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Autore: Bloody_Schutzengel    12/04/2015    3 recensioni
[Primo capitolo della serie: Sotto mille ciliegi]
Anno ****, mese di Agosto, quindicesimo giorno.
Lo stato di Kintou viene stravolto da un violento colpo di stato da parte di estremisti detti Rivoluzionari, che attuano un macabro e violento regime di ferro nella parte orientale del paese. La parte occidentale, invece, è popolata ancora da creature magiche, sacerdotesse e dalla natura. E' chiamata Terra Pura ed è sotto tiro dal generale salito al potere che vuole emulare violentemente i costumi delle popolazioni d'Oltremare, industrializzate e moderne all'esterno ma sanguinose e ingiuste all'interno.
Yoko è una semplice ragazza di Kintou Shuto, la capitale di Kintou Est, che a causa di vari eventi, si troverà ad entrare nell'esercito della morte della città, pur di sfuggire all'esecuzione pubblica. Tra le file, Yoko dovrà affrontare i suoi compagni, tutti uomini, le battaglie, le campagne militari ma soprattutto il vero e proprio generale, del quale è oggetto di desideri perversi e omicidi allo stesso tempo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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• Capitolo 1 •
Kintou

 



Il mattino del quindici agosto dell’anno ****, un gruppo di uomini con degli strani vestiti, spalancano le porte del palazzo dell’Imperatore. La gente si riversa nelle strade: chi non sa è incuriosito, chi non sa ha il terrore in corpo. Dal grande portone, escono uomini vestiti con colori cupi, spenti e tristi, tutti uguali, in fila per venti, come un esercito, una macchina da guerra. Davanti a tutto, nel luttuoso silenzio generale, gioiosamente il loro shogun solleva il corpo dell’Imperatore privo della testa: quella giace tra le mani dei soldati fidati del generale, che la scherniscono e la deridono.
Il gallo ha cantato: l’imperatore è rovesciato.
Passano dieci primavere, tristi, silenziose, indifferenti: uno stato senza Imperatore, un popolo senza guida e delle anime senza sostegno.
Il palazzo dell’imperatore diventa grigio, verdastro. L’amaranto macchia  le strade e le mani dei ribelli, sguazzano del cremisi. ‘Rivolta’ sembra la parola chiave di tale periodo: i vestiti colorati e decorati con fiori di ciliegio sono motivo di scherno, così come le giacche grigie e i colletti neri sono marchio di potere e simbolo del giusto.
Gli alberi stanno morendo, petali rosa si tingono di grigio e galleggiano negli acquitrini neri come il cielo intossicato. Odore di polvere, di fuoco, di morte e di fumo impregnano ogni cosa: i bambini hanno dimenticato come piangere per la tristezza, perché ora piangono a comando. Mille e più morti viventi, senza cuore e senza anima, camminano con alcuna meta per le strade di ciottoli rettangolari ed ordinati: le scarpe non fanno rumore come i tacchi di legno.
Il rosso è solo sangue, non più colore di ponti, di vesti, non è più colore sacro e fortunato. Il rosa non è più colore di pelle, né colore di alcun albero: è tutto cenere, tutto polvere, tutto fumo. Non si riesce a respirare.
La mano dei lavoratori si muove sempre allo stesso modo, dietro un fiume di gomma che scorre sempre con la stessa velocità. Su questo galleggia del ferro arrugginito, degli oggetti strani: il lavoratore li salda insieme, senza sapere più il proprio nome.
Strani sassi quadrati messi uno sopra all’altro hanno creato quelle che quelli chiamano case, ma dentro sono spoglie, uguali, senz’anima e senza l’amore tipico di casa propria.
Le cappelle, i templi e i cimiteri sono ridotti a cenere. Questa galleggia sul lago di lacrime dei credenti che piangono i loro antenati andati in fumo per la pazzia dei rivoluzionari.
La Vita, se così si può chiamare, scorre piano, lenta, piatta, sotto il cielo sporco.
Lo shogun e le sue truppe programmano, scrivono, salgono e  scendono le scale pelose del palazzo del governo e pattugliano ogni vicolo in cerca di coloro che non vogliono piegarsi al regime. Questi vengono repressi nel sangue davanti a volti di donne, uomini, bambini, anziani. Il loro collo si poggia sulla macchina di morte, una corda viene lasciata e la testa rotola giù per le scale del supplizio.
Bandiere di soli raggianti rossi sventolano su ogni strada: sono arrivati i Rivoluzionari.
La terra ad ovest non è stata ancora raggiunta: lì vivono creature pure, magiche e benevole, ragion per cui è stata chiamata Terra Pura. Ci sono boschi, montagne laghi e fiumi pacifici e colorati. Il colore rosso è ancora colore sacro. Ci sono poche persone, ma si nascondono per non essere viste dagli occhi volanti del regime che vuole tagliare loro la testa. Oltre i ponti che sorvolano le cascate, oltre i santuari che fungono da vedette lungo tutta la montagna verticale, nell’abisso della foresta silenziosa, v’ è nascosto un Tempio. Qui giace la sacerdotessa ****, che protegge la sua terra dal fumo di morte del regime di Kintou Est.
Lo shogun non è soddisfatto, ha sete di conquista, ha sete di morte, non si fermerà fino a che **** non sarà sepolta sotto le macerie del suo tempio e le sue creature non si confondano con le nubi cupe del cielo di Kintou Shuto.  
 
Frammento dal Tempio della Storia della Terra Pura.
 
 
Il brusio delle chiacchiere della gente di Kintou Shuto man mano si zittiva ad ogni passo che il generale faceva seguito dalle sue truppe. Era una delle tre marcie giornaliere per la strada principale di Kintou Shuto, un viale lastricato con grandi ciottoli che attraversava la città dalla porta principale fino al palazzo del governo, dividendola a metà per un piccolo tratto. Era stata spianata distruggendo ogni cosa ci fosse davanti al generale dei Rivoluzionari, come ricordo di quel quindici agosto in cui avevano preso il potere con il colpo di stato in cui decapitarono l’Imperatore.
L’ultima marcia della giornata, quella delle otto, prima del coprifuoco che calava appena calava la notte. La prima era alle sei del mattino, la seconda alle due del pomeriggio. C’erano persino bambini che venivano istruiti dai genitori Rivoluzionari alle regole dell’omonimo regime fin dalla nascita. Questi, poi, sarebbero diventati soldati senza cervello che avrebbero combattuto al fianco del generale di Kintou Shuto per sradicare l’ultimo filo d’erba dalla Terra Pura.
Il cielo sembrava meno grigio del solito, era di un grigiastro che si avvicinava molto al bianco e gli abitanti di Kintou Shuto mormoravano che fosse il miglior cielo che avessero mai visto da quando avvenne il colpo di stato. Da quel quindici agosto in poi, le fabbriche avevano oscurato con i loro fumi di scarto delle ciminiere ogni angolo azzurro di cielo, rendendolo nero anche di giorno. Sembrava come se il sole non avesse avuto più un motivo per sorgere, ma gli abitanti sapevano che era solo coperto dalle nubi di polvere. O nero, o grigio, o rossastro, o marrone, ma non azzurro: erano queste le sfumature del cielo di Kintou Shuto. Quelle delle case erano simili: erano fatte di mattoni grigi, travi nere, tetti marroni: sembrava le avessero adattate per farle intonare con l’atmosfera cupa e pesante. Anche i vestiti cambiarono. Furono banditi i colori sgargianti, specialmente il rosso. Qualche pigmento acceso poteva solo sopravvivere sulle uniformi dell’esercito, tra medaglie, cordoni dorati e decorazioni di zaffiro, rubino o smeraldo. Capelli rigorosamente neri. Chi nasceva con dei pigmenti più chiari veniva fatto immergere obbligatoriamente nella pozza pubblica di catrame allo scoccare dei cinque anni. Non c’era alcun problema per gli occhi, perché la poca luminosità faceva apparire come nero anche un castano nocciola, risparmiando al malcapitato l’estirpazione del bulbo, che poi veniva sostituito con uno artificiale di vetro con l’iride nera. Alcuni abitanti paragonavano il regime ad una fabbrica di soldatini giocattolo, dato che voleva che i suoi cittadini fossero tutti simili, se non perfettamente uguali. Kintou: “uguaglianza”. Qualcuno doveva aver travisato il significato del nome del paese e della sua capitale Kintou Shuto…
Man mano che ci si allontanava dal groviglio di gente che assisteva alla marcia e ci si inoltrava nelle strade più limitrofe della città, non c’era quasi nessuno, se non pochi Fantocci che giravano spacciandosi per Rivoluzionari. I Fantocci erano una fazione di resistenza al regime: falsi pupazzi che si mascheravano da soldati per passare inosservati e per poter girare liberamente anche durante raduni obbligatori come le esecuzioni in piazza o le proclamazioni delle nuove leggi e così via. Due Fantocci avevano cresciuto Yoko, che stava pedalando sulla sua bici per la città con lo sguardo basso per tornare presto a casa senza essere scoperta dalle pattuglie che si nascondevano in ogni angolo della città. La ringhiera alla sua destra che proteggeva le persone dal cadere nel canale della città, scorreva veloce dietro di lei, che però guardava fisso i pedali della strano mezzo di trasporto. La bici, infatti, aveva delle ruote più grandi del normale, ed era sottilissima, con un cestino sul davanti con dei fiori viola ed una pinza sul retro per metterci il giornale. Non un giornale, ma il giornale, perché il regime pubblicava un unico quotidiano di cinquecento pagine che raccontava le vicende delle terre d’Oltremare, ad occidente, delle notizie del giorno prima che costavano le mani di molti poveri uomini che si massacravano ogni notte per completare il lavoro se non volevano essere distrutti dalle pattuglie.
Le pattuglie erano come dei cani da guardia addestrati a scovare chi non era conforme al regime di ferro, a sbranarlo e tornare a sorvegliare che tutto scorresse monotono. Erano piazzate dietro ogni angolo, fuori ogni casa, all’interno della folla e sembravano avere occhi anche dietro la testa. Controllavano non solo la vita nelle strade, ma anche quella privata all’interno di ogni appartamento, di ogni palazzo, di ogni scuola, di ogni famiglia, di ogni fabbrica. La gente li chiamava “gli occhi del generale”, perché sapevano che agivano come egli avrebbe agito.
Yoko lasciò che la bicicletta frenasse da sola, smettendo di pedalare una decina di metri prima di imboccare il vicolo dov’era casa sua. Scese al volo dalla bici, prese il panno che era per terra e glielo mise sopra, come per nascondere il suo piccolo veicolo. Prima di andare, lo alzò per controllare che non avesse maltrattato i fiori, poi entrò nel palazzo.
Ogni palazzo aveva massimo quattro piani e capitava raramente di vede una fila di palazzi di piani diversi. Dentro ognuno di loro, un piccolo ingresso dietro il grande portone di legno, poi una stretta e angusta rampa di scale che si fermava su ogni pianerottolo per concedere a chi ci abitava di entrare in uno dei quattro appartamenti su ogni piano. La rampa saliva a zig zag, nera e scomoda, senza uno spazio nel mezzo. Era stata progettata più per incutere terrore a chi volesse scappare a casa dopo il coprifuoco consapevole dei cani da guardia che l’avrebbero inseguito sull’angusta scala, che per agevolare le pattuglie che salivano e scendevano di palazzo in palazzo per controlli spesso inutili.
Yoko abitava al primo piano, cosa positiva se si considerava il breve tratto di scala che doveva percorrere lei e negativa se si considerava che era lo stesso tratto che permetteva alle pattuglie di arrivare a casa sua. La prima porta a destra. Yoko infilò la chiave nella toppa, aprì e lasciò la porta sbattere dietro di lei. Si tolse il cappotto grigio e lo appese all’attaccapanni dell’ingresso, si pulì le suole delle scarpe nere sul tappeto ed entrò dopo aver buttato il cappello sul mobiletto all’entrata. Il corridoio era piccolo e angusto, ma si apriva dopo un paio di metri su un largo salotto color nocciola e cioccolato. Così piaceva a Yoko ricordare i colori tristi del soggiorno, abbinandoli a dei pensieri dolci, in modo che le sarebbe costata meno fatica a pensarci e a vederlo. C’era una cosa che fece fatica a notare dal primo secondo: il silenzio. La sua casa di solito era sì silenziosa, ma una volta chiusa la porta, c’era sempre qualcuno che la salutava cordialmente, che le diceva “bentornata a casa!” come il padre, la madre o il cugino che veniva ogni tanto a trovarli dalla Terra Rossa. Da un’espressione indifferente, passò ad una più inquieta, assottigliava gli occhi e sperava che non stesse succedendo niente di indesiderato: non era una novità che i soldati irrompessero nelle case per creare scompiglio a loro piacimento, a violentare le donne o ad uccidere qualcuno a caso buttandolo giù dai balconi per motivi inventati e che non avrebbero mai retto per una persona sana di mente. Yoko camminava cauta, timorosa, aveva paura di avanzare, come se avesse camminato in un labirinto cosparso di mine con la paure che un passo avrebbe potuto costarle la vita. Ci mise un po’ ad attraversare il soggiorno, fermandosi ogni tanto tremante ma con un volto abbastanza serio che appariva ancora più serio per la treccia che soleva farsi coi capelli, appoggiata morbidamente su una spalla. Man mano cominciò a sentire dei respiri affannati, sembravano respiri di paura, che sembravano voler ispirare calma a chi li emetteva, come quando ci si sente alle strette e si respira ampiamente per mantenere la concentrazione. Yoko spuntò fuori dallo stipite della cucina, con gli occhi marroni che si allargavano sempre di più e il labbro inferiore che si abbandonava a far aprire la bocca. Man mano sbucava dallo stipite la figura di una mano guantata nera che poi scoprì reggeva una spada, il viso della madre, costretta contro il muro col collo scoperto e minacciato da una katana che premeva contro di esso, poi la figura di un soldato di pattuglia immobile e dagli occhi che fissavano in cagnesco la madre, che Yoko scoprì essere con i piedi immersi in una pozza di sangue che stava solo sotto di lei. Gli occhi della donna si voltarono distrattamente dallo sguardo del soldato alla figlia, più terrorizzati che mai, la bocca semiaperta che voleva urlarle qualcosa, mentre le iridi nocciola di Yoko si spalancarono come il soldato si girò di scatto verso la ragazza tagliando distrattamente la gola alla madre che cadde a terra nel proprio sangue. Yoko non ebbe tempo di urlare, perché il suo primo istinto fu quello di scappare il più veloce possibile da quel mostro che aveva tutta l’aria di voler divertirsi a ricorrerla con quel ghigno che aveva stampato in faccia.
   
 
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