Serie TV > Da Vinci's Demons
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Autore: _armida    31/08/2015    1 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo VI: La Biblioteca
 
Il mattino successivo…
 
Elettra stava percorrendo i lunghi corridoi di Palazzo della Signoria.
Fabrizio, uno dei camerieri più fidati dei Medici, era entrato poco prima nel suo studio, informandola che la Signora la desiderava nei suoi appartamenti. Cosa aveva di così importante Clarisse da comunicarle? Era preoccupata e non poco…
Mentre camminava, circondata da magnifici fregi e costosissimi arazzi, accompagnata solo dal ticchettio dei suoi stivali sul marmo, Elettra ripensava agli avvenimenti della sera prima.
 Aveva spiegato a Leonardo tutto, anche i dettagli più irrilevanti, di quello stranissimo sogno. L’altro l’aveva ascoltata pazientemente, annuendo qua e là. Dopodiché avevano entrambi convenuto che un’esplorazione nella casa di famiglia dei Becchi era d’obbligo. Sarebbe stato difficile, molto difficile, ma la ragazza non poteva tirarsi indietro proprio adesso. Ne andava della vita di suo zio. Anche Leonardo aveva concordato, sul fatto che si fosse trattato di una specie di visione sul futuro.  
‘Il peggio può ancora essere evitato, se vi sbrigate’, le aveva detto Zenodoto. Doveva solo avventurarsi nella casa dei suoi genitori e cercare dei libri. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. E lo avrebbe fatto da sola.
Nonostante le rimostranze di Leonardo, che si era offerto di accompagnarla, lei sentiva che quello era un passo che doveva fare da sola, senza nessuno a tenerle la mano.
Dopo essersene andata dalla bottega di Da Vinci, era tornata a letto, ma aveva passato il resto della notte a rigirarsi tra le coperte, senza riuscire a prendere sonno. Inoltre, nonostante si fosse fatta ben due bagni, continuava a sentirsi addosso quell’odore di morte. Se, durante l’autopsia sul corpo dell’ebreo non si era resa conto del tanfo, lo aveva fatto poi  più tardi. Anche mentre raggiungeva gli appartamenti di Clarisse, lo sentiva. Probabilmente esso era solo nella sua testa perché tutti quelli con cui aveva scambiato qualche parola, quella mattina, non sembravano essersene accorti.
 
Finalmente era arrivata a destinazione.
Prese un lungo respiro e bussò.
Poco dopo una bambina dai lunghi capelli castani le aprì la porta; era Maddalena, la più piccola di casa Medici. Quando vide che era Elettra, alla porta, le si formò un grande sorriso sulle labbra e le fece segno di abbassarsi un po’; la ragazza ubbidì e lei le diede un bacio sulla guancia. Poi corse nel salottino, ridendo.
“Maddalena, dove sono finite le buone maniere?”, la rimproverò la madre, “Quando si ha un ospite alla porta bisogna riceverlo con i dovuti modi, per esempio dandogli il benvenuto e accompagnandolo dentro. Non lasciarlo sulla soglia e correre via.”
La bambina la guardò dispiaciuta, prima di sedersi su un comodo divanetto a fantasia floreale dalle tinte color pastello.
“Elettra venite pure”, disse sospirando Madonna Orsini. Era davvero dura insegnare la disciplina a quella bambina; non si ricordava di aver dovuto penare tanto, per le sue sorelle maggiori.
La ragazza entrò, trattenendo a stento una risatina e coprendosi la bocca con una mano, per nascondere il suo divertimento. “Buongiorno Signore”, salutò le donne di casa Medici.
Nella stanza, oltre a lei, Clarisse e Maddalena vi erano anche le altre due figlie di Lorenzo. Prima dell’interruzione, erano tutte impegnate a ricamare. “Clarisse, mi avete fatta chiamare?”, aggiunse.
“Si, spero di non aver interrotto nulla di importante”
“Nient’affatto”, provvide subito a dire Elettra; in effetti quella mattina non aveva assolutamente niente di importante da fare.
“Ne sono felice”, le disse con un largo sorriso, “Prego, sedetevi qui con noi un po’”.
A quelle parole Maddalena si sbrigò a rimuovere tutto quello che vi era sul divanetto, per fare spazio ad Elettra. Non l’avrebbe mai lasciata sedersi di fianco ad una delle sue altezzose sorelle.
Le due donne si sorrisero, avevano entrambe pensato la stessa cosa.
“Voi ricamate, Elettra?”, le chiese Maria, la più grande delle tre, quando si fu accomodata.
Stava per rispondere ma Maddalena la precedette. “Ti pare che Elettra sia avvezza a questi noiosi passatempi? A lei piace tirare con l’arco o infilzare i cattivi con la sua spada!”, nel mentre che parlava si alzò di scatto sul divanetto e, utilizzando il lungo ferro da ricamo come se fosse una spada, mimò qualche passo di scherma. Più il tempo passava e più, a palazzo, si rendevano conto del carattere frizzantino della piccola; assomigliava sempre di più a suo zio Giuliano.
Mentre le altre due bambine le tiravano occhiate piene di astio, Elettra e Clarisse se la ridevano di gusto.   
“Bene, direi che sia arrivato il momento di spiegarvi il motivo della convocazione” le disse la Signora, ricomponendosi. “Vorrei invitarvi da noi a cena, stasera. Chiamiamola ‘riunione di famiglia’”, sul suo volto comparve nuovamente quel largo sorriso. Adorava quella ragazza ed era una delle sue più grandi sostenitrici; per lei, cresciuta nella rigida Roma, dove ad una donna non era quasi neanche permesso uscire di casa da sola, vedere Elettra, così indipendente e che sapeva benissimo destreggiarsi tra campi solitamente considerati ‘maschili’, era importante. Anche se a volte aveva delle riserve, su alcuni suoi comportamenti, in quei grandi occhi azzurri vedeva il futuro di Firenze. Un futuro fatto di modernità e pari diritti. 
 “Non mi pare di avervi ringraziato abbastanza, per quello che fate per noi. Se questo carnevale è stato un successo e noi siamo ancora qui, è solo merito vostro. Visto che presto non avremo un attimo libero, ci conviene festeggiarvi oggi” continuò.
Elettra non sapeva davvero cosa rispondere. Quella sera proprio non poteva permettersi distrazioni.
“Mi spiace molto ma questa sera ho un impegno improrogabile… davvero, non posso”.
 
***
 
Quando era uscita dagli appartamenti di Clarisse, si era diretta subito nel suo studio. Erano ore che non ne usciva.
Bussarono alla porta.
“Avanti”, disse Elettra sentendosi improvvisamene stanca; erano notti ormai che, per una storia o per l’altra, dormiva veramente poco. Oppure non dormiva affatto. 
“Non ti ho vista oggi a pranzo, tutto bene?”, chiese Giuliano leggermente preoccupato.
“Mi sono fatta portare qualcosa da mangiare qui”, gli rispose indicando un vassoio vuoto, poi tornò ad osservare le carte che vi erano sul tavolo. Si trattavano di  documenti riguardanti la costruzione della biblioteca Cosimo de Medici. Essendo che era il primo vero progetto che Elettra faceva tutto completamente da sola, Andrea Verrocchio si era offerto di darle una mano, controllando che non vi fossero errori. La ragazza, stava appunto guardando le correzioni che il suo maestro aveva apportato qua e là. Avrebbe presentato il progetto a breve, in una seduta pubblica che si sarebbe tenuta nel duomo.     
“Che impegno hai stasera di così importante?”, le chiese Giuliano con un tono leggermente seccato, “Spero che non vorrai combinarne una delle tue…”.
Elettra si limitò a guardarlo ed alzare le spalle. Poi rimise la testa fra quelle scartoffie.
“Io non so cosa ti passa per la testa in questi giorni, ma sei strana. Più del solito!”, sbottò il de Medici.
“Non ho niente, davvero”, rispose lei poco convinta. In realtà, se avesse potuto dirgli qualcosa, non avrebbe neanche saputo da che parte cominciare.
“E’ ancora per la storia di tua madre? Per favore dimmi che non è così!”
Giuliano aveva centrato il punto. Elettra si limitò ad annuire piano.
L’altro sospirò. “Cos’hai in mente?”, le chiese rassegnato. Quando quella ragazza si metteva qualcosa in testa, era impossibile farle cambiare idea.
“Stasera andrò a fare un giro a casa dei miei. Ho bisogno di risposte.”. La sua voce era quasi un sussurro.
“Vengo con te”
“No”
“Si, invece! Non puoi farcela da sola, starai male appena metterai dentro un piede.”
“Posso farcela”
Giuliano sospirò di nuovo, frustrato. “Però prima verrai qui per cena, non durerà molto. Me lo devi, Elettra.”
Questa volta fu lei a sospirare rassegnata. “Te lo concedo”.
Il de Medici uscì da quello studio vittorioso. Clarisse ci aveva visto giusto, a mandarlo là per convincere Elettra.
 
***
 
La cena era stata molto informale e Clarisse aveva avuto ragione, a definirla ‘riunione di famiglia’; era stato davvero come cenare con i proprio famigliari, ridendo e scherzando allegramente con un buon bicchiere di vino in mano. Era una sensazione che Elettra non provava da tempo, quella di avere una famiglia. Prima di allora, non aveva mai fatto caso che i Medici la consideravano come se fosse sangue del loro sangue. Sperava di rifarlo, a breve.
Nonostante le rassicurazioni di Giuliano, sul fatto che sarebbe stata veloce, ormai era quasi l’ora del coprifuoco.
Elettra si trovava davanti al portone di ingresso dell’edificio dove aveva vissuto con la sua famiglia, prima che quella tragedia la disgregasse completamente.
Per non dare troppo nell’occhio e poter sgusciare indisturbata tra le tenebre, si era vestita completamente di nero; anche il pesante mantello che portava, con tanto di cappuccio abbassato sul volto, per non renderlo visibile, era del colore della notte.
Non aveva le chiavi, per entrare. Probabilmente, l’unico che ne era in possesso, era il guardiano, che ogni tanto andava a fare qualche veloce sopralluogo; giusto per controllare che nessuno si fosse intrufolato per rubare. Senza di esse, alla ragazza non restava altro che forzare la serratura.
Prese alcune forcine che teneva di scorta affrancate alle maniche della camicia e le inserì nella toppa; dopo alcuni movimenti sentì lo scatto. Ora non doveva fare nient’altro che entrare e trovare quei maledetti libri.
Così presa da quello che stava facendo, non si era nemmeno accorta dell’ombra minacciosa che di trovava alle sue spalle. Si accorse della sua presenza solo nell’attimo in cui una mano guantata le premette sulla bocca, per impedirle di urlare.
Con un movimento fulmineo, che il suo aggressore non poté neanche vedere, estrasse il piccolo pugnale che teneva nascosto in uno stivale e, con una mossa da manuale, riuscì a far voltare l’uomo, facendolo finire con le spalle al muro e con quell’affilatissima lama premuta contro il collo.
Solo in quel momento, decise di guardarlo in faccia.
“Giuliano, cosa stai facendo?!”, gli disse rinfoderando il pugnale, “Avrei potuto farti veramente male!”
“Wow, Filippo ha cresciuto un soldato, non una dama dell’alta società!”, le rispose l’altro con il fiato corto. Respiravano entrambi affannosamente, per la paura e l’adrenalina in circolo.
“Cosa ci fai qui?”, gli chiese a bassa voce, per non farsi udire dal vicinato. Come se non avessero fatto già abbastanza casino prima!
“Ti do una mano, mi sembra chiaro, no?”
“Ti avevo già detto che l’avrei fatto da sola”
“Non puoi farcela, non senza qualcuno al tuo fianco”, ribatté lui con una voce che aveva un che di dolce e premuroso.
Elettra si limitò a sospirare e ad aprire il grande portone dell’ingresso che, nonostante tutta la sua attenzione, cigolò in modo alquanto sinistro.
Entrarono.
Appena messo piede dentro, per Elettra, fu come essere investita da una folata di vento gelido. Un vortice di orribili sensazioni la colpì, impedendole non solo di fare un qualsiasi movimento, ma anche di respirare. Strinse forte la mano di Giuliano che si premurò di ricambiare velocemente quel gesto, stringendola ancora più di quanto aveva fatto l’amica. ‘Va tutto bene. Io sono qui con te. Non sei sola’, pareva dirle.
A Elettra, entrare in quella casa, sembrava averle risvegliato i pochi ricordi della tragedia che le erano rimasti. Sentiva le urla di sua madre e di Lucrezia, mentre quei briganti le raggiungevano, e aveva la sensazione di essere ricoperta di sangue, proprio come quel giorno. Poi un immagine, molto rassicurante, le comparve davanti agli occhi: il caldo sorriso di suo zio. Era stato lui, a ritrovarla, nascosta in un fosso. L’aveva presa in braccio e riportata a casa, continuando a ripeterle che ormai era al sicuro; l’aveva fatto finché non si era addormenta su una sua spalla, cullata da quel caldo e rassicurante abbraccio. Da quel momento le era sempre stato vicino, nel bene e nel male.
Doveva essere forte. Doveva farlo per lui. Per restituirli, almeno in parte, il favore.
Prese un lungo respiro e finalmente mosse un passo in avanti, osservando l’ampio atrio della casa: non era cambiato niente, dall’ultima volta che l’aveva visto; i mobili, seppur coperti da lenzuoli bianchi e spessi strati di polvere, erano nello stesso identico posto.
La scenografica doppia scalinata in marmo, che portava ai piani superiori, era esattamente come se la ricordava; con quei stupendi corrimani in ferro battuto con i particolari in oro colato che Andrea aveva accuratamente progettato. Ne accarezzò uno, timorosa, come se esso potesse scomparire sotto i suoi occhi da un momento all’altro. Le riportò alla mente le tante volte in cui, insieme ad Aramis e Lucrezia, scivolava lungo uno di essi, facendo a gara a chi fosse il più veloce.
“Questa casa è immensa, non possiamo perlustrarla tutta.”. La voce di Giuliano la riportò alla realtà.
“Ma cosa stiamo cercando esattamente?”, aggiunse. Ovviamente Elettra si era dimenticata di dirgli il vero motivo per cui erano lì.
“Dei libri”, gli disse mentre saliva i primi gradini.
“Dei libri?! E tu mi hai fatto venire qui per dei semplici libri?! Esistono le librerie e le biblioteche e Firenze mi pare sia pure ben fornita! Non c’era il bisogno di intrufolarsi illegalmente qui!”
“Quello che stiamo cercando non lo puoi trovare in una qualunque libreria o biblioteca”, gli rispose in tono serio.
“Quindi siamo diretti nella biblioteca dei tuoi?”, le chiese seguendola su per le scale.
“Non penso mia madre tenesse quel genere di libri in bella vista nella biblioteca”.
Ormai avevano raggiunto il primo piano ma passarono oltre, continuando a salire.
“Qui ci sono gli studi dei miei e alcune delle camere degli ospiti”, gli disse a mo’ di spiegazione sul perché erano andati avanti, senza fermarsi un attimo.
“Qua, invece, ci sono gli appartamenti dei padroni di casa e altre stanze per gli ospiti. Ci torniamo dopo”, spiegò mentre si superavano anche il secondo piano.
Arrivarono infine al terzo piano. Oltre quello vi era solo la soffitta, vuota.
“Le nostre camere erano qui”. Traspariva una nota di malinconia, dalla sua voce.
“Questa era di Aramis”, disse, indicando la prima porta sulla destra. Abbassò lentamente la maniglia ed entrò: anche quella stanza era rimasta esattamente uguale. Era arredata in modo molto minimalista, con solo il necessario; proprio come suo fratello aveva voluto. Vi erano alcuni armadi, uno scrittoio, una piccola libreria contenente soltanto volumi riguardanti la religione e un letto con la spalliera di legno intagliata. Le sembrava quasi di vederlo, chinato sul suo scrittoio a leggere la Bibbia. Aveva sempre voluto avviarsi alla carriera ecclesiastica ed ora, vescovo a Roma, era l’uomo più felice del mondo. Nonostante Elettra non riuscisse proprio a capirlo, le mancava moltissimo.
“Andiamo, qui non c’è niente”, disse uscendo.
Proseguì lungo quel corridoio, entrando poi nella camera successiva.
“Lucrezia”, disse semplicemente, una volta all’interno.
La stanza presentava un intricato motivo floreale che partiva dalle pareti e poi si rifletteva sui delicati mobili in legno di rovere. Era mite e delicata, proprio come la bambina a cui apparteneva.
Giuliano ormai aveva capito che anche su quel piano non vi era quello che stavano cercando ma non disse nulla. Sapeva esattamente perché erano lì.
“Non avrei mai pensato che anche a distanza di otto anni, lei mi mancasse come il primo giorno”. Gli occhi di Elettra erano lucidi.
Giuliano la strinse forte a sé; non riusciva neanche ad immaginare come potesse essere doloroso perdere un fratello una sorella.
Lo sguardo della ragazza fu però catturato da un vecchio foglio di carta ormai ingiallito; sulla sua superficie vi era un leggero disegno a matita. Nonostante la linea fosse ancora incerta, era di straordinaria bellezza.
“Questo ritratto di Lucrezia l’avevo fatto pochi giorni prima che comparisse. Le era piaciuto così tanto che aveva deciso di appenderlo sul muro, in bella vista”, sulle sue labbra era comparso un malinconico sorriso. Già a dieci anni, si poteva intuire il grande potenziale di Elettra, in campo artistico. La ragazza lo staccò delicatamente dalla parete e se lo mise in tasca. Poi si diresse verso l’armadio, aprendolo; al suo interno vi erano una marea di vestiti, troppo piccoli per una donna adulta, ma perfetti per una bimba di dieci anni. Ne prese uno di broccato azzurro, con dei sottili ricami tono su tono, portandoselo al viso: poteva quasi sentirlo ancora, il profumo del sapone alle mandorle e miele che la mamma le faceva usare da piccole.
“Era il suo preferito”, spiegò a Giuliano mentre lo riponeva al suo posto.
Dopodiché uscirono, richiudendo delicatamente la porta.
C’era ancora una stanza, che non avevano visitato, in fondo al corridoio. Era quella di Elettra.
“Possiamo tornare indietro, ora”, disse lei.
“ Eh no. Mi hai fatto fare il giro delle camere degli altri. Ora sono curioso di vedere la tua”. Giuliano moriva dalla voglia di rimetterci piede, era l’unico posto della casa che si ricordava ancora perfettamente.
Elettra sospirò, accompagnandolo dentro di mala voglia.
Era decisamente il luogo più in disordine della casa: vi erano fogli scarabocchiati sparsi ovunque, anche sul pavimento, ed inoltre vi erano qua e là strani modellini, alcuni carta, altri di legno e altri ancora di gesso. Anche se ormai erano passati diversi anni, il modo di fare di quella ragazza, non aveva subito grandi variazioni.
Mentre il giovane de Medici ridacchiava tra sé e sé, perso in chissà quali pensieri, l’attenzione di Elettra fu catturata da un piccolo oggetto di forma rettangolare, di metallo, decorato con pitture raffiguranti scene di via comune di popoli lontani.
“Se giri questa manovella, esso produce musica. Mio padre me lo regalò di ritorno da uno dei suoi strampalati viaggi intorno al mondo. Credo venga dalla Cina.”, disse mentre lo metteva in funzione. Una dolce melodia si diffuse per la stanza. “Non credevo che fosse rimasto qui per tutto questo tempo… pensavo di averlo perso. Meglio così!”. Per la prima volta in quella notte, sul suo volto comparve un sorriso sincero. Felice.
“Un altro souvenir da portare a casa?”, scherzò Giuliano, al vederla mettere in tasca anche quello.
Una volta usciti, si diressero al piano sottostante.
“Quello che cerchi potrebbe trovarsi nell’appartamento dei tuoi?”, le chiese guadandosi intorno dubbioso.
“ Non penso, credo che li abbia nascosti in un luogo dove nessuno sarebbe andato a ficcanasare”
“Allora passiamo oltre e andiamo diretti nello studio di tua madre. È il luogo più plausibile”
Elettra questo lo sapeva fin dall’inizio. Ma quel posto era quello che temeva di più in tutta la casa. Nella sua mente era ancora viva l’immagine di quella porta, sempre chiusa. Solo Lucrezia aveva il permesso di entrarci liberamente; lei ci passava le giornate, là dentro, con Anna. A differenza degli altri due figli, che venivano istruiti da Gentile Becchi, Anna aveva deciso di essere lei  personalmente, l’insegnante di Lucrezia. Quella porta si apriva per Elettra solo quando ne combinava qualcuna. E non era mai piacevole.
Fece per entrare ma ovviamente la porta era chiusa a chiave. Se l’aspettava. Prese due forcine e le inserì nella toppa; in un attimo la serratura scattò e i due giovani poterono entrare.
“Posso sapere dove hai imparato, a fare certe cose?”, le chiese Giuliano con un misto di preoccupazione e timore nella voce.
“Papà perdeva spesso le chiavi, ho imparato da lui.  Ma negli ultimi tempi ho affinato la tecnica”, disse lei scherzosamente.
Anche quella stanza era come se la ricordava: era scura e lugubre. Istintivamente Elettra si portò la mano dietro la schiena, nascondendola; come se sua madre potesse spuntare da un momento all’altro, con quell’odiosa bacchetta in mano. Una volta era per il vaso rotto, l’altra perché si comportava da maschiaccio, l’altra ancora perché si ostinava a scrivere con la sinistra… c’era sempre qualcosa di sbagliato, in lei, agli occhi di Anna.
“Direi che qui ne hai di libri da scegliere”, le disse Giuliano riportandola alla realtà. In effetti le pareti erano completamente occupate da scaffali in legno scuro intagliati e decorati con scene di paesaggi.
Elettra si guardava intorno, pensosa. A prima vista, non vi era niente di strano in quella stanza.
‘State attenta agli indizi lasciati solo per voi’, le aveva detto il Turco. Eppure a lei quello sembrava un normalissimo studio.
‘Ricordate le parole che vi hanno insegnato’, le sembrava di sentire la voce di Al-Rahim, riecheggiare tra quelle mura.
“Le parole che mi hanno insegnato…”, rifletté ad alta voce, “…Cosimo!” urlò.
Giuliano la guardò stranito. Che fosse impazzita davvero, questa volta?
Elettra intanto aveva cominciato ad osservare la stanza con occhi diversi: il soffitto affrescato con un cielo notturno, il paesaggio arido rappresentato sul legno, il fiumiciattolo che scorreva lungo le scaffalature… ne seguì il corso con la punta del dito, finché non scomparve dentro un piccolo calice in rilievo. Senza pensarci due volte lo premette e questo affondò nel legno, facendo scattare il meccanismo nascosto al suo interno.
Una parte della libreria ruotò, mostrando una piccola apertura. Entrarono.
Lo spazio, la dentro, era davvero angusto, due persone ci stavano davvero strette.
Giuliano lo illuminò con la lanterna che teneva stretta in mano. Ovunque posasse lo sguardo vi erano libri dall’aria antica e parecchio vissuta, pergamene arrotolate e strane tavolette d’argilla.
Guardò confuso la ragazza; lei gli avrebbe spiegato tutto più tardi.
“Sono figlia della terra e del cielo stellato, di sete sono arsa. Vi prego, fate che io mi disseti alla fontana della memoria”, disse Elettra felice.

Nda
Tra poco si entrerà nel vivo della storia. Nel prossimo capitolo Elettra farà conoscenza con il Conte; sarà un incontro piacevole? Non vi resta che leggere. Da qui in poi ci sarà da divertirsi. Almeno, io mi divertirò parecchio a scrivere. 
 
   
 
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