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Autore: Mikirise    23/04/2015    2 recensioni
Malcom sa bene che i figli di Afrodite, quando tutti loro sono occupati nella Caccia alla Bandiera, preferiscono sedersi sulle rive del lago e iniziare a parlare tra loro con aria complice.
Sa anche che i figli di Afrodite sono legati da un doppio filo, comprensibile ed incomprensibile allo stesso tempo per tutti.
Quello che non sa è che all'uscire con uno di loro si sarebbe sottoposto:
1. Alla gelosia dei fratellastri
2. Ad un combattimento all'ultimo shipping -o qualcosa del genere.
{Storia scritta per la challange One Hundred Alternative Universes, indetta dalla community campmezzosangue}
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Drew Tanaka, Malcolm, Mitchell, Piper McLean, Quasi tutti
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mitchell era nervoso. Sistemava la camicetta di Malcom, per l'ennesima volta, dando un'occhiata veloce ai capelli biondi del ragazzo e ai suoi grigi occhi confusi.

Dal canto suo, Malcom lo lasciava fare perché, cavolo, Mitchell è adorabile quando è nervoso e gli tremavano le mani leggermente, e, comunque, pensava che l'incontro con le sue sorellastre non dovesse essere così impegnativo. Poi, aveva cercato di calmarlo in ogni modo, ricordandogli che, dai cavolo, Drew, come Lacey e Piper e tutti della Cabina Dieci, già lo conoscevano. Era praticamente cresciuto al Campo Mezzosangue e sapeva come rapportarsi con tutti. Cosa sarebbe cambiato ai loro occhi al presentarsi come il ragazzo di uno dei loro fratellastri?

Quando Percy aveva iniziato a uscire con Annabeth, lui mica aveva fatto tante storie.

“Non dire cose stupide.”

“Sono figlio di Atena…”

“E pensavi che scoiattolo si scrivesse con la gl -scogliattolo-, voglio ricordarti.”

“Sono dislessico. Siamo seri? Mi vuoi sgridare per questo?” Malcom sorrise, prendendo le mani di Mitchell, che ancora percorrevano la sua maglietta nella speranza di togliere qualsiasi pelo su quella o sporcizia. Aveva dovuto anche fare delle migliorie a quella roba arancione, per rendere il biondo presentabile davanti a quelle belve della moda.

Per la prima volta da quando avevano iniziato quella relazione, si stava mentalmente lamentando del look da Nerd di Malcom. Ed era stata la propensione del ragazzo alle bretelle, ai risvoltini e alla trasandatezza durante i periodi di creazione -Malcom era una specie di genio, un mago della progettazione, delle idee- ad attrarre fatalmente il figlio di Afrodite verso di lui. Qualcosa che va al di là del sesso, qualcosa che è attaccata all'anima, che giusto un cultore dell'amore può capire.

Sospirò.

“Adesso posso entrare?” chiese il biondo, mentre il moro giocherellava nervosamente con le sue mani.

Mitchell annuì leggermente, prese un lungo respiro e, insieme, entrarono nella Casetta Dieci.


🎀🎀



Ecco. In quel momento anche Malcom era nervoso. Doveva trattenersi dal mangiucchiarsi le dita delle mani, mentre i ragazzi della Cabina Nove, seduti intorno al loro tavolo, lo guardavano con un sorriso, a volte dolce, a volte perplesso, a volte leggermente geloso del fratellastro.

Piper aveva riso, congratulandosi con loro. Lacey aveva trattato Malcom come avrebbe potuto trattare la Strega Cattiva di Biancaneve. Ma era Drew che lo preoccupava.

Lei, la sua pettinatura perfetta, i suoi occhi truccati, lo guardava dall'alto dei palmi della sua mano e sembrava volergli scrutare l'anima.

Eppure lo conosceva da sempre.

Sapeva che i figli di Afrodite erano molto legati. Come lo erano tutti i fratellastri, certo, ma lo erano con il doppio legame della fratellanza e di una confraternita da far paura alle confraternite dei college. Era una cosa che aveva sottovalutato, ma che Mitchell, che gli teneva stretto il mignolo, sotto il tavolo, aveva avuto sempre ben chiaro.

“Beh…” il biondo sorrise nervoso, sistemandosi una ciocca di capelli troppo lunghi dietro l'orecchio.

“Li shippo” lo interrompe Drew, con aria di sfida e sorridendo appena, puntando qualcosa dietro le sue spalle col mento. Malcom si giro di scatto, ma non vedendo niente che potesse attirare la sua attenzione si rigirò verso Drew, con aria interrogativa.

I figli di Afrodite la guardavano, improvvisamente scandalizzati, eccitati e curiosi.

Malcom si voltò verso Mitchell, per chiedergli cosa stesse succedendo, e il moro aveva nascosto il viso tra le mani, scuotendo la testa. Capendo che non avrebbe ottenuto una spiegazione dal suo ragazzo si girò verso Piper, che, con le braccia incrociate, aveva alzato un sopracciglio, guardando Drew.

“Ti ha sfidato” spiegò la Capo-Cabina, senza distogliere lo sguardo dalla sorellastra. “È un gioco…” Cercò con cura le parole. “Innocente. Indichiamo una coppia a caso, che può essere di amici, fidanzati, a volte anche fratelli e diciamo: li shippo. È un modo per dire che ci piacerebbe se stessero insieme. Rientrano nel gioco le diciture di OTP e tutto il resto ma… in pratica inventiamo delle storie su di loro, e chi racconta la storia più romantica vince. Non ci sono regole. Possiamo raccontare le storie più disparate e improbabili, basta che sia una storia bella e romantica. Per terminare la partita devi vincere al meglio di tre, il che vuol dire che devono essere raccontate almeno sei storie: una a round…” La castana continuava a non essere molto sicura, nel suo tono. Lanciò uno sguardo a Mitchell, che si accarezzava la fronte in imbarazzo. “Di solito è un gioco tra noi. Quando lo diciamo a qualcun'altro è come se lo stessimo sfidando.”

“Come con le spade?”

“Credevi che non facessimo niente durante le vostre stupide Cacce alla Bandiera?” sbuffò Drew, spazientita. “Li shippo, stupido testone. Vuoi uscire con mio fratello? Allora combatti da uomo. Inizio io. Li shippo.” Puntò di nuovo qualcuno dietro la spalla del ragazzo.

Mitchell stava boccheggiando. Girò la testa e vide Percy e Jason che borbottavano qualcosa sul fare un'imboscata contro Clarisse, che per l'ennesima volta aveva monopolizzato l'Arena.

Non ebbe neanche il tempo di rigirarsi che la figlia di Afrodite aveva già iniziato.












#52: Il mio timer si è fermato quando ti ho visto!

















 

Il mio orologio è sballato! Ne voglio un altro! Ora!




Il polso di Sally aveva quell'ombra pallida che rimane ai grandi dopo che hanno incontrato le loro anime gemelle, ma Sally non aveva nessuno accanto.

Seduta in cucina, tenendo in braccio il suo piccolo Percy, che giocherellava contento con il suo panda di peluche, raccontava, guardando verso le strade di New York, le incredibili storie di suo padre, Poseidone, uomo bello, uomo forte, uomo coraggioso e buono e… e Percy gli assomigliava così tanto! I suoi occhi che custodivano il mare in tempesta, i suoi capelli l'irrequietezza, il suo sorriso la bontà… sembrava il ritratto delle buone qualità del padre.

Il suo piccolo, piccolo Percy.

“Ma perché allora non è qui?” chiese un giorno lui, tornato da scuola, confuso per la sua mancanza di un padre e il non sentirla da sé quella mancanza. Il polso di Percy era marchiato da un piccolo timer che aveva segnalato alla mamma come qualcuno avrebbe portato via il suo bambino presto, da giovane, o come avrebbe potuto non trovarla l'anima gemella, perché…E lui spesso se lo accarezzava, il polso, come a ricordare questo piccolo dettaglio a Sally, che sempre lo abbracciava, spaventata dal momento in cui avrebbe potuto vederlo allontanarsi. “Il suo timer non si è fermato quando lo hai visto?”

La mamma sorrise leggermente, accarezzandogli la testa mentre guardava gli occhioni del figlio andare verso l'alto. “Tuo papà” iniziò a bassa voce. “Il tuo papà non aveva timer. Non aveva tempo.”

Percy sbatté le palpebre, arricciando le labbra e poggiando il suo zaino per terra.

Fu la prima volta che, da bambino quasi cresciuto, vide un timer fermo e una donna sola, senza di lui. E, per la prima volta, pensò che forse, quel mito del Vero Amore, che sarebbe arrivato a loro quando un timer al polso, marchiato come una voglia, si fosse fermato, non fosse nient'altro che questo: un mito.

Per la prima volta gli sembrò così stupido che semplicemente smise di guardarsi il polso. Che semplicemente si dimenticò di possedere un timer che contava i secondi che lo separavano dal suo primo incontro con la sua anima gemella. Che semplicemente smise di credere nell'amore.
















Più che alla ricerca dell'amore, Percy era alla ricerca di un'amicizia: non tutti vogliono stare accanto ad una persona come lui. Forse è un po' problematico. Forse ha problemi a socializzare. Giusto un po', però.

Insomma, non aveva mica delle tendenze anti-sociali! -Lo avevano detto gli psicologi della scuola, Percy non aveva idea di quello che significava… anche se gli stessi psicologi avevano accennato a qualcosa a cui Percy non aveva fatto caso: sei un errore, avevano detto, guardandogli il polso.

Non erano gli psicologi a potergli conseguire degli amici.

Se qualcuno avesse deciso di parlargli, invece che starsene a metri di distanza a sparlare di lui, forse si sarebbero resi conto che anche lui poteva essere un buon amico. Uno bravo davvero. Uno che non abbandona mai.

“Ehi!” Percy corse verso quella massa di persone tutte uguali, tutte grosse, tutte con quella smorfia di cattiveria sul viso, che avevano sollevato un povero ragazzino, che teneva una lattina di Coca-cola in mano. “Mettetelo giù!”

Le ultime parole famose.

Una ragazza con i capelli rossi e delle bruttissime lentiggini sul viso, fece cenno a un ragazzino di gettare il malcapitato nel bidone della spazzatura, poi prese Percy dalla vita, sollevandolo come un sacco di patate, e butta anche lui nel bidone della spazzatura. Rise, mentre lo faceva. Rise con tutta se stessa e questo fece innervosire il moro come non mai.

Appena riuscì a sguazzare nel bidone della spazzatura, con un pochino di autocontrollo, dopo aver imprecato tra le labbra cose che non avrebbe mai voluto Sally sapesse, aiutò il ragazzino, con i ricci castani, quasi mori, a risalire in superficie.

Puzzavano entrambi, tanto che avrebbero voluto vomitare entrambi. E lo fecero. Entrambi.

“Sei stato gentile a voler provare ad aiutarmi” mormorò il ragazzino, asciugandosi le labbra con la manica della giacca. “Cioè, sì, non il miglior salvataggio della storia, ma…”

“Figurati” rispose Percy, facendo svolazzare la mano. “Odio i bulli.”

“Anch'io” rise l'altro, porgendogli la mano. “Mi chiamo Grover.”

Il moro sorrise e capì che quella, forse, era la frase che dicono le persone quando vogliono essere tue amiche.


















Grover aveva un'insana fissazione per i Timer dell'Anima Gemella.

Controllava il suo ogni pochi minuti, mormorando qualcosa sul quanto fosse impaziente di conoscere la persona che stava aspettando per lui.

Percy commentava sempre, nonostante l'argomento lo annoiasse molto, con una battuta secca, o una smorfia. Così si assicurava che le parole di Grover gli morissero nella gola, smettendo, finalmente di pensare a quanto fosse bello sapere che, da qualche parte in questo mondo, qualcuno stava guardando un timer che ticchettava allo stesso ritmo del suo timer.

Grover era un inguaribile romantico, sempre con la testa tra le nuvole, mentre Percy doveva preoccuparsi che i bulli non lo prendessero di mira e correre da una parte all'altra in pensiero perché le ragazze parlavano sempre di possibili risse in cui veniva implicato quel piccolo e insicuro ragazzino.

Insomma, normalmente era Percy a preoccuparsi.

Poi anche Grover aveva iniziato a preoccuparsi per Percy. Anche se non si aspettava che la sua preoccupazione derivasse da qualcosa d'insignificante ai suoi occhi.

Il ragazzino si era reso conto di un andamento irregolare nel Timer di Percy.

Aveva notato che c'erano stati periodi in cui il conto alla rovescia seguiva i secondi normali, quello di tutti gli altri, e, in quei momenti, segnalava anni e anni d'attesa per il moro. In altri periodi, i secondi arrivavano a scorrere molto più velocemente di secondi normali: secondo quel timer, mancavano, all'incontro con l'anima gemella di Percy, pochi giorni, a volte poche ore o secondi.

Subito dopo, il timer si azzerava. Come se andasse in tilt, si spegneva e scompariva dal polso del ragazzo, per ricomparire pochi secondi dopo, come se nulla fosse successo.

E si fermava. Non c'era alcun ticchettio, non c'era alcun conto alla rovescia, solo un timer fermo.

“Mi hanno dato un orologio tarocco” aveva riso il moro, quando Grover glielo aveva fatto notare. “Capita.” Alzò le spalle, come se l'amico gli avesse appena commentato le condizioni meteorologiche, lamentandosi della pioggia.

“Non hai paura di non incontrarla?”

“Chi?”

“La tua anima gemella.”

Percy alzò di nuovo le spalle e prese a mangiare un pezzo di cioccolato al latte. “Capita.”














La prima volta in cui Percy si chiese se in effetti il suo timer avesse bisogno di una controllatina da un orologiaio biologo, aveva quattordici anni, sapeva già di essere un semidio, e stava iniziando ad avere un problema pratico sui suoi sentimenti.

Non per questo però, si era ricordato di avere un timer che attendeva di ricongiungersi con il suo gemello.

Chi aveva fatto alzare il polso a Percy, per controllare il suo timer, che in quel momento si stava comportando esattamente come un orologio normale (andando avanti e non indietro), fu Afrodite, nella sua limousine, che si truccava con alquanta nonchalance.

“Da quando i mortali hanno questo Timer dell'Anima Gemella, o come vuoi chiamarla, incorporato nel loro corpo, è una noia assurda” aveva detto la dea, lanciando uno sguardo al ragazzo. “Tutti sanno chi devono amare, tutti sanno quello che devono fare, è come se si concentrassero su una sola persona, invece di sbagliare, come facevano nell'antichità. Allora, sì, avevo un divertimento tutto mio e adoravo vedere le persone che piangevano con il cuore spezzato.”

“Un bel divertimento.”

“Già.” Afrodite annuì, con un'espressione sconsolata dipinta sul viso. “Grazie al Fato, ogni tanti anni nasce qualcuno col Timer che va contro le possibilità della Realtà. E si comporta esattamente come si comporta il tuo Timer, variando con il variare delle possibilità del tuo incontro con la tua Anima Gemella. Detta tra me e te, penso che sarà un po' impossibile che voi v'incontriate. Perché Zeus stesso è contro un possibile incontro tra i vostri due mondi.”

Percy alzò un sopracciglio, poco interessato alle parole della dea. “A me, in questo momento, non importa niente.”

“Perché sei nell'impresa?”

“Artemide è stata catturata!”

Questa volta fu Afrodite ad alzare un sopracciglio, mentre parlava di quanto fosse noiosa e poco bella quella dea, facendo capire a Percy che non era quella la ragione che voleva sentire.

Il ragazzo arricciò le labbra, sbattendo le palpebre, per poi abbassare lo sguardo sulle sue mani intrecciate. “Annabeth è nei guai.”

La dea gli prese il polso tra le mani, con un sorriso dolce. “Ti dico un segreto?” chiese con un sorriso furbo. “Per qualche tempo il tuo Timer stava aspettando lei.”

Percy arrossì visibilmente, tenendo lo sguardo ancora più basso e giocherellando con le sue mani.

“Sei così carino” mormorò con una punta di compassione la dea, sorridendogli.

Era un vero peccato che l'anima gemella di Percy non fosse Annabeth.













Il Timer di Percy non stava aspettando Annabeth.

Lui non ci aveva fatto caso, ma lo capisce quando prende la decisione di credere in Luke. Per quieto vivere, dice di averlo capito dopo, quando la bionda abbassa la testa sul biondo e si scambiano quelle ultime parole, prima che Luke muoia, tra le labbra il nome di Thalia. Dice di averlo capito un po' più tardi, quando Annabeth, per amore di un ragazzo sconfitto dice di averlo amato fin da quando era piccola, preoccupata, un po', della reazione del moro, che comunque le sorrise, come a dirle Non è colpa tua.

Per quieto vivere, le dice che, in quel momento aveva capito che loro non coincidevano. E quando lei rispose che, ogni tanto, lo guardava il suo timer, che lo sbirciava appena, come a cercare una corrispondenza col suo polso, che lei già lo sapeva che loro due non erano stati fatti come una mela sola -con una citazione da Platone che Percy non riesce a cogliere-, lui abbassa la testa, si gratta la testa e, a capo chino, chiede scusa.

Annabeth guarda il suo polso e gli dice che a lei mancano pochi mesi. Poi sarebbe arrivata la sua anima gemella. Sorrise nel farlo. Come a perdonarlo. Lei ci credeva, che il suo timer si sarebbe fermato, prima o poi, davanti a lui, che il timer di lui si sarebbe regolarizzato, grazie a lei. Ma non era successo. Non sarebbe mai successo.

Percy non dice quando capisce che la sua anima gemella non è Annabeth. Non dice nemmeno perché lo sa. E, comunque, a lui, questo pensiero non viene in mente perché guarda il suo timer.

Lo capisce quando deve fare la sua scelta. Quella che tanto temeva da sempre. Quella che lo ha perseguitato da quando aveva dodici anni.

Mentre Crono veniva sconfitto, sentiva come se ci fosse qualcun'altro accanto a lui. Sentiva una metà che terminava il suo lavoro, alla quale aveva affidato metà della pesante e opprimente responsabilità di essere un eroe. Una metà che, per metà, aveva salvato il mondo. Con lui.

In quel momento, prima ancora di pensare a sua mamma e al segnale blu sopra l'Empire State Building, o a quello che sarebbe stato un po' più tardi -Grover stava bene? E Nico, con quei soldati-zombie? I ragazzi del Campo? Sarebbero tornati tutti quanti? Sì, vero? Sì?-, rimane lì, in piedi, e si sente completo. O, almeno, si sentiva così, ma non fisicamente.

Si sentiva completo, ma da lontano -o qualcosa del genere. Perché la metà non era in quel momento accanto a lui, ma era con lui spiritualmente.

A posteriori quel pensiero lo inorridì.

Grover e i suoi sentimentalismi… lo avevano contagiato.













Risvegliarsi con davanti una lupa, non è assolutamente la cosa più bella in questo mondo.

Nel senso: ok, Lupa, sei una forte e tutto, ma i denti te li potresti anche lavare. E quando Percy fece questa battuta, stropicciandosi l'occhio destro con la mano, mezzo assonnato, Lupa lo morse e lo svegliò del tutto.

Prima di cominciare a lottare per davvero, lo annusò. Gli annusò il polso e lo guardò come una mamma gelosa guarda il ragazzo della propria figlia.

Percy ricambiò lo sguardo e, quando toccò per la prima volta Lupa, per difendersi dal suo primo attacco, lui, sporco di fango e ancora con gli occhi a mezz'asta, non si rese conto di quel piccolo dettaglio che Grover gli avrebbe fatto notare immediatamente.

Il suo timer, cavolo. Il suo cavolo di timer, si stava comportando come un Timer dell'Anima Gemella. Al tocco di una dea che lui stesso non aveva mai sentito parlare.











È nel sogno che qualcosa formicola, mentre dormicchia a Nuova Roma, rigirandosi nel suo nuovo lettino.

Sa di aver dimenticato qualcosa d'importante: insomma, doveva avere una vita prima di arrivare al Campo Giove, prima d'incontrare Era, o Giunone, o chissene frega. Una mamma. Degli amici. Un fratello. Un migliore amico. Una migliore amica.

Ricorda il nome di Annabeth. Un qualcosa che doveva essere stato una specie di rottura di un rapporto amoroso prima ancora del tempo del rapporto stesso. E che Era -o whatever- ci teneva abbastanza nel dargli un appiglio alla sua precedente vita. Forse perché voleva che questa strana missione funzionasse. O forse perché temeva che succedesse qualcosa che…

Vede un ragazzo dai capelli mori e ricci, lavorare con dei cacciavite e roba stranissima, che aveva visto usare prima ai figli di… no, aspetta, a chi li aveva visto usare? E due ragazzi. Sì, ecco. Due ragazzi che continuano a chiedergli quando avrebbe finito di lavorare.

Non è la ragazza a colpirlo -sì, carina, ma niente di che. È il biondo, che si porge oltre la spalla del ragazzo, a fare in modo che le sue mani formichilino.

Lo riesce a guardare negli occhi e, dèi, allunga la mano nel sonno per raggiungerlo, ma si risveglia a terra.

Era rotolato fuori dal letto. Non ci pensò più di tanto. In meno di pochi secondi, riprese a sbavare, sul pavimento.








Quando aveva portato Hazel e Frank, con le braccia intorno alle loro spalle, a guardare quell'enorme nave volante -bellissima e stranamente familiare- non pensava che…

La prima cosa di cui si rende conto è Annabeth che lo butta a terra, e poi lo abbraccia con affetto. Lui ride, accarezzandosi il collo e a lei, comunque, non importa niente, gli scompiglia i capelli, parlando sopra a un Leo -così lo avrebbe conosciuto-, che farfugliava qualcosa su una Annabeth che rivoleva indietro i suo Percy Jackson anche se no, non erano fidanzati sono solo amici, che cavolo Leo.

Poi Percy si gira e guarda verso Reyna. Lei parlava con un biondo, lo stesso del sogno.

“…Lei è Annabeth e normalmente non atterra gli amici con una mossa di kung-fu.”

Poi i loro occhi s'incontrano, verde nell'azzurro, e succede quello che nessuno dei due pensava potesse succedere.








“No, porca cacca. Gli dèi mi odiano. Ma cosa ho fatto adesso?”

Jason inclina la testa e guarda il maggiore con aria innocente e, allo stesso tempo, divertita. “Giuro non mi offendo.” Alza poi le mani.

“I nostri orologi sono sballati. Lo avevo detto a Grover che è tarocco, il mio.” Annuisce, incrocia le braccia, arriccia le labbra, annuisce di nuovo e ripete: “È tarocco.”

“Va bene.”

“Tarocco.”

“Ok.”

“Insomma. È da praticamente sempre che continua a fermarsi, poi riprende a fare il suo conto alla rovescia, e poi…” Percy sta parlando più a se stesso che al biondo, che, seduto sul letto della sua cabina, lo guarda andare avanti e indietro. “Va avanti.”

Jason spera che Piper e Leo non siano dietro la porta a sentire quello che il moro sta dicendo. Nell'Argo II, i pettegolezzi viaggiano a velocità esorbitanti. Soprattutto dopo l'incontro con Bacco.

Piper era sicura che Jason e Percy dovessero parlare e confrontarsi invece di far competere i loro pegaso. Anche perché la loro, come chiamarla?, tensione li aveva portati a quasi uccidersi a vicenda.

“Vero?” Percy si morde il labbro inferiore con maggior vigore.

“Anche il mio timer faceva così.” Jason alza le spalle. “E poi, comunque, mica ci credo in questa roba.”

“Sì, una stupidaggine.”

“Enorme.”

“Esorbitante.”

“Che poi, com'è possibile questa roba degli dèi senza tempo? Sono tutti dei grandissimi idioti a sballare così gli orologi dei mortali. Non è carino.” Percy si butta a sedere sul letto, incrociando le gambe.

“Un timer biologico, stiamo scherzando? Come fa a sapere il tuo corpo quando vedi soltanto la tua anima gemella? E poi, dai, parliamo, tipo, di Hazel. Come vogliamo metterla con lei? Perché quando l'ho incontrata il suo orologio stava ancora facendo il conto alla rovescia?”

Percy gli lancia un'occhiata. Il Timer va oltre il volere degli dèi. Ma non glielo dirà, certo che no. “E comunque io all'amore mica ci credo.”

Jason sbatte le palpebre. Pensa a Thalia. Pensa a sua mamma. Pensa a suo padre. Poi guarda Percy e scuote la testa. “No. Nemmeno io.”

“Bene.”

“Bene.”

Percy annuisce e si alza dal letto. Si gira. Apre la bocca, come per dire qualcosa. La chiude. “Ci vediamo.” Ed esce.








Percy che cade nel Tartaro gli spezza il cuore.

Un attimo prima era lì, l'attimo dopo non c'era più.

Come il timer che aveva nel polso. Prima c'era il ricordo delle lancette che si muovevano -come volevano loro, ok, ma si muovevano-, il quadrante fermo allo 0, dello stesso colore di una voglia.

Percy cade nel Tartaro, con Annabeth, e il Timer di Jason si macchia di nero. Come se Percy fosse morto.

L'unico che sembra disperato quanto lui, è Nico.

Ma Percy non è morto. Jason lo sente nell'aria. Percy non può essere morto.








Percy torna e ridà il respiro a Jason. I polmoni si riempono di nuovo di aria e vorrebbe tanto poter abbracciare il moro, quando compare nella Casa di Ade, ma gli sembra che lui potrebbe cadere in pezzi al solo tocco.

Cadere nel Tartaro cambia le persone.

Jason avrebbe voluto essere accanto a lui. Combattere al suo fianco quei mostri dei quali parla. Averlo riportato lui ad essere il Percy che tutti loro conoscevano. Un po' sente di essere geloso di Annabeth, che sorride al figlio di Poseidone e gli stringe la mano, come a dirgli che lei per lui c'era sempre. Doveva essere lui, Jason, a stare accanto a Percy. Non Annabeth.

I loro Timer si colorano di un violaceo rosa in pochi giorni, quando Jason prende Percy dal polso e gli dice di avergli mentito: lui a quel cavolo di Timer ci credeva, lo guardava, lo curava.

E tutta quella roba di aspettare, di avere un Timer tarocco andava bene, se voleva dire aspettare lui. Non poteva vivere senza il suo occhio destro.









“Hey.”

“Hey.”

Silenzio. Percy conta tre battiti, prima di parlare, guardando una Annabeth che, da lontano, lo incitava con ampi movimenti delle braccia.

“Tipo che…” Bel modo di cominciare. Grammaticalmente corretto. Si noti il sarcasmo. “Hai una gomma?”

“Mi stai seriamente chiedendo se ho una gomma?”

“Secondo Grover è sempre un buon modo d'iniziare un discorso. Chiedere un chewing-gum, o offrirlo.”

“Cosa buona e giusta.” Jason annuì, condiscendente.

“Quindi hai un chewing-gum?”

“No.”

“Nemmeno io.”

Quattro battiti. In una canzone sarebbero stati quattro quarti di silenzio. Certamente troppi.

“Continuo a non credere nell'amore. Non in quello in cui credono tutti quanti, con i loro Timer che hanno sempre funzionato bene e cose così.” Le parole di Percy uscono ad una velocità disumana, mentre lui tira fuori tutte le parole che riesce a trovare nella sua testa. Una testa apparentemente troppo vuota, perché presto inizia a balbettare. Poi boccheggia e, di nuovo, sta zitto.

“Va bene.” La risposta di Jason arriva dopo un po' con un cenno leggero della testa.

Il moro si morde le labbra e si chiede per quale motivo è sempre così difficile.

“Ma se c'è qualcuno che mi può tenere testa quello sei tu” dice, in modo un po' insicuro, dopo tutto. E spera tanto che Jason capisca quello che gli sta cercando di dire. Perché, per quanto Percy fosse impulsivo e stupido e passionale, in un certo senso, continuava a essere, da qualche parte, lo stesso bimbo che guardava sua mamma, sola e poi con quel Gabe il Puzzone, che aveva odiato. E aveva odiato anche suo padre per essere stato l'amore di sua madre che l'aveva lasciata sola. Non credeva nel Timer. “In te ci credo, però” finisce e poi, sempre con quella timidezza che poco gli doveva essere congeniale, prende la mano di Jason.

Jason sorride. Si gira verso di lui. “Okay.”

Il moro adesso è confuso. Sbatté le palpebre, guardando il semidio, che ha ripreso a guardare il mare, senza aggiungere una parola. “Okay?” chiede. “Okay cosa?”

Jason vorrebbe tanto scoppiare a ridere, ma si trattiene. Stringe la mano di Percy e sorride. “Nelle mie false memorie fatte da Era, io e Piper ci siamo messi insieme sotto un cielo stellato e stavamo volutamente escludendo il povero Leo.” Abbassa lo sguardo, al menzionare l'amico. “Ma mi piace più così. Davanti al mare, senza un chewing-gum in bocca e con te. Quindi, va bene.”

“Va bene?”

“Va bene.”

Un quarto di silenzio.

“Comunque non pensare che perché va bene allora smetterò di chiamarti bro e ci andrò più piano con te durante gli allenamenti” lo avverte alzando un dito contro il suo viso e con un tino dannatamente serio.

“Magari adesso i combattimenti potrebbero essere più interessanti” ridacchia il biondo, con un tono leggermente malizioso, mentre si gira verso l'altro.

E ride, ride tantissimo nel vedere il moro arricciare le labbra e aggrottare le sopracciglia, come se non avesse ben capito le sue parole.

Adorabile.







Note:
Le due persone che leggono le mie bozze, ormai, mi chiamano Paladina della Jercy. Ahah, questo fa ridere perché… SCRIVETE PIÙ JERCY, RAGAZZE!
Penso sia arrivata nella mia top5 di ship preferiti in Percy Jackson… superando la Percabeth e, non mi tirate pomodori, la Pernico. Quindi sì, sono arrivata alla conclusione che è la mia prima ship in classifica con Percy in mezzo… mmmmmmmm.
Ciò non toglie che la Caleo è la mia OTP e che i miei ship stiano aumentando vertiginosamente.
Cento prompt? Dio… in cosa mi sono messa??  
  
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