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Autore: G K S    08/11/2015    2 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- minuscolo spazio autrice -
in questo capitolo succederà qualcosa di molto bello e qualcosa di molto brutto
non voglio anticiparvi altro ma vorrei sapere il vostro parere riguardo questi avvenimenti eheh

 







21. Coraggio


Lui si ricorda di te, lui ti ha vista, come tu hai visto lui, non c’è alcuna differenza, è così; no, sta zitta, non pensarlo, perché devi sempre pensare, smettila, smettila, smettila, come puoi credere che sia possibile, come puoi solo pensare di approfittarti della debolezza altrui, non devi pensare, non pensare, taci.


A Kell girava la testa mentre metteva in ordine lo scrittoio, doveva andare a terapia dalla Strins, tra circa 4 minuti, se solo avesse avuto il coraggio di andare da Jeh dopo quello che lui le aveva detto, si sentiva smascherata, un po’ tradita, sentiva di traboccare di espressioni non consone.
Non sarebbe servito a niente comunque, non sarebbe mai riuscita a concludere con lui, meglio metterci una pietra sopra prima di rendersi conto di aver immaginato troppo.
Era immeritevole, aveva detto a Emeric che con un po’ di fortuna avrebbero potuto incastrare anche Nikki oltre che Rang, era immeritevole.
Troppe ombre, le ombre sono troppo cupe unite con le loro simili. Era immeritevole.
Gli stava mentendo, gli aveva sempre mentito sulle sue intenzioni e sui suoi sentimenti, fin dall’inizio aveva scelto di mettere da parte la verità e continuava a farlo conscia del fatto che non c’era altra via d’uscita se non smetterla.
Prese una felpa dal suo armadio e senza pensare minimamente all’accostamento del colori, se la infilò dalla testa, subito dopo uscì dalla porta, un minuto dopo non ricordava neanche com’era vestita, abbassare lo sguardo era cosa noiosa.
La Strins la accolse sorridente, Jeh fece il suo ingresso circa mezzo minuto dopo, sorridendole prima di sedersi e di ascoltare la psicologa cominciare a sproloquiare su sentimenti e reazioni.
Kell riuscì a non parlare per l’intera ora; la seduta si era concentrata su Bernadette e Michael ma a un certo punto qualche parola del ragazzo irritò la Strins che si alzò in piedi e cominciò a girare attorno al cerchio di sedie: «Ora che Nikki ha accusato Allord di aver commesso l’omicidio non possiamo fare altro che inchinarci all’idiozia di questa situazione ridicola, Nikki Mason marcirà in un riformatorio e poi in prigione per il resto della sua inutile vita.»
«Qualcuno potrebbe denunciarla.» Alice abbassò il tono di voce finendo la frase ma questo non bastò a evitare che la Strins la sentisse, saltasse in piedi e minacciasse di portarla dal vicepreside, probabilmente solo una scusa per chiudere la seduta con dieci minuti d’anticipo, proprio quello che ci voleva per Kell vista la situazione.
Appena la Strins fece segno di andare via prese Jeh per la manica del suo maglione verde e lo trascinò fuori dalla classe: «Devo parlare con la Urlik.»
Era d’accordo con lei, per questo si fiondarono subito in camera sua, prese il cellulare dal fondo del cassetto e alla svelta compose il numero.
«È tutto vero?»
La Urlik le rispose per prima cosa con un sospiro.
La sentì frugare in un paio di cassetti, attirò la sua attenzione un altra volta, mentre Jeh si sedeva di fianco a lei sul letto per ascoltare la conversazione.
«Cosa?» Quel tono forzato da finta tonta non le piaceva.
«Sai benissimo cosa.» 
«La ragazza ha accusato Emeric, sì, è vero se è questo che intendevi.»
«Era quello che intendevo, esatto, e ora?»
«E ora aspettiamo.»
«Non puoi dirci cosa sta succedendo, cosa si pensa?»
«Nessuno pensa che sia stato Emeric, se vuole confessare qualunque cosa è il momento giusto, gliela scuseranno.»
«Non deve confessare un bel niente.»
«E allora prega che la richiesta di Nikki non venga accolta ma non ci giurerei…» Ecco, stava arrivando alla verità: «Anche Rang ha indicato Emeric come testimone oculare e quindi, come minimo di persona informata dei fatti, e Nikki dice che è stato lui, è tutto molto confuso.»
«Ma le credono? Credono a Nikki?»
«Non lo so, non credo… stanno rileggendo tutte le testimonianze e tutte le deposizioni, è complesso non è una sola persona a decidere, devi avere pazienza Kellan.»
Pazienza, unica colpa, unica distrazione.
Riattaccò dopo un paio di minuti di chiarimenti superflui; Jeh la guardava interrogativo, con gli occhi stanchi: «Davvero.» Cominciò: «Credo che dovremmo rilassarci tutti, soprattutto tu.» Si stese sul suo letto, molto tranquillamente, facendole segno di venire a fianco a lui.
Solo in quel momento, guardandolo sotto quella luce frontale Kell notò le occhiaie di Jeh.
Appoggiò la testa al cuscino, coperto dal copriletto: «Non riesci a dormire?» Non avrebbe dovuto ma infilò una mano sotto il suo collo spingendolo verso la sua spalla, si appoggiò su di lei, alzò le spalle persino in quella posizione: «Oh? Pensi che dovrei?» Kell rise, sentiva i suoi capelli sulle labbra, se avesse voluto avrebbe potuto baciargli la testa.
Per un po’ rimasero così, a chiedersi cose a vicenda, aspettando lo scoccare dell’ora in cui sarebbero stati di nuovo chiusi nella stanza nera, anche se di certo senza paura.
Kell non riusciva a pensare a niente, eccetto al fatto che Jeh dormiva senza cuscino e se fosse stato per lui, se questo l’avesse convinto a venire da lei tutte le sere il suo l’avrebbe squarciato in due con un paio di forbici.
«Se non riesci a dormire perché non vieni da me?»
Jeh sorrise alzando lo sguardo, dovette abbassare di un po’ il mento per guardarlo negli occhi: «Mi stai chiedendo davvero perché non vengo mai a introdurmi in camera tua durante la notte?»
Kell aprì bocca per ribattere, forse l’aveva stretto troppo, o forse no vista la tranquillità del suo sorriso e della cicatrice incurvata leggermente a causa di una ruga d’espressione che adornava il suo sorriso.
La sua risposta oltre che dall’esaminazione della faccia di Jeh venne interrotta dal suono della campanella.
«Dobbiamo andare.» Disse Kell, dimenticò all’istante il resto della frase o magari di un eventuale risposta, perché Jeh la abbracciò schiacciandosi addosso a lei, ricoprendo il freddo da una coltre d’ombra, l’ombra che a lei piaceva tanto.
Staccarsi sarebbe stato un trauma, non sarebbe stata lei a separarsene, aspettò che trovasse lui la forza di alzarsi, a prenderle le braccia e tirarla su mentre brontolava che non aveva voglia di stendersi sul pavimento.
Anche Jeh era d’accordo, mentre salivano le scale lui le prese la mano, a Kell tremarono le sue, si sentì stupida, non significava niente, lui era fatto così, era affettuoso al contrario, era normalmente propenso a atti di dolcezza.
Non meritava neanche di pensare che certe cose fossero possibili, gli stava mentendo, un brivido le corse lungo la schiena, se Jeh avesse saputo delle sue bugie non le avrebbe neanche più rivolto la parola.
«Comunque dicevi davvero?» Le chiese seriamente arrivati davanti alla classe di terapia, si appoggiò al muro stiracchiandosi le braccia. 
Kell ne approfittò per scrocchiarsi le mani con cura anche per mascherare l’agitazione ovviamente.
«Riguardo il fatto di venire da te, magari io…»
«Certo che dicevo davvero.» Kell rise nervosamente.
«Okay, allora verrò.» Alzò le sopracciglia, allungò un braccio verso di lei, Kell lo prese e lo scosse, un po’ stremava, un po’ era esitante ma non importava.
La Strins aprì la porta.


La Strins li guardò di sottecchi: «Sono quasi di buon umore oggi.» Il che era tutto dire. «Vi suggerisco di non proferire verbo e filare silenziosamente nella stanza nera di vostra spontanea volontà.»
Kell e Jeh l’uno al fianco dell’altra filarono dentro, niente spinte, niente urla, niente momento in cui Jeh deve prendere una pillola per cercarla, niente panico, niente di niente.
Direttamente le loro schiene contro il muro, lo scatto della serratura chiusa, silenzio buio.
«Mi sento al sicuro.» Bisbigliò Kell, aveva lo sguardo stralunato, non poteva vederlo ma ridacchiò ugualmente sottovoce.
Come se fosse una cosa assolutamente normale Jeh appoggiò la testa sulle sue gambe rannicchiandosi un pochino, sbadigliò o almeno così a Kell parve di aver sentito.
«Perché ho l’impressione che questa storia stia per concludersi Jeh?»
«Quale storia?» Chiese lui senza muovere un muscolo.
«La stanza nera.»
Rise: «E’ finita da un pezzo, è finita da quando non ho più paura.»
«Sì, neanch’io.» Se sei con me.
Lasciò cadere la mano sinistra sul suo torace, respirò profondamente, sentì la leggera increspatura sotto i punti più profondi; Jeh sussultò lievemente.
«Cosa stai-» Scostò la sua mano con la sua spingendola verso il pavimento senza lasciarla.
«Non farlo… non voglio che tu capisca…» La sua voce era esitante.
«Che capisca cosa Jeh?»
«Quanto… quanto è lunga.»
La cicatrice.
Non le sembrò vero, c’erano cose che non poteva dirgli, cose che non gli avrebbe mai detto per proteggerlo o perché si sarebbe rifiutato di ascoltarle, ma la sua cicatrice non era una di queste.
«Lo so già.» Sussurrò, lo ammise come si ammette di aver rubato qualcosa di molto importate a qualcuno che ne necessita terribilmente.
Aveva la schiena contro il muro, dritta, Jeh con la testa sulle sue gambe, la sua mano spingeva quella di Kell a terra oltre il petto del ragazzo
Non ebbe alcun bisogno di divincolarsi dalla sua stretta; lasciò la sua mano, gliela passò per lo sterno, era magro, sentiva distintamente le costole sporgere, sentiva la cicatrice quasi come se fosse qualcosa di fisico, un entità a se, quello che li divideva come divideva il viso di Jeh.
Passata sopra le costole la sua mano si fermò, sotto quella più sporgente, l’ultima, Jeh sussultò e questa volta la sua reazione fu assolutamente comprensiva; saltò seduto e si voltò verso di lei, sbalordito, con gli occhi scioccati di chi non ha idea di come quando o perché.
«Come fai a saperlo.» Non era neanche una domanda, esigeva di sapere, forse era solo sbalordito, forse era arrabbiato, Kell non tolse la mano dal punto in cui la cicatrice finiva, palpabilmente, nonostante la maglietta era riuscita a percepire che quel punto lievemente circolare era proprio il punto in cui suo padre aveva deciso di affondare il coltello.
«L’ho sentita, quando ti abbraccio…»
Lì doveva essere davvero molto, molto brutta, non era rassicurante sapere che forse non l’avrebbe mai vista. 
Avrebbe dovuto esserlo? Cercò di illudersi che fosse quello che voleva.
Jeh si lasciò sfuggire un sospiro sconsolato: «N-non ci avevo mai pensato.» Kell rise leggermente: «Non credo che avresti dovuto preoccupartene.»
Probabilmente aveva pensato che poteva avergli infilato una mano sotto la maglia del pigiama mentre dormiva, Kell sorrise all’idea mentre Jeh le si abbandonava addosso più tranquillo, oppure che potesse aver guardato…
Se era sbagliato mentire a se stessa e dirsi che non aveva neanche mai pensato di fare alcuna delle due cose allora lei non aveva alcuna intenzione di farlo.
«Quindi lo sanno…»
«No.» Disse subito Kell, parlare a bassa voce le metteva ansia, più quanta non ne avesse già: «Cecely mi ha detto che non lo sa, forse non ci ha mai fatto caso e Victor, dubito fortemente che abbia mai desiderato di scoprirlo.»
Jeh soppresse una risata nell’incavo del suo collo, lo sentiva per metà sulla pelle: «Mentre tu si, tu devi sempre accorgerti di tutto.» «Riguardo te.» Aggiunse Kell.
«Devi sempre vedere tutto.» «Che riguarda te.» Aggiunse di nuovo Kell.
Nessuna risata, Jeh alzò la testa, sentì la guancia del ragazzo con l’occhio di vetro, che aveva dimenticato avesse un occhio di vetro premere contro la sua.
Aveva il cuore letteralmente in gola; lo sentiva rimbombare nelle orecchie, pulsare nelle vene, scuotersi nelle dita che tremavano percettibilmente; aveva paura che lui se ne accorgesse, al buio, che percepisse il rossore persistente sulle sue guance sempre pallide, quel calore così prepotente e impossibile da nascondere contro il quale c’era la sua pelle, fredda, quasi ghiacciata.
Era immobile, ferma, tremante, vulnerabile nel buio totale della stanza nera, forse avrebbe voluto vedere i suoi occhi, forse sarebbe stato peggio; lui si mosse, strinse le sue gambe verso di lei incurvandole leggermente, Kell reagì senza poter fare niente per fermarsi, assecondando i suoi movimenti, per stare più vicini, ancora più vicini.
Si accorse che la guancia che aveva sulla sua era quella senza cicatrice quando Jeh si staccò, si lasciò scivolare sul suo collo e poi come se quello che stesse facendo avesse una logica spostò l’altra guancia, quella ferita su l’altra di Kell, ancora più calda dell’altra che la sua aveva raffreddato.
Sentiva la cicatrice sulla sua pelle, sentiva di non sapere più esattamente cosa pensare, incerta se aggrapparsi a lui o no riuscì a tirare dentro un respiro profondo per riprendersi.
Era una specie di abbraccio più solido, con la sua guancia appoggiata sulla sua per sottolinearlo, non significava niente, era ridicolo si accorse mentre lo stava pensando, era ridicolo che non significasse niente, era ingiusto che non significasse niente.
Assolutamente assurdo che lei volesse fare qualcosa, in quell’esatto momento e non potesse farlo, per mancanza di coraggio, perché ci sarebbe stato un dopo, perché avrebbe portato a delle conseguenze, perché Jeh era per natura una persona affettuosa al contrario di come si potesse credere e quindi quello che stava facendo, abbracciandola fermamente tenendogli stretta la vita poteva essere semplicemente un abbraccio e non una disperata richiesta di aiuto.
Si domandò se aveva il coraggio, si rispose che ne aveva; si domandò cosa stesse pensando di fare dopo che si era detta che Jeh era troppo attaccato a se stesso per aiutare sentimenti senza speranza come i suoi; si domandò come sarebbe stato se non si fosse fatta tutte quelle domande.
Spostò la testa di lato, senza lasciarlo, senza staccare la guancia dalla sua, di lato al punto di sentire il suo naso, il suo respiro, l’aria uscire e entrare senza sosta.
Voleva mettersi a urlare, voleva che lui urlasse, di smetterla, di fermarsi, di rendersi conto di ciò che stava facendo, di quello che avrebbe comportato, di cosa avrebbe potuto perdere.
Era affannato, il respiro di Jeh, come se avesse paura, aveva gli occhi chiusi mentre Kell li aveva aperti, sentiva il suo naso, si spostò ancora, scivolando più in basso, tremava davvero, ora, tremava al punto da non capire se anche lui stesse tremando.
Sentiva sulla pelle uno spicchio della sua bocca; ed era male fisico, male interiore, celebrale, mentale, era doloroso, quella paura la stava squarciando in due, prepotentemente, chiaramente.
Ancora, si spostò ancora, senza mai smettere di toccarlo, sperando con tutta l’anima che avesse capito che stava cercando di chiedergli il permesso senza sillabarlo a voce.
Represse le lacrime con una brutalità non sua quando sentì sulle labbra il bordo delle labbra di Jeh.
Il suo respiro, il suo profumo, così simile al suo da sembrargli cristallizzato in un attimo di tempo le inondava il cervello.
Era impossibile che non avesse capito, impossibile che non si stesse rendendo conto, impossibile che quella non fosse una risposta alla sua richiesta di permesso.
Jeh aveva gli occhi chiusi, lo sentiva. Li chiuse anche lei.
Socchiuse le labbra, spostò leggermente la testa di lato e delicatamente, come se avesse avuto paura di fargli male, toccò le sue labbra con le sue, piano, tremando dalla testa ai piedi, accorgendosi sentendolo mentre gli si stringeva addosso che anche lui stava tremando. Lo baciò solo dopo, quando sentì reagire a quel lievissimo contatto, si aggrappò alla sua nuca, lo spinse verso la sua testa e solo allora lo sentì mentre affondava un bacio… o forse era lei ad averlo fatto, non lo sapeva.
Aveva il coraggio, questa volta si, ce l’aveva.
Aveva bisogna di aggrapparsi ad ogni dettaglio, ogni più piccola inceppatura, erano labbra nuove, carnose, esitanti, fresche ma al tempo stesso  martoriate, morbide, corpose, soffici ma al tempo stesso sensibilmente ferite, mordicchiate. Morse il labbro inferiore, si accorse di averlo fatto solo dopo averlo fatto, sentì la bocca di Jeh incurvarsi in un leggero sorriso, le sue mani accerchiarono il suo viso, sentiva le sue ciglia, lunghe, sulle sue guance.
Sentiva imbarazzanti e fragili scocchi ogni volta che si staccava e poi riprendeva a baciarlo oppure lui a baciare lei.
Stretta nel buio a lui, non le sembrava neanche di essere se stessa, ne in quel posto, ne in quel mondo.
Sentiva Jeh e basta, una delle sue mani lasciò la schiena del ragazzo, finì sulla sua guancia, sul suo occhio, sulla cicatrice, sul suo collo, e lui la stringeva di più e la baciava più a fondo, come se volesse dirgli che aveva il suo consenso e poteva toccarlo.
La porta della stanza nera scattò in avanti, senza che lei si accorgesse di niente o che Jeh riuscisse a fermarsi prima di lei la Strins era nella stanza nera.
Cacciò un urlo, solo a quel punto spalancò gli occhi e la vide accerchiata dalla luce, Jeh sconvolto, con le guance arrossate quanto le labbra spalancò la bocca sconvolto, scostandosi da lei come se fosse lei la Strins, come se lei l’avesse costretto.
La professoressa dal canto suo, ovviamente scoppiò in una fragorosa e derisoria risata: «Fantastico, avete trovato il coraggio di confessarvi il vostro amore l’un l’altro, davvero lodevole.» Annuì continuando a ridere rumorosamente, poi come se le avessero dato una botta in testa smise di ridere.
La Strins fece una faccia talmente brutta che Kell si ritrovò a non sapere dove guardare: «Siete rivoltanti.» Disse.
Prese Jeh per un braccio e lo sollevò da terra: «NON NELLA MIA AULA DA TERAPIA DI ESPOSIZIONE.» 
Se possibile Kell si sentì arrossire ancora più di prima, venne presa e spinta fuori dalla porta come Jeh se non peggio.
La Strins acquistò un colorito violaceo: «CHIARAMENTE SIETE BANDITI DA QUESTA ATTIVITÀ.»
Scoppiò a ridere di nuovo, Jeh la guardava a occhi sbarrati, impossibile coglierne le sfumature in quel momento.
«Avete superato la vostra fobia brillantemente.» Smise di ridere: «Lo scriverò nei vostri profili psicologici.»
Indicò di nuovo la porta, girò sui tacchi e raggiunse con un paio di falcate la sua scrivania.
Kell e Jeh si ritrovarono con la porta chiusa alle loro spalle.


Camminarono in silenzio fino alle scale, avrebbero dovuto scendere per incontrarsi con gli altri ma Kell voleva parlare prima di…
«Scusa.» Disse Jeh.
A Kell mancò il pavimento sotto i piedi: «Cosa…»
«Mi dispiace non avrei dovuto…»
Aprì la bocca per parlare, Kell ci provò davvero ma non uscì niente, poté solo ascoltarlo, guardarlo mentre sulle scale, lo sguardo basso, contrito, arrabbiato, deluso persino, scuoteva la testa. Il solito Jeh, terribilmente il solito Jeh interdetto e amareggiato di fronte a lei, freddo addirittura: «E’ stato un errore, un terribile errore, mi dispiace avrei dovuto rendermi conto subito di… ma non voglio lasciare le cose in sospeso.» Improvvisamente si accorse, era tutt’altro che freddo, era disperato, sconsolato, forse stava per piangere, Kell guardò l’occhio bianco, sì, c’era del sangue.
«Sarebbe la cosa più dannosa al mondo per te stare con una persona come me, tu meriti di meglio, meriti qualcuno di normale, con una faccia normale e un cervello normale, qualcuno che non venga fissato in pubblico, non me Kell, assolutamente, sarebbe assolutamente sbagliato, stupido, io sono sbagliato per te io…»
Kell abbassò lo sguardo, smise di guardarlo, si girò verso destra, poi verso sinistra, si trattenne con tutte le sue forze dallo scuotere la testa, respinse le lacrime, non poteva riuscirci, strinse gli occhi con tutte le forze che aveva.
«Non… non voglio che tu ti senta in colpa, Kell ti prego… è stata colpa mia, okay, non fare così.» Allungò un braccio verso di lei, incerto, si tirò indietro, Kell si allontanò, lo sapeva, avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto rendersi conto che non poteva essere così facile, non poteva andare bene, quando mai in vita sua qualcosa era andato per il verso giusto e basta, senza complicazioni? Mai.
Avrebbero dovuto mettersi a ridere una volta usciti fuori dalla classe della Strins, avrebbe dovuto prendergli la mano e poi l’altra, avrebbe dovuto baciarlo in corridoio davanti a tutti, fregandosene della Strins o di Sibille o di chiunque altro, sarebbe dovuta andare così, non in quel modo.
Si allontanò, non riusciva a parlare, aveva la gola talmente arida e secca da non riuscire neanche a inghiottire la saliva, non riusciva neanche a rendersi conto che l’aveva ricambiata, baciata e ora la stava respingendo con quegli occhi.
Doveva scappare da lui, allontanarsi da ciò che voleva, tornare a pensare: no, non farlo, ti prego, ti prego, ti prego non farlo, lui non ti vedrà, non riesce a vederti, non vuole vederti, nessuno può vederti, perché lui, perché, smettila di pensarci, smettila smettila smettila.
Kellan Hall prese fiato.
«Non preoccuparti Jeh, è tutto okay.» Si tirò su, lo guardò dritto negli occhi, annuì: «Mi dispiace non… non sarebbe mai dovuto succedere.»
La bocca di Jeh, ancora arrossata dai suoi morsi e dai suoi baci si aprì leggermente stupefatta: «Perfetto.» Disse: «Okay, va bene, sono felice che tu abbia capito.» 
Guarda, guarda la sua bocca, memorizza quelle increspature, gliele hai procurate tu, ti sei concessa questo, ti ha consentito di fare questo e ora lo sa, sa che non scherzavi, sa la verità, sai che non te lo permetterà più.


Scesero di sotto, come se niente fosse accaduto si sedettero l’uno di fianco all’altra mentre Cecely la guardava con gli occhi interrogativi.
«Kell stai bene? Sembri una cadavere.»
«Sì.»
Forse se lo sarebbe tenuto per se, forse non l’avrebbe detto a nessuno. 
Mai.
«Abbiamo finito con terapia nella stanza nera, la Strins ha scoperto che stiamo bene.»
Si levò un coro stupefatto di risatine e di applausi attutiti.
Kell non aveva il coraggio di guardarlo, ora nessun suono usciva dalla sua bocca, sorrise quando la guardavano, era tutto ciò che poteva fare, nascose le mani sotto il tavolo, tremavano.


  
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