuso quel torace, ma non ho studiato per curare ciò che hai in testa. Eppure so che riprendere una pistola in mano non ti aiuterebbe a migliorare la situazione. -

Levi grugnì, innervosito da quanto Erwin suonasse come la voce della ragione. Si mise il borsone in spalla, evitando di rispondergli. - Saranno qui in mezz'ora. - rivelò. - La situazione si è calmata abbastanza da permettergli di venirti a prendere. Sei fortunato. -

Per qualche motivo, sembrava quasi dispiaciuto del fatto. Levi ignorò nuovamente le sfumature del suo tono, annuendo e dirigendosi all'ingresso della stanza. Fu allora che Erwin lo fermò, riprendendo a parlare.

- So che ti senti spaesato e non vedi alternative, ma... sto pianificando di tornare in Inghilterra. Lì ho... ho molte conoscenze. Posso farti trovare un lavoro, se lo desideri. -

La mano sulla maniglia esitò per un solo istante, considerando l'offerta. Una posizione stabile, un lavoro concreto, una casa normale...erano tutte cose così fuori dall'ordinario, per lui, che la visione scomparve in una nuvola di fumo. - Non sono interessato. - rispose, voltandosi un'ultima volta, appena in tempo per scorgere la delusione sul volto di Erwin. - Allora addio, signor dottore. -

Non rimase ad attendere una risposta. Tra il cigolio della porta e i suoi stessi passi, tuttavia, gli parve di udirne una comunque. Qualcosa di incredibilmente simile a un “A presto, Levi”.

Non rivide Erwin mentre aspettava fuori dalla clinica, nel caldo del deserto iracheno. Il veicolo militare arrivò prima ancora che potesse rivalutare l'offerta del medico e tornare a chiedergli informazioni, allontanandolo per sempre da lui. Si ritrovò a sfogliare la propria cartella clinica mentre tornava alla base, tanto per distrarsi e prepararsi a ciò che gli avrebbero detto, ma finì solamente per perdersi nell'osservare la calligrafia perfetta di Erwin, o la sua zelante firma tanto tipica di un dottore da sembrarne quasi una parodia. L'ultima pagina era vuota, ma Levi vi trovò un foglietto attaccato con un solo piccolo pezzo di scotch; lo staccò curioso, ben attento a non farsi notare dai propri colleghi.

Sul foglio, nella stessa calligrafia perfetta del resto della cartella clinica, erano segnati un indirizzo e un paio di numeri di telefono. Sotto quel sole tanto simile a quello sotto cui aveva causato la morte di decine di persone, spaventato a morte dal proprio futuro, Levi Ackerman trovò incredibilmente difficile non sorridere a causa dell'incredibile testardaggine del dottor Erwin Smith.



* * *



Due anni e sei mesi dopo

Liverpool, Inghilterra



- E va a farti fottere, idiota! - fu l'ultima cosa che Levi sentì prima che Sam Winters sbattesse la porta del retro del locale alle sue spalle, lasciandolo definitivamente senza un lavoro. Scrollò le spalle, sperando che né il giubbotto in pelle né la maglia bianca che indossava sotto si fossero sporcati quando aveva tirato un cazzotto al suo capo – lo stronzo se l'era meritato, ovvio. Non era così scemo da andare a prendere la gente a pugni per un motivo qualunque, ma la rinnovata promessa di non consegnargli lo stipendio, sommata a quella dei precedenti due mesi, era stata abbastanza perchè anche Levi perdesse le staffe. E comunque era un lavoro di merda, non è che avesse perso tanto.

Si incamminò per strade che erano diventate familiari al punto da apparire noiose. Qualche bar stava trasmettendo quella stupida canzone di Rupert Holmes, Escape o roba del genere; un ragazzo chiaramente ubriaco nonostante fossero appena le sei di sera cantava le parole nella maniera più stonata che Levi avesse mai avuto la sfortuna di sentire, e una ragazza rideva di lui, forse nella speranza che fosse all'altezza del protagonista della canzone. Levi passò di fronte a una macchinetta delle sigarette, gettando un'occhiata tentata ai pacchetti ben allineati nel macchinario. Per un periodo, dopo aver abbandonato l'esercito, era stato un fumatore accanito. Era stato il periodo peggiore – quello degli attacchi di panico giornalieri, quello in cui si chiedeva spesso perchè diavolo fosse rimasto a Londra senza mai nemmeno utilizzare i numeri sempre ben riposti in un angolo del suo portafogli. Ma era un periodo passato, e anche il fumo era un vizio passato; superò la macchinetta e si diresse invece in direzione del suo appartamento, deviando dalla strada normale solamente per una capatina dal meccanico.

L'officina aveva il solito odore sgradevole. - Schultz! - chiamò ad alta voce, restio ad entrare in quel luogo pieno di olii e sporco. Non ricevendo risposta, sospirò rumorosamente e superò le grosse porte rosse. Gunther, il capo meccanico, spuntò sorridendo da dietro una delle macchine.

- Devo ammetterlo, capo, mi diverte sempre un po' il fatto che un ex Marine abbia paura di mettere piede dentro un'officina. Non sei stato nel deserto, tu? -

- La sabbia non è appiccicaticcia, e non ci vogliono tre risciacqui per toglierla dai vestiti. - rispose. Una bugia solo in parte – aveva odiato il deserto tanto quanto odiava qualunque posto gli lasciasse una sensazione di sporco addosso. - La moto è pronta? -

Gunther fece un mezzo inchino, indicando con la mano libera un angolo del garage. - Il rumorino che ti infastidiva tanto è scomparso. - annuì. - Ricordati di dargli una controllata ogni tanto, non si sa mai. -

- Ottimo. - Levi vi si avvicinò e ne sfiorò il serbatoio scuro, voltandosi poi verso Gunther. - Quanto ti devo? -

Lui fece un gesto vago con la mano. - So che non stai messo bene coi soldi, capo. Nessun problema. - Levi aggrottò le sopracciglia. Non compredeva appieno il rispetto che molti dei suoi vicini avevano sviluppato nei suoi confronti – non aveva fatto molto per meritarselo e non l'aveva cercato, ma loro gli si erano affezionati comunque.

- In quel caso ti ringrazio, perchè quel bastardo di Winters mi ha appena buttato fuori. - rivelò. Gunther emise un lamento basso, grattandosi la nuca mentre consegnava a Levi le chiavi della sua moto.

Gli rivolse un sorriso comprensivo che, di nuovo, lasciò Levi lievemente turbato. Persino il soprannome che gli avevano dato – capo – non era assolutamente una novità, eppure lo lasciava sempre basito. - Ho sentito di un riccone che cerca una specie di guardia del corpo, tuttofare... con un curriculum come il tuo dubito che il tipo passerebbe più di due secondi a considerare l'idea di prenderti. -

Levi valutò la prospettiva. Un lavoro valeva un altro – era così che aveva vissuto per quasi tre anni, e non era la peggiore vita che potesse vivere. Non sentiva la mancanza dell'esercito, e non aveva raccontato a nessuno perchè lo avesse lasciato, ma non importava granchè. Agli occhi della società non era un fuggitivo quanto più una vittima – i tempi in cui i soldati erano rispettati e quelli rimandati a casa visti come disertori era passato da tempo. - Va bene. - decise, riportando le proprie attenzioni su Gunther. - Ha un numero di telefono o un indirizzo, il tipo? -

Gunther telefonò al proprio collega per saperlo, e gli consegnò entrambi un paio di minuti dopo. Avrebbe anche potuto evitare di farlo – Levi conosceva entrambi a memoria. Erano stipati in un angolo del suo portafogli, scarabocchiati su un pezzo di carta vecchia di quasi tre anni. Si concesse un sorriso amaro solamente quando fu lontano dall'officina di Gunther, dopo averlo ringraziato; un lavoro valeva davvero l'altro, ma l'idea di ricontattarlo non lo entusiasmava troppo. C'era un motivo per cui aveva evitato Erwin Smith in tutti quegli anni – ed era la paura di riscoprirsi spaventato da lui tanto quanto il giorno in cui aveva abbandonato Najaf.



* * *



“Un lavoro vale l'altro” fu la frase che continuò a ripetersi per tutto il – troppo breve – tragitto in moto dalla periferia di Liverpool alla Tenuta Smith, una villona abbastanza dimessa sei chilometri fuori dal centro cittadino, circondata da acri e acri di giardino lasciato a sé stesso. Erwin non aveva esagerato nel descriverla come una casa troppo grande e troppo vuota. Anzi, riflettè osservando l'enorme cancellata in ferro battuto e premendo un dito sul citofono, forse si era risparmiato sui dettagli.

Un crepitio, poi una voce che per quanto distorta e statica Levi riconobbe con un brivido involontario sulla schiena. - Sì, chi è? -

Levi considerò per un attimo il dietrofront; ma arrivati a quel punto, decise, sarebbe stato da idioti. - Sono qui per l'annuncio. - si limitò a rispondere. L'attimo dopo sentì un rumore forte separare la cancellata e permettergli l'ingresso. Persino il vialetto in pietre bianche, che un tempo doveva essere stato l'orgoglio del proprietario, ora era sporco e lasciato andare. Levi lo percorse il più lentamente possibile, indugiando poi di nuovo sulla porta d'ingresso.

- Al diavolo. - borbottò, bussando pesantemente alla porta. Quando quella si aprì, per un attimo chiuse gli occhi – il tempo di godersi un ultimo raggio di sole e di immergersi nella speranza che il suo passato non era tornato a tormentarlo. Il silenzio attonito in cui rimase lo costrinse ad aprire gli occhi.

Era cambiato. Erano dettagli minuscoli, ma gli ci volle un solo sguardo per individuarli praticamente tutti. Aveva un lieve accenno di barba sulle guance, lo sguardo stanco e spento, i vestiti decisamente meglio tenuti di quelli che indossava all'ospedale di Najaf, ma comunque bisognosi di una stirata che chiaramente Erwin non aveva dato loro. Anche lui perse qualche secondo ad analizzare la figura sulla porta, incredulo.

Levi fu il primo a parlare. - Mi congelerò il culo, se non mi fai entrare. - dichiarò, acido. Vide le sopracciglia folte di Erwin aggrottarsi.

- Non è esattamente così che immaginavo un dipendente rivolgersi al proprio datore di lavoro. -

- Ho firmato un fottuto contratto? -

- No. -

- Allora non sei il mio capo. -

- Ma hai detto di essere qui per l'annuncio. -

- Signor dottore. - Levi accentuò ogni lettera, sporgendosi un po' di più verso Erwin ad ogni sillaba. - Hai intenzione di farmi entrare o no? L'indirizzo me l'hai fatto avere perchè mi ci pulissi il culo? -

Erwin sospirò, ma si fece da parte. - Grazie. - borbottò Levi, attendendo che l'altro richiudesse la porta e lo raggiungesse all'interno. Grande non era nemmeno lontanamente l'aggettivo giusto per descrivere la villa. Immensa o mastodontica sarebbero stati più appropriati: l'ingresso era una specie di torretta principale, da cui si dipanavano varie scalinate e che ospitava almeno due o tre porte che dovevano dare su saloni da pranzo o stanze simili. Aveva l'aria di essere uscita da un qualche film in costume, nonostante fosse stata chiusa o abbandonata per anni. - Ti tratti bene, dottore. - mormorò, voltandosi verso Erwin.

- Grazie. - sorrise appena, dondolando sul posto. Sembrava in imbarazzo. - E tu come stai? -

Levi fece una smorfia. - Potrebbe andare meglio. - fu tentato di dire che non sarebbe nemmeno stato lì non fosse stata per la prospettiva di un lavoro, ma non voleva tirare troppo la corda. Forse. Non ancora, sicuramente.

Rimasero in silenzio, entrambi restii a proseguire la conversazione. Fu Erwin a riprenderla, evidentemente insofferente a quell'attesa. - Sei davvero qui per il lavoro o è solo una scusa campata in aria? -

- No, sono qui per il lavoro. - ammise Levi, appoggiandosi a una cassettiera polverosa e resistendo a malapena alla tentazione di starnutire. - Mi ha avvisato un conoscente, e al momento sono disoccupato...pensavo sarebbe stata un'ottima opportunità per usare quel numero di telefono. -

Erwin alzò un sopracciglio, ma non sottolineò il fatto che Levi non aveva usato nessun numero di telefono. Incrociò le braccia sul petto, indicando con la testa la porta sulla sinistra. - In quel caso vieni, ti faccio vedere la casa. Il lavoro consiste soprattutto nel prendersene cura, non so se ti piacerà. -

- Oh, quanto mi conosci. - mormorò Levi, seguendolo all'interno di una saletta scarsamente illuminata, ancora più polverosa dell'ingresso. Si chiese distrattamente da quanto tempo Erwin fosse tornato dall'Iraq. Non era interessato a chiederglielo personalmente, né voleva scatenare ricordi seppelliti da tempo.

- Come ti ho detto, il lavoro è simile a quello di un maggiordomo. Consiste nel prendersi cura della casa, pulirla...sto anche pensando di ristrutturare alcune zone. - spiegò Erwin, indicandogli il divano – uno dei pochi punti puliti dell'intera stanza. - Non proprio un lavoro da ex Marine, giusto? -

Levi si lasciò cadere sui cuscini imbottiti, guardandosi attorno. - Ho lavato i piatti in una bettola fino all'altroieri. Non mi sottovaluterei, se fossi in te. - lo avvisò. All'improvviso Erwin sembrava imbarazzato, come fosse restio ad accettare l'idea di avere attorno Levi. Strano. Due anni prima sembrava restio a mollarlo due secondi in pace.

- Ci sarebbe un'altra cosa... - mormorò piano. Levi si fece avanti per ascoltarlo meglio, ma qualunque cosa Erwin fosse in procinto di dire venne interrotta da un rumore improvviso: una risata, seguita da piccoli passi irregolari. Come in un sogno – un incubo – Levi fissò il volto di un bambino sui tre anni affacciarsi al salone e poi correre in direzione dell'uomo sul divanetto di fronte a quello su cui lui era seduto, all'urlo di “Papà!”. Dovette attendere un secondo per trovare le parole da rivolgere ad Erwin.

- NO. - fu tutto quello che riuscì a biascicare dopo un'attenta riflessione. Vide i lineamenti dell'altro quasi crollare in un'espressione che implorava pietà, mentre il marmocchio si arrampicava sul divano scalciando e poi sul suo braccio.

- Eren è un bambino molto responsabile. - si giustificò, allontanando piano il bimbo in procinto di mordergli un dito. - Non c'è bisogno che tu stia a guardarlo continuamente. -

- Non voglio guardare Elena nemmeno con un binocolo, figurarsi stare rinchiuso con lui tutto il giorno. - protestò, allontanandosi nell'angolo più distante del divano. Il piccoletto alzò due grandi occhi verdi nella sua direzione e gli sorrise. Gli mancavano entrambi gli incisivi. - E non mi hai mai detto di essere padre. -

Erwin prese in braccio il bimbo, che si accoccolò contro di lui, affondando il nasino nella sua giacca. - Non...non è mio figlio. Non hai ancora capito? - Levi scosse piano la testa, confuso. - Eren è... è il figlio della signora Jaeger. È... -

Levi scattò in piedi, rifugiandosi nell'apparente sicurezza del retro del divano. Quel cosino impegnato a succhiare le coccole via dal suo possibile datore di lavoro era lo stesso cosino che anni prima aveva dato il via a una serie di attacchi di panico che gli erano costati la carriera militare – dare la colpa a quelli era stato molto più semplice che dare la colpa a se stesso. Scosse la testa, dirigendosi verso le porte e ignorando il neonato bisogno di portarsi le mani alla gola per ritrovare il respiro, scavando via l'ansia con le proprie unghie. Non era il primo attacco, non sarebbe stato l'ultimo, ma non poteva accadere di nuovo davanti ad Erwin, non voleva la sua compassione, non...

- Devo andarmene. - riuscì ad annaspare. Con la coda dell'occhio vide Erwin abbandonare il bambino sul divano e tentare di raggiungerlo, allungare una mano nella sua direzione. Lo evitò voltandosi e scostandolo via, ma il movimento coincise con un capogiro da paura; Levi crollò a terra, rimproverandosi mentalmente. Doveva sembrare un idiota. Sembrava sicuramente un idiota. Non voleva alzare lo sguardo, non voleva essere compatito. Doveva davvero andarsene...

Un paio di mani troppo piccole si posarono sul suo volto e lo rivolsero verso l'alto. Levi non riuscì a reagire, né ad allontanarsi da quel tocco: terrorizzato a morte, rimase a fissare il piccolo volto del bambino e i suoi occhi privi di pena, quasi divertiti. Le sue mani erano fredde contro la sua pelle troppo calda, così simili e così diverse da quella della bambina di Najaf che Levi fu in grado di dimenticarsene, per un momento soltanto. Le dita premettero contro le sue guance in maniera quasi comica, e il bimbo sorrise di nuovo a bocca aperta.

- Non avere paura. - disse. Aveva una vocina che Levi non seppe definire, troppo impegnato a controllare il proprio respiro per concentrarvisi. Non vedeva più Erwin, non vedeva più la stanza; ma gli occhi verdi del bambino – gli occhi verdi di Eren – erano incredibilmente difficili da abbandonare, lo inchiodavano alla realtà. - Anch'io ho paura, ma quando papà mi fa così la paura mi passa. -

Le mani di Eren lo abbandonarono per un solo istante, e in quello dopo erano nuovamente attorno a lui – una affondata nei suoi capelli, l'altra ancorata alla sua spalla. Levi sgranò gli occhi, mentre il bimbo carezzava la sua testa con lenti movimenti circolari. Non aveva mai permesso a nessuno di abbracciarlo in quel modo; o meglio, nessuno l'aveva mai fatto. Stava cercando di soffocare i singhiozzi causati dal panico, ma l'essere escluso alla vista di Erwin da quell'abbraccio gli concesse di abbandonarsi alle lacrime solo per un breve momento. L'attimo dopo Levi si allontanò piano da quel tocco, e il bambino lasciò cadere le braccia lungo i propri fianchi, un ghignetto sulle labbra e le guance rosse di soddisfazione.

Levi attese che il suo respiro fosse tornato normale, prima di alzare lo sguardo. Lui lo guardava in silenzio, esterrefatto. La sua espressione mutò in un sorriso tranquillo, mentre Eren trotterellava di nuovo verso di lui. Levi si alzò e si ricompose, tossendo per darsi un contegno – ma scoprì che nei modi di Erwin non c'era il minimo accenno di pietà per lo spettacolo di poco prima. Aveva un'espressione rigida e composta che gli ricordò quella che aveva avuto sotto la luna, una notte di due anni e mezzo prima.

- Hai intenzione di accettare il lavoro? -

Non fece commenti sul fatto che i suoi attacchi di panico fossero solo peggiorati da quando se n'era andato da Najaf; nessuna domanda riguardo eventuali terapie, nessuna insistenza. Levi si prese un attimo per considerare l'idea, poi annuì.

- Ci penserò su. -

E sapevano entrambi che l'avrebbe fatto davvero.



* * *



Presente

Tenuta Smith



Erwin alzò una mano per ripararsi dalla luce del sole al tramonto; era uno spettacolo meraviglioso, vederlo calare dietro gli alberi del giardino. Sapeva dove sarebbe dovuto andare – conosceva quel posto, dato che aveva aiutato a costruirlo – ma indugiava sulla strada, consapevole della piccola figura che lo seguiva convinta di passare inosservata.

- Eren. - chiamò, quando non potè più ignorare le capriole nell'erba e le corse a perdifiato per nascondersi dietro il tronco di un albero. Il ragazzino venne allo scoperto, le mani unite a mò di pistola tese davanti a sé. - Cosa stai facendo? -

Eren sembrò pensarci un attimo. - Sono un ninja. - rivelò poi, emettendo suoni di presunti spari con la bocca.

- I ninja non usano le pistole. - lo corresse Erwin, tornando indietro per posare una mano sui suoi folti capelli castani. Eren abbassò le mani deluso, ma dimenticò subito le proprie aspirazioni, avendo individuato ciò per cui aveva seguito suo padre.

- Ecco papà! - esclamò, correndo via dalla presa di Erwin e verso la figura seduta all'ombra di un albero, di fronte a due lapidi. Levi dovette averlo sentito, perchè si alzò in tempo perchè Eren crollasse contro le sue gambe e Levi lo abbracciasse. Quando Erwin li raggiunse, vide che aveva sul volto un sorriso sincero, nonostante stesse rimproverando Eren per essersi rotolato nell'erba. Tossì appena per attirare la sua attenzione, e Levi si voltò a guardarlo.

- Mi spiace se ti abbiamo disturbato. -

- Non fa nulla, avevo finito. - rivelò lui, voltandosi verso le due lapidi. Erano circondate da fiori freschi, e nella penombra del tramonto Erwin ripensò al giorno in cui aveva scoperto Levi intento ad incidere i nomi dei suoi fratelli in quelle pietre. Aveva fatto un ottimo lavoro: non aveva mai conosciuto Isabel e Farlan, ma era sicuro che quel posto sarebbe piaciuto ad entrambi.

- Hai parlato con gli zii, papà? - domandò Eren. La mano di Levi si strinse attorno alla sua e lui annuì piano, portando poi la propria attenzione sulla scatolina tra le mani di Erwin. Lui gliela porse.

- Sono venuto a chiamarti soprattutto per questa. - spiegò, mentre Levi se la girava tra le mani, curioso. - Ci ho messo un po' a trovarle, ma alla fine ce l'ho fatta. Spero ti possa far piacere. -

Levi aprì la scatola, e per un momento soltanto Erwin fu sicuro di aver visto un misto di stupore e terrore sconvolgere i suoi lineamenti. Le sue dita si strinsero attorno al contenuto del pacchetto, due catenine di quelle date in dotazione ai militari. Carezzò le piastrine con reverenza, alzando poi lo sguardo su Erwin.

- Come sai che sono quelle vere? - sussurrò. Erwin sorrise piano, indicando le incisiosi sul retro di entrambe le piastrine.

- Ho visto l'incisione dietro la tua. Ho pensato che l'avrei trovata anche sulle loro, e avevo ragione. - spiegò.

Levi ricordava il giorno in cui Farlan aveva proposto a lui ed Isabel di incidere quelle due ali dietro le rispettive piastrine. Non c'era stato un motivo – era sembrata un'idea stupida, e Farlan era pieno di idee stupide che in qualche modo riusciva sempre a mettere in atto. Strinse la mano attorno al metallo freddo, beandosi di quella sensazione. Non c'era bisogno che ringraziasse Erwin. Non l'aveva mai fatto, non a parole. Si avvicinò a lui mentre Eren carezzava piano le magnolie sulla tomba di Isabel, e lo vide chinarsi piano per baciarlo nella maniera delicata e attenta in cui solo Erwin riusciva a baciare. Lasciò vagare la mano libera sulla nuca del più grande, mentre la mano sinistra di Erwin si posava sul suo fianco, in prossimità della grossa cicatrice che lui stesso aveva chiuso, salvandolo da morte certa.

- Stai bene? - domandò Erwin. Levi fu grato della preoccupazione nella sua voce – non era pietà, non era compassione: era qualcosa che avevano compreso e coltivato nel corso degli anni, qualcosa che era felice di aver conosciuto grazie a lui.

- Sto bene. - confermò, annuendo piano contro la fronte di Erwin. Gettò un ultimo sguardo sulle due tombe – e su Eren, troppo distratto da un ape per guardare nella loro direzione. - Andiamo a casa. -




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Vi capita mai di tradurre delle frasi mentre scrivete? All'improvviso le ultime parole di questo capitolo suonano come “Let's get home”, che è il motivo per cui ho intitolato la fic così. Mi rendo conto che sia una scelta un po' strana, ma tutto considerato è il titolo più inerente che abbia mai dato ad una storia, ed è tutto dire ahahahahah

Insomma, ce l'ho fatta! Dopo...troppi mesi, ho aggiornato la mia long eruri. Siamo appena all'inizio degli avvenimenti, ma spero di aver dato un'idea di come sia la relazione di Erwin e Levi, e di avervi incuriosito circa come sono arrivati a provare questi sentimenti uno nei confronti dell'altro. La storia proseguirà in questo modo, anche se nei capitoli successivi il presente sarà molto più, ehm, presente (?).

Mi dispiace per l'inaccuratezza generale di alcuni punti della trama – il conflitto in Iraq, i termini medici o militari, gli attacchi di panico...ho cercato di dare il meglio riguardo tutto, e spero suoni credibile. Non vedo l'ora di scrivere il terzo capitolo, che dovrebbe introdurre la storia di Jean, Marco o Ymir – devo ancora decidere – e soprattutto qualche approfondimento circa il personale della Tenuta Smith, o il lavoro di Erwin. E più Moblit. Sicuramente più Moblit.

La canzone che Levi sente (Escape, di Rupert Holmes) è davvero molto carina, e descrive molto l'atmosfera che ho voluto immaginare per Liverpool. Vi consiglio un ascolto :D

Per quanto riguarda il resto, lascio i miei contatti nel caso vogliate contattarmi su una piattaforma diversa da EFP/AO3. Ci risentiamo al prossimo capitolo!

- Joice




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