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Autore: OnnanokoKawaii    16/11/2015    2 recensioni
La generazione dei Miracoli dieci anni dopo, alle prese con la vita e i suoi numerosi problemi, con lo stress, con i fallimenti.
Convivere con i sogni infranti o col peso della loro realizzazione sembra difficile e lo è ma a volte.... il destino ci mette lo zampino e... il passato torna ad essere presente....
E forse... anche migliore.
Quattro storie, otto personaggi in un mondo che spaventa se si è soli ma che si può affrontare se si è insieme.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Kiseki No Sedai, Taiga Kagami, Takao Kazunari, Tatsuya Himuro
Note: Lemon, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Midorima Shintarou e Kazunari Takao convivevano ormai da quasi due anni. Le esigenze e le necessità di entrambi avevano fatto sì che  due anni dopo la fine del liceo decidessero di prendere casa insieme. Durante gli anni universitari la loro routine era regolare e permetteva una normale convivenza.
Avevano i loro compiti, si dividevano, più o meno, le incombenze e le faccende; dividevano equamente l’affitto.
I problemi, se di problemi si poteva parlare erano nati, non tanto quando Midorima aveva finito gli studi e aperto il suo studio medico, ma quando anche Takao, leggermente in ritardo con gli esami, aveva iniziato a fare pratica in uno studio legale.
Non aveva più orari, a volte non rientrava nemmeno a dormire, non faceva la spesa e più volte si erano trovati con il frigo vuoto o con dentro solo mezzo limone.
La situazione era decisamente precipitata quando, facendo di corsa la lavatrice, il sonnacchioso neoavvocato, aveva infilato per sbaglio un calzino rosso insieme al carico delle camicie bianche. Al suo rientro dal lavoro Shintarou si era ritrovato sei camicie rosa.  
Da lì erano iniziate le prime avvisaglie di crisi. I primi litigi e le prime piccole incomprensioni.
Con il passare dei mesi le cose si erano fatte sempre più tese e i due ormai, pur vivendo sotto lo stesso tetto, non si rivolgevano più la parola.
Midorima quella mattina, vedendo che il suo coinquilino non aveva lavato le stoviglie della sua cena, se di cena si poteva parlare alle due del mattino, per ripicca accese il televisore a volume altissimo nella speranza di svegliarlo. Nessun segno di vita giungeva dalla stanza chiusa. In un impeto di rabbia afferrò la maniglia e aprì la porta con forza.
Si bloccò. Lui non c’era. Il letto era disfatto, tre paia di scarpe giacevano gettate disordinatamente sul pavimento insieme a cartelle, foto e fogli pieni di appunti scritti con la sua orribile calligrafia.
Non era rientrato? Poi si bloccò. Sì che era rientrato, aveva cenato e lasciato i piatti lì, in bella vista.
Ma aveva dormito?
Shintarou si interrogava ancora sui ritmi impossibili di Takao. Non era la prima volta che rientrava a notte fonda, ma era decisamente più raro che dopo una nottata di lavoro intenso, dovesse andare al lavoro al mattino presto.
Chissà come se la passava, era almeno una settimana che non lo vedeva in faccia. Sei giorni erano passati dalla loro lite più furiosa e non avevano più avuto occasione di riappacificarsi.
Non era la prima litigata che facevano, ma era decisamente la prima volta che passavano dei giorni senza che nessuno dei due cedesse e chiedesse scusa.
 Shintarou, non aveva intenzione di cedere, sapeva che non era un comportamento da adulto, ma era più forte di lui cercare di affermare la propria supremazia in ogni cosa.
Sin da quando erano ragazzini, al primo anno del liceo, lui aveva sempre contato sulla remissività e sulla gentilezza di Takao; anzi, diciamo che se era approfittato parecchio. Come quando lo aveva sfruttato facendolo pedalare come un dannato per farsi tirare sul quel vecchio carretto.
Sapeva che quel poveretto aveva le gambe in fiamme dopo pochi chilometri visto il suo peso e il peso del pianale del mezzo in legno massiccio, eppure non aveva voluto concedergli riposo.
Per orgoglio, o forse per paura di perdere la possibilità di osservarlo e studiarlo, il suo convivente non aveva sollevato nemmeno una lamentela. Era rimasto in silenzio, a prendersi i suoi improperi, a trasportarlo lungo le strade sotto al sole mentre il sudore gli inzuppava la maglietta.
Midorima lo aveva visto, lo sapeva, eppure non aveva fatto nulla per aiutarlo. Era più forte di lui.
Anche quando erano andati a vivere insieme per contenere le spese, la loro vita universitaria in facoltà diverse aveva fatto sì che le occasioni per affermare la sua supremazia fossero meno, quindi aveva cambiato modalità: lo aveva trasformato nella propria colf.
Non che gli facesse fare ogni cosa, ma i lavori ingrati, come stirare oppure lavare i piatti li lasciava sistematicamente a lui che,  senza mai lamentarsi, aveva svolto ogni incombenza.
Ora che lavorava non aveva il tempo di fare quasi nulla, figurarsi riuscire a star dietro alle pretese di uno come lui, eppure Shintarou continuava a pretendere, ordinare, richiedere senza voler cedere all’evidenza dei fatti: le cose erano cambiate e difficilmente sarebbero tornate come prima.
Sembrava una banalità, dover prendere atto che il proprio schiavetto personale avesse finalmente trovato un’occupazione migliore del compiacerlo ad ogni costo, eppure non riusciva ad accettarlo. Non poteva abituarsi.
In fondo, come poteva cambiare così in fretta dopo quasi dieci anni di routine stabile? No. Non lo accettava ed ecco perché trovava sempre un pretesto per litigare. Che fossero i piatti non lavati, o una camicia non stirata, lo attaccava, lo accusava, lo scherniva.
Sapeva che nonostante tutte le cattiverie, Takao  non avrebbe mai e poi mai ribattuto. Non lo faceva mai. Anche durante la loro discussione, che alla fine si era risolta in lui che urlava di tutto contro il povero malcapitato senza che questi aprisse bocca, era frustrato dalla sua mancanza di reattività.
Si ribellava al suo ruolo perché non aveva tempo per far tutto, e allora perché non aveva il coraggio di mandarlo al diavolo e dirgli di farsele le cose?
Lo aveva già scoperto, pur di fare quel che chiedeva, il suo coinquilino stirava di notte rinunciando alle poche ore di sonno che gli concedevano gli orari del tirocinio nello studio legale.
Midorima non sapeva come giustificare un tale comportamento. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato al punto di rottura, ma non riusciva proprio a comportarsi diversamente.
Lavò rapidamente il piatto e il bicchiere che erano nel lavello, si vestì di tutto punto e prendendo la borsa di pelle che gli avevano regalato gli unici amici che avesse mantenuto dai tempi delle medie, uscì nel freddo della mattina presto.
Prese una boccata d’aria frizzante. Eccolo lì, all’inizio di una nuova settimana di duro lavoro.
Non gli pesava trascorrere il tempo lavorando; era la strada che aveva scelto e quella stessa scelta gli aveva cambiato la vita per sempre congelando i rapporti con la sua famiglia, deteriorandoli, irreparabilmente.
Aveva sempre studiato sodo per orgoglio personale anche se suo padre aveva sempre pensato che lo stesse facendo per dargli soddisfazione; aveva scelto un liceo privato, una scuola d’élite  che era famosa per la sua formazione a tutto campo ma alla fine aveva deciso di deviare dal percorso che la sua famiglia, la potente casata dei Midorima, aveva deciso per lui: non era entrato alla facoltà di ingegneria, aveva scelto medicina.
Il suo sogno all’epoca, era quello di essere utile a tutti coloro che per amore dello sport, o schiacciati dalle pressioni della competizione, arrivavano a farsi del male.
L’idea di dover rinunciare al basket, quando era al liceo, era semplicemente spaventosa e sapeva che lo era per tutti coloro che gareggiavano con la passione e l’amore per lo sport nel cuore.
Voleva poter far qualcosa per loro.
Gli anni alla facoltà di medicina erano stati pesanti, aveva dovuto studiare sodo e soprattutto aveva dovuto mantenersi da solo gli studi perché la sua famiglia aveva voluto prendere le distanze dalla sua scelta nella speranza che cambiasse idea e si ravvedesse. Poveri illusi, lo conoscevano davvero poco.
Lui non faceva le cose a caso, Lui non provava a fare le cose.
Se l’oroscopo era favorevole, lui riusciva. Era semplicemente così che doveva andare.
Aveva lavorato sodo per riuscire a pagarsi la migliore università di Tokyo e i suoi sforzi erano stati ben ripagati. Si era laureato e, grazie ai risparmi di quei cinque lunghi anni, era riuscito ad aprire un piccolo studio ortopedico che offriva consulenza gratuita agli studenti dei club sportivi.
Era così cominciato un periodo frenetico di organizzazione, contatti, strette di mano, consulenze e appuntamenti. Era stato completamente assorbito da quella routine magnificamente completa senza mai pensare a chi, in silenzio, si occupava di tutto il resto anche durante i fine settimana quando lui usciva con le ragazze.
Aveva avuto numerose storielle, tante sconosciute senza alcun particolare da ricordare ma utili allo scopo di sfogare di frustrazioni del corpo. Era ancora geloso della sua mano e stancarla con una cosa volgare come l’autoerotismo non faceva per lui.
Soprattutto se c’era qualcuno pronto a farlo al posto suo. Ne aveva sempre approfittato ma non aveva mai lasciato alcuna speranza sentimentale in quelle ragazze. Prendeva e dava senza mai chiedere o promettere nulla più di qualche incontro.
Entrò nell’ingresso del suo piccolo studio luminoso e venne salutato dal solare sorriso della sua segretaria: Aya Sakamoto.
L’aveva assunta il mese precedente e sapeva con che occhi lo guardava nonostante sapesse che fino a qualche giorno prima aveva un’altra donna per le mani. Lei continuava a guardarlo con un’adorazione che gli sembrava familiare, ma non avrebbe saputo dire perché.
Proprio a causa di questo disagio non aveva ancora tentato di combinare alcun incontro con lei. Non voleva grane né pasticci sentimentali. E lei non sembrava pensarla così.
Guardò l’orologio e facendo due brevi conti immaginò che Takao sarebbe arrivato tardi quella sera e che quindi avrebbe dovuto nuovamente cucinarsi la cena da solo… a meno che non avesse trovato un’alternativa alla diserzione del suo cuoco personale.
Guardò ancora una volta verso la bella ragazza bruna che stava organizzando la sua agenda in modo da ottimizzare i suoi spostamenti  nelle scuole.
 
Kazunari Takao pendeva il collo sulla scrivania. Aveva dormito tre ore quella notte. Era già affiliato a quello studio legale da un po’ ma le cose andavano sempre come se fosse il primo giorno. Nessuno lo portava in tribunale, non aveva mai messo nemmeno piede nello studio dei soci senior, gli lasciavano plichi e plichi di referti da copiare, analizzare ed evidenziare, lo mandavano a comprare i pasti e gli facevano ricopiare montagne di dati su blocchi che nessuno leggeva mai.
Era frustrante aver studiato tanto per trovarsi a fare un lavoro noioso, inutile e senza alcuna prospettiva.
Ma lo pagavano e subito tanto bastava.
Quei soldi gli servivano per pagare la sua parte di affitto e per comprare i completi nuovi che gli servivano per presentarsi al meglio sul posto di lavoro in caso fosse mai arrivato il momento di fare il proprio ingresso in tribunale.
Non che ci sperasse più ovviamente.
Faceva degli orari da schiavo, aveva sempre più male agli occhi a furia di leggere e scartabellare documenti scritti piccoli e fitti ed in più erano settimane che non faceva un pasto tranquillo in compagnia di Shin-chan.
Già… Shin-chan, quella mattina doveva essersi arrabbiato molto trovando i piatti nel lavello. Avrebbe davvero voluto lavarli ma stava crollando dal sonno e quella mattina era così rintronato da essersene dimenticato.
Avevano litigato da giorni eppure nessuno dei due  aveva avuto il coraggio di farsi avanti. Dal canto suo lui voleva solo vivere tranquillo con Midorima finchè fosse stato possibile e se questo presupponeva che il suo coinquilino talvolta gli gridasse contro…. Beh, poteva anche andar bene.
Non aveva mai avuto alcuna voglia di litigare con lui, era sempre rimasto in silenzio sperando che prima o poi quel dannato ragazzone orgoglioso comprendesse l’inutilità della sua prepotenza.
Diamine, se dopo dieci anni di vessazioni non aveva ancora gettato la spugna davanti a quel caratteraccio, doveva proprio essere bacato nel cervello, o quantomeno doveva essersi inconsciamente affezionato.
I numeri e le parole davanti ai suoi occhi iniziarono a ondeggiare sfocati. No. Decisamente non andava bene. Doveva andare a farsi vedere da un medico. Probabilmente stava sforzando troppo la vista e l’avanzare dell’età non aiutava.
Stropicciandosi la faccia guardò fuori dalla finestrella accanto alla sua scrivania.
Eccolo lì, Shintaro Midorima, neo-ortopedico in pausa pranzo che scortava a braccetto la nuova ragazza del momento… ma… un momento…. Quella non era la sua segretaria?
Con uno sforzo sovrumano distolse lo sguardo dalla coppietta che ridacchiava sul marciapiede.
…In effetti era comodo avere un’amante al lavoro, non doveva impegnarsi ad andare a destra e a sinistra per appuntamenti stravaganti. Bastava approfittare del lettino nello studio, dare un giro di chiave alla porta…. NO.
Non erano affari suoi con chi trascorreva le ore libere il suo convivente, o con chi sorridesse e chiacchierasse amabilmente senza mai urlare. No, non era decisamente affar suo e poi lei era davvero carina… No.
Sospirando si alzò, spense il pc e andò a chiedere un permesso. Voleva farsi dare una controllata agli occhi e approfittare del tempo restante per dormire fino al giorno seguente.
In quel momento gli vibrò il telefono.
Uscendo per strada controllò il display e vide che Midorima gli aveva mandato un sms.
“La prossima volta che trovo i tuoi piatti nel lavello te li infilerò nel letto. Non dimenticarlo.”
Sospirò. Prepotente e minaccioso come al solito. Cosa si aspettava? Comprensione?
Naaa, non da Shin-chan, non era da lui essere gentile o comprensivo. Non faceva parte del suo carattere l’empatia e ancor meno lo era la gentilezza.
Beh, forse era proprio quello il motivo per cui gli era amico, il fatto che fosse una persona totalmente incapace nei rapporti interpersonali guidata da quello stupido oroscopo della mattina e dal proprio orgoglio.
Svoltando arrivò alla clinica privata di cui era paziente grazie alla gentile intercessione di sua madre e si diresse verso lo studio oculistico. Venne fatto accomodare  e nel giro di qualche minuto fu fatto entrare dalla dottoressa che lo ascoltò con pazienza e interesse ed infine lo visitò accuratamente.
-Ha ragione, lei ha un affaticamento della retina.-
Grandioso. La giornata andava di bene in meglio.
-Le consiglio di portare un pio di occhiali da riposo quando sta sul lavoro in modo da non peggiorare la situazione e non compromettere gli occhi in modo permanente.-
Alleggerito sia nel portafoglio sia dalle preoccupazioni per la sua vista, Takao si specchiò nel finestrino di un’auto parcheggiata: non gli stavano male quegli occhiali ma li sentiva strani sul naso e pesare appoggiati alle orecchie. Decisamente erano un accessorio scomodo. Come diavolo faceva Midorima a portarli senza pensarci? Era solo questione di abitudine?
Specchiandosi in una vetrina portò la mano al volto e con un gesto che aveva visto fare milioni di volte si aggiustò la montatura sul naso imitando il suo coinquilino. Ridacchiò.
Sentendosi poi un emerito idiota, decise di lasciare in pace gli occhiali e si diresse a casa.
Era ancora molto presto, Shin-chan non sarebbe rientrato prima di qualche ora così decise di approfittare della solitudine per fare un po’ di pulizia.
Nel giro di un’ora ogni ripiano della cucina splendeva e profumava di pulito, il bagno brillava e i pavimenti erano spazzati alla perfezione. Mise su una lavatrice con in panni di colore chiaro e si sedette al tavolo della cucina, appoggiò gli occhiali massaggiandosi l’osso del naso e chiuse gli occhi per riposarsi un minuto
Rendendosi conto che stava scivolando nel sonno, si alzò e andò a sdraiarsi in camera sua, finalmente ordinata come la voleva lui.
Nel giro di un minuto crollò addormentato.
I sogni che lo perseguitavano da qualche mese tornarono.
Vedeva i suoi superiori e i soci anziani dello studio che ridevano di lui, lo additavano e si sganasciavano tenendosi la pancia. Sentiva poi una risata inconfondibile perché rarissima, quella di Midorima ed eccolo lì, anche lui nel suo sogno, quella volta accompagnato dalla sua segretaria,  che rideva e rideva di lui. Si guardava intorno per capire di cosa ridessero e in quel momento i suoi vestiti seriosi si trasformavano in quelli di un pagliaccio, colorati e sgargianti. A quel punto lui correva via, tentando di nascondersi ma il vuoto attorno a lui si trasformava in un labirinto e tutti continuavano a ridere guardandolo dall’alto come se lui fosse grande come un topolino da laboratorio.
Correva, correva e urlava loro di smettere eppure non c’era nessuno che lo ascoltasse e continuavano a coprire le sue preghiere con le risate  e i loro commenti. Vedeva i loro occhi riempirsi di lacrime dal troppo ridere e in quel momento montava in lui una rabbia mai provata, che lo soffocava mettendo a tacere le sue patetiche preghiere.
Quella rabbia e quella frustrazione volevano uscire e voleva sbatterle in faccia ai suoi capi che si approfittavano della loro posizione per deriderlo e sfruttarlo e anche a Shintarou che si approfittava del suo carattere pacato per fare il tiranno. Nel sogno esplodeva inveendo fino a non avere più voce contro quelle facce che all’improvviso non ridevano più.
A quel punto il paesaggio cambiava ed si trovava per strada, con indosso stracci e coperte luride, si sentiva il viso coperto di barba ispida e alzando gli occhi vedeva le persone sfilare davanti a lui nel tran tran giornaliero e nessuno sembrava vederlo. Né i suoi superiori che andavano verso lo studio al mattino, né Midorima che passeggiava ridendo per mano con la segretaria. Nessuno lo notava più e lui li chiamava, gridava il loro nome e il silenzio era assordante mentre sentiva solo se stesso gridare.
-Takao! Ehi! Takao! Svegliati!-
Due mani grandi lo stavano scuotendo forte. Aprì un occhio, poi l’altro e mise a fuoco il volto di Shin-chan che lo guardava preoccupato.
-Shi…. Shin-chan, che succede?- Sfregandosi il volto sentì bagnato. Aveva pianto? Davanti a Midorima?
Sprofondò nell’imbarazzo più totale.
-Stavi gridando e quando sono arrivato qui eri in lacrime. Devi aver fatto un brutto sogno. Va tutto bene ora?-
Ma come? Nessuna presa in giro? Nessuno sfottò? Dove era finita la vena sadica del suo diabolico convivente? Scosse la testa.
-T-t-tutto bene Shin-chan, non preoccuparti, è stato solo un brutto sogno.-
Sfoggiò il miglior sorriso che riuscì a mettere insieme. Lo vide  farsi serio e pensieroso, poi voltarsi e riferire con tono neutro.
-Se stai bene, allora io posso uscire. Aya mi sta aspettando. Buona serata Takao.-
Detto questo uscì.
 
Midorima era rientrato a casa rilassato, quel giorno era andato tutto per il verso giusto  le visite nelle scuole erano andate bene e aveva stipulato dei contratti di collaborazione che gli sarebbero stati comodi. A fine giornata aveva anche deciso di invitare Aya a cena e lei aveva accettato con fin troppo entusiasmo.
Si erano dati appuntamento un’ora dopo l’uscita dal lavoro quindi lui era tornato con calma a casa comprandosi gli okonomiyaki caldi e mangiandoli per strada.
Quando aveva aperto la porta era stato investito da un odore che non sentiva da mesi: l’odore di pulito che rimaneva nell’aria dopo che Takao faceva le grandi pulizie.
Doveva essere rientrato prima di quanto pensasse. Ogni stanza era linda e profumava, la lavatrice aveva finito un lavaggio e così la spense. Ma dove era il suo coinquilino? Entrò in cucina, anche quella stanza brillava  e profumava come il resto della casa. Sul tavolo, abbandonati, c’era un paio di occhiali mai visti prima.
Li osservò bene, ma ancora non riusciva a determinarne la provenienza. Poteva essere che Takao fosse in compagnia? Sarebbe stata la prima volta che si portava qualcuno a casa in sei anni di convivenza.
Aggirandosi furtivo tornò a sbirciare nella scarpiera. Non c’erano scarpe estranee. Ma allora di chi erano?
Un gemito gli giunse alle orecchie dalla camera chiusa. Si avvicinò in silenzio, un po’ imbarazzato.
Poteva essere che quello scemo avesse portato a casa una donna e che adesso si stesse divertendo un po’?
Il mugolio divenne un grido intriso di pianto e disperazione.
In un secondo Shintarou si trovò dentro quella stanzetta così poco familiare e lì vide Takao raggomitolato, con la testa stretta tra le mani e il viso inondato di lacrime che bisbigliava:
“non lasciatemi qui, guardatemi, sono io…! Non lasciatemi solo!”
Quella visione faceva male al cuore. Decise di svegliarlo. Lo scosse gentilmente sperando di non spaventarlo.
In risposta una voce che a stento somigliava a quella a cui era abituato ancora una volte disse: “Non lasciatemi qui!”.
Scosse quelle spalle tremanti ancora una volta, con più forza e finalmente vide i lineamenti del suo volto distendersi e i suoi occhi appannati e ancora bagnati di lacrime posarsi su di lui. Lo vide scrutargli il volto e si accorse dell’imbarazzo che gli serpeggiò nello sguardo.
Temeva davvero che l’averlo visto piangere fosse così tremendo? O aveva paura di qualcos’altro?
-T-t-tutto bene Shin-chan, non preoccuparti, è stato solo un brutto sogno.-
La sua voce tremava ancora eppure aveva una nota orgogliosa che non aveva mai sentito.
Ma come, lui si preoccupava e in risposta quell’ingrato cercava di fare l’eroe? Bene, se così stavano le cose lui aveva più motivo di star lì a guardarlo con quelle spalle gobbe e il viso ancora segnato di pianto.
Mentre lo osservava quello stupido gli fece il sorriso più finto che gli avesse mai visto in volto e questo lo ferì più di quanto volesse ammettere.
-Se stai bene, allora io posso uscire. Aya mi sta aspettando. Buona serata Takao.-
Girò i tacchi, uscì a grandi passi dalla stanza, afferrò il cappotto e uscì stando attento a non sbattere la porta.
Nell’aria frizzante della prima sera di Dicembre si avviò verso il bar doveva aveva dato appuntamento alla sua giovane segretaria che era sembrata quanto mai felice di vederlo in orario extra-lavorativo.
Non riusciva a levarsi dalla testa la faccia del suo coinquilino quando gli diceva che andava tutto bene. Come poteva andare tutto bene se aveva quelle occhiaie e gli occhi gonfi e rossi con ancora le lacrime appese alle ciglia lunghe?
Accelerò con rabbia. La cosa che lo aveva ferito di più era il modo, gentile ma fermo con cui lo aveva allontanato. Gli aveva fatto capire che quelli non erano affari suoi e che stesse male o meno a lui non doveva interessare.
Erano arrivati a quel punto? Non poteva crederci. Davvero il continuo litigare e le vite separate avevano dato il colpo di grazia alla loro amicizia?
Takao era dunque giunto al punto di rottura. Non poteva certo biasimarlo visto il trattamento che gli aveva riservato negli anni… ma allora perché gli dava così fastidio l’idea di sentirsi il responsabile del suo allontanamento?
Arrivato nei pressi del bar decise di chiudere nel dimenticatoio la questione di Takao per concentrarsi sullo studio della prossima preda. Prima di tutto doveva chiarire che qualunque tipo di incontro avesse seguito quello di quella sera, non sarebbe stato sentimentale.
La vide arrivare di corsa, con un vestitino di velluto color borgogna che si intravedeva sotto al cappotto di lana pettinata bianco. Indossava un cappellino graziosamente ricamato che le si appoggiava con morbidezza sulle soffici onde color cioccolato. Era molto carina, doveva ammetterlo.
-Salve Dottore, spero di non averla fatta aspettare troppo..-
No. Non andava bene. Era un appuntamento, non poteva chiamarlo “Dottore”. Glielo disse e le diede il permesso di chiamarlo per nome.
Trascorsero quasi un’ora in un bar a sorseggiare caffè aromatizzato e a parlare. Midorima voleva essere sicuro che lei avesse compreso quale fosse la situazione. Non era ancora convinto che avesse recepito a alla perfezione il messaggio, ma se non altro non aveva preteso nessun obbligo da parte sua.
Fecero anche una lunga passeggiata allontanandosi da centro e addentrandosi nella zona famosa per i divertimenti che offriva. C’erano un multisala, la possibilità di ballare, le sale giochi, i locali e infine, c’erano gli hotel a ore.
Scegliendo il solito albergo Shintarou scortò la sua graziosissima ospite fino alla suite più costosa. Era una camera molto grande, con il materasso a forma di cuore rivestito di seta color caramello cosparso di petali di rosa bianca. Tutti gli arredi della stanza erano sui toni del beige e del marrone regalando un’atmosfera calda e accogliente.
La ragazza se la cavava bene, aveva una certa manualità e di sicuro lui non era il primo uomo con cui si lasciava andare, anzi, vista l’abilità che dimostrava prima usando i palmi e successivamente oralmente… doveva aver fatto molto esercizio.
Ma non tanto quanto lui. Quando arrivò il suo turno di giocare con lei la fece letteralmente ballare sulle punte delle sue dita, la fece fremere contro le sue labbra e solamente dopo qualche ora di divertimento arrivò finalmente al dunque godendo dentro di lei.
Tornò a casa che era notte fonda, non aveva certo soldi da buttare pagando anche le ore notturne in albergo, la casa sapeva sempre di pulito e gli venne l’irrefrenabile bisogno di farsi una doccia per levarsi di dosso l’odore di Aya Sakamoto. Un buon profumo di mele, cannella e sesso, ma lo faceva sentire sporco.
Pur essendo molto tardi si diresse in bagno, si liberò dei vestiti e si infilò nel box doccia godendosi il getto caldo sulla pelle.
Takao gli tornò in mente quasi subito, richiamato dall’odore di pulito della doccia. Era in casa? Non aveva guardato se ci fossero o meno le sue scarpe all’ingresso. C’erano ancora quegli occhiali in cucina? Moriva dalla voglia di trovare un pretesto per parlare con lui, per… spiegargli… Cosa? Che il suo comportamento non era voluto? Certo che era voluto. Che era preoccupato? Non era forse stato lo stesso Takao a tenerlo a distanza?
Scosse la testa. Non sapeva come fare.
Si asciugò in fretta e con l’asciugamano attorno ai fianchi non resistette all’impulso di andare a vedere se quei benedetti occhiali misteriosi fossero ancora lì. No. Non c’erano.
Quindi era davvero venuto qualcuno a casa insieme a Takao e per giunta era poi tornato dopo che lui era uscito per riprendersi gli occhiali.
Non capiva perché ma l’idea del suo coinquilino in quella casa, solo con qualcun altro…. Lo metteva in agitazione. Andò in giro a guardare se fosse stato abbandonato qualche altro suppellettile, o peggio, qualche indumento.
Setacciò tutta la casa fino a che non rimase solo la camera chiusa dove dormiva il suo convivente e in cui non poteva entrare per paura di svegliarlo . Decise di andare a dormire, ma il pensiero di Takao che invitava qualcuno a casa per sfogare le proprie frustrazioni sul lavoro e per parlare dei propri problemi, proprio non gli andava giù. Magari ne approfittava per lamentarsi anche di lui.
Qualcuno ascoltava le sue lamentele e i suoi problemi. Probabilmente quel qualcuno aveva gli occhiali con la montatura nera spessa ed era la persona che aveva il permesso di asciugare le lacrime a quello che era stato il suo migliore amico.
Una persona a cui lui mostrava, senza vergogna, la sua fragilità  e a cui, probabilmente, come ringraziamento aveva regalato un sorriso vero, quello un po’ timido che gli evidenziava la fossetta sulla guancia sinistra.
Quel sorriso che lui non vedeva più da troppo tempo.
Rimase sveglio fino a quando non sentì suonare la sveglia di Takao.
 
La sveglia lo strappò ai sogni agitati in cui era caduto per sfinimento la sera precedente. Dopo che Midorima era uscito la sua mente si era categoricamente opposta all’idea di tornare a dormire, così Takao si era alzato e di malavoglia aveva steso e successivamente stirato il carico della lavatrice che aveva fatto partire quel pomeriggio.
Mentre lavorava sui colletti e curava i polsini della camicia preferita di Shintarou gli tornò alla mente l’espressione seria che gli aveva visto in volto quella sera.
Sembrava… offeso? Ferito?
Non  era riuscito a far combaciare quella sensazione con il solito caratteraccio dell’uomo per cui si era interrogato senza sosta su cosa potesse essere il pensiero che per un attimo gli aveva oscurato lo sguardo di smeraldo.
Non gli era venuta fame, quindi invece di cucinare qualcosa che avrebbe poi lasciato nel piatto aveva preferito stendersi sul divano con un buon libro da leggere.
Imponendosi di inforcare gli occhiali per non forzare la vista e si era accorto immediatamente che le lenti lo aiutavano molto. Si era poi sistemato, sovrappensiero, la montatura sul naso.
La serata era diventata notte ormai e Shin-chan non era ancora tornato così, presupponendo non lo avrebbe  fatto, con tutta calma, era andato a dormire.
Anche quel mattino la fame scarseggiava, non perse tempo a farsi il caffè, sgranocchiò due quadretti di cioccolato e di corsa si fece una doccia calda.
Nel bagno vide i vestiti di Midorima appoggiati al lavello, doveva essere rientrato a notte fonda e per la stanchezza, dopo la doccia li aveva inavvertitamente dimenticati lì. Senza batter ciglio piegò con cura la giacca e i pantaloni mentre la camicia finì nel cesto della roba da lavare.
Si spogliò, si infilò sotto al getto caldo e lì restò fermo, immobile per quelle che gli parvero ore. Lo scroscio dell’acqua copriva ogni suono e il vapore caldo che saliva dal piatto di ceramica lo avvolgeva in impalpabili spire.
Sfregò bene la sua pelle fino ad arrossarla, la sciacquò con cura e infine, a malincuore uscì per asciugarsi. L’aria fresca del bagno gli fece venire la pelle d’oca. Coprendosi con un asciugamano pulito aprì la porta e si diresse in camera.
Era in ritardo e doveva ancora vestirsi. Ingarbugliandosi con calzini e pantaloni  e annodando la cravatta mentre aveva ancora la camicia sbottonata si avviò verso la porta. In tutto il suo contorcersi dietro al vestiario e alle scarpe, non sentì la porta della stanza accanto alla sua aprirsi né vide l’espressione perplessa del suo coinquilino che lo studiava mentre stava in bilico su un piede ancora mezzo svestito con una manica della giacca già infilata.
-Sei senza speranza, lo sai Takao?-
Quel tono annoiato e familiare lo bloccò e quel secondo bastò per farlo rovinare scompostamente a terra.
-S-Shin-chan, buongiorno! Spero di non averti svegliato… sì insomma… di non aver fatto troppo rumore…-
Perché era così teso? Gli sembrava di soffocare.
-Non mi hai svegliato. Mi è suonata la sveglia.-
Era solo un’impressione  oppure anche la voce di Shintarou era strana? Gli sembrava che fosse meno irata, più formale forse.
Si raddrizzò e finì di vestirsi, si tastò le tasche alla ricerca della massa estranea degli occhiali e sentendoli in tasca si voltò salutando.
-Buona giornata, io vado.-
Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle gli giunse il sussurro del suo coinquilino:
-Anche a te.-
Rimase fermo sul pianerottolo pensando di esserselo sognato, poi giunse alla conclusione che probabilmente il sonno e la fretta gli avevano giocato un brutto scherzo.
La giornata era iniziata di corsa e proseguì anche peggio. Il suo responsabile in ufficio lo prese da parte per fargli una bella lavata di capo sull’assenza del giorno prima. A quanto pareva non era ammissibile che un apprendista stesse male e se andasse prima della fine dell’orario lavorativo.
La sua scrivania era ancora più ingombra di carte, documenti e plichi da leggere. Inforcò gli occhiali e con la rassegnazione di chi non ha più alcuna velleità di miglioramento, si mise al lavoro.
A testa china  lesse, timbrò, ricopiò e appuntò pile e pile di dati inutili. Saltò persino la pausa pranzo per riuscire a finire ad un’ora decente, eppure, nonostante i suoi sforzi riuscì a uscire dall’ufficio che era tarda sera.
L’aria fredda gli gelava le mani e la punta del naso, ma Takao non aveva voglia di andare a casa. Era stanco.
Ecco quale era la verità. Stanco di tutto.
Non sopportava più l’odore del detersivo per i pavimenti, non tollerava di vivere nel terrore del giudizio e delle prese in giro di Midorima, non voleva più passare ore e ore a fare il segretario invece di imparare a fare l’avvocato.
Era arrivato al limite.
Ma cosa poteva fare? Cambiare detersivo? Andarsene? Lasciare il lavoro e ammettere di aver gettato la spugna? Non sapeva più cosa fare.
 Si trascinò fino al parco.
A quell’ora era deserto e la luce dei fari che illuminavano i campetti da street basket non arrivava sui sentieri di terra battuta. Si addentrò nel buio vagando a memoria attraverso il silenzio magico di quel luogo ricco di ricordi. Da quando conosceva Shintarou aveva frequentato quel posto quasi quanto la scuola. Era lì che il suo migliore amico si vedeva con i suoi vecchi compagni della scuola media Teiko, era lì che si incontrava la famosa Generazione dei Miracoli per fare qualche partitella in amicizia. Era lì che anche lui aveva iniziato a giocare con loro fino a che non faceva buio.
Quanto era bello a quei tempi.
Senza accorgersene era arrivato all’entrata del campo da basket, i piedi calzati nelle scarpe eleganti urtarono la fila ordinata dei palloni spedendo una delle palle color mattone al centro del campo.
Senza pensare, rispondendo solo all’istinto, scattò in avanti, agguantò il pallone e saltando con una torsione del busto lanciò. Canestro.
Cavolo, dopo solo trenta secondi aveva già il fiatone. Era proprio invecchiato. Palleggiando lentamente si interrogò su quanti degli obiettivi che aveva da ragazzo avesse raggiunto.
Sognava di continuare a giocare e invece, appena iniziati gli studi universitari aveva smesso per mancanza di tempo,  voleva finire gli studi e diventare avvocato ma tutte le sue belle speranze si erano arenate contro un muro invalicabile. I suoi superiori. Voleva andare d’accordo con Shin-chan e rimanere amici per sempre e… ancora una volta le cose andavano al contrario… ormai erano quasi due sconosciuti, si parlavano perfino come due perfetti estranei.
-Ma guarda se lì con la palla non è quel damerino di Kazunari!-
Una voce roca e profonda lo scosse dalle sue malinconiche riflessioni. Voltandosi vide solo un’imponente figura maschile avanzare nell’oscurità del sentiero.
Un attimo dopo Daiki Aomine entrò nel cono di luce del campo.
 
-È tardi, cosa ci fai qui Aomine? Non sei a pattugliare le strade con la tua bella uniforme blu?
Da dove gli usciva quel sarcasmo?
Il sopracciglio affilato del moro si inarcò leggermente .
-Potrei farti la stessa domanda. Cosa ci fai qui a quest’ora in giacca e cravatta con il pallone in mano?-
Emise un sospiro che Takao non potè fare a meno di imitare. Era forse un luogo di riflessione per quelli come loro? L’unico santuario per i ricordi di quando erano spensierati e felici?
-Non so cosa vuoi fare, ma la tua faccia la dice lunga su come stai. Ti sei guardato allo specchio di recente?-
Il tono gentile con cui aveva fatto la domanda strideva con il suo aspetto selvatico e la sua espressione imbronciata.
Abbassò lo sguardo. Sì, si era visto. Aveva già notato le occhiaie e la pelle grigiastra, per non parlare del fatto che i vestiti gli andavano grandi. Doveva aver perso almeno cinque o sei chili negli ultimi sette mesi.
-Cosa vorresti dire? Che non ti piaccio più?-
Cercò inutilmente di fare dell’ironia, di provocare il poliziotto che reagì in modo inaspettato: sorrise.
-Tu credi che questa situazione sia senza via d’uscita, che quello che fai sia tuo dovere  e che nessuno possa farlo al tuo posto. Sbaglio?-
Lo guardò con intenzione, incoraggiandolo a contraddirlo.
No. Non sbagliava. Ma come poteva quell’idiota tutto muscoli e niente cervello capire quelle cose?
-Non sono cose che ti riguardano.-
Daiki sorrise, con quel sorriso sfrontato che mieteva vittime femminili ad ogni angolo.
-Hai ragione, ma lascia che ti racconti una storia, ti va? Sembra che tu non abbia molto di meglio da fare.-
Si lasciò cadere con eleganza felina sul pavimento di cemento. Takao, che effettivamente non aveva alcun impegno impellente decise di stare al gioco. Appoggiando le spalle alla rete si mise comodo per ascoltare quel che l’altro aveva da dire.
-Ho un amico, anzi, un amico un po’ speciale, che fino a qualche settimana fa lavorava come uno schiavo, facendo più ore dell’orologio. Non stava vivendo, non stava mai a casa, non parlava coi suoi amici, nemmeno con me, e alla fine sai cosa ha fatto? È  crollato. La sua mente non reggeva più la separazione tra la sua vita e il resto del mondo.-
Fece una pausa intenzionale.
-Quell’amico ha deciso di cambiare ritmo. Ora dorme a casa, mangia cibo vero ad orari consoni e nei fine settimana trascorre il tempo in panciolle a letto o occupando il tempo a seguire le sue passioni. Ora è riuscito a mettersi in pista, ha ricevuto una promozione e la sua carriera procede nel migliore dei modi.-
Takao era sconcertato. Perché quel deficiente gli stava sbattendo in faccia tutto ciò che lui non aveva? Lui non aveva un orario normale, non mangiava pasti “veri”, dormiva quando capitava, spesso e volentieri in metropolitana, nei fine settimana faceva i lavori di casa arretrati e si occupava del bucato di Midorima. Lui non aveva tempo libero.
Lui non si fermava mai.
Cercando di dominare la collera e lo sconforto domandò:
-Perché mi racconti tutto questo? Non sai cosa sto passando.-
Il moro rise di gusto.
-E pensi che ci voglia un genio per capire che stai arrivando al punto di rottura?-
L’avvocato rimase interdetto. Era davvero così semplice capire?
-Cosa ne vuoi sapere eh?! Non sai cosa vuol dire lavorare come uno schiavo sapendo che non cambierà niente! Non sai cosa significhi inseguire un sogno che si fa sempre più lontano! Tu non sai quanto sia difficile vivere in una casa che sembra ridursi ad un porcile ogni volta che giri gli occhi! Non sai cosa significhi sentirsi gridare dietro ogni santo giorno perché invece di spazzare il pavimento hai dormito due ore!!! TU NON SAI NIENTE!!!-
Aveva iniziato a parlare con calma, quasi bisbigliando ma poi il vortice di sentimenti, frustrazione e dolore che aveva in corpo lo aveva travolto portandolo a urlare come un pazzo in faccia a qualcuno che cercava, a modo suo, di aiutarlo.
Ingobbì le spalle.
-P-peronami. Non so che mi sia preso.-
Una forte risata gli giunse in risposta. Aomine stava letteralmente morendo dalle risate: sobbalzava tenendosi le mani schiacciate sulla pancia scolpita.
Quando finalmente l’eccesso di risa finì e le lacrime furono asciugate, il moro parlò:
-Finalmente! Finalmente ho sentito Kazunari Takao lamentarsi! Credo sia la prima in quasi dieci anni che ti conosco! E ti sei anche lamentato di quello stronzo di Shintarou! Sappi che la mia stima nei tuoi confronti è appena raddoppiata.-
Cosa significava? Certo che si era lamentato, si lamentava di continuo… no… aspetta… quando si era davvero lagnato  di qualcosa negli ultimi tempi? Non lo ricordava.
Daiki parve indovinare i suoi pensieri.
-È la prima volta, fidati. Sappi che adesso sarà più facile parlare e, visto che stasera mi sento un buon samaritano, se ti accontenti di me ti porto a bere qualcosa e ascolterò le tue pene.-
Perché quell’offerta gli sembrava come un salvagente gettato ad un disperato che stava annegando? E soprattutto, perché lui si sentiva esattamente sul punto di annegare?  
 Cosa aveva da perdere? Accettare un invito a bere in fondo non era nulla di eccezionale. E così…
-Va bene Aomine, però offro io.-
La risata che gli giunse in risposta era impastata di parole che somigliavano a un “era ovvio”.
Per la prima volta da tempo immemore, Takao sorrise.
In un bar anonimo e senza insegna i due parlarono molto bevendo birra; erano tenuti stranamente d’occhio dal proprietario ma quando il discorso divenne serio se ne dimenticarono.
Lì, immerso in quel caldo speziato bozzolo di legno grezzo, il neo-avvocato Kazunari parlò. Parlò a lungo con calma e rassegnazione delle frustrazioni sul posto di lavoro, delle prospettive che non aveva e soprattutto delle false speranze che gli davano i soci anziani. Parlò della stanchezza, della voglia matta di mangiare a tavola con qualcuno invece che addentare qualcosa di freddo correndo per strada. Confessò la sua passione per l’ordine e la pulizia, di come curare casa sua lo rilassasse ma ammise anche che il tempo a sua disposizione era troppo poco per potersi dedicare a quell’occupazione per trarne piacere.
Infine, forse un po’ sciolto dalla birra, forse un po’ dalla chiara sensazione che il suo interlocutore non lo stesse giudicando, arrivò a parlare di Shintarou Midorima.
-Gli voglio bene, è il mio migliore amico e tutto… ma… perché deve per forza essere prepotente? Perché deve per forza comportarsi in modo così crudele? Io faccio ogni cosa mi chieda e fino a quando avevo tempo non c’era alcun problema… ma adesso… adesso non ho nemmeno il tempo di mangiare, come posso star dietro ad ogni sua pretesa? Io non posso…-
Non sapeva come concludere la frase.
-Continuare così.-
La voce roca e bassa di Aomine aveva colto nel segno ma il rendersene conto lo fece stare, se possibile, ancora peggio.
Buttò giù d’un fiato tutta la birra che gli restava nel boccale.
-Non sei tu il cattivo Takao, non sei tu a sbagliare. Se c’è una cosa di cui, se proprio vuoi, ti puoi incolpare è l’essere stato troppo paziente, troppo tollerante.-
Un sospiro lungo e stanco gli sfuggì dalle labbra. Aveva proprio bisogno di sentirselo dire. Di non aver sbagliato. Di non aver fatto un pasticcio. Di aver davvero dato ogni cosa e forse anche qualcosa di più.
-E adesso?-
Quella domanda aleggiava nell’aria da quando era esploso al campetto.
Gli occhi di zaffiro in cui puntò lo sguardo sorridevano.
-Adesso apri le ali e vola.-
Probabilmente l’espressione che fece fu eloquente perché il moro ridacchiò.
-Intendo dire che devi prendere in mano le cose. Decidi tu adesso. Non vuoi lavorare lì? Puoi permetterti di lasciare il lavoro e di cercarne uno nuovo? Decidi tu ora. Hai abbastanza risparmi per lasciare quella casa e liberarti della matrigna cattiva? –
Gli scappò da ridere nell’immaginare Shintarou negli abiti della matrigna di Cenerentola.
-Quindi dovrei mollare il lavoro e cambiare appartamento?-
Solamente dirlo gli fece venire le farfalle nello stomaco. Lui poteva davvero andarsene. Non doveva niente a nessuno e adesso che la clinica era avviata sicuramente Midorima non aveva bisogno di qualcuno con cui dividere l’affitto.
Aomine annuiva sorridendo.
-Vai Cenerentola, scappa verso la tua nuova vita.-
Ormai ridacchiava senza controllo e Takao si accorse che alla risata del poliziotto si era unita la sua.
 
Shintarou rientrò tardi a casa, il profumo di pulito alleggiava ancora nell’ambiente che ormai gli era diventato così familiare. Nessuna luce accesa. Probabilmente Takao stava già dormendo e quindi, anche in quell’occasione non si sarebbero scambiati nessun’altra parola.
Ormai si vedevano così di rado che a stento poteva dire di convivere.
Quando si vedevano lo sgridava quindi probabilmente il suo coinquilino ricordava alla perfezione la sua voce mentre lui… quant’era che non faceva una vera conversazione con il suo migliore amico?
Sbuffò. Era stanco, aveva mal di testa e doveva farsi una doccia. Detestava tenersi addosso l’odore delle sue partner. Si diresse verso il bagno e passando davanti alla camera di Takao notò che era vuota: la porta era aperta e all’interno, nel buio, poteva chiaramente vedere il grande letto matrimoniale perfettamente intonso.
Ma dove  diavolo era? Ancora al lavoro? Tornando verso casa avrebbe giurato di aver visto le finestre dello studio legale tutte buie. Che lo avessero portato in tribunale? No… non c’erano udienze a quell’ora.
Magari una cena tra colleghi? Strano, da quel che gli era parso il suo convivente non aveva un buon rapporto con nessuno.
Si spogliò e mentre si infilava nel box doccia sentì la porta dell’appartamento aprirsi. Era rientrato.
Veloce come un fulmine agguantò l’asciugamano, se lo drappeggiò sui fianchi e si sporse dalla porta del bagno in silenzio.
Il suo migliore amico stava parlando al telefono e a intervalli ridacchiava come un ragazzino.
Quell’espressione felice da dove veniva?
-… si, grazie della bevuta, ti telefonerò per dirti come è andata…. Ok…. Buonanotte!... E non chiamarmi Cenerentola!-
Riattaccò.
Un dialogo decisamente strano. Quindi era stato fuori a bere con una persona che conosceva e con cui aveva confidenza… Qualcuno che lo chiamava… Cenerentola e lo faceva ridere.
Gli venne subito in mente la persona degli occhiali.
Doveva essere stata lei a portarlo a bere e a farlo divertire tanto da tirargli fuori quel sorriso così spensierato.
-Ciao Shin-chan!-
Quanto entusiasmo per un saluto. Eppure c’era qualcosa di finto… di artificioso.
-Ciao Takao. Come mai sei rientrato così tardi?-
Perché la sua voce doveva essere così petulante e accusatoria?
-Sono uscito con un amico a bere una birra. Ci siamo messi a parlare e sai come va… ho perso di vista l’orologio! Quattro ore capisci? Ahahahahah! Domani non mi alzerò mai!-
Era fin troppo allegro per essere la stessa persona che quella mattina a stento riusciva a badare a se stessa.
-Buon per te. Buonanotte.-
Girò sui tacchi e si chiuse violentemente la porta del bagno alle spalle. Sotto il getto della doccia si strofinò la pelle con rabbia e il nervosismo non accennava ad andarsene.
Ma… un attimo… perché era così arrabbiato?
Era forse irritato perché qualcun altro aveva fatto per il suo coinquilino quello che avrebbe dovuto fare lui in onore dell’amicizia che li legava? Possibile.
Ma non avrebbe comunque potuto farlo, il tono e i gesti del suo convivente erano stati chiari: lui non aveva più il diritto di preoccuparsi per lui.
Aveva perso l’onore di poter essere la spalla su cui il suo amico potesse piangere e le braccia che potevano abbracciarlo per confortarlo. Lui si era allontanato, lo aveva maltrattato, lo aveva deriso e adesso, quello che si meritava era di essere trattato come un estraneo.
Perché faceva così male? In fondo se l’era voluta lui. Ogni volta che lo trattava male, ad ogni litigata, lui era consapevole di ferirlo eppure infieriva per nutrire quel lato mostruoso di sé che si ostinava a tenere nascosto.
Lui era crudele, sapeva di esserlo, si sentiva bene ad infliggere sofferenza alle persone che reputava talmente importanti  da non poterne fare a meno. Ed ecco che Takao era divenuto la sua vittima.
Kazunari Takao, l’unico vero intimo amico che aveva. Gli altri amici che  aveva non erano così intimi. Sbattendo un pugno contro il muro, per la prima volta nella propria vita Midorima Shintarou si detestò.
Odiò essere come era, si nauseò del suo comportamento e si pentì di non essere in grado di esprimere a parole quei sentimenti che sentiva ribollire nello stomaco.
Non dormì. Quella notte elaborò il metodo meno traumatico per chiudere la faccenda con Aya Sakamoto, carina, decisamente fantasiosa e sessualmente esuberante ma a parte questo la sua personalità era ciò che di più standardizzato potesse esistere. Una noia mortale. Aveva assaggiato la mercanzia, aveva un buon sapore, ma alla lunga diventava stancante.
La giornata lavorativa iniziò con gli incontri nelle scuole, stipulò diversi contratti di collaborazione che gli avrebbero garantito pieno accesso alle squadre dei club sportivi e quindi la possibilità di aiutare chiunque avesse bisogno.
Era bravo ad aiutare quei disgraziati, con loro era gentile, e allora perché con Takao non riusciva ad esserlo mai?
Durante la pausa pranzo decise di lasciare lo studio e camminare. Muoversi lo aveva sempre aiutato a pensare. Doveva riflettere su cosa fare.
L’oroscopo quella mattina era stato catastrofico. A quanto pare il suo segno era uno dei tre peggiori della giornata. Era probabile che avrebbe dovuto affrontare dei grandi cambiamenti e che le sue azioni avrebbero determinato se questi divenissero positivi o estremamente negativi. L’oggetto del giorno era una cipolla e quindi, come sempre, l’ortaggio era nascosto in una tasca del suo camice sotto il lungo cappotto nero.
Camminò a lungo, riflettendo, passò accanto ad una tavola calda che dava sul marciapiede e mentre osservava distratto le coppiette e le famiglie sedute ai tavoli, riconobbe, non senza un certo imbarazzo, Kise Ryouta e Aomine Daiki seduti al tavolo a chiacchierare. Sperando di non essere riconosciuto incassò la testa nella sciarpa e guardandosi le scarpe accelerò il passo.
-Dove credi di andare Midorimacchi?!-
La voce squillante del biondino aveva fatto girare tutti nel raggio di cinquanta metri. Per evitare scenate e imbarazzanti inseguimenti Midorima decise di sacrificarsi per il bene della propria immagine rispettabile.
Il locale profumava di frittelle e gelato, si sedette al tavolo con i due ex compagni di squadra.
-Aomine, Kise, quanto tempo.-
Aveva voglia di essere ovunque tranne lì ma la speranza di cavarsela in fretta lo rese loquace.
Daiki sorridendo sornione rispose:
-Sono proprio fortunato, stavo giusto raccontando a Ryo-chan che  ieri sera sono andato a bere con Takao. Il poveretto è esploso malamente e ho dovuto fare la crocerossina.-
Ryo…-chan? Che storia era mai questa? E Kise? Perché non faceva una piega? Anzi… perché arrossiva?
-Quindi era con te ieri…-
Ebbe una folgorazione.
-Quindi sei tu che lo chiamavi Cenerentola!-
Lo stupore gli impregnava la voce.
Kise iniziò a tossire mentre il frappè alla vaniglia di usciva dal naso. In tutto quel casino e quel frappè era inequivocabile che stesse guardando di traverso il moro.
Aomine iniziò a ridacchiare imbarazzato.
-Ma sì, era solo uno scherzo. Dopo tutte le confidenze che mi ha fatto… beh ho iniziato a prenderlo in giro perché è vessato, maltrattato e schiavizzato da una certa “Matrigna cattiva” proprio come Cenerentola.
Colpito e affondato.
La rabbia di Shintarou nei confronti del poliziotto era ormai arrivata a livelli critici. Per prima cosa, quello stupido aveva usurpato il suo posto e aveva fatto sfogare Takao, in secondo luogo aveva visto un lato del suo coinquilino che nemmeno lui aveva mai visto: la rabbia. Terzo, si era permesso di dargli un nomignolo carino.
-Daiki, credo che tu stia facendo arrabbiare Midorimacchi, lo sai?-
Un Kise ripulito e alquanto pacato appoggiò con gentilezza una mano sulla spalla del mastodontico meticcio.
-Ryota, ti ho spiegato che se lo merita! Questo stronzo ha portato la persona che più di tutte a questo mondo gli vuol bene, solitamente pacata e remissiva, al punto di urlarmi in faccia come una matta in mezzo al parco solo perché gli avevo consigliato di darsi una calmata con il lavoro.-
Aomine era proprio arrabbiato.
-Te lo dico chiaro Shintarou, sei un coglione. Quel ragazzo in dieci anni non ha mai dato alcun segno di cedimento perché il suo affetto nei tuoi confronti era totale e tu? Come lo hai ringraziato? Urlando! Disprezzandolo! Maltrattandolo! È ovvio che quel poveraccio sia uno straccio! Io sono stato solo ad ascoltarlo eppure non la smetteva di ringraziarmi, per averlo portato fuori, per averlo ascoltato, per avergli dato la possibilità di parlare. Dieci anni che vi conoscete e tu non hai mai fatto una cosa simile per qualcuno che si è occupato di te come una moglie? Sei un verme!-
Di nuovo l’intervento salvifico.
-Daiki, calmati, ci stanno guardando tutti. Non puoi pretendere che Midorimacchi cambi di punto in bianco. Dalla sua faccia direi che sapeva già tutto quello che gli hai detto. Ora lascia che risolva lui le cose.-
Poi rivolgendosi al medico ancora sotto shock per l’assalto di Aomine:
-Shintarou, se non vuoi perderlo, io ti consiglio di fare chiarezza nei tuoi sentimenti. Tu lo hai dato per scontato in tutti questi anni ed è la cosa più crudele che potessi fare nei suoi confronti. Prima di parlare con lui, decidi, dentro di te, che tipo di legame vuoi ci sia tra voi, se vuoi che ci sia, ovviamente.-
Si ritrovò ad annuire in silenzio.
I due si alzarono e mentre un ancora incavolato Daiki andava a pagare il conto, Kise gli sussurrò:
-Io amo quel suo temperamento focoso, ma non amo solo questo di lui. Prima di rendermene conto mi sono fatto del male e lui stesso prima di capire che ricambiava il mio amore ha passato un bel travaglio interiore. Ma adesso siamo insieme e ci amiamo. Sarà difficile, ma ci siamo scelti e ogni giorno, continuiamo a sceglierci. È bello tornare a casa e sapere che qualcuno ti aspetta.-
Una grande mano scura afferrò il polso candido e sottile dell’ex modello.
-Andiamo a casa Ryota. Midorima, buona giornata.-
-Ciao Midorimacchi! Fammi sapere come va!-
Ed ecco che trascinato dal gigantesco compagno, Ryouta fu portato via.
Era una sorpresa quella della loro relazione. O forse no. Erano sempre andati molto d’accordo… Riportò i pensieri su questioni più urgenti.
Se era davvero Daiki ad aver portato a bere Takao, di chi erano quei benedettissimi occhiali? C’era qualcun altro?
 
Le valige erano pronte, guardare la sua stanza vuota lo riempiva di dubbi ma sapeva che se fosse rimasto lì avrebbe solo potuto affondare di più. Aomine aveva ragione. Doveva dare una svolta alla sua vita.
Non appena aveva sentito Shintarou uscire per andare al lavoro si era alzato dal letto e aveva iniziato a raccogliere le proprie poche cose. Quella notte non aveva chiuso occhio però era riuscito in buona parte a crearsi un piano d’azione. Verso metà mattina, dopo aver lasciato squillare a vuoto il cellulare una trentina di volte, si degnò di rispondere. Era il suo responsabile allo studio che ovviamente gli stava per fare la paternale ma…
-Io mi licenzio. Addio.-
Dicendo quelle fatidiche parole aveva interrotto sul nascere ogni ramanzina. Aveva attaccato sentendosi mille volte più leggero.
Entro mezzogiorno si trovò nell’ingresso, vestito con la sua vecchia tuta dello Shuutoku che sembrava appartenere ad un fratello più grande tanto gli era abbondante, con a fianco una valigia, uno zaino e la sua vecchia ventiquattrore.
Sei anni di vita trascorsi in quell’appartamento e tutto quello che aveva da portare via erano pochi vestiti, qualche libro e una tazza. Sembrava che non avrebbe lasciato nessun vuoto lì.
Con l’amaro di quest’ultimo pensiero in bocca, lasciò la propria chiave nel piattino di fianco alla porta e uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Il suono metallico della serratura che scattava chiude definitivamente un capitolo triste e faticoso della sua vita.
Per prima cosa doveva trovare una sistemazione temporanea, almeno per quella notte. Facendo qualche telefonata riuscì a trovare una stanza d’albergo non troppo lontana dall’aeroporto a un prezzo più che ragionevole. Trascinando il grosso bagaglio a rotelle si incamminò verso un domani più che ma incerto.
Passò davanti alla pasticceria che aveva aperto Murasakibara, un altro membro della Generazioni dei Miracoli e compagno di Midorima, e decise di entrare.
Il profumo che aleggiava all’interno del grazioso negozio era decisamente invitante.
-Taka-chin! Quanto tempo! –
Lo osservò meglio.
-Cosa ci fai con quella valigia enorme? Vai da qualche parte?-
Troppo tardi per tornare indietro e nascondere il bagaglio. Tanto valeva dire a verità.
Guardò il gigante pasticcere che stava al di là del bancone e lo guardava con una strana espressione tra l’annoiato e il curioso.
-Sto andando verso l’hotel “Torre d’oro”, quello vicino all’aeroporto. Io… ho deciso di andarmene.-
L’espressione sbigottita che vide comparire su quel volto sempre inespressivo lo lasciò interdetto.
-Tu, stai dicendo sul serio? Stai lasciando Mido-chin finalmente?-
Eccone un altro.
A quanto pareva tutti pensavano che fosse davvero il momento di dire “basta”.
E lui lo aveva fatto. Aveva davvero detto basta. Se ne era andato.
-Hem… come dire… non era più giusto che stessimo nello stesso appartamento.-
Accendendosi di pura curiosità il gigante chiese:
-E lui? Come l’ha presa?-
Ta-dan! Il tasto dolente.
-Non gliel’ho detto. Me ne sono andato e basta.-
Scoppiò un applauso che sparò una nuvola di farina tutto intorno a loro.
-Grande Taka-chin!
Senza che dovesse chiedere Murasakibara prese una confezione e la riempì con un dolcetto di ogni varietà presente sul grande bancone. Impacchettò il tutto e glielo porse.
-Magia questi, vedrai che starai alla grande senza quel gran egoista, anche se so che gli mancherai.-
Takao non voleva pensare a quello che aveva fatto così decise di cambiare discorso.
-E tu Atsushi? Come va la vita? Come sta quella ragazza così carina e dolce con cui uscivi qualche mese fa?-
Domanda sbagliata. Il pasticcere si adombrò e le spalle imponenti si ingobbirono.
-Kanna mi ha lasciato. Ha detto che a stare con me si fa del male. A quanto pare sono troppo forte e qualunque gesto io facessi… era come se la colpissi…-
Il dolore nelle sua voce era palpabile. Aveva decisamente sbagliato argomento.
-Mi dispiace, non avrei chiesto se avessi saputo…-
Un sorriso triste piegò le labbra sottili del suo interlocutore che scosse la testa.
-Non preoccuparti Taka-chin, va tutto bene. Ora, vai, ho da sfornare il pan di spagna. Buona fortuna!-
Detto questo il gigantesco pasticcere scomparve nel retro del negozio.
Uscendo nell’aria fredda del primo pomeriggio Takao decise di percorrere a piedi anche il restante pezzo di strada fino all’albergo.
Mezz’ora dopo si stava maledicendo in tutte le lingue che conosceva.
Chi gli aveva ordinato di trascinarsi quel bagaglio pesantissimo per strada? Chissà perché, quei tre isolati che lo separavano dall’albergo sembravano essere triplicati. Perché la strada si stava allungando invece di accorciarsi?
-TAKAO!-
Una voce inconfondibile. Chiuse gli occhi per un secondo. Ecco che il suo terrore più grande si stava rivelando concretamente. Shintarou.
Si voltò e lo vide correre sul marciapiede opposto con il camice bianco che ondeggiava. Lo guardò accelerare a testa bassa e gettarsi sconsideratamente in mezzo alla strada per raggiungerlo. Il camion non avrebbe fatto in tempo a frenare. Takao vide tutto come a rallentatore e… fortunatamente riuscì a sventare la tragedia.
Afferrò Midorima per un braccio e lo tirò con forza sul suo lato del marciapiede un attimo prima che il mezzo pesante in uno stridore di freni arrivasse dove poco prima si trovava il medico.
Malamente ammucchiati sul marciapiede, l’uno nelle braccia dell’altro ansimavano ancora per lo spavento.
Stranamente fu proprio l’avvocato a riprendersi per primo.
-Ma che diavolo pensavi di fare? Ti sei bevuto il cervello? Ma ti rendi conto che stavi per ammazzarti? Possibile che non pensi mai alle conseguenze delle tue azioni?!?!? Che questo accada nei confronti degli altri, passi, sei fatto così e nessuna sa meglio di me quanto sei cocciuto e insensibile; ma che tu metta a rischio te stesso è intollerabile! È INACCETTABILE!-
Aveva il fiatone dopo aver gridato tanto, ma non aveva finito.
-Allora?! Non ti rendi conto nemmeno di questo? Perché ti comporti così?-
Non voleva sentire le risposte. Non voleva e basta perché faceva male averlo lì, così vicino, col volto rivolto a terra. Non aveva ancora emesso un suono. Takao chiuse gli occhi. Non aveva più il diritto di fare nulla per lui. Lo aveva deciso uscendo da casa con l’intenzione di non ripensarci.
-Torna a casa Midorima.-
Fece per alzarsi, staccandosi dal grande corpo che aveva trascinato a terra con sé ma due lunghe braccia lo circondarono bloccandolo.
Rimase di sasso.
Shintarou, l’insensibile, il crudele, l’odioso tiranno lo stava abbracciando stretto appoggiando la testa al suo petto.
Il cuore gli fece una capriola e poi un’altra.
-Sh-Shi-Shin-chan…?-
-Non andare.-
Probabilmente non aveva sentito bene. Le parole soffocate dalla giacca su cui l’altro appoggiava il viso erano impastate.
-C-cosa?-
Il corpo a cui era così vicino fu scosso da un tremito.
-Non andartene!-
La voce stavolta era chiara, limpida e forte. Non osava abbassare lo sguardo ma era certo che adesso Midorima stesse guardando verso di lui. No. Non poteva dire quelle cose, non in quel momento. Non quando  aveva finalmente scelto di andarsene.
-Io devo farlo. Così non posso continuare.-
Le braccia attorno a lui lo strinsero più forte.
-Non voglio che tu te ne vada.-
Parole che non pensava di sentir pronunciare mai  da quel testone, adesso venivano ripetute fino alla nausea. Eppure non voleva crederci. In cuor suo era felice ma anche spaventato.
Si era fidato per così tanto tempo, si era davvero prostituito per rimanergli accanto in nome dell’amicizia e dell’affetto. Adesso basta. Non poteva più permettersi di credere. Di sperare.
Non voleva cedere ad un’altra pretesa.
-No. Shin-chan, io non posso ascoltarti, non stavolta. Mi dispiace.-
 
Dopo la sfuriata di Aomine e le parole di Kise, Shintarou non se la sentiva di tornare al lavoro, quindi chiamò Aya e dopo averle chiesto di chiudere lo studio, le fece presente che non era necessario si facesse trovare al lavoro nei giorni successivi.
Era stato crudele a trattarla così, ma in fondo, di lei non gliene era mai fregato nulla. Lo aveva messo in chiaro; per questo, non si scompose quando alle sue parole lei rispose con un semplice “Va bene Dottore”.
Vagò per le strade che gli erano familiari, guardando le persone vivere la loro vita in tranquillità e avrebbe continuato così chissà per quanto se all’improvviso non avesse avvertito una certa urgenza.
Non sapeva dire cosa lo avesse spinto a tornare a casa ma aveva fatto le scale di corsa e aperto la porta come se dentro dovesse cogliere sul fatto un ladro.
Niente.
La casa era silenziosa come al solito, La luce del sole filtrava dalle tende del piccolo salotto e brillava sui dorsi rilegati del libri di legge che  Tak…. No aspetta… dove erano quei libroni che sembravano così noiosi?
Preso da una paura atavica a cui non sapeva dare un nome si precipitò nella stanza del suo convivente. Spalancò la porta e il fiato gli restò imprigionato in corpo.
Era vuota. Gli scaffali di legno erano stati diligentemente svuotati e ripuliti, i cassetti erano aperti per far prendere aria al loro interno così come anche l’armadio dentro cui ormai pendevano solo grucce vuote. Niente più abiti tristemente eleganti. Niente più cravatte dai colori spenti.
La scrivania era pulita, vi era rimasta sopra solamente la vecchia lampada rossa. Uno dei loro primi acquisti. Erano anni che non vedeva il colore del ripiano: da che aveva memoria era sempre stato ingombro di carte e di appunti.
Ma il particolare più triste era vedere quel grande letto matrimoniale tristemente disadorno, senza lenzuola, senza la sua solita coperta aggiuntiva. Quella coperta di pile verde che gli aveva regalato anni prima per Natale.
Sembrava così grande e fredda ora quella stanzetta che aveva sempre reputato troppo piccola e soffocante. Ecco uno dei motivi per cui era diventata la stanza di Takao, che senza batter ciglio aveva lasciato a lui  lo spazio più grande della casa accontentandosi di quel che restava.
Uscì sbattendo la porta, aprì gli sportelli della cucina: sembrava essere tutto a posto. I piatti erano ancora puliti e allineati come se non fosse cambiato niente, ma bastò un’occhiata alla credenza per notare la più grande delle mancanze: vicino alla sua tazza verde preferita, lì, dove una volta c’era stata quella azzurra di Takao, ora c’era un vuoto.
Continuò l’ispezione, forse nella speranza di trovare un pezzetto di lui, forse per riuscire a convincersi che quello che stava scoprendo era tutto uno scherzo.
In bagno, nel bicchiere spuntava solitario un solo spazzolino da denti, il suo. Nella cesta della roba da lavare c’erano solo le sue camicie e la sua biancheria, nel frigo c’era tutto quello che avevano comprato tranne quello schifosissimo yogurt alla fragola che solo il suo coinquilino poteva apprezzare.
Tornò nell’ingresso e vide, nel piattino accanto alla porta, proprio dove aveva gettato il proprio mazzo di chiavi,  la chiave che era stata di qualcuno molto importante per lui.
E che non voleva più saperne di restare lì. Di restare al suo fianco.
Inaccettabile.
Senza curarsi di riprendere la giacca corse fino allo studio legale nella speranza di trovare Takao al lavoro ma quando giunse davanti alla segretaria quella gli riferì che proprio quella mattina Kazunari si era licenziato.
Ma… cosa aveva nella testa quello scemo? Il lavoro gli serviva, doveva fare pratica per dare l’esame di stato. E soprattutto…
Dove diavolo era andato?
Il panico per un attimo minacciò di soffocarlo. Facendo dei lunghi e lenti respiri riuscì ad arginare il baratro nero su cui gli sembrava di essere sospeso. Erano passate circa cinque ore da quando lo aveva visto l’ultima volta. Vacillò. In cinque ore poteva essere anche espatriato e volato chissà dove.
Decise di fare comunque un tentativo. Correndo, senza sapere il perché di tutta quella fretta visto come stavano le cose, si diresse verso l’aeroporto. Le strade erano ingombre, le auto sfrecciavano ma i passanti gli sembravano muoversi a rallentatore.
-Mido-chin!-
Inconfondibile. Quel soprannome era unico e solo una persona lo chiamava così: Murasakibara.
-Atsushi.-
Non sapeva cosa dire. Ma a quanto pareva non ce n’era bisogno. Il gigante in divisa da pasticcere con un baffo di zucchero a velo su una guancia sorridendogli gli indicò il viale alla sua sinistra.
-Hotel “Torre d’oro” quello vicino all’aeroporto. È passato di qui meno di venti minuti fa. E non era proprio in forma.-
Il serioso dottore, per la prima volta nella sua vita, guardando in faccia il vecchio compagno di squadra disse:
-Grazie Atsushi.-
Sospirò, era ancora in città. Non aveva ancora lasciato il Giappone. Riprese  a correre seguito dalla risata scampanellante di Murasakibara.
Percorse un bel tratto di strada guardandosi intorno alla strenua ricerca dell’unica persona di cui gli importasse davvero. C’erano poche persone in quella zona, eppure, osservandole una ad una Midorima non riusciva a individuare quella che stava cercando con disperazione crescente.
Poi, dietro a due donne con il passeggino che camminavano tranquille, finalmente vide spuntare una figura alta che trascinava arrancando un trolley grosso come una persona.
Lo chiamò a gran voce incurante dei passanti che si giravano a guardarlo. Lo osservò irrigidire le spalle prima di voltarsi. I suoi occhi azzurrissimi erano così tristi eppure quel che vi lesse oltre alla tristezza lo spinse ad accelerare il passo per raggiungerlo prima che fosse troppo tardi.
Aveva visto la ferrea intenzione di non cedere e questo, non poteva tollerarlo perché non sapeva se sarebbe sopravvissuto ad un suo rifiuto.
Si era lanciato correndo verso di lui senza pensare ad altro, in quella frazione di secondo nella sua visione periferica era entrato un camion. Nello stesso istante si era sentito trascinare da una forza quasi sovrumana verso il marciapiede, dritto tra le braccia di colui che stava cercando.
Takao lo aveva salvato per un pelo.
Ma il sollievo era durato un secondo perché l’avvocato, appena ripreso il controllo di sé aveva iniziato a sgridarlo urlandogli in faccia come mai aveva fatto prima. A pensarci, lo aveva mai sentito lamentarsi? Aveva mai dovuto ascoltare una sua ramanzina o uno sfottò? No. Mai.
Lo stupore gli impedì di interrompere quella magistrale tirata.
Incassava e incassava ancora ogni accusa, ogni rimostranza senza batter ciglio. Se era quello che serviva per farlo restare, avrebbe incassato ogni giorno.
Poi, come era iniziato, finì. Con la peggior frase che potesse sentirsi rivolgere: “torna a casa”.
No! Non sarebbe tornato a casa se non insieme a lui.
Respirò il suo profumo di pulito e il suo calore approfittando dell’imprevisto contatto e ancora una volta giurò a se stesso che non si sarebbe lasciato allontanare. Mai.
Ripetè le parole che gli bruciavano nel cervello come tizzoni ardenti:
-Non te ne andare! Non voglio che tu te ne vada!-
Strinse le sue braccia intorno a Takao nella speranza che bastasse la forza fisica a trattenerlo lì con lui.
Mille risposte e mille volte lui avrebbe fatto la stessa richiesta. Avrebbe avanzato la stessa pretesa, all’infinito se necessario.
Ma quella partita ai rilanci finì, interrotta dal brusco gesto dell’avvocato che afferrandolo con forza per le spalle lo allontanò da sé con uno strattone.
-Adesso basta Shintarou. Basta pretese, basta ordini, basta prepotenza… basta capricci! Sei un adulto maledizione! Sei un medico! Dovresti sapere cosa significa il termine “accanimento terapeutico”. Basta insistere. Basta davvero… perché io… non mi piegherò mai più alle tue richieste.-
La sua voce era ferma, atona, come se non fosse stato lui a pronunciare quelle parole.
Lo stava davvero perdendo? Era ancora lì, davanti a lui, e allora come poteva essere già così lontano?
Non poteva accettarlo. Ma cosa poteva dire di più? Cosa avrebbe potuto dire ancora per trattenerlo?
Kise gli aveva detto di riflettere su cosa volesse da Takao. Era semplice. Lui voleva tutto. Voleva vedere il suo viso, voleva parlargli, voleva discuterci e voleva far pace. Voleva condividere i ricordi, i pasti, le lacrime e i sorrisi.
Voleva essere sicuro che non lo lasciasse mai e soprattutto voleva che si fidasse di lui e si lasciasse sostenere da lui… voleva amarlo per sempre… ed essere amato da lui… per sempre.
Aspetta un attimo… amarlo?! Voleva davvero che il suo migliore amico lo amasse? E lui? Lo amava?
A pensarci bene, non era poi così impossibile. Aveva avuto una storia con un ragazzo ai tempi del primo anno di medicina. Ovviamente nulla di sentimentale.
Ritsu era un giovane talmente efebico da sembrare ad un primo sguardo una splendida ragazza. Aveva dei lucidissimi capelli neri, i tratti dolci e delle mani così sottili che, andando contro ad ogni pregiudizio pur di averlo, Midorima si era concesso di trascorrere due splendide notti di passione in sua compagnia.
Quindi era innamorato di Takao? Del suo migliore amico? Come doveva dirglielo? E, soprattutto, come avrebbe reagito alla sua confessione?
C’era il rischio che, vista la situazione, fuggisse a gambe levate e non tornasse mai più, ma… se era rimasto al suo fianco per tutti quegli anni nonostante tutto… era improbabile che scappasse senza almeno confrontarsi con lui.
Lo sentì alzarsi e spolverarsi i vestiti. Non aveva più tempo. Doveva decidere se giocarsi quella carta a costo di rischiare oppure lasciarlo andare in silenzio ritirandosi in buon ordine.
Alzò lo sguardo su di lei e tutto quel che riuscì a vedere fu una sagoma indistinta. Merda. Gli occhiali. Tastò intorno a sé alla ricerca della montatura e quando la trovò bastò un attimo per capire: distrutta.
-Credo siano finiti sotto di noi quando ti ho tirato via dalla strada. Te li ripagherò.-
Parole formali, niente a che vedere con i dialoghi a cui era abituato anche se erano molti mesi che non ne avevano uno vero.
Fanculo. Non poteva lasciare che finisse tutto così. Non ora che aveva preso atto dei suoi sentimenti. Non adesso che sapeva quel che voleva.
-Non andare via! Non puoi lasciarmi da solo! Che ne sarebbe dei miei sentimenti? Io ti amo Takao! Ti amo e credo di averti sempre amato!-
Stava… stava piangendo? Perché sentiva le lacrime scorrere calde e inarrestabili sulle guance?
-Fanculo! Non ti lascerò andare hai capito? A costo di picchiarti a sangue non ti farò andare più lontano di così da casa nostra!-
Un singhiozzo gli squassò il petto obbligandolo a tacere e subito due braccia e un corpo caldo furono attorno a lui, ma la cosa più bella fu sentirsi avvolgere dal rassicurante profumo di limone che sapeva essere solo di Takao.
-Shhhh… Non sforzarti, non piangere Shin-chan. Ho capito. Cerchiamo un posto dove parlare con calma. Qui non possiamo.-
Shintarou fu gentilmente aiutato a rimettersi in piedi. Senza occhiali non riusciva nemmeno a distinguere le proprie scarpe nere dal marciapiede scuro.
Andare da qualsiasi parte sarebbe stato difficile. Ma non poteva arrendersi. Era appena riuscito ad ottenere un confronto in cui potersi giocare ogni carta a disposizione per farlo tornare. Non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. A costo di andare a sbattere contro ogni fottuto ostacolo gli si fosse parato davanti.
Sentì le rotelle del trolley muoversi e vide la sagoma del suo migliore amico muovere qualche passo per allontanarsi da lui. Inghiottendo il terrore che provava a non vedere, rifiutandosi di cedere all’istinto di accovacciarsi e non avanzare più, mosse qualche passo incerto e subito inciampò.
Non fece in tempo a formulare un pensiero che già un braccio forte e sicuro si protese a sorreggerlo.
 
 Takao iniziava a perdere la pazienza. Gli era capitato troppo spesso di recente a dire il vero. Sentire Midorima avanzare ancora pretese nonostante se ne fosse già andato lo aveva improvvisamente risucchiato nella fogna da cui era faticosamente strisciato fuori nelle ultime ore.
Fu stranamente liberatorio urlargli contro ancora e ancora, poi, esaurito lo slancio, tacque.
Era lì, in piedi, lo sovrastava e lui non faceva alcun tentativo di alzarsi.
Continuava a fissare per terra in silenzio stringendo forte i pugni. Poi alzò lo sguardo su di lui e la confusione fiorì sul suo volto. Non poteva vederlo senza occhiali.
Aveva sentito la montatura di plastica frantumarsi sotto la sua schiena quando erano caduti a terra.
A giudicare dall’espressione contrariata di Shintarou quando la toccò, anche lui si era reso conto che erano irrecuperabili.
E poi la bomba.
Fregandosene della situazione, dei passanti e del proprio tono isterico Midorima gli sbattè in faccia i suoi sentimenti. Gli disse di amarlo e che se  fosse andato via non avrebbe saputo che farsene di quei sentimenti.
Il mondo doveva aver iniziato a girare al contrario. Shin-chan che parlava di amore? Che diceva così chiamare di amare lui? Un uomo?
Non era finita.
Lacrime grosse e disperate iniziarono a rotolare lungo quel viso che ormai gli era così familiare.
Lo stupore gli fiorì nel petto come un foro di pallottola. Tutto poteva aver visto ma mai si era sognato che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe visto il suo migliore amico piangere per lui e dirgli che l’amava.
Era così felice che avrebbe potuto volare se solo non fosse stato troppo impegnato ad accucciarsi e stringere al petto quella creatura fragile ed estranea che sembrava stesse per andare in frantumi se non l’avesse tenuta insieme con la forza.
Non era il posto adatto per farlo piangere. Non voleva che nessun altro lo vedesse in quello stato.
Lo aiutò ad alzarsi e recuperò le sue cose avviandosi per strada. All’albergo mancano meno di cento metri a piedi e lì nessuno li avrebbe disturbati.
Più che vederlo lo anticipò. Nel momento in cui la forte miopia tentò di affondare Midorima lui era già lì, pronto a sorreggerlo.
-Tieniti al mio braccio, così non cadrai. Andiamo a parlare in posto tranquillo.-
Con un silenzioso cenno d’assenso la grande mano del dottore gli afferrò saldamente  l’avanbraccio e lentamente iniziarono ad avanzare.
Arrivati nell’atrio dell’hotel Takao sbrigò in fretta le pratiche e ottenne la chiave. In ascensore nessuno dei due parlò eppure la tensione saliva man mano che si avvicinavano alla stanza.
Percorsero relativamente rapidi il corridoio di servizio ed entrarono nella stanza numero 26.
I bagagli vennero abbandonati di fianco alla porta che fu chiusa a chiave.
L’avvocato fece accomodare  Shintarou sul bordo del letto singolo che aveva prenotato per sè e andò a sedersi sull’unica sedia della stanza.
Aveva riflettuto durante il tragitto per capire cosa fosse saggio dire e cosa no. Si era interrogato su cosa significasse essere amato da Shin-chan e soprattutto si domandò, cosa ci fosse nel proprio cuore.
Era confuso ma preferì parlare col cuore in mano.
-Sono così stanco Shin-chan. Io… io mi vergogno ad ammetterlo ma non ero stanco solo della situazione al lavoro, ero stanco di sentirmi sempre e comunque in difetto nei tuoi confronti. Mi riprendevi, mi sgridavi, mi minacciavi ed io arrancavo dentro e fuori casa nel tentativo di starti dietro. Stavo sbagliando tutto. Non avevo alcun obbligo nei tuoi confronti. L’affetto che provavo e provo per te non è bastato ad arginare la marea nera che mi è cresciuta dentro. Gli incubi, gli attacchi di panico, la depressione… erano il risultato della mia lotta giornaliera contro la rabbia e contro la frustrazione che ho accumulato in questi ultimi sei anni.-
Sospirò sperando che l’altro non lo interrompesse.
-Non posso continuare così. Non con questa rabbia che mi soffoca e che mi trasforma in un pazzo furioso che aggredisce la gente. Io non sono così e non voglio esserlo.-
Un'altra pausa per mettere a posto gli ultimi tasselli.
-Quando proponesti di convivere per dividere le spese io accettai perché all’epoca ero innamorato di te. Sapevo che, anche se non esclusivamente, avevi gusti fuori dal comune. Quel ragazzo con cui sei uscito qualche volta, quello bello come una modella, era la chiara testimonianza, ai miei occhi, che in qualche modo avrei potuto attrarre il tuo sguardo dopo anni e anni trascorsi a desiderarti da lontano.-
Prese a piene a mani tutto il suo orgoglio.
-Ti ho amato per più di otto anni. Ti ho amato sul serio accettando il tuo caratteraccio e la tua prepotenza ma ad ogni ragazza, ad ogni donna, ad ogni nuova partner mi ritrovavo a pensare che quell’unica volta fosse stata un errore di valutazione. Un esperimento magari. Ho soffocato i miei sentimenti con forza perché non volevo ti accorgessi di nulla. Ora mi rendo conto che anche se non lo avessi fatto con tanta cura non te ne saresti reso conto lo stesso.-
Rise di sé stesso sentendo lo sguardo sfocato di Midorima bruciargli la pelle.
-Ho soffocato tutto perché nel frattempo tu non solo avevi smesso di considerare partner maschili, ma avevi anche iniziato a trattarmi come il tuo cameriere piuttosto che come un amico. Mi ha fatto male Shin-chan, molto male, e la situazione al lavoro non ha fatto che allargare la voragine dentro cui stavo già precipitando. Quel sentimento, non è morto, nonostante tutti i miei sforzi. Io… io credo di amarti ancora.-
Gli occhi di smeraldo di Shintarou si spalancarono per lo shock.
-Tu… tu mi amavi?-
Finalmente la sua voce, anche se ancora venata di pianto. Quella voce lo aveva interessato subito: calda, avvolgente, sensuale eppure così distaccata. L’interesse era diventato curiosità e la curiosità amore. Quell’amore era diventato la sua rovina.
-Sì. Ti ho amato tanto e a lungo. In modo diverso, probabilmente ti amo ancora. Dubito che smetterò mai. Ma questo non cambia la mia decisione di andar via. Non posso tornare a fare la vita di prima. Semplicemente non posso.-
Le spalle dell’uomo davanti a lui si incurvarono. Il silenzio si dilatò crescendo come una bolla, divenendo assordante, soffocante come se lo stessero respirando. Fu il medico a romperlo.
-Sono stato uno stronzo. Io sapevo che comportarmi così con te ti feriva, ti faceva soffrire. Sapevo che ad ogni insulto, ad ogni pretesa, ad ogni sgridata andavo incrinando la tua fiducia in me  e il tuo stesso affetto. Ma non riuscivo a fermarmi perché era l’unico modo che conoscessi per dimostrarti che ero davvero legato a te.-
Incredibile. Stava davvero ammettendo ogni cosa.
-Non volevo vedere. Non volevo pensare a cosa sarebbe successo se avessi tirato troppo la corda con te. Poi ho iniziato a vedere.-
Sospirò stropicciandosi gli occhi con le dita.
-Vedevo che le mie parole avevano smesso di ferirti come all’inizio, che non reagivi perché preferivi farti scivolare i miei insulti addosso che non cercavi più di far conversazione con me. Ho visto che mi allontanavi e mi ha fatto male. Ho voluto vendicarmi e sono stato un idiota.  Quando…-
Gli si ruppe la voce e Takao fu sul punto di andare di nuovo ad abbracciarlo. Strinse forte tra le mani i braccioli della sedia e restò fermo.
-… quando sono rientrato oggi e ho visto la tua camera vuota mi sono sentito morire. Non c’era la tua tazza, non c’erano tutti quei piccoli oggetti che mi facevano ancora sentire legato a te nonostante il silenzio di questi mesi. Nonostante la mia crudeltà gratuita. Io… ho bisogno di te e al pensiero che tu stia per decidere di andartene per sempre da casa nostra… mi sento così triste che le lacrime non si vogliono fermare.-
Lo vide passarsi rabbiosamente una manica sul volto. Le lunghe ciglia erano ancora umide e gli venne voglia di asciugarle a suon di baci per assaporare il sapore della sua tristezza.
-Ti amo. Non è giusto dirtelo così, non è corretto fartelo sapere ora, ma l’ho scoperto anche io solo in questo momento e… se serve a convincerti a restare… sono ben felice di ripeterlo. Sono disposto a farmi gridare contro da te per i prossimi dieci anni se questo mi garantirà che mi starai vicino. Sono pronto a prendermi delle grandi botte di “vaffanculo” se mi capiterà di trattarti in un modo che non ti va a genio… aaaah… che mal di testa.-
La sofferenza era evidente sul suo volto e Takao non avrebbe saputo dire se fosse solo dolore fisico o anche emotivo.
-Aspetta un attimo. Stenditi intanto.-
Senza farselo ripetere l’altro si stese occupando tutto il piccole letto e chiuse gli occhi con un gemito.
 Approfittando di quel momento di tregua il fuggitivo andò in bagno e ripiegato con cura un asciugamano lo intrise d’acqua fresca.
Si avvicinò al letto dove Midorima sembrava essersi addormentato.
Aveva delle ciglia così lunghe, le aveva sempre ammirate, così folte e ricurve come quelle di una ragazza. Accarezzò con lo sguardo quei lineamenti familiari: era sicuro che se avesse saputo disegnare probabilmente avrebbe potuto riprodurli ad occhi chiusi. Conosceva ogni ombreggiatura, ogni piccola asimmetria di quel viso.
Il respiro di Shintarou era lento e regolare, sembrava davvero dormire beato, e Takao non resistette. Non dopo la sua confessione e le sue preghiere. Lui lo amava e glielo aveva detto.
Avvicinò il suo volto a quello del medico addormentato sgombro dalla montatura degli occhiali e posò con dolcezza le labbra sulle sue.
In un attimo due forti braccia lo strinsero e lo trascinarono giù mentre le labbra che fino ad un attimo prima erano ferme e inermi si socchiudevano per lasciargli la libertà di approfondire il bacio.
Qualcosa scattò nella testa dell’avvocato e gettando alle ortiche ogni proposito fece ciò che desiderava fare da tantissimo tempo: si lasciò abbracciare e rispose al bacio come se non ci fossero problemi tra loro, come se non stesse scappando.
Le loro lingue danzavano accarezzandosi e scivolando l’una sull’altra prima lentamente e poi sempre più veloce, più profondamente mentre le mani del medico vagavano sul corpo dell’altro affamate alla ricerca della pelle.
Quando finalmente quelle grandi mani fredde toccarono la calda nudità dei suoi fianchi, Takao tornò alla ragione.
-F-fermati Shin-chan! N-non posso!-
Incurante delle preghiere, sfruttando la massa del proprio corpo massiccio Midorima rotolò trascinandolo con sé in modo da capovolgere le posizioni. Ora il suo peso premeva l’avvocato contro al materasso e per quanti sforzi potesse fare la sua preda non sarebbe riuscita a sfuggirgli.
-Shintarou! Ho detto…-
Le parole gli morirono in gola quando la bocca calda e famelica del suo migliore amico calò sulla sua divorando le sue proteste, soffocando le rimostranze, stuzzicando i suoi desideri.
Puntandogli le mani sul petto largo e sodo fece un tentativo di spostarlo ma in un attimo i suoi polsi furono intrappolati in una morsa e bloccati con forza vicino alla testiera del letto.
No. Non andava bene. Le cose avevano preso la piega sbagliata.
Non riusciva a muoversi sotto quel peso, non poteva spostare le braccia da quella posizione che lo riduceva all’impotenza ed infine, il suo corpo stava reagendo a quell’assalto brutale nel più imbarazzante dei modi.
Le sensazioni che provava erano fantastiche, erano la cosa più giusta che avesse mai sentito, ma la sua testa non sopportava la situazione. Non con tutte quelle cose da chiarire tra loro. Non quando non sapeva se riabbracciare o meno i sentimenti che aveva sepolto tanti anni prima.
Era quasi uno stupro. Non era stato lui a volerlo.
Gli occhi gli si offuscarono e le lacrime iniziarono a scendergli ai lati del volto colandogli nelle orecchie.
Fu il suo gemito a immobilizzare Midorima.
 
Takao stava piangendo. Lo stava baciando mentre le lacrime scorrevano inarrestabili verso il cuscino.
Cosa stava facendo? Non aveva detto che avrebbe rispettato la sua volontà se fosse tornato? E invece come stava andando a finire?
Abbassò il capo fino ad appoggiarlo al suo petto tremante.
Gli lasciò libere le mani maledicendosi per i segni rossi che intravide sui suoi polsi. Li vedeva anche senza gli occhiali.
-P…perdonami. Io… non merito che tu resti con me. Hai ragione…-
Prese un respiro tremante e si alzò in piedi. Barcollando a tentoni si allontanò dal letto fino ad andare a sbattere contro la parete.
-De-devo andare.-
Takao tra le lacrime poteva veder il suo volto cereo, mortificato e ferito.
-N-non riesco a… controllarmi.-
Rimettendosi in equilibrio, protendendo le mani fece qualche passo e riuscì a raggiungere la porta.
L’avvocato sapeva che se lo avesse fatto uscire, sarebbe davvero finita: Shintarou non era uno che tornava sui propri passi. Eppure non riuscì a muoversi mentre l’altro abbassava la maniglia e lentamente usciva bisbigliando un semplice “Addio”.
Poi tutto finì.
Il suono della porta che si chiudeva, il rumore ovattato dei suoi passi incerti nel corridoio che pian piano si faceva più debole fino a sparire.
Era finita. Era libero.
Allora perché le lacrime continuavano a scorrere inarrestabili e il petto gli doleva come se lo avessero pugnalato?
Dio, non si era mai sentito più solo. Anche andandosene, qualche ora prima, aveva sempre sentito dentro di sé, che Midorima sarebbe rimasto sempre un suo amico. Poteva lasciare la casa che aveva  faticosamente curato per anni, poteva rinunciare al lavoro che aveva sperato di ottenere con mille sforzi, ma non riusciva proprio a tollerare il senso di perdita che sentiva in quel momento.
Avrebbe gettato ogni cosa alle ortiche pur di non perdere una singola persona. Anche se lo aveva fatto soffrire. Anche se lo aveva insultato e denigrato. Perché quella persona aveva ingoiato l’orgoglio per cercarlo e chiedergli di tornare. Aveva abbandonato la maschera di indifferenza che era solita portare per mostrargli dei sentimenti che non sapeva nemmeno di aver provato per tanto tempo.
Tutto per amor suo. Per lui. In tanti anni non lo aveva mai visto così sconvolto, così perso. Si guardò i polsi. I segno rossi lasciati dalle forti mani del medico gli formicolavano ancora e, per qualche oscura ragione, nel concentrarsi su quella sensazione il suo corpo si fece caldo e languido.
No. Non poteva eccitarsi per quello. Era impossibile che desiderasse quel trattamento rude e possessivo.
Il suo corpo sembrava pensarla diversamente. Lo voleva. Lo bramava eccome. Rabbrividì.
Ma non lo voleva solo per la fisicità prorompente, non lo voleva solo per la sua lussuria. Voleva vedere e sue espressioni, voleva vederle tutte. Voleva lavare le sue camicie e stirarle alla domenica per poi riporle nei suoi cassetti profumate di pulito e di sole.
Desiderava vederlo dormire tranquillo dopo una lunga giornata di lavoro e sentirlo ridacchiare davanti alla televisione quando pensava che non gli prestasse attenzione.
E allora…? Cosa stava aspettando?
Saltò giù dal letto e si avventò sulla maniglia della porta gettando dalla finestra l’orgoglio, la depressione, le vessazioni e tutto il resto. Alla fine, forse, era un masochista; ma se questo significava essere giusto per Shintarou, allora era ben felice di essere privo di orgoglio, privo di carattere e pacifico. Il suo temperamento sedava alla perfezione il fuoco scoppiettante dell’altro.
Corse giù per le scale e arrivato nell’atrio lo intravide uscire a passo incerto incespicando sui gradini.
Incurante di tutti i motivi per cui avrebbe dovuto lasciarlo andare e tacciando di malagrazia ogni protesta della sua coscienza che lo richiamava a mantenere una certa coerenza si lanciò fuori.
La luce arancione del tramonto lo accecò per un attimo ma strizzando gli occhi non si fermò.
Allungò una mano e gli afferrò un braccio.
Un allibito Midorima lo scrutò in volto sforzandosi di metterlo a fuoco. Non gli lasciò il tempo di parlare.
-Tu! Tu sei il più egoista, egocentrico, tirannico e prepotente scemo che io abbia mai conosciuto! Sono arrivato a detestarti e volerti lasciare, lo capisci?! Tu sei il peggior individuo con cui io abbia mai avuto a che fare e se i miei familiari ti conoscessero meglio mi incatenerebbero in cantina piuttosto che lasciarmi un solo secondo  in più con te, eppure ti amo!-
Prese fiato e più forte disse:
-TI AMO! HAI CAPITO?-
Shintarou lo fissava a bocca aperta, gli occhi accesi di gioia e stupore.
-T-tu… vuoi restare? N-non mi lascerai?-
Che voce incerta, così poco da lui, eppure così giusta, così incredibilmente perfetta in quel frangente.
-Sì! Sì voglio restare, e sì, non ti lascerò.-
Ci pensò su un secondo. Era la decisione giusta ed il peso che aveva sul cuore e che fino a poco tempo prima sembrava non volersene proprio andare, si dissolse.
-Però voglio che smetti di fare il prepotente sempre e comunque. Non lo tollererò più.-
Sperava che le sue parole suonassero convincenti e soprattutto serie.
Gli giunse in risposta un suono sconosciuto. Una risata bassa, contagiosa e spensierata.
Midorima, con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi, rideva di gioia, la stessa che gli stravolgeva i lineamenti severi addolcendoli.
A Takao si inumidirono gli occhi a vederlo così.
Sì, aveva fatto bene a fermarlo. Aveva fatto bene a decidere di non lasciarlo andare.
Si ritrovò lì, sulle scale dell’albergo che voleva usare per scappare a ridere insieme all’uomo che amava. Sì, lo amava nonostante tutto. Lo amava sopra ogni cosa ed era sicuro, per la prima volta in dieci anni, che i suoi sentimenti fossero ricambiati in egual misura.
Risero e risero ancora fino ad avere le guance rigate di lacrime e gli addominali in fiamme per lo sforzo sorreggendosi a vicenda quando le gambe sembravano cedere sotto l’assalto degli eccessi di risa.
Li fissavano tutti. Sia le persone nella hall, sia i passanti eppure loro non vedevano nessuno tranne che loro stessi in quel momento così incredibilmente perfetto.
Quando finalmente ripresero fiato, tornarono in camera a recuperare i bagagli di Takao e pagarono la stanza anche se sarebbe rimasta vuota.
Uscendo nell’aria fredda delle prime ore della sera, chiamarono un taxi e comodamente seduti al caldo tornarono a casa.
Midorima inforcò un paio di occhiali di riserva non appena misero piede nell’appartamento e nel giro di mezz’ora i libri, la tazza e i vestiti tornarono al loro posto. Persino la biancheria sporca fu riposta nel cesto.
Mentre era i fornelli, l’ex fuggitivo, si godette la sensazione familiare del prendersi cura del suo coinquilino. Lo ascoltò ridacchiare piano in risposta alla battuta di un comico in televisione.
Sorrise ripensando alla sua vera risata.
Finalmente l’aveva sentito. L’aveva visto ridere di cuore. Gli sembrava di aver assistito ad un miracolo… e che miracolo. Quel suono ancora gli rimbombava in testa e decise di conservarlo, segretamente, nel cuore per sempre.
 
Sul grande letto nella stanza d’albergo più lussuosa che era riuscito a trovare con così poco preavviso Shintarou Midorima accarezzò pigramente la pelle serica del suo compagno che dormiva beato.
I segni rossi sui suoi polsi e sulle sue caviglie stavano svanendo e un po’ si dispiacque perché quella notte, in quella lunghissima magica notte, aveva usato ogni briciolo di fantasia per far godere Takao come mai aveva fatto in vita sua.
Ripensò al quel corpo magro e pallido esposto al suo sguardo. Le braccia e le gambe divaricate e tremanti bloccate al telaio del letto mentre lui con mani esperte stuzzicava, toccava baciava e mordeva senza sosta.
Non gli aveva dato tregua e non gli aveva concesso alcuno sfogo per ore e ore riducendolo ad un grumo di carne sangue e lussuria.
Lo aveva pregato, inarcando il corpo, di dargli sollievo e lui si era beato di quel potere. Amava sentirlo implorare.
Lo aveva preso in bocca, lo aveva succhiato stringendo le labbra  costringendolo a cavalcare il piacere che gli procurava; quando lo aveva sentito vicino all’apice si era fermato, giusto il tempo di far scemare l’orgasmo per poi ricominciare a succhiarlo, scivolando sulla sua lunghezza fino a prenderlo tutto, fino in gola.
Lo aveva accarezzato ancora con la lingua massaggiando con una mano i pesi gemelli che vibravano rossi e duri tanta era la necessità di dar sfogo alle ondate di piacere. Ma lui aveva programmi ben diversi e voleva giocare ancora un po’ prima di dargli sollievo.
-Shin-chan…! Non posso..! Non… riesco…!-
Aveva strattonato le cinghie che lo tenevano fermo.
-Oh no, caro il mio Takao, io voglio giocare come si deve prima di farti venire….-
Gli aveva sussurrato nell’orecchio accarezzandolo col fiato caldo per poi leccargli la mascella.
-Voglio godere anche io, non ti sembra giusto?-
Gli aveva leccato la gola ed era sceso a gustare il suo petto ampio e sodo, aveva fatto scorrere le punte delle dita sulle costole che spuntavano in rilievo sul suo addome e infine aveva giocato con la lingua attorno all’ombelico della sua vittima.
Lo aveva sentito tremare esausto ancora e ancora a ritmo delle ondate di piacere che la sua lingua gli procurava.
Aveva alzato lo sguardo sul suo viso: gli occhi lucidi e umidi socchiusi, la bocca semiaperta e le guance rosse come mele mature. Era l’immagine più erotica che avesse mai visto. Ed era lì, davanti a lui.
Non aveva resistito oltre. Aveva fatto scivolare un dito tra le sue natiche fino alla porta del suo corpo e con un unico lento movimento l’aveva infilato a fondo.
Takao si era agitato come se lo avesse attraversato una scarica elettrica. Aveva teso i muscoli interni accarezzando e stringendo il suo dito. In risposta lui aveva iniziato a muoverlo, piano, dentro e fuori facendo attenzione a premere il polpastrello proprio il quel punto speciale. Lo aveva sentito tremare, fremere mentre gemeva tentando di controllare il volume della voce. Era stato così adorabile mentre si mordeva le labbra per restare in silenzio.
Aveva infilato un secondo dito e ancora quel corpo bollente glielo aveva risucchiato con forza.
Gli sfuggì un gemito nel ricordare quella sensazione calda. Era arrivato al limite anche lui ormai ma aveva voluto aspettare ancora un po’.
Ancora e ancora, insistendo e stringendo i denti aveva usato le dita per farsi spazio, per stimolarlo e allargarlo portandolo più e più volte sull’orlo del precipizio.
-T-ti prego Shin-chan…! L-lo voglio… ora…!-
Il corpo di Takao era in preda alle convulsioni e quando finalmente aveva spinto dentro di lui la propria eccitazione entrambi erano stati sul punto di venire subito.
Esercitando su se stesso il più rigido autocontrollo e stringendo forte l’inguine del compagno per impedirgli di sfogare l’ondata di piacere, era rimasto fermo per qualche secondo ansimando. Sporgendosi all’indietro gli aveva liberato le caviglie su cui spiccavano due segni rossi come bruciature e si era messo le sue gambe sulle spalle per poter entrare più a fondo.
Poi aveva iniziato a muoversi. Non era stato gentile, non aveva avuto alcun riguardo.
Aveva martellato dentro quel corpo senza preoccuparsi di essere delicato. I muscoli interni lo avevano stretto in una calda morsa che insieme alla frizione lo avevano portato all’apice del piacere proprio nel momento esatto in cui  anche Takao aveva urlato il suo nome.
Era stato incredibile. Non aveva mai goduto così tanto né così a lungo.
I ricordi di quella notte avevano risvegliato il suo corpo.
Incerto aveva lanciato uno sguardo al suo compagno che continuava a riposare beatamente inconsapevole delle sue intenzioni.
Scivolò fuori dal letto e rovistando nella piccola valigia trovò quel che cercava.
Tornando sotto alle coltri calde abbracciò impacciato il corpo dormiente respirandone il profumo di limone e  di sesso. Con una mano lentamente iniziò a stuzzicargli l’inguine e con l’altra cercò uno dei piccoli capezzoli rosa per poterlo accarezzare.
Nel sonno l’uomo gemette piano ma non si svegliò. Il suo corpo, invece, sì.
Shintarou quasi sorrise nel constatare come rapidamente l’altro avesse imparato a riconoscere il suo tocco e a reagire ad esso. Erano trascorse solo poche settimane dalla loro prima notte insieme.
Si sfregò le mani contenendo a stento l’eccitazione e si preparò a giocare con l’ignaro Takao, l’uomo che, ogni giorno, lo trasformava in una persona migliore. 
   
 
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