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Autore: Kanako91    13/01/2009    4 recensioni
VERSIONE ABBANDONATA E IN RISCRITTURA
Da millenni, la guerra tra Inferi e Divinità tormenta la Terra dei Cinque Popoli. La vittoria di uno dei due avversari porterebbe gravi conseguenze anche per gli altri Popoli.
Umana e senza capacità magiche, la Regina d'Ovest Alexya decide di guidare un esercito in cui si riuniscono i regni neutrali, per concludere la guerra.
"La Guerra Millenaria, cugina. Io diventerò colei che sarà ricordata in tutto il Mondo Profano, per i secoli a venire, come l'unica ad aver posto fine allo scontro eterno tra Divinità ed Inferi. Già mi ci vedo, in piedi davanti ad Al che mi implora perdono." [Tratto dal capitolo I]
Genere: Azione, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Sung'bar, dihe 12, Vaedhorri, 2 henn del III Chranhenn.

Mi ci è voluto del tempo per raccogliere e dare una forma ed un senso alla gran quantità di materiale che ho accumulato durante e dopo i fatti che sto per raccontare. La parte più difficile è stata proprio parlare con colei che mi era stata più vicina, tra tutti coloro che ho incontrato. Nonostante avessi passato giorni e giorni in sua compagnia, non ero riuscito ad avere tutte le informazioni di cui avevo bisogno per quest'opera, perché lei doveva andare incontro al destino che si era scelta per poter vivere come lei desiderava. Grazie al Fato, mi è possibile dire di conoscerla piuttosto a fondo, o quantomeno di capirla meglio di molti, anche se sempre meno dell'unico uomo con cui abbia condiviso la sua intera esistenza e che non la abbandonerà tanto facilmente. Perché dopo averla scoperta davvero non la si può lasciare, non ci si può allontanare da lei, prima di sentire un gran vuoto.
Quel che vi sto presentando non è una ballata, né un poema epico; non è un racconto di guerra, né una storiografia; non si può definire la vita di tutte queste persone, Uomini, Elfi, Lucenti, Inferi, Divinità, che hanno vissuto questo momento cruciale della storia del Mondo Profano, con poche parole. Proprio per questo ho scritto questo lungo alternarsi di voci, pensieri e fatti che portarono alla fine del Secondo Grande Anno, per tramandare ai posteri, nel modo più efficace e realistico possibile, le gesta dell'Esercito della Fenice, di grandi dei e di instancabili Inferi. Perché tutto questo non venga dimenticato e sia trattato come si deve, cosa possibile solo a chi ha vissuto direttamente tutto questo. Cioè io.
Potrò sembrare presuntuoso, ma non è da me vantarmi. Sono solo realista e metto ciò in chiaro sin da subito. Forse nel parlare di qualche protagonista sarò un po' imparziale, ma starà a voi scegliere se accettare la mia visione o vedere la verità senza il filtro delle mie parole, come ha sempre cercato di fare Lei. Non sono mai stato un uomo dalla mente aperta, nonostante non possa permettermelo vista la mia natura, ma proprio per questo motivo ho incontrato sul cammino della mia vita quella donna.
A Lei dedico questa mia fatica, sperando che al suo risveglio le capiti una copia del mio lavoro tra le sue mani oramai immortali. Spero anche che il suo eterno amato mi perdoni per aver osato tanto,  lui comprende quel che provo.
Lo capisce, lo conosce, lo vive.
Buona lettura,
A.





I.
Sung’bar




Il Myurohon lasciò alle sue spalle la pianura del Regno del Nord, addentrandosi nella savana, al confine dei Campi di Sangue, avanzando instancabile, mettendo un piede davanti all'altro, rapido e spedito. Gli era stato dato un ordine e lo avrebbe portato a termine a qualsiasi costo. Nella sua mente, solitamente vuota, riecheggiavano solo le parole del suo Manipolatore. Non vedeva, non emetteva altro suono se non qualche verso inarticolato, non provava fatica né stanchezza. Il soldato perfetto per l'esercito delle Divinità. Un non-morto, uno zombi senz'anima e senza sentimenti.
Vai a Sung'bar e segui ogni suo movimento.
Non si poneva alcuna domanda riguardo a quell'ordine privo di alcun senso per lui. Non pensava, non gli serviva pensare. Lui doveva eseguire e basta. Era inutile qualsiasi altra funzione che lo avrebbe reso vivo. Il divino Al non aveva bisogno di compagni, amici, fedeli, ma solo di schiavi. Quale miglior schiavo di un Myurohon?
I giorni passarono, i chilometri si susseguirono veloci, portando lo zombi nel Deserto di Zinco, con le sue dune dorate e le terrificanti creature che abitavano nel buio a miglia sotto terra. Havernio, Cantabros, Svethios; poi la Notte con le sue ancelle Cathina l'arancione, Hyustas viola, Illiriha la verde, la grande Elvitias gialla ed infine Shillas la cremisi, per poi riprendere il ciclo d'accapo. I Soli e le Lune si susseguivano, noncuranti di coloro che illuminavano dall'alto della loro dimora. Ed il Myurohon proseguiva imperterrito verso la carovana che si iniziava ad intravedere all'orizzonte. Poco più di una giornata di cammino e l'avrebbe raggiunta.
Il soldato continuò a camminare anche di notte, non aveva bisogno di dormire. Si fermò solo quando sentì la Voce di qualcuno molto potente investire tutto il deserto al suo passaggio. La forza di quella mente lo investì in pieno, raggelandolo e facendogli quasi dimenticare gli ordini ricevuti. Quasi: essi, infatti, erano stati impressi molto in profondità, perché il suo Manipolatore non voleva disattendere il volere del suo sovrano. Non volontariamente.
Ci volle un po' perché il Myurohon si riprendesse e ripartisse. Aumentò il passo, andando quanto più veloce gli permetteva la sabbia sottile del Deserto di Zinco, che gli bruciava i piedi sotto i Soli cocenti. La carovana era sempre più vicina e, non appena Svethios calò, il gruppo di uomini, cammelli e cavalli del deserto si accampò. Era fatta, li aveva quasi raggiunti.
Le tende furono montate e, dopo un veloce pasto, gran parte delle luci fu spenta e alcuni soldati rimasero svegli per la ronda, mentre un grosso fuoco al centro dell'accampamento rischiarava la notte, aiutato dalle Lune. Il Myurohon si appostò su una duna sopra la carovana ferma e si distese sulla sabbia, poggiato sui gomiti. Avrebbe atteso lì, a distanza di sicurezza, che il gruppo riprendesse il viaggio per eseguire gli ordini che gli erano stati dati.
La rena fu smossa da qualcosa. O qualcuno. Lo zombi si voltò si scatto e, senza poterle vedere, si ritrovò due spade puntate alla gola, uno spadone a due mani ed un'elegante sciabola snella e lucente. Gli occhi bianchi, le cui pupille si erano rivolte verso l'interno della testa quando era stato richiamato alla vita dal negromante, rimasero fissi nel vuoto, ma se ne avesse avuto la possibilità li avrebbe sollevati.
«Un Myurohon», osservò una voce maschile, profonda e seria.
«Dannazione, cosa ci fa qui?», si lamentò una ragazza.
«Non ne ho idea...»
Lo spadone si allontanò dal collo del Myurohon e l'uomo si accovacciò davanti allo zombi, fissandolo curioso.
«È innocuo, non penso gli sia stato ordinato di uccidere».
«Non mi fido. Uccidiamolo».
La sciabola premette contro la gola del soldato delle Divinità ed una goccia di sangue nero scivolò lungo la pelle, incontrando le cuciture sul collo, che gli permettevano di avere il capo attaccato al busto.
«Fate quel che vi pare, dopotutto siete voi la regina.» si arrese l'uomo, mettendosi in piedi.
La ragazza sollevò il braccio sinistro, con cui reggeva la sciabola, e calò il fendente mortale sul Myurohon, che rimase immobile davanti alla distruzione, senza poter reagire in alcun modo. Perché non gli era stato ordinato. E perché la sua morte non valeva niente.
Era solo un granello di sabbia, nulla più.

Una goccia scivolò lenta dal ghiaccio alla schiena nuda del dio. I sensi risvegliati del signore dei Venti gli permisero di sentirla ed accoglierla con gioia e piacere. La sua prigionia era giunta al termine.
Avrebbe voluto stiracchiarsi, ma aveva le braccia bloccate da catene ed il resto del corpo dal blocco d'acqua congelata. La sua prigione. La sua gabbia. Tutto per un capriccio di Al. Non sapeva bene perché, ma qualcosa in lui gli diceva che era quel dannato la causa di tutto ciò. E perché, poi?
Non trovando la risposta, rimase in attesa. Anche la memoria sarebbe tornata, con calma, assieme alla libertà. Che fretta c'era? Dopotutto aveva l'eternità. Seicento anni rinchiuso in una cripta ghiacciata, al centro di una collina nel Regno d'Ovest, non erano nulla.
La rabbia lo pervase e lui si agitò, furente. , che erano qualcosa. Un ricordo doloroso lo assalì e gli venne voglia di gridare, senza però che la voce si liberasse dalla sua gola. Strattonò ancora le catene, che si rifiutarono di lasciarlo libero. Continuò a ribellarsi come una belva in gabbia, inferocito e disperato, mentre i ricordi gli annebbiavano la mente e lo dilaniavano. Cercò di urlare, di nuovo, e gli uscì solo un cupo ruggito. Si abbandonò, stremato.
Doveva attendere e pazientare. Ancora un po'.

Helena si rigirò nel letto, sempre più avvolta nelle lenzuola, finendo per far impigliare le gambe nella stoffa della camicia da notte. Poi, spazientita, si liberò dalle coperte e scese dal baldacchino. Doveva fare altro, doveva distrarsi, era orribile passare la notte insonne. S'infilò le pantofole ed una vestaglia, cercò qualcosa per far luce, ma alla fine si accontentò di usare la magia.
«Lahat».
(1)
Una sfera di luce si materializzò davanti a lei e rimase fluttuante in quella posizione, finché Helena non si mosse, diretta verso la specchiera. Si guardò e fece una smorfia contrariata. Aveva delle occhiaie spaventose ed i capelli corti e biondi arruffati. Ma quelli non erano un grosso problema. Afferrò una spazzola e li fece tornare l'ordinato caschetto dal taglio scalato di sempre. Gettò un altro sguardo al suo riflesso e incontrò di nuovo i suoi occhi azzurri, cerchiati di viola, nello specchio. Per fortuna Marihus era con Alexya, altrimenti il mattino dopo si sarebbe lamentato perché non era stata capace, ancora una volta, a dormire in santa pace.
Ma non ci posso fare niente, si consolò Helena, voltando le spalle al suo clone sul vetro. Si passò le mani sul volto e poi decise cosa fare. Dato che era preoccupata, sarebbe andata a placare i suoi timori. Nello studio, dunque.
Uscì dalla camera da letto, con le pareti rivestite di tessuto spesso e pregiato, passando nel soggiorno dai muri affrescati, in un perfetto ordine quasi innaturale. Si trovò nel corridoio dell'ultimo piano dello Smeraldo, il palazzo reale del Regno d'Ovest, a poca distanza da Borgo Smeraldo, la capitale che si estendeva ai piedi della colline del palazzo reale, fino alla costa sabbiosa. Si avviò verso le scale di marmo chiaro e le scese, silenziosa.
Tutto il castello dormiva nell'oscurità, a malapena rischiarata dalle Lune velate da nubi. Beati loro, sospirò tra sé la donna. Sollevò da terra un lembo della vestaglia che rischiava di farla inciampare ed andò avanti, preceduta dalla piccola sfera di luce.
Giunse fino al pianterreno e svoltò a destra verso un corridoio più ampio degli altri, percorso da nicchie in cui avevano trovato alloggio le statue dei precedenti re. Erano parecchi, così quelli più antichi erano stati tolti di mezzo, eccezion fatta per il fondatore del regno, Anathor, e le sue prime regine, le capostipiti delle due famiglie reali, Lahacilla e Thenesha.
Helena lanciò un rapido sguardo ai suoi antenati, sentendosi i loro occhi addosso. Sembra quasi che la stessero biasimando per la sua ansia e preoccupazione eccessiva. Pensa a te stessa e vai a dormire, parevano dirle, rimproverandola severi. O forse era il suo subconscio. Scosse la testa. Doveva calmarsi, in qualsiasi modo, o non sarebbe riuscita a chiudere occhio.
La donna arrivò nella sala dei due troni, in legno con la seduta e lo schienale imbottiti, alle cui spalle pendeva enorme lo stendardo verde del Regno d'Ovest, uno smeraldo davanti a due armi incrociate, uno spadone a due mani ed una sciabola. Ai lati dei seggi soprelevati, due porticine che quasi non si vedevano sulla parete affrescata con scene mitologiche e finti marmi. Si diresse proprio verso una di esse, vi posò la mano sul battente e spinse con delicatezza e decisione. La porta si schiuse e lei la aprì maggiormente, per accedere allo studio ordinato dietro di essa. Si guardò intorno e si sentì frustrata. Come si vedeva che non aveva avuto nient'altro da fare in quei giorni: le due scrivanie, messe una di fronte all'altra, erano in perfetto ordine, persino quella della cugina che aveva sempre mucchi di fogli e libri sui lati; gli scaffali erano impeccabili, tutti i tomi erano messi seguendo l'argomento e l'ordine alfabetico; i fiori nei vasi e le piante erano perfettamente freschi e curati.
Helena lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la parete delle porte e vide l'unica cosa che non c'era modo di rassettare: la mappa dipinta sulla parete, la Terra dei Cinque Popoli si estendeva in verticale sul muro, circondata dal Mare di Smeraldo ad Ovest e dal Gran Mare di Zaffiro ed Est; sopra gli ingressi si intravedevano le Terre della Magia che occupavano il resto del globo terrestre. La donna si avvicinò alla pittura e vide i due dischi, uno bianco con una L incisa sopra, uno nero con una T, che indicavano la posizione delle due Regine d'Ovest. Quello di Helena era situato sulla scritta “Borgo Smeraldo”. La pedina nera, invece, era a poca distanza da Sung'bar, la città del deserto, nei Campi di Sangue.
Alla vista del disco ancora aderente al muro, la regina bionda si rasserenò, solo un poco. Fosse morta Alexya, lei avrebbe trovato il tassello a terra. Helena sorrise e si diresse verso la sua scrivania, rivolta verso la finestra. Aprì un cassetto e prese il suo specchio per le comunicazioni, mettendolo in piedi con l'apposito supporto. Non le era bastata la rassicurazione della mappa, la sua ansia era dura a morire. Voleva controllare di persona e quell'artificio magico l'avrebbe aiutata.
«Ojha-vuls Alexya!»
(2)
Lo specchio baluginò, come reazione alla magia, e sul vetro apparve un cielo stellato. Quell'oggetto permetteva di vedere chi si voleva attraverso qualsiasi superficie riflettente presente dei pressi di tale persona.
Fece capolino nello specchio un viso maschile, giovane ma segnato dalle fatiche della guerra e da una larga cicatrice che partiva dalla tempia destra e finiva sullo stesso zigomo. Le folte sopracciglia si inarcarono, in un moto di sorpresa. I capelli erano dello stesso colore degli occhi, castani, tagliati corti e disordinati, con un codino alla base del collo ornato da anellini che riprendevano il verde scuro della divisa militare.
“Milady, mi avete fatto prendere un colpo”, iniziò Johan, il capitano delle guardie reali.
Helena si corrucciò. «Non credevo che la mia vista ti provocasse tali moti di orrore, Johan».
“No, per carità, milady! È solo che non mi aspettavo di sentirvi di nuovo, oggi”, replicò il soldato, a mo' di scusa, non troppo convinto delle sue parole. In realtà la stava accusando: siete talmente ansiosa che non vi è bastato parlare con vostra cugina tre ore fa.
Helena finse di non aver colto il reale significato delle parole di Johan e chiese di parlare con Alexya.
Il capitano scosse il capo e si grattò il mento, dove la barba sfatta gli provocava un fastidioso prurito. “Sono spiacente, ma Alexya sta dormendo. Lei non può permettersi occhiaie, dato che deve partecipare al Consiglio”.
La regina bionda aprì la bocca ed assunse un'espressione contrariata, senza però dir nulla. Subito di calmò, la rabbia non aveva mai trovato terreno fertile per le sue radici, nella sua anima.
«Sta bene?», domandò, infine.
Johan sospirò, esasperato. “Certamente, milady.” Guardò la donna riflessa nello scudo. “Non dovete preoccuparvi di vostra cugina, ha raggiunto la maggiore età e sa difendersi molto bene. Potrei persino lasciarla senza guardia del corpo...” Il capitano vide la regina precipitarsi a dare una risposta, ma glielo impedì: “...se solo questo non fosse l'unico modo per impedirle di avere sempre il vostro fiato sul collo. Dovete star tranquilla, vivere la vostra vita, ad Alexya ci penso io. Ed anche il vecchio Marihus.”
Vivere la mia vita, quando mai?, si domandò con una nota amara Helena, abbandonando la schiena contro la poltrona. Semplicemente il suo essere regina le impediva di vivere la sua vita. Doveva pensare al suo popolo, alla sua corte e pure stare attenta agli Anziani, anche se sembravano più interessati alla rovina della cugina ventenne che a quella di una donna matura come lei, sebbene solo sei anni separassero la nascita delle due regine. Helena doveva anche badare ad Alexya, che non le era sembrata tanto indipendente. Come poteva proprio Johan, una delle stampelle che mantenevano in piedi la giovane regina, dire a lei, Helena dei Lahacilliarum,di non preoccuparsi del sangue del suo sangue?
«Va bene, va bene», lo accontentò la bionda, giusto per far tacere il capitano. Poi osservò meglio l'uomo e vide che portava sottobraccio una cassetta di legno dipinto, che lei conosceva bene. «Johan, cosa ci fai con il portagioie di Alexya sottobraccio?», domandò sospettosa. «Non dovrò crederti un ladro...»
Il capitano fece un gesto noncurante “Oh, non è niente, milady, ho solo strappato il cuore a vostra cugina e lo conservo con cura”.
Helena lo fulminò, non sopportava simili scherzetti. «Johan», tuonò alterata.
L'uomo sorrise ed il suo volto parve tornare quello giovane e tranquillo di un tempo. “Alexya ed io siamo andati a fare una passeggiata ed abbiamo trovato un bel Myurohon tra le dune. Ovviamente vostra cugina ha fatto quel che fa sempre quando si trova davanti ad un'incognita: l'ha distrutto senza troppi complimenti. Questo a dimostrare che Alexya è capacissima a badare a...”
«Cosa?!» strillò Helena, balzando in avanti, gli occhi dilatati dalla sorpresa. «Un Myurohon? E cosa ci faceva ? Dovevate interrogarlo!»
Johan proseguì, ignorandola. “...se stessa. Fatto a pezzi il Myurohon, ci siamo incamminati verso l'accampamento, ma quello schifoso si è ricomposto, così ho dovuto assistere a vostra cugina che si accaniva sullo zombi. Si è sporcata il vestito, Marihus gliele ha dette di tutti i colori, anche perché non c'è acqua e quella potabile non possiamo sprecarla per lavare i vestiti. Alla fine, il Myurohon lo abbiamo messo in questo portagioie per non farlo fuggire. Appena a Sung'bar cercherò un negromante che lo uccida definitivamente”.
Helena era sparita da davanti allo specchio.
“Milady?” la chiamò Johan, diverse volte.
«Taci, maledetto soldato!» ordinò Helena, da qualche parte nello studio. Attese di calmarsi, per tornare alla poltrona della sua scrivania. «Mi stai dicendo che un Myurohon seguiva mia cugina e che nessuno si è preoccupato a capirne il motivo?», sibilò, massaggiandosi le tempie.
“Cosa volevate che rispondesse? I Myurohon non parlano, non hanno lingua, e soprattutto il loro Manipolatore non ordinerebbe mai che lo facciano.” L'espressione allegra e serena era svanita dal volto di Johan, lasciando uno sguardo duro e spietato, quello di un guerriero al servizio del trono d'Ovest.
Helena fu costretta ad accettare la dura realtà. Ma non si dava pace. Se un soldato delle Divinità stava pedinando Alexya, perché sapeva che era così, allora ci doveva essere un motivo. Le tornarono in mente le parole della cugina, la sera prima della partenza, il lampo di ribellione e sfida nei suoi occhi mentre le annunciava cosa voleva proporre al Consiglio degli Otto Sovrani. Qualcuno aveva ascoltato il loro discorso ed esso era giunto fino alle orecchie del divino Al. Non vi era altra spiegazione.
La regina bionda si passò una mano sul viso. Poteva dire addio al sonno. Non sarebbe più riuscita a dormire finché non avesse avuto notizie di Alexya dopo il Consiglio. Congedò Johan e si avvicinò alla parete alla sua sinistra, nascosta da uno scaffale pieno zeppo di libri. Si avvicinò all'unico libro che non seguiva nessun ordine razionale, dalla copertina verde smeraldo, che recava inciso sul fronte il titolo “La storia del Regno d'Ovest – Da Anathor alla XXIII Famiglia”. Lo prese in mano, mentre infilava il braccio libero nel posto lasciato vuoto dal tomo. Incontrò una leva sul fondo della libreria e la ruotò verso destra. La parete indietreggiò e si fermò con un tonfo.
Helena entrò nel varco lasciato libero dallo scaffale e posò il libro verde per terra, lasciando l'ingresso aperto alle sue spalle. Davanti a lei, nella più completa oscurità, delle scale di fredda pietra grigia la condussero fino ad un cunicolo, umido e stretto, terminante in una vasca a raso di acqua cristallina che emetteva una lieve luce. La regina abbandonò le pantofole ed attraversò la piscina di purificazione, giungendo davanti ad una grande porta di legno massiccio. Dai battenti emergevano le figure scolpite di Niharn, dea dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest, e di suo figlio Zephiro, il dio dei Venti, patrono della famiglia reale. Le loro mani reggevano grossi anelli di ottone, che Helena tirò a sé per aprire il portone.
Dinanzi a lei, la cripta nella roccia, illuminata da un'innaturale luce azzurrina, si spalancò con le colonne eleganti che la percorrevano in lunghezza, dividendola in cinque navate, il pavimento di marmo celeste e, in fondo alla sala, l'altare col piano di zaffiro, sopra il quale era sospeso un blocco di ghiaccio di forma piramidale.
Una goccia cadde sull'altare, dando il benvenuto alla gran sacerdotessa di Zephiro.

Un botto e acqua da tutte le parti. Helena cadde all'indietro, gli occhi sgranati, mentre il signore dei Venti libero dalla sua prigione di ghiaccio atterrava sullo zaffiro dell'altare. Le ali azzurro cielo erano spalancate e gocciolavano, il gonnellino con decorazioni geometriche blu e verde chiaro era completamente zuppo, il corpo statuario del dio era imperlato di gocce d'acqua.
La regina bionda deglutì a fatica, tenendo le mani premute sul petto, mentre gli occhi scivolavano su Zephiro in piedi sull'altare. Il dio ritrasse le splendide ali, che si ridussero ad un tatuaggio sulle scapole. I chobi, decorazioni per i capelli usate da poche Divinità antiche, batterono contro il petto di marmo del signore dei Venti, attaccate alle punte di due grosse ciocche di capelli turchesi che cadevano ai lati del viso dai lineamenti spigolosi del dio, mentre il resto della sua chioma era fermato dietro la testa da due bastoncini decorati seguendo il motivo ad onde sfumate di blu dei chobi.
Zephiro lanciò uno sguardo curioso alla donna seduta per terra ed il suo cuore si riempì di gratitudine. Erano state le preghiere ardenti di quella donna a permettergli di tornare libero più in fretta di quanto avesse previsto. Scese dall'altare con un balzo aggraziato e si avvicinò alla regina bionda, che lo fissava ancora a bocca aperta.
Il signore dei Venti si accovacciò davanti a lei e le accarezzò un guancia. La sensazione della calda pelle umana fu un accoglienza piacevole e dolorosa nel contempo. I ricordi che lo avevano torturato durante il suo lento risveglio erano ancora vividi nella sua mente, ma quella donna minuta e splendente sembrava adatta a lenire la sua sofferenza.
«Posso sapere chi siete, milady?», le domandò Zephiro, con un filo di voce, leggera e calda come una brezza estiva, che Helena sentì chiaramente nella sua testa.
La regina gli disse nome, famiglia di appartenenza ed il suo titolo. La fronte di Zephiro si aggrottò un attimo, al passaggio di un pensiero molesto, ma si rasserenò, come se non fosse capitato nulla.
«Oh, milady, non posso far altro ringraziarvi», così dicendo le posò un delicato bacio sulla frangia che copriva la fronte.
Helena restò immobile, non sapendo bene che fare. Quando era stata investita gran sacerdotessa di Zephiro, le era stato detto che il suo dio era imprigionato in quella cripta, ma con tutte le volte che si era recata lì per pregare, il dio addormentato nel blocco di ghiaccio non aveva mai dato segni di vita. Non capiva come fosse possibile che quella notte il signore dei Venti fosse balzato fuori dalla sua prigione. Quindi, quel giorno, era giunta la fine della sua pena. Non poteva esserci altro motivo.
«Di cosa, divino?» domandò la donna, con tono sommesso.
Zephiro le rivolse un sorriso dolce e le accarezzò di nuovo la guancia, questa volta provando solo il piacere della carne calda e vellutata di una donna umana. Gli Uomini gli erano sempre piaciuti per quello, fragili e mortali come lui non era mai stato.
«Mi pare logico che non lo sappiate, ma per ripagarvi per l'aiuto che mi avete dato sarò sempre al vostro fianco e vi spiegherò quel che nessun altro conosce, oltre a noi Divinità. Ma vi prego», si interruppe il dio dei Venti. Posò le mani sulle braccia di Helena e la sollevò da terra. Quando furono entrambi ritti in piedi vide che la donna gli arrivava appena all'altezza delle sue spalle. Il suo cuore si riempì di tenerezza. Così piccola, così fragile, Helena gli sembrava una bella bambola. Indietreggiò verso l'altare e si poggiò ad esso, abbassandosi un po', per permettere alla regina di guardarlo negli occhi.
Helena rimase incantata quando rivolse il suo sguardo verso quello del dio. Era risaputo in tutto il Mondo Profano che il segno distintivo delle Divinità, prima di qualsiasi altra cosa, erano i loro occhi neri: nessun'altra creatura in tutto il globo poteva avere le iridi color della tenebra, se non chi aveva nelle proprie vene sangue divino; e comunque, gli occhi dei mezzosangue non erano di quel colore così stupefacente, di ossidiana pura, di pece liquida, capace di soggiogare all'istante. La regina finì nelle catene di quello sguardo nero e solo il dio avrebbe potuto liberarla. E lo fece, chiudendo gli occhi. Soltanto allora la donna notò che il bistro con cui tutte le Divinità mettevano in risalto la loro unicità non era presente. Vi erano dei rimasugli del trucco nero degli occhi, ma erano privi d'importanza.
«Milady,» richiamò la sua attenzione Zephiro, sfiorandole il viso con la punta delle dita. «Ricordate quel che vi sto per dire. Le Divinità maggiori hanno una capacità che le rende diverse a quelle comuni: ogni volta che il loro nome viene pronunciato da una creatura del Mondo Profano, esse acquistano potere. È così che, grazie al vostro fervore religioso, io ho avuto il potere necessario per liberarmi più in fretta dalla mia prigione. Avete capito?»
Helena rimase senza parole. Ecco perché l'aveva ringraziata. Chinò il capo, umilmente.
«Ho fatto solo ciò che era in mio dovere, divino. Non avete nulla di cui ringraziarmi, non avete nessun debito nei miei confronti», si affrettò a dire la regina.
Il dio dei Venti le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo negli occhi. La donna cadde ancora una  volta vittima dell'incanto del suo sguardo di pece liquida.
«Non mi interessa, Vostra Grazia, io ho deciso così. Perciò accettate la mia offerta, altrimenti potrei prenderle il vostro rifiuto come un'offesa».
Sconfitta, Helena annuì e chiese perdono per il suo comportamento. Zephiro sorrise.
«Mi pregavate di aiutare vostra cugina. Per quale motivo?», domandò il dio, prendendo la mano della regina ed avviandosi verso l'uscita dalla cripta.
Helena si tormentò il labbro inferiore, prima di rispondere.
«Ha in mente idee che la metteranno in una posizione pericolosa di fronte al divino Al», biascicò la donna. Nella sua mente tornò prepotente il ricordo del discorso prima della partenza.
 La Guerra Millenaria, cugina. Io diventerò colei che sarà ricordata in tutto il Mondo Profano, per i secoli a venire, come l'unica ad aver posto fine allo scontro eterno tra Divinità ed Inferi. Già mi ci vedo, in piedi davanti ad Al che mi implora perdono.
Alexya aveva riso sguaiatamente alla fine di quella frase, ma Helena era impallidita mortalmente. Quando la regina bionda raccontò a Zephiro, di cui non poteva far altro che fidarsi ciecamente, i piani segreti della cugina, negli occhi del signore dei Venti lampeggiò qualcosa di indecifrabile. Helena rimase interdetta da quel che aveva visto, però si lasciò trasportare dal dio all'interno dello Smeraldo, senza domandarsi nulla.

I tre Soli erano alti nel cielo e segnavano il mezzogiorno. Dinanzi agli occhi meravigliati di Alexya si stagliò verso il cielo la colossale torre di pietra nera, dalla base tozza da cui partivano quattro tentacoli affondati nella sabbia del deserto, e che andava assottigliandosi per culminare in una grossa struttura ottagonale di vetro, tagliata come una gemma preziosa. Quello era il luogo in cui si riuniva il Consiglio degli Otto Sovrani, dove si sarebbe recata la Regina d'Ovest il giorno successivo.
Sung'bar, la capitale del deserto, si estendeva sotto la superficie terrestre, nascosta sotto la sabbia dorata che si estendeva ovunque. Johan lanciò uno sguardo attorno a sé, riflettendo ancora una volta sulla bizzarria di quel luogo. Vi si era recato spesso, al seguito della regina Helena, eppure non finiva mai di sorprendersi. Non che lo vedesse da prospettive differenti o notasse nuovi particolari, ma semplicemente non riusciva mai a risolvere l'enigma di quel luogo sconclusionato. Nei Campi di Sangue l'unica certezza era il Deserto di Zinco, centrale allo stato, mentre il resto del territorio variava dalle lussureggianti pianure ad Est, alle paludi e alla savana a Nord, dalla steppa a Sud alla grande foresta ad Ovest, che procedendo verso il fiume Sudrione, che nemmeno passava da quei territori, ma che costituiva comunque un beneficio per essi, la Foresta Grigia faceva da padrona. Helena aveva detto che i Campi di Sangue erano così a causa della Guerra Millenaria, che concentrava una grossa quantità di magia in quei luoghi che subivano inevitabilmente mutamenti senza senso.
«Finalmente civiltà!» cantilenò a squarciagola Alexya, sollevando le braccia in aria, in segno di vittoria.
Marihus sbuffò sonoramente e la risposta della regina fu un semplice gesto, che mandava il maggiordomo a quel paese.
«Suvvia, vecchio, è una bambina e poi siamo tutti amici qua», lo rassicurò Johan, affiancandosi alla giumenta dell'uomo di mezza età, vestito di tutto punto persino nel deserto.
«Una bambina lo dici a qualcun altro! Guardala!» indicò Alexya, in sella ad un elegante cavallo del deserto, comprato apposta per quel viaggio, che gridava oscenità assieme ai soldati della sua guardia. «Ha vent'anni, Johan, e continua a non rendersi conto del suo ruolo!»
Johan tirò una pacca a Marihus, che quasi cadde dalla sua cavalcatura con un urlo disumano. Il capitano della guardia reale gli agguantò un braccio e lo tenne in groppa alla giumenta. Il maggiordomo si aggiustò i capelli brizzolati, tirandoseli all'indietro, e borbottò contro il giovane.
«Eh, la sottovalutate, te ed Helena. Quella ragazza un giorno vi lascerà senza parole!» disse Johan, sicuro di sé. Poi, con un colpo di talloni ai fianchi del suo cavallo, spinse l'animale verso la regina, che continuava a ridere con i soldati. Il capitano sorrise benevolo. Quella ragazza aveva la stoffa per comandare un esercito, dopotutto era figlia di Garstand, uno dei re più abili in guerra della storia del Regno d'Ovest. Suo padre l'aveva cresciuta a pane e arti militari. Inoltre, Alexya aveva avuto lui, Johan, come insegnante di arti marziali, quindi non era altro che la guerriera più letale dell'Ovest. Ne andava fiero, sapeva di aver ragione, e la stima dell'esercito era una conferma. Questo, però, non significava che negli altri ambiti se la cavasse altrettanto bene.
«Milady, spero non vogliate entrare in Sung'bar vestita in quel modo», la rimbrottò Johan, con fare bonario.
Alexya inarcò le sopracciglia e lanciò uno sguardo ai suoi indumenti: pantaloni larghi, di tela leggera, una camicia da uomo di lino, rubata dalla sacca di Johan, stivali di pelle da cavallerizza. «Da quando in qua un rozzo soldato come te si preoccupa di cosa indossi una regina del mio calibro? Non è che viaggiare con Marihus ti ha fatto prendere la sua stessa malattia?».
Johan rise, mentre i soldati rimanevano indietro. «Tranquilla, milady, sareste splendida anche vestita di stracci. È solo che non tutti i vostri pari apprezzano tanta semplicità».
Alexya tirò un pugno in testa al capitano, con un ghigno. «Taci, adulatore di...»
Un urlo di Marihus impedì alla regina di proseguire. «Non usate quel linguaggio da scaricatore di porto, milady!» gridò ancora il maggiordomo. E continuò, con un tono di voce normale ed un'espressione contrariata. «Ecco cosa succede a passare il proprio tempo tra i rozzi soldati, puah».
La regina roteò gli occhi verdi e fermò il cavallo. «Mi cambierò qui!» Fece per slacciare i legacci della camicia, quando Hanan, l'unica ancella cui avesse permesso di seguirla, strillò piena d'orrore. Marihus spalancò la bocca, esterrefatto.
Alexya e Johan, invece, scoppiarono a ridere. Lei non aveva davvero intenzione di denudarsi davanti a soldati in astinenza come quelli che la seguivano. Non era così stupida.
«E allora sbrigatevi, ritardatari!» gridò ai due che si avvicinavano lentamente, il maggiordomo in groppa alla sua giumenta stanca e bizzosa, Hanan sul cammello che avevano acciuffato durante il viaggio e che era carico di bagagli, alleggerendo così i cavalli.
Quando la regina fu pronta, uscì dalla tenda che era stata montata per farla vestire al riparo da occhi indiscreti. Non sembrava decisamente di buon umore.
«Provate a toccarmi i capelli e vi taglio le mani!» ringhiò passandosi le dita nella sua castana chioma boccoluta, gli occhi verdi che lanciavano fiamme.
Johan fece per avvicinarsi alla regina per aiutarla a salire a cavallo, ma due soldati lo precedettero, sghignazzando. Non appena Alexya li vide porgerle le mani, lanciò un urlo e saltò in groppa alla sua cavalcatura spaventata dall'aura tempestosa del suo conducente.
«Tornate a fare i soldati, marrani!» ringhiò e spronò il cavallo, costringendolo al galoppo nella sabbia bollente.
Johan ringraziò il cielo perché non era andato di persona ad aiutarla. Con i soldati si era trattenuta, ma contro di lui avrebbe sfoderato la spada. Anche perché lei sapeva che, se il capitano le avesse mostrato mai un qualche gesto di cortesia, lo avrebbe fatto solo per prendersi gioco di lei.

Sung’bar, dove due millenni fa Nephas, il primo re degli Inferi, era stato ferito a morte da Al, era una città piena di vita: le strette stradine erano sempre affollate, le case di roccia scura erano attaccate le une alle altre, vi era un gran chiasso, tra le grida dei mercanti ed il chiacchiericcio della gente. Ma quello era solo il primo livello, il secondo già iniziava ad essere più tranquillo ed era lì che si trovavano le dimore dei nobili; mentre al terzo livello abitavano coloro che solitamente si trovavano nelle periferie dei centri urbani: attori,  maghi, ciarlatani, medici, guaritori, negromanti.
Per entrare in quel mondo sotterraneo si doveva passare un posto di blocco lungo le basse mura che attorniavano la torre di roccia nera. La cinta muraria era realizzata con mattoni di pietra rossastra e si alzava da terra solo di due metri. Non erano delle vere e proprie fortificazioni, ma solo la protezione per la rampa che circondava la città e scendeva sotto terra.
Johan entrò nel tunnel e cominciò a sudare freddo. Odiava i posti così chiusi e bui. Dopotutto era un soldato, non doveva vivere in simili cunicoli per ratti. Mentre il capitano della guardia reale cercava di tranquillizzarsi, Alexya gli si accostò e, ancora nervosa per il vestito troppo elegante e sfarzoso che aveva dovuto indossare, rigirò il coltello nella piaga.
«Trovo questo posto molto confortevole, non è così, Johan? Umido e scuro al punto giusto. Poi quest'odore di chiuso è spettacolare!»
Piccola vipera, imprecò il soldato, stringendo i denti per non dar voce ai suoi pensieri. L'avesse fatto, Alexya si sarebbe divertita ancor di più ed avrebbe continuato a tormentarlo ad oltranza.
Dopo diverse battutacce riguardo la claustrofobia di Johan, Alexya si stufò e spinse il cavallo ad accelerare il passo. Passarono dalla porta del primo livello ed i soldati, al sentire il vociare continuo, l'odore di cibo, di sudore, di animali, presi dalla nostalgia dopo quei quattro giorni passati lontani dalla gente, domandarono il congedo al loro comandate, che glielo accordò senza pensarci due volte.
«Ah, dopo ci voglio andare anch'io!» annunciò Alexya, quando le guardie reali si furono allontanate nella folla.
Marihus gemette, al pensiero della sua regina in mezzo a gente rozza e malintenzionata. Ma si ricordò che andava spesso con Johan in giro per taverne a Borgo Smeraldo e che aveva sempre utilizzato quelle “passeggiate” per conoscere meglio le persone. Proprio grazie a questo suo mischiarsi al popolo che Alexya era abbastanza ben voluta dagli abitanti della capitale d'Ovest. Il maggiordomo sospirò, mentre Hanan gli lanciava un'occhiata preoccupata.
Proseguirono fino al secondo livello e si addentrarono nelle sue strade tranquille e silenziose, più ampie rispetto a quelle del piano superiore.
L’albergo Liocorno era noto in tutto il Mondo Profano per essere il più sontuoso e regale in assoluto, tanto da poter far invidia al divino Al in persona: non a caso era stato sempre scelto come alloggio momentaneo per i sovrani del Consiglio. Un’aria dorata e lucente lo circondava, completamente differente dall’ocra, dal rosso, dal marrone e dal nero degli altri edifici. L’entrata era ampia, tanto da permettere alle carrozze di entrare nel cortile interno, che conduceva ai corridoi degli appartamenti ed alla hall dell’albergo. Le pietre delle pareti non erano quelle tipiche dei Campi di Sangue, erano invece di un colore dorato e più malleabili delle altre. La placca che indicava il nome era in oro ed aveva inciso un unicorno che galoppava con i crini al vento.
La comitiva entrò nel cortile e fu accolta da servitori in livrea, eleganti e garbati, che aiutarono le donne a scendere da cavallo e presero i bagagli per portarli all’interno dell’albergo.
Johan non abbandonò la sua cavalcatura e, non appena un servo prese il portagioie contenente il Myurohon prigioniero, lo intercettò e lo caricò sul suo cavallo. Il ragazzo lo fissò perplesso, ma riprese a fare il suo lavoro senza porre domande.
Il comandante attese di vedere Alexya accompagnata di Marihus far il suo ingresso nella hall e tornò in strada, diretto al terzo livello, alla ricerca di un negromante che potesse uccidere lo zombi. Il suo lavoro, per ora, lo aveva terminato. Un maggiordomo era più utile di un rozzo soldato nel parlare con gente raffinata come quella del Liocorno.

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Minidizionario Maholhan-Italiano:

(1) Lahat: luce
(2) Ojha-vuls Alexya!: voglio vedere Alexya!

Ciao! Per chiunque sia arrivato sino alla fine, grazie!
Spero non sia stata una lettura pesante o noiosa, soprattutto perchè non accade tanto in questo capitolo ed è più introduttivo.  
Credo di aver trovato e corretto tutti gli errori, ma nel caso ve ne siano perdonatemi (ed indicatemeli, così li correggo ;]).
Per qualsiasi informazione o dubbio, chiedete pure!

Kanako
   
 
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