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Autore: OnnanokoKawaii    18/11/2015    2 recensioni
La generazione dei Miracoli dieci anni dopo, alle prese con la vita e i suoi numerosi problemi, con lo stress, con i fallimenti.
Convivere con i sogni infranti o col peso della loro realizzazione sembra difficile e lo è ma a volte.... il destino ci mette lo zampino e... il passato torna ad essere presente....
E forse... anche migliore.
Quattro storie, otto personaggi in un mondo che spaventa se si è soli ma che si può affrontare se si è insieme.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Kiseki No Sedai, Taiga Kagami, Takao Kazunari, Tatsuya Himuro
Note: Lemon, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Atsushi lasciò casa di Kuroko e Kagami con un indescrivibile senso di calore. Quella bambina, Sakura, gli era davvero entrata nel cuore. Non solo aveva vinto la paura delle sue dimensioni e della sua altezza così fuori dal comune, ma si era anche lasciata coccolare e tenere sulle spalle. L’aveva chiamato “Zio Atsushi”, gli aveva sorriso con amore e lo aveva guardato con ammirazione, come se davvero fosse degno della massima stima e poi lo aveva sorpreso con la divertente richiesta di insegnarle a preparare i dolcetti al cioccolato.
E che fosse dannato, lui aveva tutte le intenzioni di insegnarle tutto ciò che voleva.
L’aveva stregato.
Mentre si dirigeva verso casa si crogiolò nella sensazione calda e avvolgente che dava il sapere che qualcuno lo apprezzava sul serio e che voleva trascorrere del tempo in sua compagnia anche se era troppo grosso e goffo per essere definito “normale”.
Sorrise alla notte.
Diamine, quanto era che non sorrideva così tanto?
Rientrò in negozio lasciandosi avvolgere dalla familiare fragranza dei suoi impasti e delle sue  creme. Aveva studiato a lungo e duramente per riuscire ad aprire quel piccolo negozietto che lo impegnava da prima dell’alba a sera inoltrata. Ma amava il suo lavoro.
Amava la sensazione delle dita che affondavano negli impasti soffici, la consistenza setosa della farina e il dolcissimo profumo della vaniglia eppure, la sua passione era il cioccolato in ogni sua forma, varietà e lavorazione.
Il cioccolato fondente era ciò che, in definitiva, lo rendeva irrecuperabilmente schiavo delle bacche di cacao. Dolce e amaro, ricco di sapore e sfumature. Tanti dicevano che fosse come l’amore.
Si lasciò sfuggire un sospiro mentre riponeva a lievitare le brioches per il giorno seguente e saliva al piano superiore, a casa sua.
L’amore non era mai stato facile per lui. Kanna, la sua ultima ragazza era stata dolce e carina finchè non erano diventati più intimi. Il suo fisico enorme aveva anche la sfortuna di essere proporzionato in ogni sua parte e lei aveva patito la sua stazza, la sua forza, la sua irruenza.
La loro storia era durata pochi mesi. Faceva male sapere che se non fosse stato così com’era sarebbe stato amato di più.
Prima di lei c’era stata Rio, una graziosa musicista in erba, minuta e delicata non aveva gradito nemmeno essere abbracciata da lui. Diceva di sentirsi seppellita. Anche lei dopo pochi mesi lo aveva lasciato. Senza tante scuse, senza nemmeno tentare di mascherare che il motivo era il suo fisico esageratamente grande.
Inesorabilmente, mentre espletava tutti i passaggi di rito della preparazione per andare a dormire, Murasakibara Atsushi ripensò alla sua prima esperienza sessuale. L’unica volta in cui non era stato “troppo”.
Peccato aver finto di non ricordarla.
Era al suo secondo anno del liceo e durante l’Inter High la sua squadra era stata eliminata dallo Shuutoku in cui all’epoca giocavano Shintarou e Takao.
I senpai del terzo anno alla fine della partita avevano annunciato il loro ritiro e con loro lo fece anche Himuro Tatsuya, il suo più caro amico a quei tempi.
Nonostante avesse un anno di più Atsushi aveva legato con lui ad un livello molto profondo, si erano trovati e riconosciuti, si conoscevano da subito pur non conoscendosi davvero.
La loro intesa sul campo da basket era totale e la combinazione delle loto tecniche di gioco era quasi inarrestabile, ma non era solo il gioco a unirli.
C’era una sorta di rispetto, di tacito affetto tra loro. Un sentimento inspiegabile e inclassificabile.
Quella sera, durante la festa d’addio erano comparsi degli alcolici e, pur essendo vietati, nessuno di loro si tirò indietro dal provare a fare l’adulto. Avevano bevuto e mangiato fino a tarda sera, rispolverarono aneddoti, ridendo e scherzando fino a quando l’addio non divenne ufficiale.
Lentamente, quasi come un sol uomo i membri del terzo anno si erano alzati e  avevano lasciato barcollando la camera di Atsushi usata come ritrovo perché la più grande.
A causa della sua stazza Murasakibara non aveva mai avuto un compagno di stanza; ogni volta che i custodi vedevano il suo enorme corpo trovavano il modo di liberare una stanza singola per condannarlo alla solitudine.
Quella sera non era rimasto solo. Himuro si era addormentato sul suo letto, un po’ per la stanchezza della partita e un po’ per l’alcol in corpo non sembrava volersi svegliare.
Atsushi lo aveva scosso e lo aveva chiamato fino a che, finalmente, uno di quegli occhi neri non si era aperto mettendolo a fuoco.
Chissà cosa era scattato in quel momento, non sapeva come spiegarlo e se doveva dirla tutta aveva solo ricordi frammentari di quel che era avvenuto dopo; lampi in un mare buio e ovattato. La pelle chiara e liscia di Tatsuya sotto alle sue mani, il suo sapore sulle labbra.
Aveva un ricordo vago dei loro gemiti, del ritmo del loro amore e della forza con cui si erano allacciati l’uno all’altro. Poi il buio.
Con una stretta al cuore ripensò a quando si era svegliato nudo e solo nel proprio letto con i ricordi che gli galleggiavano nel cervello come i resti di un sogno. Il corpo indolenzito e alcuni piccoli inequivocabili segni tra il colo e la spalla.
Di Himuro nessuna traccia.
Lo aveva incontrato nei corridoi quella stessa mattina e nonostante l’ imbarazzo aveva trovato il coraggio di chiedergli come stesse e quando fosse tornato in camera, ma le risposte furono assolutamente normali, sembrava davvero  non ricordare nulla.
Eppure i segni che si era trovato sul corpo e i ricordi così vividi… non potevano essere un sogno… giusto? E poi, perché un liceale con gli ormoni lanciati a mille avrebbe dovuto fare un sogno erotico su un compagno di squadra invece che sulle belle pollastrelle che frequentavano la sua stessa classe?
L’argomento non era mai più uscito e l’anno successivo, un Tatsuya ormai diplomato aveva deciso di intraprendere la carriera artistica. Era volato in America ed era tornato qualche anno dopo per inaugurare la sua prima mostra che, ovviamente, era stata un successo.
In un modo o nell’altro lui e gli altri della vecchia e ormai sfilacciata Generazione dei miracoli avevano mantenuto i contatti e grazie a Kagami e a Kuroko, aveva sempre avuto notizie del suo sempai.
Si era sempre chiesto, in tutti gli anni che avevano trascorso senza vedersi né parlarsi, cosa li avesse spinti ad amarsi così intensamente, così disperatamente e infine, come avesse fatto Himuro a dimenticare tutto.
Con questi pensieri malinconici il pasticcere si mise a letto e quando il suo grande corpo, stanco dalle troppe ore di lavoro, finalmente sprofondò nel soffice abbraccio delle coperte le sue palpebre si chiusero calando sul mondo un sipario scuro e una coltre rassicurante che tagliò fuori i suoi pensieri raminghi.
Non doveva pensare a quella notte. Non doveva ripensare a Tatsuya. Non voleva riaprire una ferita che aveva chiuso dopo anni e anni di interrogativi e sofferenza.
“Mai più” si promise, mai più avrebbe regalato se stesso con altrettanta fiducia. Le uniche volte in cui  aveva sperato di poterlo fare era rimasto così deluso che aveva creduto di affogare nel suo solito silenzio.
Aveva troppe cose da dire e nessuno che avesse interesse ad ascoltarle e nonostante tutto quelle parole premevano per uscire da così tanto tempo che ormai erano diventate solo un sordo pulsare in fondo alla gola.  Parole che nessuno avrebbe mai ascoltato.
Himuro Tatsuya scese dalla propria auto davanti all’hotel in cui avrebbe alloggiato per le successive quattro settimane.
Tokyo non gli piaceva particolarmente, era caotica, grigia e le persone non amavano socializzare come in America, però doveva ammettere che erano stati proprio quei musoni ad aver fatto di lui l’artista famoso che era.
La sua manager, Azuka, camminava al suo fianco blaterando di cifre, date e nomi tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre con le mani scriveva un messaggio sul palmare.
Come facesse a lavorare in quel modo anche mentre camminava per Himuro restava un mistero ma finchè faceva il suo lavoro senza infastidirlo, non si poteva lamentare.
-CHE COSA?!-
Per poco il cuore non gli sfuggì dalla bocca. Si voltò verso la sua manager che aveva iniziato a gesticolare e gridare come una pazza in mezzo al marciapiede. Rossa in viso, con quel caschetto corvino che a lui era sempre sembrato un elmetto e le scarpe col tacco alto che pestavano rabbiosamente il selciato gli sembrò davvero una caricatura di se stessa.
La gente stava iniziando a fermarsi per guardare il ridicolo spettacolo che offriva,  lì, vestita di tutto punto mentre faceva una scenata mostruosa davanti ad un costosissimo hotel.
La decisione fu istantanea.
Tatsuya la prese per un braccio e poco gentilmente la spinse nuovamente dentro l’auto, si precipitò al posto di guida e diede gas lasciandosi alle spalle le quattro ore di riposo che aveva pianificato. Mentre le urla proseguivano sul sedile posteriore lui vagò per la città utilizzando strade secondarie e viuzze residenziali per evitare il traffico intenso.
Solamente dopo una buona mezz’ora finalmente Azuka riattaccò il telefono afflosciandosi sul sedile.
-Dove siamo?-
Guardandosi attorno Himuro si rese conto di essere arrivato nei pressi del campetto dove lui e i suoi più cari amici ai tempi del liceo giocavano insieme a basket. Quanto tempo era passato.
Parcheggiò.
-Siamo in un quartiere che conosco molto bene. Che sta succedendo? Hai dato spettacolo prima. Speriamo che non ci fossero giornalisti nei paraggi… non ci farebbero della buona pubblicità.-
Dallo specchietto retrovisore la vide arrossire.
-L’agenzia che doveva occuparsi del catering per l’inaugurazione e la chiusura della mostra si è tirata indietro.-
Tatsuya sapeva che il catering era importante. Se ad una mostra si mangiava bene, allora l’artista sarebbe stato più apprezzato.
-Hai offerto più soldi?-
Non faceva differenza se avesse dovuto spendere qualche migliaio di yen in più.
La bella donna sul sedile posteriore alzò gli occhi al cielo.
-Certo. Ho provato a raddoppiare la cifra concordata ma hanno rifiutato. Quindi adesso ci troviamo a due giorni dall’inaugurazione senza un’agenzia di catering. Sarà un disastro totale se non corriamo ai ripari. Subito!-
Ecco. L’ennesimo problema. Prima la location, avevano dovuto cambiare tre volte  stabile e quindi riprogettare la disposizione dei suoi quadri per tre volte; poi era venuto il momento dei discorsi di apertura e chiusura che erano stati partoriti, quasi interamente da Azuka mentre lui ingurgitava cioccolatini al liquore; infine la sistemazione a Tokyo era stata fonte di accesi dibattiti tra lui e l’organizzatore della mostra perché questi voleva farlo alloggiare a pochi passi dal salone dove sarebbero stati esposti  i quadri mentre lui voleva trovarsi un posto tranquillo dove smaltire la stanchezza accumulata durante quella maratona lunga quasi un mese.
-Facciamo due passi, mi inventerò qualcosa.-
Stropicciandosi il volto scese dall’auto e aiutò la sua manager a mettersi in piedi su quei tacchi impossibili. Lei lo guardava preoccupata con uno sguardo un po’ stralunato. Era stata dura per tutti, non solo per lui.
Passeggiarono un po’ tra i caseggiati e i negozi di quel quartiere tranquillo, in silenzio, ognuno immerso nelle proprie elucubrazioni quando, per caso, gli occhi di Himuro non furono attratti dal vociare del mercato che si estendeva alla loro sinistra e lì, nel mare di teste, una svettava sulle altre.
Avrebbe riconosciuto quella capigliatura tra mille. Come anche quelle spallle assurdamente ampie.
Atsushi Murasakibara. Subito il suo petto si riempì di una strana nostalgia dolceamara  e la sua mente fu invasa dai ricordi. Allenamenti, partite, le chiacchiere lungo i corridoi della scuola e infine quella notte che pensava di aver rimosso dal suo passato.
Continuando a camminare lo osservò fermarsi davanti al chiosco delle mele candite. Ridacchiò. Era proprio da lui mangiare quella roba anche se mancava poco all’ora di cena. Lo vide pagare ma, prima di afferrare i due frutti rossi e lucenti, si stupì nel vederlo sparire per ricomparire un momento dopo con una bellissima bambina dai lunghi capelli corvini sulle spalle.
Da così lontano non poteva distinguere i tratti della piccola, ma da quel che poteva vedere era davvero una bimba splendida.
La strana coppia procedette verso una zona meno affollata e senza accorgersene Tatsuya deviò dal suo percorso per avvicinarsi.
L’urgenza di vedere in viso la bambina che presumeva essere la figlia del suo vecchio compagno del liceo era pressante anche se non sapeva darsi un motivo.
Ormai si trovava a una ventina di metri dai due che procedevano mangiando il loro frutto scarlatto, quando vide qualcosa di assolutamente straordinario: Atsushi stava sorridendo.
Si fermò di colpo, come se avesse preso uno schiaffo in pieno viso. Lui non sorrideva mai. Lui in due anni non aveva mai nemmeno accennato a sorridere.
Come poteva aver nascosto al mondo quell’espressione così dolcemente innocente e felice? Era incantato e continuava a osservare come il sorriso modellasse quei lineamenti solitamente piatti e talvolta spaventosi in qualcosa di totalmente diverso e completamente estraneo.
Murasakibara era semplicemente adorabile.
Nel momento in cui lo pensò si diede un calcio mentale. Era impossibile mettere nella stessa frase il suo gigantesco conoscente e la parola “adorabile”. Eppure non riusciva a trovare un altro modo per descrivere quell’espressione di gioia incredula che gli fioriva in viso mentre la bimba cercava di fargli mordere la sua mela porgendogliela dall’alto sporcandogli il naso.
I due si stavano avvicinando. Lui non voleva farsi vedere perché aveva l’impressione che se lo avesse visto Atsushi avrebbe perso tutta la gioia che lo animava per tornare il musone di un tempo. Ma era troppo tardi.
Due occhi color ametista, profondi e curiosi si piantarono nei suoi e subito vi lesse riconoscimento, poi gioia ed infine scorse una scintilla che fu troppo rapida per dire di cosa fosse. Forse rimpianto, forse dolore. Troppo breve per procurargli dolore ma nonostante tutto l’eco di quella sensazione non gli piacque per nulla. Si massaggiò distrattamente lo sterno.
Attese che il gigante lo raggiungesse mentre osservandolo fu costretto a notare la presenza di Azuka al suo fianco.
Quando finalmente si trovarono faccia a faccia si stupì ancora una volta di quando potesse essere alto. Diamine, Lui e il suo metro e ottanta gli arrivavano a stento alle spalle.
-Murasakibara, quanto tempo, come va la vita?-
Che voce strana, quasi non si riconosceva.
-Himuro, sì, molto tempo direi. Tutto bene, il negozio va bene e… ah giusto…-
La bambina aveva iniziato ad agitarsi sulle sue spalle.
-… questa bambina è Sakura, la bambina adottata da Kurochin e… da Kagami.-
Oh, Taiga glielo aveva detto. La scrutò meglio e il suo primo esame fu confermato. Era splendida. Sembrava una bambola dagli occhi di giada. Quindi non era sua figlia… aspetta… aveva detto negozio?
Con quanta velocità il suo interesse per la bambina si era trasformato in quasi totale indifferenza una volta scoperto che non era figlia di Atsushi.
-Hem… negozio?-
Sapeva di suonare scortese perché in tutti quegli anni non si era mai fatto sentire ma era curioso.
L’altro non fece una piega.
-Ho aperto una pasticceria. Proprio dietro l’angolo.-
Indicò la strada.
Fece un grosso sforzo per non ridergli in faccia. Non perché trovasse l’idea di lui pasticcere ridicola, ma perché, al contrario, ce lo vedeva eccome.
-Lei è un pasticcere?-
Azuka aveva puntato la preda. I suoi occhi neri fissavano seri Murasakibara come se volesse inchiodarlo sul posto. Ma lui non si faceva intimidire facilmente.
-Sì, possiedo il negozio qui dietro.-
La bambina si agitava sulle spalle senza però interrompere la conversazione.
-Sacchin, un minuto e andiamo. Ce la fai a resistere ancora un attimino?-
La dolcezza con cui le aveva parlato era decisamente strana per lui. La voce di per sé non era né troppo bassa né troppo acuta, ma era impregnata di sincero affetto, come se la stesse accarezzando gentilmente.
La bimba rispose uno scampanellante “sì Zio Atsushi.”
Himuro per poco non si sciolse dalla tenerezza. Anche lei sembrava davvero legata a quel gigante d’uomo.
-Allora, sa fare solo dolci?-
Tatsuya chiuse gli occhi. Sapeva dove voleva andare a parare Azuka e per quanto volesse fermarla dalla sua bocca non uscì un suono.
Murasakibara, dal canto suo era perplesso, la sua espressione non mutò ma  i suoi occhi divennero meno amichevoli.
-Ho fatto il tirocinio in un panificio che faceva anche pasticceria. Me la cavo anche con pane e simili.
Era meglio intervenire.
-Azuka non…-
Lei lo ignorò.
-Glielo chiedo perché abbiamo necessità di qualcuno che prepari il buffet  per la mostra di Himuro Sensei che aprirà dopodomani.-
Atsushi non sembrava impressionato, anzi, era scettico.
-E di cosa avreste bisogno, di preciso?-
Azuka non si smentì. Giocò immediatamente pesante.
-Abbiamo bisogno di spuntini dolci e salati. Per… direi… duemilacinquecento persone all’apertura e… alla chiusura, gli altri giorni direi che basterà cibo per circa duecento persone.-
Tatsuya vide il pasticcere impallidire.
-Azuka, come pensi possa fare tutto questo da solo e mandare avanti un negozio? Ragiona!-
La manager lo guardò come se fosse matto.
-Beh, ovviamente terrà chiuso il negozio. Le offriamo un onorario pari al doppio di quello che guadagnerebbe tenendo aperto il suo negozio. Che ne dice?-
Quello era un colpo basso. Il pittore lo sapeva.
-Azuka, non esagerare, la mostra finisce poco prima di Natale, le pasticcerie devono lavorare a ritmi impossibili.-
La  manager non si fece scoraggiare. Porse al gigante un biglietto da visita.
-Ci pensi e domani mattina mi dia una risposta. Arrivederci.-
Con passo risoluto nonostante i trampoli la donna lo trascinò lontano dal vecchio compagno di squadra e poi verso la macchina.
 
Murasakibara non sapeva cosa dire. Quella bellissima donna gli aveva fatto una proposta allettante ma aveva messo sul piatto diversi problemi e non sapeva se compenso e impegno valessero lo sforzo.
Cucinare dolce e salato per duemila persone. Non aveva mai preparato per così tante persone, non in una sola volta almeno.
-Zio Atsushi? Chi erano quelle persone?-
La vocina di Sacchin lo riportò al presente.
-Uno era un vecchio amico, la signorina… non saprei proprio.-
Poi con il candore della puerilità la bambina osservò.
-Magari è la sua fidanzata. Era bella. Tutta vestita bene…-
Non seppe dire perché ma l’idea che quella donna spaventosamente bella e sofisticata fosse in una qualche relazione sentimentale con Himuro, lo fece adombrare.
Quella sera, dopo aver riportato Sakura a casa dai suoi “nuovi padri”, quel termine lo faceva ancora sorridere, Atsushi tornò in negozio rigirandosi il biglietto da visita tra le dita.
Era così assorto che non si rese subito conto che davanti alla pasticceria era parcheggiata una costosa auto sportiva nera. Solamente quando dovette spostarsi per non andare a sbattervi contro, si rese conto della stranezza.
Alzò lo sguardo e,  seduto sul gradino d’ingresso intento a digitare su un cellulare di ultimissima generazione, c’era Himuro Tatsuya.
Era vestito in modo più casual rispetto a quel pomeriggio: jeans e un piumino viola scuro. I capelli, sempre sistemati in quel taglio indefinito, né lungo né corto ondeggiavano al lieve venticello freddo.
-Atsushi, stavo iniziando a congelare.-
Tipico suo. Nessun saluto, nessun preambolo. Murasakibara prese un respiro profondo.
-Se sei qui per quella proposta non so ancora cosa rispondere. Sono stato con Sakura-chan tutto il pomeriggio e non ho avuto modo di riflettere come si deve-
Meglio essere chiari da subito.
-Nah, non sono qui per quella . Anzi, non pensavo che la prendessi nemmeno in considerazione.-
E allora perché era venuto?
-Cosa ci fai qui allora?-
Aveva freddo, aveva sonno, doveva finire di impostare i lavori da infornare il giorno seguente.
-Ero venuto a far due chiacchiere nell’unico giorno di pace che avrò da qui al… 22 probabilmente.-
Sembrava quasi sconsolato.
Con un sospiro e con un ritrovato senso di civiltà, il pasticcere decise di assecondare la sua voglia di compagnia. In fondo erano stati davvero amici anni addietro. Erano davvero stati molto legati, almeno… fino a quando… Scosse la testa. Doveva pensare ad altro.
-Va bene, entra. Chiacchiereremo mentre finisco di lavorare.-
L’altro a quelle parole sembrò interdetto.
-Ma non è un po’ tardi per lavorare?-
Ridacchiando tra sé e sé aprì la porta vetrata del negozio e si rilassò un poco nel sentire il profumo dolce che ormai sapeva di casa.
-Mmmmmh! Che buon profumo!-
Himuro dietro di lui teneva il capo reclinato all’indietro mentre annusava l’aria ad occhi socchiusi.
Diavolo.
La pelle bianca della sua gola riluceva al chiarore che filtrava dalla strada mentre le sue labbra erano completamente in ombra ammantate di mistero così come il suo sguardo enigmatico.
Ad Atsushi si seccò la gola. No. Non poteva essere. Non dopo così tanto tempo. Non in quel momento.
Si schiarì la gola e per liberare la mente prese l’impasto delle brioches e con gesti meccanici iniziò a dar forma a decine di cornetti che avrebbe coperto e lasciato lievitare fino al mattino.
-Woah! Ma sei velocissimo! E dimmi, lo fai tutte le sere?-
La voce entusiasta del pittore interruppe quel momento di sacra fusione con la cucina. Lo guardava con entusiasmo e ammirazione.
-Ogni sera preparo gli impasti per i dolci lievitati del mattino. Devo anche finire di decorare una torta da consegnare domani.-
La sua normale svogliatezza sembrava scomparire davanti alla possibilità di lavorare coi propri amati dolci.
-Devi amarli proprio tanto per lavorare ogni sera fino a quest’ora.-
Che tono di voce strano. Ma non sapeva dire perché e soprattutto quali pensieri avessero dato origine a quella strana intonazione.
-Mentre lavoro, vuoi mangiare qualcosa?-
Lo sguardo nero dell’altro subito saettò su di lui. Poi con un sorriso che fiorì più radioso che mai rispose.
-Stupiscimi Atsushi. Vediamo se sei davvero bravo come sembra.-
Che fosse una sfida o una battuta, sui suoi dolci non scherzava mai, quindi il gigante prese un piatto dalla credenza e nel giro di qualche minuto aveva servito con una impeccabile presentazione i dolci di cui andava più fiero.
Bignè con creme europee, torte al Tè verde, pasticcini al cioccolato e vaniglia, un budino di riso e altre diverse pastine in stile occidentale. L’altro, stupito da tanta abbondanza iniziò a esaminare ogni dolcetto con attenzione.
-Mi piacerebbe dipingerli, una volta. Sono… molto belli.-
Detto questo con due delle sue lunghe dita delicate prese un tartufo al cioccolato e se lo portò alle labbra.
Per poco il pasticcere non ebbe una sincope. E la situazione peggiorò quando l’altro passò la lingua rosea sulle dita sporche di cacao.
Come mosse da volontà propria le sue mani puntarono all’unica persona che aveva realmente desiderato. Stava davvero per afferrarlo; era seriamente sul punto di mandare tutto all’aria quando riuscì a rinsavire.
Abbassò rapidamente le sue mani troppo grandi per poter essere abbastanza delicate. Quelle zampe avrebbero fatto bene a stare buone lungo i suoi fianchi o dentro i suoi impasti. Non voleva più concedere la sua tenerezza a nessuno che non fosse Sakura-chan.
Tatsuya mangiò con lentezza ogni singolo dolce che aveva scelto per lui emettendo piccoli gemiti molto simili a quelli dei suoi ricordi sfocati.
Non andava bene.
Terminate le mansioni serali offrì al suo ospite una bicchiere di tè verde e ancora un cioccolatino di sua creazione, poi, guardando l’orologio sbadigliò. Grazie al cielo l’altro capì l’antifona e dopo essersi avvicinato un po’ a lui inghiottendo il cioccolato sciolto e vellutato bisbigliò a sé stesso.
-Un sapore proibito…-
Poi alzò gli occhi e guardandolo con una strana espressione si voltò e uscì nell’ara fredda della sera.
Quella frase gli mise i brividi.
L’aveva già sentita, ma all’epoca aveva pensato di averlo sognato.
Quella fatidica sera, anni e anni prima, dalle labbra di Himuro erano uscite le stesse identiche parole un attimo prima che le posasse sulle sue.
Cosa significava? Che ricordava? Voleva fargli finalmente sapere di aver ricomposto il puzzle?
Che cosa aveva voluto dire? E se fosse stata solo un’assurda, crudele coincidenza?
Con questi pensieri si mise a letto e dopo alcune ore trascorse a rimuginare sui come e sui perché delle parole del pittore, iniziò a rimuginare sull‘offerta che la sua manager gli aveva fatto.
Si parlava di un sacco di soldi, ma anche di un impegno assurdamente gravoso che non sapeva se da solo sarebbe riuscito a portare a termine.
Finì per trascorrere la notte soppesando vantaggi e svantaggi dell’accettare o meno l’incarico e quando la sveglia suonò si rese conto di aver sprecato una delle poche notti di riposo che gli sarebbero rimaste  se avesse accettato.
Ma soprattutto non aveva ancora deciso se mettersi in gioco e rimanere in ancora un altro po’ nel mondo di Tatsuya oppure rifiutare e tornare alla sua stabile tranquilla routine fatta di dolci e solitudine.
Si alzò, impastò, infornò e sfornò, glassò, farcì e dispose sul banco continuando a soppesare le due possibilità. Alla fine si rese conto che quella era la prima vera sfida che gli si presentava da quando aveva aperto il negozio. E, pazzia o meno, impresa suicida o di successo, lui aveva davvero voglia di provare.
Prima di dare il via ad una nuova giornata lavorativa prese il telefono e chiamò la “signorina soldato”, come aveva deciso di chiamare la manager di Tatsuya, che gli promise di presentarsi all’orario di chiusura quella sera per definire i dettagli. In fondo mancavano poco meno di quarantotto ore all’inaugurazione.
La giornata andò avanti a rilento, i clienti abituali fecero i loro acquisti e nel mentre lui decise di chiamare la sua vecchia scuola professionale per farsi mandare un tirocinante come aiuto in quei giorni deliranti che sapeva sarebbero arrivati.
La ragazza che arrivò a presentarsi qualche ora dopo, si chiamava  Kyoko Sanada. Aveva da poco compiuto ventidue anni e stava per terminare l’ultimo anno all’accademia di pasticceria. Era brava. Dannatamente brava.
Nel giro di qualche ora, durante il pomeriggio, aveva già preso dimestichezza nel preparare la maggior parte dei dolciumi offerti quotidianamente riproducendoli con maestria e perizia.
Atsushi non poteva essere più soddisfatto.
All’ora di chiusura quando la signorina Azuka arrivò, il pasticcere decise di far presenziare al colloquio anche la giovane tirocinante in modo da farle capire a grandi linee quale sarebbe stata la mole di lavoro e soprattutto per dimostrarle che quella non era una stupida esercitazione ma lavoro vero.
Il colloquio che fecero lasciava poco al caso. Vennero scelte quali specialità sarebbero state presenti costantemente durante le quattro settimane della mostra e quali invece dovessero essere fatte ad hoc per il primo e l’ultimo giorno.  Soprattutto si parlò del giorno di chiusura e questo preoccupò molto Murasakibara.
La manager aveva richiesto una riproduzione in 3D, interamente di cioccolato di una delle nature morte di Himuro che doveva ancora essere scelta. Lui non aveva voce in capitolo a quanto pareva.
 
Il pittore, adagiato a molle nella grade vasca da bagno della sua suite continuava a ripensare al suo vecchio compagno di scuola. Quante immagini gli scorrevano nella mente come se il suo inconscio gli stesse riproponendo un filmato non richiesto del tempo che avevano trascorso insieme.
Ricordava il suono dei suoi passi nel corridoio davanti alla sua classe, quando andava a cercarlo durante la pausa pranzo. Gli venivano in mente i suoi gesti lenti quando si cambiava nello spogliatoio prima degli allenamenti e delle partite, la sua espressione placida e svogliata che talvolta rasentava l’indifferenza più totale.
Quanti discorsi avevano fatto sul tetto della palestra, quel luogo privato che frequentavano solo loro perché erano gli unici a sapere che il lucchetto della porta era rotto. Le serate a guardare le poche stelle che si intravvedevano a causa dell’inquinamento luminoso, le chiacchierate senza un vero argomento e i silenzi carichi di significato.
Per un momento gli si affacciò l’immagine delle sue lacrime. Quando avevano perso ai quarti di finale della loro prima Winter Cup contro il Seirin di Kuroko e Kagami. Erano stati così certi di vincere che erano rimasti del tutto spiazzati dalla tenacia e dalla forza con cui i loro avversari avevano reagito alla schiacciante differenza di abilità. E così avevano perso, per un soffio. Lì, per la prima e ultima volta, aveva visto la purezza dei sentimenti di Atsushi nei confronti del basket.
La sua reazione alla sconfitta, quel dolore che gli  si era dipinto in viso mentre silenziose lacrime colavano lungo il naso dritto per cadere con piccoli tonfi umidi sulla superficie della borsa. Gli sembrava di essere ancora lì ad assistere in diretta a quella scena tanto la ricordava bene.
Così come ricordava la promessa che si erano fatti dopo, quando, ancora con gli occhi color ametista umidi di pianto, il gigante lo aveva guardato e gli aveva promesso che sarebbe diventato più forte. Ma non era bastato e l’anno dopo dovettero rinunciare a vincere insieme perché furono nuovamente sconfitti in semifinale.
L’acqua della vasca iniziava a raffreddarsi e le montagne di schiuma che lo avevano circondato si stavano diradando.
Con un sospiro aprì di nuovo l’acqua calda e reclinò il capo all’indietro. Non riusciva a rilassarsi
Ed ecco che dietro alle palpebre chiuse tornò ad affacciarsi il viso del pasticcere. Questa volta non era un ricordo di anni e anni prima, il suo viso era più virile, la mascella più pronunciata, un accenno di barba gli velava il mento e le guance, gli occhi color ametista erano più dolci, quasi sorridenti.
Quell’uomo adulto era quasi un estraneo eppure nei tratti aveva ancora qualcosa che glielo rendeva così intimamente familiare da  procurargli un senso di vuoto al pensiero che i suoi rari e dolcissimi sorrisi fossero destinati a qualcuno che non era lui.
Immerso nell’acqua che di nuovo si raffreddava con la superficie ormai quasi priva di bolle Himuro si chiese come mai Atsushi popolasse ancora i suoi pensieri come anni e anni prima quando avevano superato il segno e lui aveva deciso di lasciarsi alle spalle ogni cosa convinto di non avere rimpianti.
Allora era stato così certo che la risposta a quel che era successo tra loro fosse l’oblio che, con uno sforzo di volontà incredibile, era riuscito a eliminare dalla sua mente il pensiero di ciò a cui aveva rinunciato perché credeva fosse contro natura. Perché si era sempre immaginato al fianco di una donna carina e carismatica come lo era stata Alex e non voleva concedersi altre possibilità.
Che ingenuo era stato.
Era quasi certo che il senso di soffocamento che lo prendeva da quando aveva rivisto Atsushi il giorno prima fosse proprio quello: il rimpianto che credeva non avrebbe mai provato.
Per la prima volta, mentre rabbrividiva e usciva dalla vasca avvolgendosi nel morbido asciugamano profumato, si chiese come sarebbe stato non fingere, non mentire a se stesso e non mentire a lui.
Sapeva di averlo ferito profondamente, sapeva di averlo allontanato e nonostante tutto, per un momento immaginò cosa sarebbe successo, come sarebbero andate le cose se non fosse fuggito.
Si sarebbero amati ancora e ancora con quella foga che solo i liceali hanno e di cui poi rimane solo un’eco lontana soffocata dalla maturità e dall’esperienza.
Si sarebbero innamorati sul serio?
Sarebbe durata la loro storia così poco convenzionale? Lui avrebbe imparato ad amar…
Si interruppe bruscamente. Con tutta la forza che possedeva chiuse la porta della propria mente in faccia a quei pensieri che non aveva alcun diritto di fare.
Aveva fatto una scelta e non esistevano “se” che cancellassero la cattiveria che aveva fatto ad Atsushi negando ciò che avevano condiviso.
Mentre si vestiva tuttavia dovette fare i conti con le inaspettate e sconvolgenti sensazioni che aveva provato quella sera in pasticceria, mentre lo guardava lavorare.
Aveva osservato le sue grandi mani affondare nell’impasto con decisione per poi creare forme e assemblare piccole opere d’arte con la delicatezza di un respiro.
Erano sempre state grandi quelle mani, erano sempre state goffe e inadatte tranne che per il basket, eppure, nella penombra che offriva l’interno del negozio ormai chiuso, Himuro aveva ricordato il loro tocco delicato sulla pelle. Ma il particolare che gli era rimasto più impresso al di là della delicatezza era il calore che aveva fatto sì che si rilassasse al loro tocco.
Si era fatto offrire dei dolci e li aveva talmente apprezzati da superare il confine della decenza. Aveva fatto di tutto per distogliere il suo sguardo concentrato e amorevole dal lavoro e, pensò con un certo rammarico, ci era riuscito.
La tensione era salita irrigidendo le spalle del pasticcere che  all’improvviso aveva smesso di impastare con armonia. Gli occhi viola che saettavano tra lui e i dolci tra le sue mani, le labbra sottili tirate per mantenere la calma.
Era stato sul punto di fermarsi per paura di farlo arrabbiare o di metterlo a disagio ma quando per un attimo le sue grandi mani infarinate si erano tese verso di lui prima di essere riportate a posto dal suo autocontrollo, Tatsuya non aveva potuto fare a meno di gioire in cuor suo.
C’era la possibilità che tra loro potesse tornare quel feeling, la stessa alchimia che li aveva spinti troppo presto l’uno tra le braccia dell’altro.
L’istinto, o forse la sua sete di vedere come sarebbe finita quella loro storia sospesa nel tempo e nell’aria profumata del negozio, lo aveva spinto a pronunciare una frase particolare. Le stesse poche parole che aveva pronunciato tanto tempo prima nell’attimo prima di baciarlo con amore.
Il pittore si riscosse e si giustificò dicendo che non era stata la curiosità ma anzi, era stata l’alchimia tra il cioccolato vellutato e dolceamaro e la sua solitudine.
Sì, lui non era abituato a star solo a lungo, era famoso per le sue tresche e per le sue storielle brevi con donne bellissime e spesso sposate, ma in quel periodo, con la mostra alle porte non si era sentito di impegnarsi anche con qualche femmina capricciosa.
Le sue ore di riposo dovevano restare solo sue e Azuka assolveva perfettamente il compito di assistente e di accompagnatrice senza contare che la sua energia inesauribile e il suo impegno lo sfinivano anche senza accollarsi un’altra donna. Si sdraiò a letto, era talmente grande e soffice da inghiottirlo. Per la prima volta dopo tanti anni si sentì solo. Ma non voleva una compagnia solo per sfogare i suoi istinti o per fare notizia su qualche rivista per casalinghe annoiate, voleva qualcuno a cui aprire il proprio cuore.
Chiuse gli occhi e vide Atsushi.
Le cose stavano peggiorando in fretta, doveva assolutamente toglierselo dalla testa prima del giorno seguente. Doveva concentrarsi anima e corpo sulla mostra, sul proprio successo e nulla doveva intromettersi a distrarlo. L’immagine non se ne andò, e così, segretamente grato a quello sguardo placido e quasi annoiato, si addormentò.
E così iniziò. Ore ore ad impastare, infornare trasportare quantità spropositate di cibo. Il giorno di apertura non avanzò nulla e il giovane pasticcere era così esausto  che quasi non aveva fatto caso a ciò che lo circondava.
Kyoko lo aiutava in pasticceria e per la prima settimana aveva deciso di portarla con se anche alla mostra. Si trovava bene con lei, era sveglia entusiasta e piena di talento. Il fatto che trascorressero insieme così tante ore ogni giorno aveva fatto nascere tra loro una strana salda amicizia fatta di silenzi e lavoro ma anche di risate e battute. Era accaduto spesso che le loro risa attirassero l’attenzione  degli ospiti.
Erano i momenti più belli, rilassati e divertenti che potessero sperare di trascorrere in quel momento così frenetico, ma già a partire dalla seconda settimana Atsushi aveva preferito non sovraccaricare la povera stagista lasciandole da gestire solo il lavoro in pasticceria e i trasporti.
A seguito di questa manovra il suo carico di lavoro quasi raddoppiò. Le lunghe ore in piedi a servire durante la mostra, le ore al mattino e alla sera per cucinare. Ogni gesto sembrava risucchiargli le energie.
La sua stanchezza era ormai cronica. Andava a dormire distrutto e si risvegliava poche ore dopo esattamente nello stesso stato. Ciondolava per il negozio senza riuscire a schiarire la mente facendo sempre più confusione.
Durante  le ore che trascorreva alla mostra aveva osservato Himuro nella speranza di risolvere l’enigma che erano state le sue parole. Quella frase continuava a frullargli nel cervello e non c’era verso di lasciar perdere. Lo seguiva con lo sguardo mentre vestito di tutto punto accoglieva i visitatori o improvvisava visite guidate per giornalisti e critici.
Spesso lo aveva visto sorridere forzatamente e annuire stringendo i pugni lungo i fianchi snelli.
Non doveva essere facile per lui intrattenere quelle persone. Era sempre stato abbastanza taciturno e riservato, probabilmente aveva trovato nella pittura il modo per godere del silenzio che solo la concentrazione sa donare.
Durante il primo week end lo aveva visto all’opera. Un giornalista aveva chiesto una piccola dimostrazione della sua bravura e così, più che felice di zittire la vena maligna di quella richiesta, Tatsuya si era messo a dipingere lì, nel bel mezzo della grande stanza quadrata sotto lo sguardo affascinato e curioso dei visitatori.
Aveva dipinto lo schizzo di un collier da donna. I tratti leggeri con cui aveva reso la luminosità delle gemme e l’infinità di particolari avevano convinto tutto della sua maestria.
Il pasticcere non era riuscito a distogliere lo sguardo dalle lunghe dita sottili che impugnavano elegantemente il pennello. Come poteva? Ogni persona nella sala era ipnotizzata dalle sue mani, dalla magie che stavano compiendo. Il silenzio era totale, solo il respiro degli ospiti muoveva l’aria altrimenti immobile.
Poi, come era iniziato, quel momento surreale terminò in un lungo, accorato applauso all’artista.
Quella sera dopo la chiusura avevano un meeting per valutare l’andamento della mostra e il livello di gradimento. Ma il gigante lo sapeva: sentiva nelle ossa che stava per arrivare qualcosa di terribilmente complesso da gestire. La spada di Damocle che pendeva su di lui. La scultura di cioccolato.
Alle dieci, l’orario di chiusura della mostra, il pasticcere, così come alcuni  altri collaboratori, si trovò in una piccola sala conferenze al secondo piano dello stabile dove era allestita la mostra.
I musi lunghi segnati da occhiaie e da visibili segni di stanchezza cronica non sollevavano l’atmosfera asettica e pesante, anzi, se possibile la rendevano ancora meno sopportabile.
Fortunatamente a rompere il silenzio immobile arrivarono un Himuro in tenuta casual e la signorina Azuka che come sempre sfoggiava un tailleur firmato che la fasciava come un guanto rivelandone il corpo atletico e tornito con le curve nei punti giusti.
-Buonasera a tutti. Cercherò di essere stringata. Le cose stanno andando anche meglio di come ci auguravamo; so che lo sforzo da parte vostra è stato considerevole e anche se non è una richiesta ragionevole vi chiedo di resistere a questo ritmo fino alla chiusura.-
Un sorriso riempì la pausa che fece per prendere fiato.
-Vi auguro una buona serata e buon riposo. La riunione si chiude qui.-
Sollevato dalla brevità del meeting Atsushi fece per uscire quando il profumo floreale che aveva imparato a riconoscere gli giunse in una zaffata.
-Murasakibara San, posso scambiare due parole con lei?-
Non aveva molta scelta. Annuì stanco.
-So che lo sforzo che le stiamo chiedendo quotidianamente ha del sovrumano ma sia la sua cucina, sia le sue presentazioni durante il servizio sono state molto apprezzate. Ho anche avuto modo di assaggiare alcune delle sue specialità e devo ammettere di esserne stata conquistata… -
Scacciò una ciocca di capelli dalla fonte spaziosa.
-Non sono qui per parlare di questo. Vado dritta al punto così poi posso lasciarla andare.-
Il preambolo non prometteva nulla di buono.
-Vorremmo che per la giornata di chiusura lei presentasse in cioccolato una delle nature morte più famose di Himuro Sensei.-
Senza lasciargli la possibilità di ribattere, la giovane gli mise in mano una delle cartoline che aveva visto girare spesso tra le mani dei visitatori in quei lunghi giorni di servizio.
Non avendo il cuore di guardare di che scultura si trattasse Atsushi annuì lasciando la sala con passo lento e strascicato.
Avrebbe potuto benissimo dormire lì, in piedi, al freddo. Non pensava di poter arrivare ad essere così cronicamente stanco.
-Sembri sul punto di crollare. Pensavo che avresti rifiutato di assecondare il capriccio di Azuka.-
Un Himuro languidamente appoggiato al muro del corridoio lo osservata con il sorriso negli occhi.
Le lunghe gambe snelle fasciate da un paio di jeans sdruciti ad arte, la camicia nera sapientemente aperta per lasciar intravedere la gola dalla pelle candida accarezzata dalla lucente catenella che reggeva l’inseparabile anello.
L’anello che lo legava a Kagami Taiga. 
Già, erano cresciuti insieme, due giapponesi in America, due bambini che avevano imparato ad amare il basket giocando insieme per molti più anni di quanti ne potessero contare.
Aveva sempre invidiato quel legame indissolubile che li legava nonostante lo spazio e il tempo .
-Ho accettato perché fa parte del contratto.-
Che voce piatta gli era uscita.
Tatsuya si sollevò elegantemente  fino a tornare eretto.
-Ti va se ti accompagno a casa? So che sei senza furgoncino ed io ho una gran voglia di uscire di qui.-
La cosa migliore da fare era rifiutare con una qualsiasi scusa, compresa quella reale di dover andare a dare una mano a Kyoko per l’allestimento dell’indomani, ma la sua lucidità era compromessa e la sua forza di volontà era fiaccata dalla morbosa curiosità che nutriva nei confronti di ciò che Himuro ricordava di tanti anni prima.
-Va bene Murochin. Sono proprio stanco in effetti.-
Annuendo con quel suo solito sorriso canzonatorio negli occhi, il pittore lo scortò fino nel parcheggio sotterraneo fino alla sua splendida auto sportiva.
Le linee della carrozzeria erano armoniose e aerodinamiche per migliorare le prestazioni, ogni suppellettile inutile era stata rimossa.
Il suo cuore accelerò quando pensò: “è una macchina progettata per la velocità”.
Il suo entusiasmo si spense un poco quando constatò che il posto per il passeggero, era angusto e a dir poco scomodo.
Himuro diede gas avviando il motore che si attivò con le fusa di un gattone sonnacchioso.
-È proprio una splendida macchina.-
Nel buio  dell’abitacolo le palpebre di Murasakibara si abbassarono pericolosamente. Stava davvero per addormentarsi, così, per rimanere sveglio decise  di fare conversazione.
-Hai già provato a spingerla al massimo?-
Mantenendo lo sguardo fisso sulla strada illuminata ad intervalli dai lampioni il pittore attese un momento prima di parlare.
 
Himuro non sapeva cosa diavolo gli fosse passato per la testa. Si trovava nel ristretto intimo abitacolo della sua macchina che sembrava essersi rimpicciolito ora che  all’interno vi era anche Atsushi e non sapeva cosa dire. Il grande corpo del pasticcere, così come la sua ombra e il suo calore sembravano saturare il piccolo spazio strisciandogli fin sulla pelle.
Il profumo di vaniglia e bacche di cacao era facilmente distinguibile nell’aria.
-Sì, mi è piaciuta da subito questa piccola monella. Ho provato a spingere a tavoletta quando ero in Germania per una mostra. Le loro autostrade sono esenti dai limiti di velocità. Era un’occasione a dir poco ghiotta.-
Accompagnò le sue parole con una risata poco convinta.
Era stato bello testare le capacità della sua splendida macchina nuova in quell’occasione, ma raccontare una cosa così banale a Murasakibara gli sembrava… strano.
Si sentiva… immaturo a parlare di come aveva sperimentato il giocattolo nuovo mentre lui si spaccava la schiena al lavoro per campare. Possibile che fosse intimidito dalla routine del suo vecchio migliore amico?
-Sei taciturno rispetto a qualche tempo fa.-
La voce bassa e piatta di Atsushi interruppe i suoi pensieri.
-M-ma no… è che pensavo…-
A cosa? Cosa poteva dirgli?
-…pensavo a quanto fosse diverso parlare così, con te, ora.-
Dopo tutti quegli anni, dopo quel che aveva fatto, dopo tutto quello che aveva detto e quello che aveva scelto di non dire. C’erano troppe cose incompiute, incomplete tra loro.
Per non parlare dell’irritazione che lo prendeva quando, durante le ore di servizio, vedeva il gigante ridacchiare complice insieme alla sua nuova apprendista.
Li aveva visti così vicini, così affiatati che non aveva potuto tenere a freno la propria irritazione. Troppe volte  gli era venuta la tentazione di andare al tavolo e spegnere quelle risatine a suon di grida e ramanzine. Ma a che pro?
Lui chi era per separarli? Si erano appena conosciuti e poi, doveva ammetterlo, lei era davvero carina: lunghi capelli color fragola, iridi azzurre come il mare dei tropici, qualche lentiggine spruzzata sul grazioso nasino a patata e curve da manuale. Non che avesse controllato bene sotto quell’enorme grembiule che portavano in servizio o sotto gli abiti oversize che la ragazza si ostinava a indossare.
-Molto diverso. Siamo cambiati. E forse siamo anche un po’ cresciuti.
La voce profonda di Atsushi lo tirò fuori dal circolo delle elucubrazioni. Aveva ragione. Erano diversi, cresciuti. Entrambi erano andati avanti. Dal punto in cui lui stesso aveva forzato la separazione delle loro strade, entrambi avevano fatto del loro meglio per crescere.
Ed erano cambiati.
-Già, tu sei davvero cresciuto. Ti resta poco di quel che ricordo del vecchio Atsushi dello Yosen.
Non sapeva se a dirlo fosse lui oppure la parte di lui che voleva ferirlo sbattendogli in faccia una critica mascherata da considerazione. In fondo gli stava dicendo che quel che gli piaceva di lui allora, in quel momento era sparito.
-Immagino di essere diventato adulto. Ad un certo punto o cresci o la vita ti distrugge.
Che parole sagge. Nascondevano qualcosa, vero..? Sembravano mascherare l’eco di un vecchio dolore… Oppure era il suo senso di colpa a fargli leggere rimprovero in quelle parole?
-Hai proprio ragione. O si cresce o la vita ti distrugge.
Per fortuna erano arrivati alla pasticceria. La luce all’interno era ancora accesa e la cosa lo incuriosì.
-Oh, Kyoko non è ancora tornata a casa. Sarà meglio che mi sbrighi a spedirla a dormire prima che mi crolli per esaurimento.
Parole normali, gentili, eppure colpirono Tatsuya dritte al cuore. Forse per via della stanchezza o della tensione, provò l’irrefrenabile impulso di afferrare il grosso braccio di Murasakibara e trattenerlo lì con sé per poi sgommare via.
Non voleva che tornasse da lei. Non voleva sentirli ridere insieme e nemmeno voleva cogliere quegli sguardi che si scambiavano come se fossero soli in un mondo tutto loro; un mondo in cui lui non era ammesso.
Ma che cosa gli prendeva?!  Era forse impazzito?
-Vai, buonanotte.
Fu tutto quello che riuscì dire prima che la portiera fosse chiusa e il suo piede spingesse sull’acceleratore per portarlo via da lì. Lontano da Atsushi e dalla sua esuberante formosa Kyoko.
Magari, vista l’ora, le avrebbe chiesto di restare a dormire e chissà cosa sarebbe potuto succedere.
Avrebbero fatto una bella doccia rilassante, massaggiandosi a vicenda le spalle stanche e tese, avrebbero asciugato i loro corpi con delicatezza e sarebbero andati a sdraiarsi sistemandosi l’una nelle braccia dell’altro.
Il grande corpo del pasticcere avrebbe avvolto in un bozzolo caldo e solido quello tenero e fragile della ragazza proprio come…
Schiacciò a fondo il piede sull’acceleratore e la macchina ruggendo schizzò in avanti. Sfrecciò via dal quartiere tranquillo nel tentativo di scappare dalle immagini sempre più realistiche che il suo cervello aveva deciso di produrre: Atsushi e Kyoko abbracciati, pelle contro pelle, le labbra sottili di lui su quelle carnose e appetitose di lei; i due avvinghiati, con la pelle umida di sudore e le spalle tremanti così come i loro respiri spezzati e soddisfatti; l’abbraccio in cui lui avrebbe stretto teneramente il corpo esausto di lei avvolgendola nel proprio calore prima di cadere addormentati.
Perché si torturava così?
Perché continuava a pensare a loro due?
Non era forse qualcosa a lui totalmente estraneo? Qualcosa in cui non aveva diritto di interferire?
Sapeva di non avere alcun diritto di disapprovare o approvane nulla, ma il dolore sordo che sentiva nel petto sembrava volerlo contraddire ad ogni battito del suo cuore.
Accostò e fermò la macchina.  Rimase al buio, nell’abitacolo in cui aleggiava ancora il profumo di vaniglia che accompagnava Murasakibara e lo respirò a pieni polmoni.
Proprio quando iniziava a calmarsi e a prendere fiato, il suo telefono si mise a squillare.
Cercò il piccolo cellulare nelle tasche dei pantaloni e della felpa, infine lo recuperò da una piccola taschina nella giacca sul sedile posteriore.
Guardò lo schermo chiedendosi chi lo cercasse a quell’ora assurdamente tarda.
Si rabbuiò.
Ecco un altro problema. Ben più urgente dei suoi drammi sentimentali.
Se quello che pensava era giusto… ci sarebbero stati dei guai, e non solo per lui e la sua mostra, ma per tutti coloro che si fossero trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il telefono continuò a suonare insistente ma lui non aveva alcuna intenzione di rispondere.
Si chiese come avesse fatto quella persona ad avere il suo numero. Ma non era poi così stupito.
Se c’era qualcuno in grado di trovare quel genere di informazioni coi mezzi più assurdi, quello era proprio Andrew.
 
Atsushi rientrò in pasticceria con la sgradevole sensazione di essere stato trattato come un pacco postale. Tatsuya era sgommato via non appena aveva chiuso la portiera. Non era solo partito, aveva fischiare le gomme da tanto aveva accelerato.
Infastidito salutò Kyoko, controllò gli impasti, ascoltò i messaggi in segreteria e infine mandò a casa la sua sfinita apprendista decidendo di non portarla più alla mostra con sé ma di lasciarla stabilmente in laboratorio con orari più umani.
Attese con lei sulla porta fino all’arrivo di quello che lei chiamava “passaggio a casa con ramanzina” e che rivelò essere solamente un’amica dai modi alquanto spigliati a cavallo di una lucida Kawasaki verde brillante.
Prima di allacciarsi il casco sulla testa la sua assistente bisbigliò qualcosa che lo lasciò senza parole.
-La mia ragazza odia quando faccio così tardi. Grazie per avermi ridotto l’orario!-
Facendo rombare il motore sparirono nella notte prima che l gigante riuscisse a metabolizzare il senso di quelle parole per poi trovarsi a sorridere alla notte come uno scemo.
Quella, fu l’ultima notte di sonno vero che fece.
Nelle ultime due settimane della mostra, avendo ridotto l’orario a Kyoko, si trovò a fare più ore dell’orologio, a prendere qualche ordinazione extra per Natale e, invece di dormire dovette scontrarsi con numerose e fallimentari prove della riproduzione in cioccolato.
Avevano scelto una natura morta composta dalle componenti più importanti della vita dell’artista, o almeno così era riportato sul retro della cartolina, ma se doveva essere onesto, una parte di quegli oggetti non li comprendeva proprio.
Il pallone da Basket, le cuffie con le note musicali erano oggetti che poteva tranquillamente ricollegare al Murochin che conosceva al liceo, per quanto riguardava la macchina fotografica vintage, poteva supporre che prima di darsi alla pittura l’artista avesse sperimentato un periodo transitorio legato al mondo della fotografia; ma il rossetto? La biancheria spaiata da donna? E quel bossolo?
Le domande gli affollavano la mente mentre per l’ennesima volta il pizzo dell’intimo si rompeva prima che riuscisse ad applicarlo nel posto prestabilito. Quel lavoro stava iniziando a minare il suo incondizionato amore per il cioccolato.
Maledicendo l’universo trascorse un’altra settimana e come lui anche tutto lo staff stava iniziando a dare segni di cedimento.
In uno dei rari momenti di calma durante il servizio nella grande sala di esposizione Atsushi sentì la suoneria, ormai familiare, del cellulare di Himuro. Si sentiva spesso in quei giorni e anche in quell’occasione, come anche nelle precedenti, le spalle del pittore si irrigidirono mentre controllava il display e zittiva la musica senza rispondere.
Ogni volta che accadeva il suo viso si faceva scuro e una ruga di preoccupazione gli solcava la fronte.
Cosa stava succedendo?
Tatsuya era sempre stato un tipo taciturno e riflessivo, raramente qualcosa riusciva a infastidirlo, figurarsi a preoccuparlo, eppure quelle telefonate senza risposta lo stavano turbando molto.
Ed ecco che alle tonnellate di lavoro che svolgeva, il pasticcere aggiunse anche il compito autoimposto di controllare il pittore.
Il giorno della chiusura si avvicinava, Murasakibara ormai era un oltre la stanchezza fisica, si assopiva nei posti più strani e nei momenti meno appropriati, aveva i nervi a fior di pelle perché ancora non riusciva a sistemare i pizzi di cioccolato come avrebbe voluto e per di più Kyoko si era ammalata quindi tutto il lavoro era ricaduto su di lui.
Con gesti nervosi serviva centinaia di stuzzichini e assaggi cercando di mantenere una certa professionalità ma non era raro che le composte invece di morbidi ed eleganti disegni formassero nei piattini pozze poco artistiche o sbavature antiestetiche.
Si odiava per questo, ma non poteva farci niente. Le ore trascorse a lavorare sulla scultura gli stancavano le braccia più del previsto e queste durante il giorno tremavano incontrollatamente compromettendo il suo lavoro.
Gli impasti non erano fragranti come al solito perché la sua capacità di giudizio nel miscelare gli ingredienti era minata dall’intontimento costante.
Non si accorgeva di aver messo troppa farina se non troppo tardi, era capitato che scambiasse lo zucchero a velo con quello per le glassature rovinando il bilanciamento d’aria all’interno del pan di spagna che era venuto spugnoso e asciutto.
Il nervosismo crebbe ancora e ancora man mano che la giornata di chiusura si avvicinava e l’umore di Himuro peggiorava di pari passo con il suo.
Le riunioni serali erano state sospese perché nessuno aveva più le forze per fermarsi dopo l’orario di chiusura della mostra, anzi, era un miracolo che tutti raggiungessero le proprie case senza stramazzare al suolo.
Il penultimo giorno l’umore generale era a dir poco tetro. Tutti sapevano che quello sarebbe stato il respiro prima della tempesta: per la chiusura erano previsti spettacoli e visite speciali per non parlare dell’orchestra che avrebbe accompagnato le visite per tutta la giornata.
Atsushi si presentò presto come ogni mattina e allestì il tavolo del buffet nascondendo la stizza per non essere riuscito a sfornare nemmeno un bignè decente. La scultura di cioccolato era terminata, mancava solo quel dannato pizzetto da applicare sul reggiseno e sullo slip.
Fulminò con lo sguardo l’opera originale che troneggiava su una tela di tre metri per due proprio davanti a lui.
Odiò i dettagli della plastica ruvida del pallone, fu tentato di cancellare a suon di candeggina le ombre delle cuffie e delle eleganti note musicali e la voglia di spararsi in testa con la dannata pistola quasi lo soffocava.
I visitatori scarseggiavano e nel pomeriggio quasi riuscì a riposarsi, sembrava che tutto volesse filare per il meglio quando fece il suo ingresso uno straniero.
Era alto, non quanto lui, ma sicuramente superava abbondantemente il metro e ottanta, i capelli biondissimi erano raccolti in un codino mentre gli occhi azzurri brillavano come gemme sull’incarnato abbronzato.
-Tatsuya!-
Il tempo di volgere lo sguardo verso la star della mostra e già un’espressione di riserbo gli si era dipinta sul viso.
Il gigante riusciva ancora a riconoscere i finti sorrisi di Himuro. E quello non solo era finto, era anche molto, molto teso. Rimase ad osservare la scena, mentre lo straniero, presumibilmente un americano visto l’accento, si avvicinava alla statua di sale che era diventato Tatsuya.
A voce troppo alta per gli standard nipponici il nuovo arrivato iniziò a parlare in un inglese fitto e storpio che era difficile da comprendere battendo rumorosamente una mano sulla spalla del pittore.
Mano che nel giro di qualche secondo, accompagnò i convenevoli di rito, scivolando ad avvolgere il corpo rigido del conoscente.
Murasakibara ebbe il fortissimo impulso di staccargli il braccio.
Per tutto il resto del pomeriggio lo straniero dagli occhi di ghiaccio rimase attaccato al padrone di casa intervenendo nelle conversazioni, stroncando le interviste e allontanando con fermezza i membri dello staff che tentavano di allontanarlo.
Se il comportamento del tipo americano era strano, ancor di più lo era quello di Tatsuya: gli lasciava fare quel che voleva, si lasciava trascinare via nel bel mezzo delle conversazioni e non accennava a tradurre una parola di quel che diceva l’amico.
Amico troppo appiccicoso per quel che riguardava l’idea che se ne era fatto il pasticcere. Le mani di quello che era stato presentato come Andrew erano sempre addosso a Himuro, o su un braccio, o su un fianco, o ad avvolgergli le spalle.
Atsushi credeva di essere stato irritato quella mattina, ma in quel momento era ben oltre l’irritazione. Era furioso.
Non solo stava avanzando pretese su qualcuno che aveva ben poco a che fare con lui, ma si stava decisamente arrabbiando troppo vedendo quel qualcuno accettare gli eventi senza ribellarsi.
Per la furia ridusse il cucchiaio che aveva in mano ad un piccolo pezzetto di metallo ritorto.
 
Peggior tempismo non avrebbe potuto averlo. Andrew era arrivato nel primo pomeriggio. Ancora prima di sentire la sua voce roca e rozza sovrastare il discreto chiacchiericcio della grande sala, ne aveva percepito la presenza.
Una strisciante sensazione di disagio e la voglia di scappare che gli faceva prudere le gambe.
Non poteva mostrarsi aggressivo e maleducato di fronte ai suoi ospiti, doveva lasciare di sé l’immagine che tanto faticosamente aveva costruito: un uomo tranquillo, pacato e imperturbabile che affrontava la vita con la placida adattabilità dell’acqua di un lago.
Così si era lasciato toccare dalle sue mani, si era fatto trascinare a destra e a manca senza protestare, si era scusato con i visitatori che era costretto a lasciare nel bel mezzo delle conversazioni e aveva finto di godere della caotica ed invadente compagnia del chiassoso straniero rifiutando gli assist che lo staff e la stessa Azuka avevano preparato per staccarglielo di dosso.
-E dimmi Himuro, sei felice che io ti abbia raggiunto qui? Ho fatto molti chilometri per trovarti e per poter stare con te.-
L’alito caldo di Andrew gli solleticava la pelle delicata dietro l’orecchio facendogli rizzare i capelli.
Doveva mantenere la calma. Non voleva che succedesse come l’ultima volta. Non poteva rischiare con tutte quelle persone attorno.
-Certo che sono felice Andrew, spero che Tokyo ti piaccia e che la permanenza qui ti permetta di apprezzare lo stile sobrio della nostra cultura.-
Uno strano verso seguì le sue parole.
-Apprezzare la cultura? Permanenza? E tu pensi davvero che me ne freghi qualcosa di Tokyo e del dannato Giappone?  Io sono venuto qui per riprendermi ciò che è mio e basta. La mostra finisce domani no? Bene. Dopodomani a quest’ora saremo su un aereo diretto a Los Angeles, a casa, e tu finalmente potrai dedicarti alla sola arte che ha una qualche importanza: compiacermi e amarmi finchè morte non ci separi.-
Una risata fragorosa seguì quelle parole mentre il panico minacciava di soffocare Tatsuya che istintivamente cercò con lo sguardo il banco del buffett dove un ombroso Murasakibara stava servendo  con gesti nervosi uno degli avventori. In un attimo i suoi occhi d’ametista si fissarono nei suoi scaldandolo fino alle ossa e scacciando il senso di freddo che sentiva.
Erano occhi stanchi, cerchiati di scuro, arrossati e sfiniti ma ribollivano di una rabbia così pura e ribollente che fecero crescere nel cuore del pittore la speranza che non tutto fosse perduto.
Atsushi aveva visto.
Lo guardava come se fosse qualcosa di sua proprietà e sembrava sul punto di volersene riappropriare. E in quel momento non importava se lo volesse con sé come amico o altro, l’importante era che lo volesse con sé e che l’atteggiamento di quello squilibrato di Andrew non gli andasse a genio.
Ma un pensiero terribile spense sul nascere la debole fiammella che aveva sentito.
Andrew aveva già allungato le sue mani su di lui e già qualcun altro aveva cercato di impedirglielo.
Quel qualcuno era poi stato coinvolto in un inspiegabile incidente stradale.
Nonostante le testimonianze del pittore e di alcuni conoscenti le indagini non arrivarono mai al punto di svolta, così il biondo era stato rilasciato con la sola restrizione di non avvicinarsi a lui nel raggio di cento metri.
Ma questo valeva solo negli Stati Uniti. E lì non erano negli USA. Erano in Giappone.
-Aaaah Tatsuya, mi chiedo come questi occhi a mandorla possano apprezzare i tuoi scarabocchi. E pensare che sei pure famoso!-
Fortunatamente nessuno sembrava riuscire a comprendere lo slang di Los Angeles quindi solamente il diretto interessato sentì quella considerazione e decise di ignorarla.
Ma non poteva cavarsela così. Una mano invadente e rude gli strizzò una natica con possessività.
Per poco non si lasciò sfuggire un’esclamazione di oltraggiata stizza ma piantandosi i denti nella lingua riuscì a trattenersi. Solo una signora si voltò a guardarlo incuriosita ma si lasciò distrarre dal suo sorriso e non fece caso a dove  Andrew stesse tenendo la mano.
-Mmmh, mi piace quando fai lo stoico e cechi di mantenere le apparenze. Mi prudono le mani dalla voglia di mettere alla prova la tua resistenza…-
Un brivido gelido scese lungo la schiena di Himuro.
Aveva conosciuto Andrew durante la sua permanenza a Los Angeles. Aveva terminato gli studi e passava da una scuola all’altra facendo da assistente ai professori di disegno. Era una vita tranquilla la sua, dipingeva nel tempo libero e qualche volta riusciva a esporre uno o due quadri alle mostre di altri affermati pittori.
In quel periodo andava a giocare basket con un gruppo di coetanei conosciuti in un pub, lo stesso locale in cui quella sera si scontrò per la prima con il gigante biondo.
Stavano giocando a carte davanti ad un buon brandy quando un tipo grande grosso si era avvicinato cercando di attaccare bottone.
Pensando che fosse innocuo lo avevano accolto a chiacchierare e a giocare con loro fino a quando, durante una normalissima conversazione una mano non aveva afferrato, sotto al tavolo, il ginocchio di Tatsuya per poi risalire lungo la coscia e poi più su. Nonostante si fosse scostato e avesse schiaffeggiato via quella zampa invadente questa era tornata alla carica.
La serata era andata avanti così e quelle che in realtà erano state poche ore, a Himuro erano sembrate ere geologiche.
Fortunatamente era in macchina con alcuni amici quindi, una volta uscito dal locale non si preoccupò più dello sgradevole individuo finchè non erano iniziate le telefonate mute, le lettere d’amore, le scritte sui muri della scuola in cui lavorava.
Aveva mollato il lavoro e si era trasferito, nel frattempo una manager lo aveva contattato per proporgli il suo primo contratto e così aveva iniziato a viaggiare per gli States dimenticando quella brutta storia.
A Philadephia aveva ricevuto la prima di molte chiamate notturne, le chiamate erano poi diventate mail e le mail erano sfociate in veri e propri agguati.
Era all’inizio della sua carriera da artista, non poteva macchiarla con una denuncia per stalking, così aveva scelto la strada più semplice. Aveva lavorato sodo per aprire in anticipo un calendario che comprendeva diverse mostre in Europa e in Asia.
Era scappato. Ancora.
Uno dei suoi assistenti aveva prestato particolare cura a ciò che stava accadendo e nonostante discrezione di Tatsuya aveva compreso la situazione. Si era schierato apertamente denunciando a proprio nome il personaggio che però si era dimostrato sfuggevole come nebbia.
Paul, si era preso a cuore la faccenda e nonostante gli episodi si fossero interrotti si preoccupava sempre di non lasciare mai solo il pittore  e così avevano anche stretto una solida amicizia che rincuorava la solitudine del lavoro itinerante che svolgevano come equipe.
Poche settimane dopo, alla fine di una estenuante giornata di chiusura della sua prima mostra a New York, Paul lo aveva accompagnato in albergo prima di andare a trovare la ragazza che frequentava allora.
I freni erano stati tagliati. La macchina grigia del suo amico era finita dritta nel bel mezzo di un trafficato incrocio nel centro della Grane Mela. Ventidue giorni di agonia in cui l’uomo era rimasto sospeso tra la vita e la morte per poi spirare in una calda mattina primaverile.
Quello stesso giorno Himuro aveva giurato a se stesso di non coinvolgere nessun altro. Persino Taiga non sapeva nulla di quella faccenda e nonostante la domanda che gli aveva letto negli occhi quando non aveva risposto all’ennesima chiamata, aveva preferito tacere.
Mai più una persona a lui cara sarebbe stata coinvolta.
Mai più qualcuno sarebbe morto per lui.
Fu quel pensiero a dargli forza di resistere fino all’orario di chiusura e sempre lo stesso proposito gli impedì di guardare ancora in direzione del buffet. Sapeva che se c’era qualcuno in grado di accorgersi del suo terrore, quel qualcuno era proprio l’enorme pasticcere dall’aria minacciosa.
 
Murasakibara continuò ad osservare con sguardo furente la coppia che conversava animatamente in inglese, lontana dalla folla, ignorando i giornalisti. C’era qualcosa che non andava, ma cosa, non avrebbe saputo dirlo.
Tatsuya sorrideva e ridacchiava alle battute del biondo e sembrava a suo agio con il suo braccio attorno alle spalle. Da lontano non poteva sperare di cogliere abbastanza parole per capire la conversazione e soprattutto non poteva distinguere lo sguardo del pittore.
Quel pomeriggio pochissime persone si erano servite al suo banco, molti gravitavano lì attorno osservando lui e i suoi dolci senza però avvicinarsi.
Dopo l’orario di chiusura, come concordato, salì nella sala conferenze per prendere visione della tabella di marcia del giorno successivo e al momento del commiato una Azuka alquanto seccata  gli sibilò di essere meno spaventoso altrimenti gli ospiti non avrebbero di nuovo avuto il coraggio di avvicinarsi. Ah… ecco perchè nessuno era venuto a servirsi. Li stava spaventando.
Assicurò alla manager che non sarebbe più successo e si avviò lentamente verso le scale.
-Atsushi, ti va un altro passaggio a casa? Avrai parecchie cose da fare ed io sono talmente nervoso per domani che non riuscirei a dormire nemmeno con una botta in testa.-
Tatsuya stava appoggiato al muro come l’ultima volta, ma invece di tenere le braccia incrociate sembrava abbracciarsi nel timore di cadere a pezzi.
Cosa stava succedendo? C’entrava il nuovo arrivato? Si disse che forse se avesse accettato sarebbe riuscito a capire cosa lo turbava.
-Va bene, sono proprio stanco. Azuka san mi ha proprio strigliato alla grande.-
Una tremula risata sfuggì al pittore.
-Lei non ha paura di niente e di nessuno. Nemmeno di te. Oggi a quanto pare hai terrorizzato i miei ospiti al punto da farli digiunare. C’è qualcosa che posso fare per questo umore nero?-
Sì, una cosa ci sarebbe stata ma come poteva chiederglielo? Come poteva dirgli che per fargli passare la carogna doveva stare alla larga dallo straniero? Con che diritto poteva fargli una richiesta simile?
-Naaah, sono solo molto stanco. Domani mi impegnerò per essere adorabile e cordiale. Sarò il beniamino delle vecchiette. Vedrai.-
Gli strappò un’altra risata.
Salirono in macchina e silenziosamente scivolarono nel traffico. Per qualche minuto rimasero entrambi persi nei propri pensieri, ma la curiosità vinse sulla reticenza e il pasticcere diede voce ai suoi pensieri.
-Ho visto che è arrivato un tuo amico oggi. È stato spassoso vedere l’esuberante vitalità americana in mezzo al grigio contegno giapponese. Ha una vitalità niente male il tipetto.-
Himuro si irrigidì sotto al suo sguardo.
-Sì… è davvero vitale, ma sappi che è un casinista anche tra gli americani, quindi… non farti idee sbagliate.-
Era un’impressione o il tono leggero era un po’ forzato?
-Da quanto vi conoscete? Mi sembravate piuttosto  complici oggi.-
Non voleva fare quella domanda ma non era riuscito a fermarsi in tempo. Si maledì mentalmente restando però in fremente attesa di una risposta che tardò ad arrivare.
Il pittore stava riflettendo su qualcosa, probabilmente si conoscevano da così tanto che stava cercando di risalire al suo primo incontro col biondino. Involontariamente strinse i pugni.
Con il protrarsi del silenzio Murasakibara perse completamente la voglia di sapere la risposta. Sapeva già che lo avrebbe ferito. Perché poi? Non aveva deciso di mettere una pietra sopra a tutta quella storia?
Con un sospiro dovette però ammettere con se stesso che per quanto volesse chiudere quella faccenda dolorosa, l’aver rivisto il suo vecchio compagno di squadra e l’aver trascorso con lui tutto quel tempo, aveva riacceso i sentimenti che tanti anni prima aveva scambiato per semplice affetto e amicizia. Ora sapeva che si trattava di amore.
Che bel casino. Si fece mentalmente un applauso per la stupidità che stava dimostrando. Avrebbe dovuto negare; negare fino alla morte quel sentimento anche con se stesso. E invece si trovava nel ristretto e buio abitacolo di una macchina da corsa a pochi centimetri dall’oggetto dei suoi desideri e non poteva far nulla per sfiorarlo.
Quei centimetri sembravano anni luce ai suoi occhi.
-Credo di conoscerlo all’incirca da due anni.-
La voce di Tatsuya lo risvegliò dalle tenebre dei suoi pensieri. Si conoscevano davvero da così poco? Insomma, era stupito. Quindi non era un altro Taiga. Espulse il respiro che non si era accorto di trattenere.
Arrivarono davanti alla pasticceria buia. Kyoko si era beccata una brutta influenza e non poteva ancora alzarsi dal letto, quindi il negozio restava tristemente vuoto e buio fino al suo ritorno a tarda sera. Stava anche iniziando a nevicare ovattando i suoni cittadini fino a renderli impalpabili e irreali come in un sogno.
Himuro osservò pensieroso il locale chiuso.
-Ti spiace se resto un po’? Qui è così tranquillo…-
Sembrava proprio una richiesta d’aiuto. E Lui non aspettava altro. Nonostante il sonno tremendo e la voglia di levarsi dalle orecchie ore e ore di conversazioni scialbe Atsushi fu ben felice di annuire.
Entrarono nel locale  fiocamente illuminato e furono subito avvolti dal profumo di vaniglia.
-Questo profumo è celestiale.-
L’artista aveva gli occhi socchiusi e prendeva grandi respiri come se fosse stato in apnea fino a un momento prima.
-È il profumo di casa.-
Gli strappò un’altra risata mentre lo conduceva su per le scale fino al suo appartamento piccolo e minimalista. Non aveva bisogno di molte cose visto che praticamente viveva in negozio: il salotto era la sua stanza da letto e vi troneggiava un divano letto aperto e sfatto, il corridoio era ingombro di vestiti seminati nel percorso fino al bagno dove a fine giornata strisciava per farsi una doccia e infine, la cucina era… ordinatissima.
Il padrone di casa si scusò più volte per le condizioni rivoltanti della casa e lo condusse dritto nell’unica stanza che sembrava appena stata arredata.
Ogni sportello, ogni superficie, ogni attrezzo splendeva , le sedie erano allineate sotto il tavolo a penisola e dalla finestra si intravedeva la strada.
-Piccolo ma accogliente.-
La voce di Tatsuya lo sorprende, è bassa, rilassata e appena venata di invidia.
-Serve allo scopo. Di certo non è una reggia, ma è vicino a casa…-
Ridacchiano entrambi ritrovando quella complicità che sembrava essersi perduta.
SI sedettero alla penisola davanti ad un bel bicchierone di Birra aromatizzata al miele sgranocchiando biscotti rustici alla cannella.
Chiacchierarono delle loro vite, delle esperienze, degli amori perduti trovati e poi dimenticati. Trascorsero ore cercando di recuperare tutti gli anni che avevano perso. Atsushi aveva l’impressione di non essere il solo a volere un riavvicinamento; quando faceva una pausa subito l’altro rincalzava le domande per non concludere la serata.
Parlarono di tante cose. Di come avevano deciso di intraprendere una strada piuttosto che un’altra, di come fosse stato difficile iniziare, delle distrazioni che avevano minacciato di distoglierli dal loro obiettivo e finirono anche a parlare di donne. Da quel che ne sapeva, il pittore era sempre stato circondato da ragazze e donne bellissime
Andarono avanti a sorseggiare birra e tè per ore, infine, alle prime luci dell’alba crollarono spalmati sul ripiano ingombro di bicchieri e briciole di pasticcini.
Il suono del telefono di Himuro li risvegliò. Erano le otto e mezza passate. Merda. Aveva un’ora e venti per infornare l’ultima carrellata per buffet. Il pittore assonnato e spiegazzato gli aveva chiesto il permesso di fare una doccia e nel mentre Murasakibara si era affaccendato al piano di sotto.
Non seppero spiegarsi come, ma nel giro di un’ora entrambe erano si trovati affaccendati ad incartare dolciumi e a sistemarli nel piccolo bagagliaio dell’auto sportiva dell’artista e sfrecciare come pazzi alla volta dello stabile dove la mostra stava già aprendo facendo attenzione che gli scossoni non distruggessero la riproduzione in cioccolato che Atsushi teneva in bilico sulle gambe.
Una Azuka alquanto arrabbiata strigliò per bene entrambi ma si mise anche in gioco aiutando i due a preparare il bancone e il piedistallo di esposizione della scultura ancora coperta dall’imballaggio igienico e protettivo. Non serviva la cassa termica vista la temperatura rigida tipica di fine Dicembre.
 
Non gliel’aveva fatta vedere. Un po’ ci sperava.
La scultura era arrivata sana e salva alla mostra nonostante avesse guidato piuttosto velocemente  ed era rimasto incantato dalla cura con cui il pasticcere, con le sue grandi mani, maneggiava il grosso pacco.
Quella notte avevano parlato dei grattacapi che l’incarico gli aveva dato, dei problemi che aveva avuto nel lavorare il cioccolato bianco per i pizzi e delle decine di tentativi falliti. Aveva visto sul suo viso la frustrazione mentre parlava ma anche la soddisfazione di essere riuscito a vincere contro un ostacolo che aveva creduto insuperabile.
Era stato bello stare con lui a parlare, nella splendida cucina di quel piccolo nido disordinato. Si era sentito lontano anni luce dal mondo caotico a cui era abituato, aveva sentito sulla pelle la pace della routine che il suo vecchio amico aveva modellato a sua immagine come una crema ricca e nutriente.
Si era sentito più a suo agio lì che nella grande villa che aveva acquistato a Los Angeles e nella quale non amava tornare. Era troppo grande per lui, troppo spaziosa e l’eco dei suoi passi nell’ingresso quando arrivava era sembrava volergli ricordare che era solo anche quando c’era qualcuno con lui.
Mentre venivano aperte le porte si concesse un secondo, un solo secondo per immaginare come sarebbe stato tornare a casa  nel nido di Atsushi con il profumo di vaniglia ad avvolgerlo protettivo contro i mali del mondo e contro persone come Andrew…
Non fece in tempo a vederlo davvero, piuttosto lo intravide.
Una testa bionda in mezzo alla folla di visitatori accorsi numerosi per presenziare agli intrattenimenti speciali organizzati per la chiusura. Una testa bionda che non camminava in direzione della reception per ritirare il programma e depositare il cappotto.
In una manciata di secondi vide l’uomo, con ancora i fiocchi di neve brillanti sulla giacca nera, giungere nei pressi del banco del buffet dove Murasakibara era intento a sistemare i piattini e le posate per il servizio. Per un solo istante i suoi occhi azzurri incontrarono quelli del pittore che rimase congelato un momento di troppo.
Un gruppo di giornalisti venuti per intervistarlo gli coprì la visuale e così, senza ascoltare le loro parole più che vederlo lo sentì. Un unico forte boato. Uno sparo.
In quell’attimo sospeso tra il fragore e le urla di panico Tatsuya sapeva già cos’era successo.
Gli addetti alla sicurezza stavano già accorrendo ma non era necessario.
Sotto lo sguardo di circa quattrocento persone Andrew alzò la pistola e si sparò alla testa.
In tutto era forse passato un minuto.
Il corpo dello straniero era accasciato in mezzo al salone riverso in una pozza di sangue. Non c’era nulla da fare per lui. Ma a Himuro non interessava quel macabro spettacolo mentre correva verso il tavolo ingombro di dolci profumati.
Atsushi era a terra, sembrava addormentato. Un fiore rosso cremisi gli fioriva  nel petto imbrattando il bianco immacolato della divisa da pasticcere.
La sua pelle bianca era cerea, quasi trasparente e il pallore del suo volto sembrava impossibile, il respiro era un rantolo sibilante a cui seguivano rauchi colpi di tosse che gli facevano zampillare il sangue fuori dalle labbra smorte.
Il pittore crollò in ginocchio al suo fianco mentre Azuka, che lo aveva rincorso chiamava con voce scossa il Pronto Soccorso.
-Atsushi… Atsushi… riesci a sentirmi? Sta arrivando l’ambulanza, mi senti?! Non mollare ragazzone…-
Gli stringeva la mano con tutte le sue forze come se bastasse a trattenerlo lì con lui, la sentiva sempre più gelida mentre il suo sangue caldo gli inzuppava i pantaloni del completo elegante.
In lontananza dalle porte aperte si sentì la sirena, ancora qualche minuto e i medici lo avrebbero salvato…
In quel momento Atsushi rantolò e smise di respirare.
Probabilmente le persone attorno a loro non se ne accorsero, per loro era solo uno sfortunato sconosciuto che era stato colpito dal colpo di pistola di uno psicopatico e che ormai era senza speranza.
No. Senza perdere un secondo Tatsuya gli tappò il naso e iniziò a pompare ossigeno nei suoi polmoni fermi.
Se non voleva decidersi a respirare, allora avrebbe respirato per lui.
Il vociare attorno a loro scomparve nel momento in cui le sue labbra vennero in contatto con quelle di Murasakibara. Erano fredde, e il sapore ferroso del sangue sembrava sovrastare ogni altro sapore ma non se ne curò.
Staccò la bocca dalla sua per comprimere il suo enorme petto. Il suo cuore non si sarebbe fermato, non in sua presenza. Ancora una volta gli soffiò aria in petto e gli praticò il massaggio prima che i paramedici lo spingessero da parte.
Una folla silenziosa seguì con lo sguardo la barella lasciare lo stabile seguita, più lentamente dal sacco nero per cadaveri dentro cui giaceva Andrew.
Se non fosse stato già morto Himuro avrebbe voluto ucciderlo con le sue mani.
-Sensei… venga, deve darsi una ripulita…-
La voce, insolitamente gentile di Azuka lo riscosse. In effetti doveva essere spaventoso, sentiva il sangue di Atsushi seccarglisi sulle guance e attorno alle labbra mentre i pantaloni gocciolavano il denso liquido rosso scuro sul pavimento ai suoi piedi.
-Sì…-
Si lasciò guidare attraverso la sala, fendendo il mare di folla che si apriva al loro passaggio come il Mar Rosso con Mosè.
Come in trance si lasciò lavare il viso e quando rimase solo nel bagno del secondo piano invece di spogliarsi si rannicchiò dietro alla porta.
L’adrenalina in circolo gli faceva tremare le mani, sulla lingua aveva ancora il sapore ferroso del sangue che stava scivolando via dal corpo del pasticcere insieme alla sua vita. Lo aveva stretto tra le braccia mentre il suo corpo veniva sempre più freddo e nonostante il suo cuore avesse smesso di battere si era rifiutato di lasciarlo andare.
 No. Non aveva potuto nemmeno pensare che Murasakibara morisse. Era ben diverso. Se lui fosse morto, cosa sarebbe rimasto di lui? Forse i suoi quadri, forse il suo nome su qualche rivista ma sentiva, ne era certo fin nelle ossa, che se Atsushi fosse morto… lui sarebbe andato con lui.
Con questa consapevolezza il suo respiro si calmò e le gambe smisero di tremare. Si lavò e si mise una tuta da ginnastica per poi correre in ospedale.
Se c’era una speranza che vivesse e che riaprisse gli occhi, lui voleva essere lì. Voleva essere tra i primi a potergli parlare.
 
Il sonno che gli gravava addosso era impossibile eppure non avrebbe scambiato quella nottata con Himuro per tutte le ore di sonno del mondo. 
Erano riusciti a far tutto nonostante il ritardo di quella mattina. Grazie al cielo la mano abile e ferma del pittore era stata utile anche per decorare i  suoi pasticcini.
Non ricordava chi dei due fosse crollato per primo, ma la sensazione di vicinanza era stata così confortante che non avrebbe voluto svegliarsi mai più. Era riuscito persino a completare la scultura quella mattina, al primo tentativo, senza sforzo il pizzo era venuto perfetto.
Stava andando tutto bene, all’apertura era entrata un sacco di gente e la felicità che provò nel vedere il successo dell’amico gli scaldò il cuore.
Voleva che fosse tutto perfetto, per questo si era messo a sistemare con cura i dettagli del proprio bancone e quando aveva avvertito una strana sensazione aveva deciso di non pensarci.
Confuso dalla mancanza di sonno aveva ignorato il senso di urgenza che via via cresceva.
Era bastato un secondo.
Aveva alzato gli occhi, si era trovato davanti l’americano. Cavolo, l’aveva rimosso dai propri pensieri durante quella notte. Lo odiava proprio, il solo vederlo gli aveva mandato il sangue al cervello.
A rallentatore lo aveva visto estrarre dalla giacca spruzzata di nevischio fresco una  grossa pistola uguale a quelle dei film western e, troppo presto perché potesse anche solo prendere un respiro, l’uomo aveva fatto fuoco puntando a lui.
Il rumore rimbombò forte nella sala coprendo il chiacchiericcio. Un suono troppo forte per essere compreso subito appieno. Atsushi non sentì dolore. Si stupì, mentre veniva spinto all’indietro dalla forza del colpo ravvicinato di quanto fosse spaventoso il suono rispetto alla sensazione che provocava.
E poi era arrivato.
Rapido il senso di stordimento si era impossessato di lui.
Era crollato a terra come un sacco di farina e non riusciva a comandare al suo corpo di muoversi. Migliaia di puntini gli danzavano davanti agli occhi prima che tutto si oscurasse.
Si sentiva come se una coperta di ghiaccio stesse calando sul suo corpo.
Aveva così freddo…
Nel buio aveva sentito un altro forte boato. Un altro colpo di pistola? Chi era stato colpito?
Mentre la coscienza gli scivolava lontana pregò che Tastuya Himuro fosse salvo e stesse bene.
A sprazzi riemergeva dal mare nero dell’incoscienza e carpiva frammenti di conversazioni coperte dall’anomalo battito del suo cuore.
Era sempre stato così lento? E soprattutto… era sempre stato così debole?
-Atsushi… Atsushi… riesci a sentirmi? Sta arrivando l’ambulanza, mi senti?! Non mollare ragazzone…-
La voce di Murochin gli giunse alle orecchie scavalcando la morte che ormai sentiva serpeggiare su di sé. Era intrisa di disperazione e paura. Non sentiva più nulla, eppure provò dolore al pensiero di essere la causa della tristezza di Tatsuya. Che strani che erano gli esseri umani.
Avrebbe voluto rispondergli, tranquillizzarlo.
Avrebbe voluto dirgli che non sentiva male e che era felice di aver chiacchierato con lui ancora una volta, come facevano ai vecchi tempi, che era più che soddisfatto di averlo avuto di nuovo vicino.
Avrebbe preferito avere il coraggio di confessargli il suo amore ma ormai non riusciva più a trovare la propria bocca per far uscire quelle parole che aveva seppellito per così tanti anni.
Diavolo, era proprio sfortunato.
Il suo tempo stava finendo proprio nel momento in cui le cose stavano prendendo la giusta piega. Era destino che andasse così.
Avrebbe voluto essere coraggioso e dire a tutti di non rattristarsi, che stava bene e non soffriva, ma la verità era che stava morendo di paura in quel mare nero in cui galleggiava la sua coscienza.
Aveva paura di morire. Paura di scomparire senza aver lasciato alcun segno nel mondo.
Non aveva  mai avuto paura del dolore né dell’idea della morte, ma trovarcisi, a morire… quello era un altro paio di maniche.
Voleva ribellarsi, scappare dall’oscurità che stava inghiottendo ogni cosa, desiderava dolorosamente qualcuno che lo abbracciasse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.
Per un attimo gli venne in mente Sakura, la piccola principessa del suo cuore. E si rammaricò ancora di non poterle insegnare a fare i dolcetti e a decorare i coniglietti di cioccolato.
Se avesse ricordato dove si trovavano, probabilmente avrebbe stretto i suoi pugni troppo grandi con la voglia di picchiare  chiunque avesse stabilito che la sua vita doveva finire lì.
Sì, lui stava morendo. Era terrorizzato. Eppure avrebbe davvero voluto prendere a pugni l’americano.
Poi la coscienza gli scivolò tra le dita e il buio calò anche tra i suoi pensieri.
 
Himuro, si sentì in dovere si chiamare Taiga per avvisarlo dell’accaduto. Aveva migliaia di domande da fargli ma l’artista lo bloccò sul nascere dicendogli che non era il momento. 
Quando arrivò in ospedale una gentile infermiera gli disse che in quel momento il pasticcere si trovava in sala operatoria e che l’intervento sarebbe stato lungo e complesso.
Nel giro di un’ora erano tutti lì. Kuroko, Aomine, Kise, Midorima e persino Takao. I genitori di Atsushi erano a fare ricerche speleologiche in Sud America e non erano ancora riusciti a contattarli, per cui gli unici ad essersi aggiunti al gruppetto storico erano alcuni vecchi compagni dello Yosen presenti alla mostra quando era successo il disastro e Kyoko che nonostante la febbre era accorsa accompagnata dalla fidanzata non appena aveva sentito la notizia in televisione.
Il silenzio regnava surreale nel corridoio asettico.
Midorima era andato a cercare l’assistente del primario di cardiologia nella speranza di riuscire ad avere notizie più dettagliate sulle condizioni del paziente, Akashi aveva telefonato dopo aver letto il messaggio di Kuroko e aveva chiesto di essere informato in caso di sviluppi.
Tatsuya sapeva di quali sviluppi stesse parlando. Vita o morte. Dovevano chiamarlo sia in caso di morte sia in caso di guarigione.
Mentre pregava stringendo i pugni in silenzio Taiga arrivò a dare il cambio a Kuroko che doveva andare a tenere la piccola Sakura a casa. Subito l’amico gli si avvicinò e nonostante nello sguardo gli bruciasse il biasimo le uniche cose che disse furono parole di conforto.
La mano che gli appoggiò sulla spalla era così calda e rassicurante.
Le ore trascorse lente mentre a tratti tutti andavano al bagno o al distributore a prendere da bere.
Ovviamente tutti loro conoscevano Atsushi da più tempo di lui e i loro visi preoccupati erano lo specchio dei suoi stessi pensieri.
Midorima era tornato con notizie critiche. A quanto pare il massaggio cardiaco effettuato da Himuro aveva fatto sì che sopravvivesse fino all’arrivo dei paramedici e che grazie all’adrenalina, ad una trasfusione e al defibrillatore avevano rimesso in moto il cuore di Murasakibara.
A impensierire i medici era la lacerazione lasciata dalla pallottola sul ventricolo destro che comprendeva anche una piccola porzione di polmone. Se il corpo non collassava di nuovo a causa della massiccia perdita di sangue, c’erano alcune probabilità che sopravvivesse, ma l’eventualità di un nuovo shock erano alte.
Non sapeva più a che santo votarsi, a che divinità rivolgersi per chiedere la salvezza della persona che più di tutte gli stava a cuore. Un commissario di polizia arrivò nel primo pomeriggio per documentare la sua testimonianza e per riferirgli che nella stanza d’albergo di Andrew c’era una diario che poi avrebbe dovuto leggere e che sul cellulare dell’uomo erano state trovate delle foto che lo ritraevano la sera prima davanti alla pasticceria di Atsushi.
Quindi era questo il motivo per cui rischiava di perdere un altro amico.
Era colpa sua che si era illuso di poter trascorrere del tempo con lui prima di scappare ancora lontano.
Era per causa sua che Murasakibara stava su quel tavolo operatorio tra la vita e la morte?
Il senso di colpa quasi lo soffocò, poi prese una decisone. Avrebbe avuto tutto il tempo per scusarsi e deprimersi una volta che l’operazione si fosse conclusa.
Non poteva sprecare tempo prezioso a  incolparsi, doveva pregare che tutto andasse bene esattamente come faceva Kuroko con gli occhi bassi, come facevano Aomine e Kise che ancora in divisa si confortavano con discrezione, come Midorima che ogni ora chiedeva un aggiornamento al personale ospedaliero che usciva dalla sala operatoria.
Tutti pregavano che si concludesse bene.
Era ormai notte fonda quando l’intervento terminò. Era durato 16 ore.
Quando il primario di cardiologia finalmente uscì dalla sala operatoria era visibilmente stanco.
Subito Midorima e Himuro si avvicinarono per sentire cosa avesse da dire.
-L’intervento è stato lungo e complesso, ma per il momento è vivo. Ci siamo preoccupati quando è andato in arresto cardiaco nel bel mezzo della sutura, ma alla fine siamo riusciti a trattenerlo qui.
Ora sta a lui. I valori al momento sono bassissimi ma speriamo che con qualche trasfusione e un po’ di soluzione fisiologica, si riprenda. L’incertezza è se riuscirà a superare la notte. Scusatemi.-
Con questo se ne andò.
Quindi non era ancora finita. Fermò un’infermiera.
-Possiamo vederlo?-
La donna e anche Midorima lo guardarono come se fosse impazzito.
-È in rianimazione, al momento la pregherei di non andare. Se succedesse qualcosa intralcerebbe il personale medico.-
Come se gli avessero dato uno schiaffo Tatsuya si rintanò in bagno mentre Shintarou spiegava agli altri la situazione.
Quando finalmente decise di tornare in sala d’attesa c’erano solo Midorima, Aomine e Taiga.
Prima che potesse chiedere qualcosa fu Kagami a spiegargli la situazione.
-Abbiamo deciso di fare a turno in base agli orari di lavoro. Ci sarà sempre qualcuno qui con lui. Che ne dici di andare un po’ a casa a dormire?-
Probabilmente gli lesse in faccia quel che pensava di quella proposta perché annuì e lasciò perdere.
Le ore sembravano non trascorrere mai, li avevano spostati nella sala d’attesa del reparto di rianimazione, Tatsuya dal corridoio poteva vedere la stanza di Atsushi.
Era steso a letto sotto una montagna di coperte, la mascherina dell’ossigeno gli copriva quasi tutto il viso pallido, da un lato la sacca del drenaggio si riempiva rapidamente di sangue e liquido mentre dall’altra parte una flebo gli pompava in vena sangue e soluzione fisiologica per contrastare la morte in agguato.
Gli sembrava di essere sospeso. Di galleggiare nel vuoto. Quasi non si accorse di quando Kuroko venne a sostituire Taiga né di Takao che dava il cambio a Midorima. Erano tutti stanchi, con le occhiaie e i visi seri. Non si era guardato allo specchio ma dai loro sguardi poteva solo immaginare in che stato dovesse essere.
La testa girava a vuoto senza riuscire ad afferrare un pensiero coerente, spesso si accorgeva di perdere l’equilibrio perché il sonno stava per avere la meglio, ma nessuno tentò di persuaderlo ad andare via. Non dopo il suo muto scambio con Kagami.
Non dopo che aveva finalmente lasciato intravedere a  qualcuno il perché del suo comportamento.
Probabilmente tutti sapevano. Tutti avevano capito perché bene o male ci erano passati.
Kyoko, che era rimasta fino alla fine dell’intervento, si ripresentò per sapere come stava il suo insegnante. Era sinceramente preoccupata e gli voleva bene.
Quanto l’aveva invidiata e odiata! Solo fino al giorno prima voleva torcerle il collo per essere ciò che lui voleva disperatamente e invece si era scoperto, anche se nella peggiore delle circostanze, che era felicemente accoppiata con una tipa che era ancora più spaventosa e selvatica di Daiki.
Il che era tutto dire.
Probabilmente era più mascolina lei di tutti loro. Se non fosse stato così stanco e apatico probabilmente avrebbe sorriso a quel pensiero assurdo.
La mattinata trascorse tranquilla senza che si manifestassero ulteriori complicazioni e  questo fece sperare che il peggio fosse finalmente passato.
Verso l’ora di pranzo il primario di cardiologia fece una visita accurata al paziente e quando uscì dalla stanza asettica ingombra di macchinari portò buone notizie.
-Il fatto che abbia superato la notte ci fa ben sperare sulla sua ripresa. Se non ci saranno peggioramenti nella pressione sanguigna, nei linfociti T e nell’emoglobina, entro stasera lo trasferiremo in reparto. Non è più sotto anestetico, quindi potrebbe svegliarsi anche se mi sento di dire che sia troppo presto. Se volete, un visitatore per volta può entrare. Avete dieci minuti.-
Queste notizie rincuorarono tutti tranne Himuro. Era sollevato, certo, ma finchè non lo avesse visto aprire gli occhi, non sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso il sapore del suo sangue né a levarsi dalla testa l’immagine della pozza scura lasciata sul pavimento quando i paramedici lo avevano portato via.
Rabbrividì e inaspettatamente fu Takao a farsi avanti e tentare di fargli coraggio e a dirgli che avevano deciso di lasciare a lui tutti i dieci minuti a disposizione per stare con Murasakibara.
Commosso annuì.
Ci vollero quasi venti minuti di preparazione prima di poter entrare. Lo avevano impacchettato in un camice sterile, gli avevano fatto indossare una cuffietta e una mascherina che gli faceva prudere il naso. Ma non gli importava.
Quando mise piede nella stanza si sorprese di quanto fosse calda un attimo prima che l’infermiera gli spiegasse che serviva a contrastare i danni causati dal dissanguamento.  Mentre con discrezione la giovane donna controllava i macchinari Tatsuya si avvicinò al grande letto dove Atsushi riposava.
Il danno al polmone era stato minimo e per questo gli avevano già levato la mascherina.
Circondato dai bip dei macchinari che monitoravano l’incerto battito dell’omone disteso il pittore rimase fermo a guardarlo.
Era pallido, le occhiaie spiccavano sulla pelle traslucida come ustioni. Le labbra screpolate erano spaccate in più punti ma non sanguinavano. Probabilmente aveva troppo poco sangue per perderne ancora da ferite così superficiali.
-Guarda come sei ridotto… perdonami… è… tutta colpa mia… se io… se avessi pensato… tu… oh Cristo…-
Non voleva dire nulla ma le parole avevano iniziato a uscire spontaneamente dalle sue labbra senza che avesse dato loro il permesso. E con esse finalmente sgorgarono anche le lacrime.
A quel punto non gli importava di mantenere il controllo, a quel punto semplicemente vomitò singhiozzando tutto quello che aveva nel cuore. Tutto quello che avrebbe dovuto dirgli anni e anni prima, tutto ciò che sognava di poter fare con lui una volta guarito.
-Atsushi, mi senti vero? Sai che devi guarire? Non ti ho dato il permesso di morire… Devi riprenderti! Hai capito!?-
Riprese fiato, la vista ormai offuscata dai lucciconi che non si fermavano.
-Ti amo! Non puoi andartene adesso che l’ho ammesso e ammetto anche di ricordare quella notte e di averne conservato il ricordo come un tesoro anche se all’epoca non capivo!-
Ancora riprese.
-Ho fatto uno sbaglio. Uno errore madornale ad andar via. A lasciare te, a ignorare quello che eri per me… Ti prego… permettimi di chiederti perdono… permettimi di amarti ancora per un po’. Se non mi vorrai andrà bene lo stesso… ti amerò io abbastanza per tutti e due ma ti prego… riprenditi… Io ti amo lo hai..-
Un piccolo debole colpo di tosse lo interruppe.
 
Murasakibara riprese coscienza di sé lentamente. Iniziò a sentire un dolore pulsante al petto e per un po’ quello fu tutto ciò che sentì, poi arrivarono anche tutte le altre informazioni. Aveva freddo ma sentiva il peso delle coperte sopra il proprio corpo.
Che strano.
Era convinto di essere morto, ma non doveva cessare il dolore una volta morti?
All’improvviso sentì la sete. La bocca riarsa e la lingua impastata si unirono al cumulo di sensazioni che arrivava costantemente al suo cervello.
Le dita dei piedi fredde, le  gambe stese e il mal di schiena per la posizione supina, gli bruciava l’incavo di un braccio ma spostarlo per eliminare il fastidio…  no. Era ancora oltre le sue possibilità.
Poi gli arrivò alle narici l’odore asettico e tipico degli ospedali.
Quindi non era morto?
Pian piano comprese, i tasselli con lentezza andarono a posto. Doveva trovarsi in ospedale. Alla fine erano riusciti a trattenerlo in questo mondo.
Eppure era sicuro di essere morto.
Se avesse potuto sarebbe rabbrividito mentre ricordava la sensazione di scivolamento della coscienza.
Poi lo sentì. Qualcuno che singhiozzava…
Vicino a lui qualcuno stava piangendo e stava chiedendo perdono.
-Atsushi, mi senti vero? Sai che devi guarire? Non ti ho dato il permesso di morire… Devi riprenderti! Hai capito!?-
Era la voce di Murochin quella? Quanto dolore trasudava dalle sue parole, dal suono della sua voce rotta da quello che sembrava un pianto disperato.
Non era morto. Cercò di parlargli ma lo sforzo quasi lo fece precipitare di nuovo nell’incoscienza. Attese ascoltando il suono raschiante di quel respiro spezzato mentre il fiume di parole si faceva sconnesso. Ma il senso era chiarissimo.
-Ti amo! Non puoi andartene adesso che l’ho ammesso e ammetto anche di ricordare quella notte e di averne conservato il ricordo come un tesoro anche se all’epoca non capivo!-
Se avesse ricordato dove fossero i propri occhi probabilmente si sarebbe commosso. A dispetto del suo comportamento distaccato e annoiato… era un tenerone. Ma doveva restare un segreto tra lui e Sakura-chan. Lo avevano promesso.
Quindi Tatsuya ricordava quella notte. Non era stata un sogno. Stava dicendo di amarlo, di volere il suo perdono. Ma dove diavolo era la sua bocca? Prima la sentiva, era asciutta e impastata ma sapeva dove trovarla nel mare buio in cui galleggiava…
-… permettimi di amarti ancora per un po’. Se non mi vorrai andrà bene lo stesso… ti amerò io abbastanza per tutti e due ma ti prego… riprenditi…-
Non era lucido ma un pensiero gli brillò nella mente. Se c’era un motivo per cui era sopravvissuto, quello era per poter rendere felice Himuro Tatsuya e di amarlo incondizionatamente fino alla fine dei suoi giorni.
Doveva rispondergli.
Doveva trovare l’uscita.
Bastava sforzarsi un poco…
Invece della parole che voleva dire riuscì solo a tossire. Prese dolorosamente fiato e quella boccata d’ossigeno gli bruciò nel petto come un tizzone ardente.
Ritrovò il proprio corpo e i suoi occhi, finalmente, con lentezza si aprirono.
Vedeva sfocato ma bastarono pochi secondi per vedere con chiarezza l’espressione sbigottita sul volto bagnato e coperto dalla mascherina  di Himuro.
-Mu… ro…chin…-
E quello riprese a piangere. Gli si avvicinò di un passo e pianse senza ritegno come un bambino. Non gli importava delle lacrime che gocciolandogli dal mento cadevano sul lenzuolo, né del moccio al naso e nemmeno dell’aspetto indecente che aveva. Era lì, per lui, e tanto bastava.
-Muro…chin… sto… bene… calmati…-
L’infermiera era entrata nel suo campo visivo aveva un’espressione sbigottita sul volto e in un momento volò fuori dalla stanza, probabilmente a chiamare un dottore.
-Atsushi… sei… vivo…-
Ancora lacrime che però non offuscavano il sorriso sul volto di Tatsuya. Era un sorriso di pura gioia, di felicità ed era pieno d’amore.
 
La ripresa del pasticcere fu incredibilmente rapida.
Qualche giorno dopo Natale fu dimesso sia grazie alla sua forza fisica sia grazie ad un insistente opera di convincimento da parte di Midorima che garantì di tenerlo sotto osservazione  durante le feste.
Himuro era stato con lui tutto il tempo, era stata dura persino convincerlo a farsi qualche ora di sonno e una doccia. Avevano conversato parecchio durante la degenza.
Erano anche venuti il commissario di polizia e un ufficiale americano per raccogliere le deposizioni e a chiarire i dettagli del caso.
Andrew era uno squilibrato. Aveva tentato di ucciderlo perché aveva trascorso la notte insieme al pittore e poi si era tolto la vita. La salma era già stata trasportata negli States e il caso era stato chiuso in fretta.
Rimettendo piede in casa sua Atsushi si meravigliò. Era in perfetto ordine.
-Ho messo a posto e fatto il bucato. Non devi stancarti.-
Eccolo lì il suo angelo custode. Nuovo di zecca.
A detta dei medici era stato clinicamente morto per quasi tre minuti, durante i quali Tatsuya gli aveva praticato la respirazione artificiale e il massaggio cardiaco permettendo ai paramedici di rianimarlo.
Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza. Il profumo di vaniglia lo avvolse.
Sì, era a casa.
La pasticceria andava a gonfie vele dal momento in cui aveva di deciso di farla riaprire a Kyoko che gli aveva assicurato di potercela fare. E così era stato.
Si sedette nella sua cucina pulita e ordinata e si sentì semplicemente vivo e felice. Sorrise.
 
Mancavano poche ore alla rimpatriata di Capodanno. Erano stati invitati, insieme a tutti gli altri, a festeggiare il nuovo anno a casa di Kuroko e Kagami.
Tatsuya si era stabilmente trasferito nel piccolo appartamento di Murasakibara per  assisterlo e per evitare che riprendesse a lavorare troppo presto ma soprattutto perché non voleva trascorrere un solo secondo senza  di lui.
Ormai era lampante il fatto che si amassero e viste le condizioni delicate del pasticcere avevano trascorso molto tempo a parlare di quella notte al liceo, di quello che avevano provato e che non era cambiato. Avevano dormito vicini nel grande letto di Atsushi e si erano spesso scambiati qualche piccolo e casto bacio a fior di labbra.
Avevano finito da poco di pranzare quando il gigante lo chiamò in salotto.
Era disteso a letto, a torso nudo. Il cerotto medico che spiccava al centro del suo petto copriva la ferita dell’operazione e il foro slabbrato del proiettile.
-Murochin, vieni qui, ho voglia di cioccolato.-
Alzando gli occhi al cielo il moro ridacchiò voltandosi per andare a prendere il prezioso cioccolato ma una grossa mano gli impedì di muoversi.-
-Atsushi! Dovresti essere a let..-
Non fece in tempo a finire la frase che le labbra carnose e calde di Murasakibara coprirono le sue. Non era un bacio gentile, anzi, era famelico, esigente e molto, molto caldo.
-Fermo! Sei convalescente!-
Era riuscito a staccarsi dalle sue labbra mosso dal panico. Temeva che la ferita gli si riaprisse e che cadendo si facesse male. E poi… se Murasakibara davvero fosse caduto… come diavolo avrebbe fatto lui da solo a tirar su il suo mastodontico corpo?
-Tatsuya… sto bene e non voglio fermarmi.-
La voce strascicata  del pasticcere gli giunse all’orecchio tentatrice facendogli venire la pelle d’oca.
-Ma… devi stare tranquillo e riposare…-
Non c’era molta convinzione nelle sue parole: era convinto di quel che diceva ma non era mai stato un santo. Se c’era qualcuno debole al richiamo della carne… quello era lui.
-Fanculo, ma se collassi non ti perdonerò mai.-
Lo sospinse gentilmente verso il loro letto. Il gigante si sedette appoggiando le grandi mani sui suoi fianchi.
-Non collasserò. Non mi sento più così debole… ma… mi sembrava di averti chiesto del cioccolato…-
Con il cervello in tilt il pittore rischiò di perdersi nei due pozzi di ametista che erano gli occhi dell’uomo seduto di fronte a lui.
-S-sì… mi hai fermato tu…-
Le mani risalirono verso la sua schiena e sembravano toccare ogni centimetro di lui e della sua anima.
-Vai, prendine un po’-
Cercando di non mostrare la delusione Himuro si voltò e andò in cucina a prendere quanto richiesto. Quando, finalmente, rientrò in salotto con una ciotola piena di cioccolato fondente finissimo, rimase senza parole.
Atsushi era mollemente accomodato su una montagna di cuscini, il petto nudo tranne che per il grosso cerotto, i pantaloncini erano inequivocabilmente tesi all’inguine. Anzi, erano letteralmente sollevati.
Gli si seccò la bocca.
-N-non pensavo potessi essere così felice per un po’ di cioccolato…-
Gli giunse in risposta una bassa risata vibrante ed erotica.
-Sono felice di vedere te Murochin, il cioccolato è solo un di più.-
Con un dito gli fece cenno di raggiungerlo sul gande letto e, che gli dei avessero pietà di lui, quasi ci si lanciò.
In un momento le grandi mani calde dell’uomo che amava furono su di lui e impazienti gli sfilarono la camicia spiegazzata iniziando a vagare sulla pelle candida. Per poco non perse la presa sulla coppetta con il cioccolato ma il suo più lucido partner gliela levò dalle dita prima che spargesse il prezioso contenuto sulle lenzuola.
Tatsuya cercò le sue labbra nel tentativo di dimenticare finalmente il sapore di sangue a cui era legato il loro bacio più intenso.
E non rimase deluso. La morbidezza delle labbra di Atsushi lo avvolse mentre la sua lingua rovente al sapore di vaniglia invase la sua bocca massaggiando, succhiando, accarezzando ogni superficie disponibile.
In un attimo il ricordo scomparve sostituito dalle fiamme che iniziarono a lambire il suo corpo mentre a gran voce chiedeva soddisfazione.
Ma il gigante aveva altri progetti. Mentre spostava la sua scia umida di baci sulla sua gola mordicchiando la pelle tenera tra collo e spalla, una delle sua mani andò a pescare un pezzetto di cioccolato e lo portò alle labbra di Himuro che senza riflettere le socchiuse attorno al dolce boccone e alle dita del pasticcere leccandole e succhiandole piano.
-Murochin… così metti a dura prova il mio autocontrollo…-
Ridacchiando per il tono di voce cavernoso Tatsuya gli si mise cavalcioni attento a non gravargli sul petto ancora ferito.
-Beh, io rendo sempre pan per focaccia, dovresti saperlo-
Non fece in tempo a dire altro perché Murasakibara gli infilò le mani nei calzoni. Due mani immense e caldissime iniziarono a massaggiare l’intimità del pittore che rispose con entusiasmo alle attenzioni che l’altro gli riservò.
Massaggi e baci erano accompagnati dal sapore dolceamaro del cioccolato che Atsushi continuava a spingergli tra le labbra per poi baciarlo e condividere quel sapore ricco e vellutato con lui.
Per Himuro il mondo si era ridotto a due sole cose: le mani del compagno che lo facevano ardere di desiderio e il sapore del finissimo cioccolato che continuava a impastargli la bocca.
Era forse una magia?
Eppure ad ogni boccone, ad ogni ansito, ad ogni bacio gli sembrava di volare sempre più alto, sempre più verso il calore del sole.
Con gli occhi chiusi si lasciò andare all’incantesimo di Atsushi, al suo calore, alle sue grandi mani che sembravano essere ovunque, alle sue labbra che sfioravano la sua pelle un attimo prima di saccheggiare la sua bocca. Perse il controllo.
Era un fascio di terminazioni nervose che ansimava, tremava, si dimenava e non sapeva se sarebbe riuscito a reggere ancora quel lento massaggio ipnotico che scivolava sulla sua eccitazione pulsante.
-Murochin, questi mi impicciano…-
Da dietro le palpebre chiuse Tatsuya sentì il rumore della stoffa che veniva lacerata un attimo prima di avvertire il tocco delicato dell’aia fresca sulle natiche quando i brandelli dei calzoni e dei boxer caddero sotto l’attacco del suo focoso amante.
Ed ecco di nuovo il calore rovente, le dita che curiose massaggiavano, sfioravano mentre un altro pezzetto di cioccolata gli veniva spinto con delicatezza tra le labbra per poi sciogliersi nella danza delle loro lingue intrecciate.
Un bacio vertiginoso allontanò ancora la realtà. La mano calda di Murasakibara lo stava facendo impazzire con la lentezza dei suoi movimenti calcolati.
Rispose al bacio con foga, come se ne andasse della sua vita, mentre le sue mani involontariamente  si artigliarono alle ampie e robuste spalle del pasticcere.
Gli gemette sulle labbra.
Qualcosa cambiò.
La mano di Atsushi iniziò ad essere più decisa e i movimenti più rapidi. La sua bocca era ovunque ma tornava sempre sulla sua per godere del suo sapore misto a quello della cioccolata che continuava a  fargli scivolare in bocca.
Il mondo si era ristretto e si riduceva al pasticcere e al gusto deciso del cioccolato. Finchè non lo sentì.
Un dito delicatamente stava violando il suo corpo; lo stesso dito, proprio come anni e anni prima gli stava regalando la sensazione più strana che avesse mai provato.
Scacciò i dubbi e l’inquietudine che minacciavano di sommergerlo come era successo allora. Non era più un ragazzino, aveva fatto la sua scelta, aveva trovato la sua risposta e quella risposta si chiamava Murasakibara Atsushi.
-Tutto a posto Murochin? Se vuoi mi fermo qui.-
La voce cavernosa del suo compagno lo riportò al presente. Cosa gli stava facendo? Come poteva farsi venire un qualche dubbio quando si trovava tra le braccia dell’uomo che amava e che per poco… troppo poco, aveva rischiato di perdere?
Prese fiato.
-Tutto bene Atsushi… non… t-ti fermare…-
Una risata roca, erotica gli scivolò sulla pelle eccitandolo, se possibile, ancora di più mentre le labbra tornarono all’attacco sul suo collo esposto.
Stava dimenticando la sensazione strana per concentrarsi sulla scia di baci che gli stava disegnando sul corpo quando… il dito si mosse dentro lui.
Toccò qualcosa.
Il pittore rabbrividì di piacere mentre  un calore non del tutto nuovo gli fioriva nel basso ventre.
Il dito tornò all’attacco con esasperante lentezza e ancora lo infiammò. Ancora e ancora, lentamente Murasakibara assalì e conquistò il suo corpo spingendo, sfiorando, affondando e allargando.
Tasuya subiva cercando di rilassarsi per permettere all’invasore di muoversi liberamente, di proseguire quella tortura così straziante e piacevole.
Ma proprio quando sperò che potesse durare ancora, Atsushi sfilò il dito, gli sfiorò un orecchio con la lingua e sussurrò:
-Devo entrare dentro di te… non…resisto più…-
Himuro spalancò gli occhi, scendendo da sopra il grande corpo e scostando le mani del pasticcere dalla patta fin troppo tesa, si apprestò a liberare il suo inguine che si erse fiero e setoso adagiandoglisi sul ventre piatto.
Per un momento restò senza parole.
Gli balenò in testa qualche domanda tecnica e qualche dubbio sulla fisica ma li scacciò con decisione. Non poteva avere ripensamenti. Non voleva avere altri rimpianti.
La decisone fu impulsiva e, con senno di poi, anche un po’ ingenua. Il pittore prima di obbedire alle richieste dell’amante tracciò una scia di umidi baci fino al suo inguine. Aiutandosi con le mani prese a massaggiarlo e a leccarlo.
All’inizio era intimidito dalle dimensioni dell’eccitazione di Murasakibara ma la reazione che ebbe al suo tocco fu talmente spontanea e violenta da spazzare via ogni incertezza.
Si impegnò su serio, accarezzandolo con la lingua e con le mani lentamente, gustando ogni suo brivido, ogni ansito straziato; per poi accelerare i movimenti in un crescendo che tramutò i sospiri in gemiti e i gemiti in singhiozzate preghiere.
Persero la strada della realtà.
Chi era che conduceva chi? Chi stava orchestrando? Chi si lasciava guidare?
Non lo sapevano più in quella sinfonia di miagolii bassi uniti al suono dolce e sommesso delle labbra di Himuro.
Poi due mani lo presero saldamente per le spalle.
-M-muro…chin… fermati… non…-
Era sempre stata così roca e selvaggia la voce di Atsushi?
Il suo grande corpo tremava incontrollato mentre digrignava i denti e i suoi occhi roventi si fissavano su di lui ancora abbassato sul suo inguine.
-Atsushi…-
Un’ondata di desiderio gli esplose nel corpo e lo convinse a ricominciare a muoversi a labbra strette su di lui massaggiandolo, esortandolo a lasciarsi andare, costringendolo a correre e saltare oltre la cime del piacere.
Bastò poco e con un gemito che era più un ruggito il pasticcere venne tremando.
La soddisfazione di essere stato artefice di tanta soddisfazione fece sembrare a Tatsuya il gesto che aveva appena compiuto più normale di quanto avesse creduto.
-Sei… un birbante… Murochin… e…-
Il gigante faticava a parlare mentre riprendeva fiato a labbra socchiuse. L’arco di cupido umido di sudore. Era così erotico vederlo stancamente rilassato a causa sua… ma ora… l’urgenza di prenderlo dentro di sé divenne impellente.
Dimenticando tutti i suoi dubbi sulle dimensioni e la sua paura del dolore Himuro scivolò sopra al gigantesco corpo del pasticcere e attento a non appoggiarsi al suo petto esageratamente ampio e incerottato, gli si mise a cavalcioni.
In pochi secondi l’altro tornò pronto all’azione.
-Ho fame di te… Tatsuya… ora…-
La risata che si sentì uscire dalle labbra era un miagolio di assenso basso sensuale. Quasi non si riconobbe ma non se ne curò.
Le mani grandi e calde di Atsushi scivolarono su lui, sulle sua spalle, gli stuzzicarono gentilmente i piccoli chiodini rosati sul petto fino a farlo gemere a labbra strette.
Dopo una lunga e lenta discesa sul suo corpo Himuro sentì quelle mani arrivare nuovamente alla fessura tra le sue natiche e qualcosa gli scattò dentro.
Come se ci fosse stata una calamita i suoi fianchi scattarono in alto all’inseguimento del calore che promettevano i palmi delicati e roventi.
Non fu deluso.
Il pasticcere non era meticoloso solamente coi propri dolci e il pittore lo scoprì con gioia in quel momento.  Si dedicò al suo piacere con assoluta abnegazione con un pizzico di sadica soddisfazione nel prolungare all’infinito la tortura e la carezza delle sue dita dentro di lui.
E infine arrivò, quel momento perfetto in cui senza sforzo lo sollevò per i fianchi sopra al suo inguine pronto a regalargli il massimo piacere.
-Farò piano, rilassati Murochin…-
Non si era reso conto di tremare, ma anche sapendolo non capiva se era per timore o per aspettativa.
Poi lo sentì contro di sé, in silenzio sentì la sua lieve pressione e il momento esatto in cui iniziò a calarlo sulla propria lunghezza.
Gli sfuggì in ansito estasico che strappò un sorriso al suo amante concentrato a non fargli male.
-Stai tranquillo Atsushi, non mi… farai male. Rilassati.-
In un impeto di aspettativa, desiderio e tenerezza per quel gigante fin troppo preoccupato di essere manesco, gli scostò le mani da sé e con un movimento deciso si lasciò scivolare su di lui fino in fondo.
Non potè frenare il gemito di dolore misto a piacere che la sensazione di estrema pienezza gli strappò.
Erano immobili, ansanti, Murasakibara aveva i lineamenti così tesi da non sembrare nemmeno se stesso, si stava sforzando di adeguarsi a lui, alle sue reazioni; dal canto suo il pittore stava assaporando, dopo tanti anni, la sensazione di essere una cosa sola con l’uomo che amava e che, si rese conto, aveva sempre amato.
Quel pensiero lo spinse a muoversi, piano, e l’attrito  gli fece esplodere nel ventre un piacere bollente, una fame atavica che chiedeva a gran voce di essere saziata.
Gemette abbassandosi nuovamente fino a cozzare  contro alle grandi ossa del bacino di Atsushi.
Il gigante grugnì costringendolo ad abbassarsi per poterlo baciare.
Fu un bacio travolgente ma gentile, si stava ancora trattenendo e questo pensiero bastò a Himuro per amarlo ancora di più. Iniziò a spostare il bacino più velocemente scivolando su di lui più e più volte ansante e sudato stringendo i denti per resistere al piacere che minacciava di esplodere dentro di lui.
Il pasticcere gemeva e tendeva i muscoli del collo e delle spalle per adeguarsi a lui, per non reagire inconsultamente.
-Ora basta Atsushi, lasciati andare… non mi farai del male…  voglio… sentirti di più… -
Baciò le sue labbra socchiuse e tirate.
-Come quella notte in cui ci amammo senza freni.-
Bastarono quelle parole, o forse il ricordo di ciò che avevano condiviso a fargli mollare i freni; in un momento le sue labbra furono divorate in un bacio torrido, caldo, famelico mentre due gradi mani presero a stuzzicargli l’inguine e le natiche.
E attaccò ad un ritmo senza respiro, senza pause. Un ritmo violento che lo portava sempre più a fondo dentro di lui.
Tatsuya urlava di piacere e dolore eppure fusi insieme in quel momento perfetto non avrebbe rinunciato a quella dolcissima pena per nulla al mondo.
Con una mossa fulminea Murasakibara lo girò  fino a fargli appoggiare  la schiena al proprio enorme petto madido di sudore, il cerotto appeso solo per scommessa alla pelle umida e scivolosa. Gli spalancò le gambe sostenendole con le mani e attaccò ancora. Con più forza, più in profondità.
Sembrava arrivare ad ogni fibra del suo essere e ad ogni spinta alimentava il fuoco che brillava fulgido dentro di lui.
Himuro si perse nella sua forza, nel suo calore e nel suo impetuoso modo di amarlo finchè non pronunciò una frase che era riemersa nella sua memoria.
Proprio come quella volta era al limite, stava per esplodere in mille pezzi, il suo corpo era sfiancato, i suoi muscoli di gelatina non rispondevano bene ai comandi eppure voleva, pretendeva qualcosa di più. E in quel momento ricordò.
-Mordimi… Atsushi.-
L’altro dal canto suo era così euforico di non dover più prestare attenzione che ci mise qualche secondo a registrare  le parole del compagno che stava manovrando mosso dall’impeto.
Alla memoria tornarono le immagini che lo avevano tormentato per anni.
Quella notte al liceo, il loro amplesso selvaggio, i muscoli di Murochin che tremavano proprio come stavano facendo in quel momento mentre gli ansiti erano sempre più spezzati e agonizzanti eppure dolcissimi.
“mordimi”.
Anche allora glielo aveva sussurrato sulle labbra. Anche allora si era sentito crescere  dentro la possessività e la necessità di segnarlo come suo.
Aumentò ancora le spinte spingendosi il più a fondo possibile dentro li lui e infine lo morse. Forte.
Tra collo e spalla la pelle tenera  e madida di sudore gli lasciò sulla lingua un lieve sapore salato ma tutto scomparve quando sentì risucchiare il suo inguine dagli spasmi dell’orgasmo di Tatsuya.
Venne insieme a lui, gridando, gemendo, ansando e stringendoselo contro quasi a volerlo inglobare dentro di sé.
Crollarono sul materasso abbracciati e soddisfatti.
Ogni fibra di Himuro era così sfinita e sfiancata da tremare protestando all’eccessivo sforzo eppure sapeva di avere stampato in viso un enorme e felice sorriso ebete. Si godette in silenzio la sensazione di protezione e calore che dava l’essere avvolto dal mastodontico e caldissimo corpo di Atsushi.
-Ti amo Murochin.-
Ecco, ora poteva dirlo con l’atmosfera giusta.
-Anche io ti amo Atsushi. Non osare farmi un altro scherzetto simile. Sennò ti ammazzo io.-
Il gigante rise e il rombo che produsse gli vibrò fin nel cuore.
Non avevano altro da dire. Ormai erano usciti allo scoperto ed erano più felici che mai.    
 


Ed eccoci alla fine! Si la fine.
Ho immaginato di scrivere un altro capitolo in cui tutti potessero festeggiare il capodanno in compagnia ma... avrebbe perso la sua  utilità.
Ogni storia qui è come una bolla, ha il suo equilibrio e si conclude con una promessa di felicità; scrivere ancora dopo quelle conclusioni avrebbe sminuito quel senso di apertura e di continuità che ho voluto lasciare in ogni epilogo.
Ecco dunque il motivo per cui questa è la fine. Davvero la fine.

Grazie a te che sei arrivato fin qui.
Grazie di cuore.

Marta
   
 
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