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Autore: Elrais    24/04/2015    5 recensioni
"Non posso più tornare indietro". Questa è una delle frasi che Ciel ripete più frequentemente. E se invece questa possibilità gli venisse offerta? Cosa sceglierebbe?
Abbandoniamo gli scorci della Londra vittoriana per vedere il nostro Conte alle prese con due personaggi di un'altra Terra, una Terra antica e potente. Una Terra in grado di tendere la mano a un bambino e alla sua anima dannata... se solo egli deciderà di rimanere al di là della cortina di pioggia.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ciel Phantomhive, Sebastian Michaelis, Undertaker
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo III: Divergenze.


I

Sebastian osservava la pergamena che gli Dei della Morte gli avevano posto davanti: veniva da Raes, da parte di Uriel Miendul. Lo informava che Ciel Phantomhive stava bene e che avrebbero aperto un varco transitorio per permettergli di tornare a casa non appena le condizioni lo avessero permesso, probabilmente quella sera stessa.
Nonostante ciò, l’antico Demone non era tranquillo. Conosceva bene i poteri delle creature di Luce.
Le Leggi Universali imponevano agli Elfi di non intromettersi all’interno dei contratti demoniaci regolarmente stipulati: se un uomo aveva deciso in maniera conscia di vendere la propria anima, nessuna creatura, per quanto potente, si sarebbe potuta opporre.
Però, al momento, il padroncino era lontano da lui. Fisicamente non avrebbe potuto raggiungerlo e, non essendo in grado di aprire varchi, non poteva comunicare con il ragazzo in nessun modo.
Certo, Uriel ed Elanor non avrebbero potuto rompere il contratto tra lui e il suo padrone, ma avrebbero potuto rendere impossibile il loro ricongiungimento.
Sebastian sapeva perfettamente che, se gli Elfi avessero convinto il padroncino a restare nel Reame di Menior, probabilmente non avrebbe potuto far nulla per costringerlo a tornare indietro.
Non poteva andare a riprenderselo.
Per fare ciò, i due fratelli avrebbero dovuto infrangere svariate Leggi Universali, tra cui quella secondo la quale ogni anima deve essere indirizzata all’Oltretomba della Terra a cui appartiene. Questa legge era motivo per il quale si erano presi tanti provvedimenti affinché non ci fosse una migrazione di persone durante l’apertura del varco; tuttavia, pensava l’antico Demone, forse il Tribunale Universale non avrebbe condannato i due Elfi, se avessero giustificato questa infrazione con il salvataggio di un’anima altrimenti dannata.

Più si arrovellava, più si rodeva, più la sua rabbia e la sua fame aumentavano.
Questa era la prova del nove.
In quei tre anni aveva lavorato la sua preda come un artigiano modella la creta. Da una forma che ben prometteva, sebbene rozza, stava pian piano sagomandosi quella che poteva essere considerata un’opera d’arte nel suo genere.
Sfortunatamente, non era ancora del tutto pronta: sì, c’erano istanti in cui la sua creazione lo sorprendeva, rivelandosi migliore delle sue aspettative; ma c’erano anche attimi di cedimento, di debolezza, di ritorno alla forma originaria.
Si ricordava bene l’espressione di dolore sul viso del ragazzino, quando sua zia Anne gli aveva urlato che non sarebbe mai dovuto essere nato; la sua esitazione nello spararle; il funerale pagato alla prostituta che, nel suo lavoro da “Cane da Guardia della Regina”, non era riuscito a salvare.
E, da ultimo, la decisione di andare a trovare l’orfanotrofio gestito da quel barone, quel Kelvin, dopo aver dato fuoco alla residenza di questi e ai bambini che si trovavano all’interno: esattamente il giorno dopo avergli dato l’ordine di appiccare l’incendio, il suo padrone gli chiese di prenotare due biglietti del treno per la cittadina di provincia in cui i bambini erano cresciuti, per garantire una sussistenza economica all’orfanotrofio rimasto senza benefattore.

Attimi di gentilezza, ovvero attimi di imperfezione: quegli attimi lo facevano tremare.

In questo frangente si sarebbe visto quanto lui, Sebastian, fosse stato in grado in quegli anni di trasmettere al ragazzino l’attaccamento al suo servo, alla sua vendetta, al suo odio.

Ora poteva solo sperare che il suo padrone decidesse spontaneamente di tornare da lui.
 

II

Il sole del mezzogiorno illuminava prepotentemente le case in pietra del villaggio di Raes, costringendo Ciel ed Elanor, che camminavano fianco a fianco, a schermarsi gli occhi con le mani.
Il ragazzo si era rifiutato di entrare in tutte le case successive a quella della bimba malata. Si limitava ad aspettare Elanor fuori dall’uscio, osservando il viavai della gente: donne giovani, con i bimbi più piccoli in braccio e quelli più grandi che trotterellavano a terra, tenendosi alle gonne delle madri; uomini che si salutavano, si scambiavano una frase scherzosa prima di tornare al lavoro; anziani sulla porta di casa, che godevano della luce del sole come piante su un balcone, d’estate.
Terminata la visita, Elanor usciva e trovava il ragazzino perso nella contemplazione del villaggio che lo circondava. Senza parlare, gli faceva cenno di seguirla e lui riprendeva a camminarle accanto.

L’Elfo ruppe il silenzio.
“Mi pare di capire che la carriera del guaritore non faccia per te.”
“Ovvio che non fa per me. Ancora non mi capacito di come tu possa sopportarlo.”
Elanor si strinse nelle spalle. “E’ il mio compito” rispose con semplicità, “e lo porto a termine come meglio posso. Ad esempio, quella bambina non supererà la giornata e probabilmente la nonna la seguirà nella tomba per il dolore. Se non posso salvarle con le mie capacità di guaritrice, devo almeno provare ad alleviare la loro sofferenza.”
Ciel fece una smorfia sarcastica. “Non mi interessa alleviare il dolore degli altri, e penso comunque che non sia possibile farlo. Se non si ha la forza per uscirne da soli, un aiuto esterno non serve. Ho visto dei bambini… ”

Si interruppe, mentre le immagini si formavano nella sua mente.

Una villa in fiamme. Una bimba poco più grande di lui, coperta di vestiti rozzi, con un occhio rovinato da un fuoco di tanti anni prima, lo guardava piangendo.
Tradita, amareggiata, confusa.
Infuriata.

-Non ti perdonerò mai, Ciel! Non ti perdonerò mai!-

Ciel respirò a fondo, schiarendosi la voce. Le immagini sbiadirono.
“Ho visto dei bambini fare una fine peggiore, rispetto a quella ragazzina… lontani da casa, torturati. La morte per loro è stata una benedizione.”
“E chi gliel’ha data la morte? Tu?”
C’era una sfumatura di accusa nella voce dell’Elfo: Ciel si irrigidì.
Si voltò a guardarla, lo sguardo carico di sfida: “Sì, precisamente. Un pazzo, un nobile che in società si dava arie da filantropo, in realtà raccoglieva ragazzini dalla strada e poi li faceva sparire. Li drogava e li faceva lavorare in un circo senza addestramento. I bambini morivano durante le esibizioni, e quelli che non morivano venivano utilizzati come materia prima per gli esperimenti di un professore. In seguito, scoprimmo che anche l'orfanotrofio da lui sovvenzionato serviva a questo.”
Aveva parlato senza quasi respirare. La voce gli tremava, ma non riusciva a controllarla.
“Quel tizio era invischiato nella setta che rapì anche… anche me. Conosceva mio padre, voleva avermi tra i suoi agnelli sacrificali. Così ci chiamava, agnelli sacrificali. A distanza di anni, aveva addirittura ricreato nella sua villa la sala del sacrificio in cui noi venimmo tenuti e seviziati. Ma il fuoco ha ripulito tutto...”
Gli occhi dilatati, il respiro affannato, il viso pallido.
Elanor strinse le labbra. “Ti sei fatto prendere dal panico.”
“NO! Quei bambini non sarebbero mai tornati come prima… ”
“Ti sei fatto prendere dal panico! Pretendi di controllare un demone delle Alte Schiere, ma non riesci a controllare te stesso!”
“Come osi parlarmi così?”

Un capannello di persone li osservava, sguardi preoccupati e incuriositi. Elanor prese Ciel per un braccio e lo trascinò lungo una stradina secondaria; lo spinse contro un muro, mentre una gallina che razzolava lì intorno zampettava via, infastidita.
“Lasciami! Ti ordino di lasciarmi!”
“Tu non riesci a controllarti. Non riesci a distinguere il presente dal passato. Soffri di attacchi di panico?”
“… questo non ti riguarda.”

Elanor lo lasciò, allontanandosi da lui di qualche passo. La gallina era tornata ad avvicinarsi, ed ora beccava tranquillamente accanto ai piedi di Ciel.
La ragazza sembrava scossa. Si strinse le braccia al petto, come se avesse freddo, in un gesto istintivo di protezione.
Nella voce e negli occhi, la stessa accusa.
“Il mio compito è di prendermi cura di tutte le creature. Tutte, Ciel. Anche quelle che tu schiacci sotto i piedi, anche i ragazzini che pensi siano persi per sempre.”
“Io ragiono in base a ciò che ho visto.”
Stavolta la voce di Ciel era ferma, atona, piatta.  “E quel che ho visto è che, quando un bambino viene tenuto per mesi, anni, in quelle condizioni, con la paura di essere il prossimo a salire su quell’altare… vedendo gli altri morire prima di lui, sperando che altri ancora muoiano per avere un po’ di tempo in più… quella è la fine. Non c’è assoluzione, non c’è altra via di salvezza.”
“Ne sei convinto?”
“Questo è tutto quello che so.”

La voce degli abitanti del villaggio nella strada adiacente; il rumore leggero del becco della gallina che picchiettava sull’acciottolato; il cigolio di una finestra che si apriva, qualche piano più su.

“Ragazzino, perché mi hai seguita quando ti ho offerto una vita diversa?”

Ciel rimase un istante in silenzio, come se a quella domanda non sapesse bene cosa rispondere. In effetti, non aveva scelto razionalmente: Elanor aveva letto il suo modo di reagire, aveva interpretato le sue espressioni, indovinando il suo desiderio inespresso. Il ragazzino non sapeva con certezza come articolare quei pensieri a parole.
O forse lo sapeva, ma sapeva anche che, una volta pronunciata a voce alta, quella risposta sarebbe stata definitiva.

“Perché per un istante ho pensato… ho pensato che avrei voluto passare un colpo di spugna su tutto.
Ma non posso. Io sono io.”
Le parole, incagliate nella gola fino a quel momento, presero ad uscire senza fatica.
“Non è vero che non ho potuto scegliere… io ho scelto coscientemente. Sapevo cosa stavo facendo quando Sebastian è venuto da me. Sapevo perfettamente cosa ho perso, sapevo perfettamente a cosa ho rinunciato.
A chi ho rinunciato.
Solo, ho deciso di venire con te perché, a volte, la mia scelta mi appare davanti agli occhi in tutta la sua enormità, e mi pare di  non riuscire a reggerla.”

-Una volta arrivato qui, non puoi tornare indietro. Il prezzo che pagherai non ti verrà più restituito-

Elanor osservava gli occhi azzurri del ragazzino riverberare nel buio del vicolo, pieni di amarezza.
La voce di Ciel era un sussurro fievole, quasi si perdeva nel vociare della strada vicina.
“Sarebbe bello poter far finta che tutto quello che mi ha portato qui non sia mai successo, ma in verità tutti i morti, tutto il dolore, tutta la rabbia… io li ho scelti. Li ho custoditi, li ho cullati la notte.
Sto giocando una partita a scacchi col mondo, e alcune delle pedine le ho già perse. Quelle pedine sono state sacrificate perché io arrivi al Re, e faccia scaccomatto.”
Gli occhi del bambino e quelli dell’Elfo si incrociarono.
“Quelle pedine mi guardano, dal lato della scacchiera. Osservano le mie mosse, sperando che il loro sacrificio non sia stato vano. Devo continuare a giocare, per loro, ma soprattutto per me stesso. Per dimostrare a tutti che posso superare la mia pochezza di essere umano.”
Un ultimo respiro.
“Io sono colui che ho scelto di essere, ed ora porterò avanti la mia decisione. Anche se restassi qui, non potrei cambiare ciò che sono.”

Ciel tacque, senza abbassare lo sguardo, aspettandosi di veder comparire sul viso della ragazza rabbia, o disgusto. Invece Elanor lo guardava con una tristezza antica, che sembrava aver già provato in passato.
Ogni volta che falliva nel suo compito, un poco della sua Luce si spegneva.
Si avvicinò a lui e lo abbracciò delicatamente. Quando si staccò, Ciel seppe che quello sarebbe stato l’ultimo contatto con la Luce che la sua anima avrebbe avuto da quel momento in poi.
In silenzio, l’Elfo prese il bimbo per una mano e lo condusse di nuovo al sole, nella strada piena di vita.
Di nuovo fianco a fianco, le due figure tornarono verso la dimora del Governatore di Raes.



La casa comune in cui Uriel ed Elanor abitavano era molto più grande rispetto a quelle del villaggio, ma non per questo più ricca. Si riconosceva a colpo d’occhio per la posizione strategica, leggermente rialzata, come una fortezza senza mura. Aveva una struttura solida, rassicurante; torreggiava sul resto del borgo, senza dimostrare alcuno sfarzo.
Ciel notò distrattamente il movimento causato dalle persone che entravano ed uscivano dal portone principale e da quello secondario: mercanti, artigiani, ma anche solo abitanti del villaggio che cercavano consiglio e udienza dal Governatore.
La casa dei due Elfi era un faro conficcato nella terra.

Elanor e Ciel avevano imboccato la strada di casa. Dall’esterno nulla era cambiato, a parte il fatto che l’Elfo aveva trattenuto per tutto il tempo la mano del bambino nella sua, e quest’ultimo non l’aveva ritratta.
Avevano percorso la strada in silenzio, entrambi immersi nei loro pensieri. Mancavano pochi passi all’entrata della casa, quando Elanor si fermò.
“Ti do un consiglio, bimbo. Da adesso, lo sai, non puoi più tornare indietro. Stasera apriremo un varco e ti faremo tornare alla tua vita, non avrai altre possibilità.  Però, anche se la tua strada porta in una sola direzione, ci sono vari modi in cui puoi percorrerla… modi che potrebbero cancellare quello sguardo pieno di disgusto che hai, quando parli di te stesso. Pensaci, la prossima volta che darai un ordine al tuo demone.”

Ciel non rispose subito.
Pensava a lui e Sebastian, ritti di fronte alle macerie di un orfanotrofio che non c’era più. Un orfanotrofio che era un inganno, per la società e per i bambini che ci vivevano.
Avrebbe voluto porre riparo, ma non c’era più nessuno con cui scusarsi.

-Io sono uguale. Sono ripieno della loro stessa bruttezza. Questo è l’essere umano… questo è l’essere umano, Sebastian!

“Disgusto, eh...?”
Impercettibilmente, la stretta del ragazzo attorno alla mano dell’Elfo aumentò.
Elanor sorrise.
 

III

L’erba era secca e fragrante mentre veniva calpestata silenziosamente. Le tre figure incappucciate si diressero verso il limitare del bosco che si estendeva oltre i confini della Quindicesima divisione: fruscii nell’ombra, di foglie e di abiti.
Uriel avanzava con il suo passo lungo e veloce; Elanor e Ciel lo seguivano a distanza, camminando lentamente.
I tre si fermarono di fronte ad una quercia che sembrava essere stata piantata lì all’inizio del mondo: il tronco enorme affondava nel terreno con radici grandi quanto travi di case, e le sue fronde erano così fitte da non far passare la luce delle stelle.

Elanor si chinò. “Per passare da un mondo all’altro c’è bisogno che gli estremi siano solidi. Per questo chiedo il tuo aiuto, Signora che abiti di qui da tempo immemore: le tue radici sono salde e non traggono in inganno.”
Ciel osservava la figura scura dell’albero e quella di Elanor, inginocchiata alla base del tronco: avvertiva un dialogo che non riusciva a comprendere, percepiva passare nell’aria qualcosa che non riusciva ad afferrare. Trattenne il respiro.

L’Elfo toccò delicatamente il tronco ruvido della quercia. E questa si lacerò.

Prima un semplice spiraglio, poi questo si allargò fino a diventare abbastanza vasto da essere attraversato da un uomo adulto. Ciel, che si era aspettato il cancello dorato che aveva visto nella sua villa, rimase stupito, ma non ebbe tempo di fare domande: Uriel ed Elanor si erano voltati verso di lui.

Elanor gli posò le dita sulla guancia, in una carezza lieve. “Direi che il nostro incontro termina qui, ragazzino dannato. Hai fatto la tua scelta definitiva, ma te lo ripeto: ogni giorno compirai mille piccole scelte, nello svolgimento del tuo lavoro, nel perseguimento della tua vendetta. Valutale e agisci di conseguenza. Non ti restituiranno la tua anima, ma forse riuscirai a dormire meglio la notte.”
“Sei una creatura di Luce fino in fondo, non è vero?” Ciel le prese la mano, scostandola dalla sua guancia, ma trattenendola nella sua. “Beh, il mio mondo non è fatto di luce, dovresti averlo capito. Però... suppongo che controllare i propri scatti d’ira, le proprie debolezze o le proprie paure sia il dovere di un nobile. Credo di poterti concedere almeno questo, come Conte Phatomhive.”
“Suppongo sia il massimo che si possa ottenere da te" commentò Uriel, inarcando un sopracciglio. "Sei davvero testardo, sai?”
Ciel rise piano. “Sono un bambino, e sono un Conte. Certo, sono testardo.”

Rivolse ad Elanor un ultimo sguardo, ma quando si voltò verso il varco nel suo cuore non c’erano indecisioni.
Il bambino mise un piede all’interno del passaggio, poi l’altro, poi fu completamente inghiottito.
I due Elfi rimasero in silenzio ad osservare il cammino di un’anima che tornava alla dannazione.
 

Epilogo:

Erano passati due giorni da quando Ciel Phantomhive aveva attraversato il varco transitorio, ritornando alla sua vita.

Elanor osservava il bosco dalle mura di cinta. Le piaceva passeggiare lì in alto, e i soldati si erano abituati da tempo alla sua presenza.
Era quasi il tramonto: poteva ammirare le ombre lunghe delle mura estendersi verso est e unirsi alla sua, oltre il parapetto.

Un’altra ombra si fuse con esse.

“Ti avevo mandato un dono, dama Elanor. Ti avevo chiesto di prendertene cura e tu me l’hai rimandato indietro. L’ho trovato molto scortese da parte tua.”
Elanor sospirò piano. “Non posso salvare chi non vuole essere salvato, Dio della Morte. Ho provato, ma ha fatto la sua scelta.” Gli lanciò un’occhiata veloce. “Ad ogni modo, gradirei che tu evitassi di aprire dei varchi senza autorizzazione. Perché l’hai aperto tu il passaggio che ha portato qui quel bambino, no?”
“Noi Shinigami non possiamo usufruire di certi poteri, mia Signora.”
“Raccontalo a qualcun altro. So benissimo ciò che sei in grado di fare. Quello che non riuscivo a capire era il perché tu lo facessi.”
Lo Shinigami sghignazzò. “Perché parlate al passato? Avete scoperto qualcosa su di me?”
“Ho fatto delle ricerche.”
“Quale onore.”
 Elanor non si voltò. Entrambi rimasero a fissare le loro ombre che si allungavano verso il bosco, sempre di più.

“Ho chiesto ai tuoi colleghi della sezione inglese di passarmi delle informazioni sui Phantomhive. Non potevano negarmi questo favore, dopo il caos che è successo. Credo che tu sia perfettamente consapevole del fatto che quel bambino è un non riconosciuto.”
Lo Shinigami digrignò i denti. “Che brutta definizione, mia Signora. Dà proprio l’idea che quella povera anima non valga nulla.”
“E' vero. Le famiglie non riconosciute sono famiglie dannate.” Elanor si appoggiò al parapetto, come se pronunciare quelle parole le costasse fatica. “Il loro unico scopo nell’ Economia Universale è quello di sfamare i demoni, affinché questi non si estinguano e l’equilibrio tra creature di Ombra e creature di Luce venga rispettato. Per un motivo o per un altro, i membri di tali famiglie vengono portati a stipulare dei contratti demoniaci, vendendo la propria anima.”
“Un’esistenza ben misera, concorderete con me.”
“Concordo, ma non capivo il tuo interessamento a questo caso. Poi mi sono ricordata di un fatto accaduto circa cinquant’anni fa.”

Elanor avvertì, accanto a lei, il Dio della Morte trattenere il respiro. Seppe di essere sulla strada giusta.

“Mi ricordo che voi Dei della Morte veniste a casa di mio nonno, per stilare un contratto tra Guardiani delle varie Terre. C’eri anche tu, fu in quell’occasione che ti conobbi.
Portavi al collo il ritratto di una fanciulla. Capelli corvini, pelle candida, e un contratto demoniaco inciso sull’occhio. Una ragazza dannata, anche lei.”
“… avete buona memoria, mia Signora.”

L’Elfo si voltò, allungando una mano verso il collo del Dio. Lui non si mosse.
Delicatamente, Elanor fece scivolare le dita sotto il colletto del vestito, tirandone fuori una catena lucida, con un medaglione attaccato. Il ritratto di una ragazza nel pieno della giovinezza. Ma, oltre al ritratto, il medaglione conteneva dei capelli che cinquant’anni prima non c’erano.
Una sola scritta: Claudia.

“Sai, c’era anche l’albero genealogico di Ciel, tra i documenti che mi hanno inviato i tuoi colleghi. Tu non mi hai mai detto il cognome di questa ragazza, ecco perché il nome Phantomhive non mi suonava familiare.”

L’Elfo alzò lo sguardo dal medaglione. C’era una domanda nei suoi occhi e nella sua mente.
Ma non si formulano domande di cui si conosce la risposta.
Il Dio della Morte chiuse la mano attorno al medaglione, riponendolo con cura sotto i vestiti.
“Riproverò, mia Signora. Con lui, con i suoi figli, con i suoi nipoti. Riproverò. Ho tanto tempo per riprovare… ”
Lo Shinigami si allontanò, passeggiando sulle mura di cinta, i capelli argentati che risplendevano alla luce del sole morente; due soldati, che lo avevano visto parlare con la loro Signora, lo osservavano perplessi, indecisi sul da farsi.
Elanor lo vide sparire dietro una torretta di guardia.
 

 

** Gli equilibri stanno lentamente cambiando. Chi vive da molto tempo, come le creature di questa Terra, se ne accorge facilmente. E così, capita che Luce e Ombra si sfiorino per la frazione milionesima di un istante, come vortici e mulinelli sul letto di un lago: la superficie rimane piatta, ma in profondità le acque si sono irrimediabilmente mescolate.**



Nota dell'autrice.
Siamo giunti al termine della mia prima storia. Vi ringrazio per essere arrivati fin qui, per avermi seguita in questo piccolo esperimento, e mi farebbe piacere ricevere il vostro parere.
Ho deciso di pubblicare questa Fanfiction proprio per migliorare il mio stile, quindi ben vengano le critiche costruttive! Ho già cercato di mettere in pratica alcuni dei consigli che mi sono stati dati... non sono sicura di esserci riuscita, ma ci ho provato. :)
Vi ringrazio ancora per il tempo che mi avete dedicato, leggendo questo scritto.

 

   
 
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