Dopo un paio di
giorni trascorsi a
meditare con le punte delle dita congiunte, sprofondato nella poltrona
del
salottino, insensibile ed indifferente a qualsiasi tipo di stimolo, il
mattino
soprese Sherlock con l’arrivo di Mrs. Hudson, la quale, a
giudicare dalle
sopracciglia corrucciate e dallo strano bagliore negli occhi miti,
sembrava più
determinata che mai. Il primo suono era un tintinnio argentino, sottile
e
difficilmente individuabile se non in condizioni di perfetto silenzio,
ma
l’udito di Sherlock, oltre a essere particolarmente
sensibile, era anche
notevolmente allenato. Il secondo suono, ben più vigoroso,
era lo scalpicciare
dei suoi passi da passerotto sulle scale, le quali sembravano
accogliere la
pressione dei piedi di Mrs. Hudson con un cigolio morbido in risposta.
Terzo
suono. Rumori benevoli, affettuosi, accettati, quasi attesi da
Sherlock,
nonostante il torpore delle sue meditazioni, le quali, a dispetto della
sua
postura inerme e dell’apatia dei suoi occhi, erano divenute
più frenetiche con
il passare delle ore.
Bruno. Aconito.
Villa abbandonata.
Rovine. Neanche una traccia, neanche un’impronta.
L’unico a detenere le chiavi
è il vecchio custode, Howard Hughes. Una casa circondata
dalle campagne a poca
distanza dalla villa dove è stato trovato il sacerdote.
Howard Hughes. Il nome
suggerisce grandezza, un passato munifico, un presente invidiabile.
È invece un
vecchio possidente caduto in disgrazia. Capelli grigi, occhi neri,
sottile e
nervoso. Le crosticine intorno alla bocca suggeriscono una dipendenza
da popper.
Aria ingenua, tremito impercettibile. Non aveva mai visto un cadavere
prima di
allora. Non divagare. Scusa, Mycroft. Un momento. Cosa ci fai tu nel mio palazzo mentale? È una
cosa insana,
Sherlock, lo sai bene. Sparisci. Subito, ma non prima di averti
ricordato che è
la vigilia di Natale e che trascorrerai quasi sicuramente una serata in
compagnia.
Una serata in
compagnia?
“Sherlock!”
Aconito. Cigolio
della porta.
Scricchiolare delle assi del pavimento. Farina, capelli raccolti, bocca
dipinta. Grembiule. Vassoio. Tazza di tè. Mani tremanti. Il
cucchiaino
sbatacchia appena contro la zuccheriera. Un tintinnio argentino
perenne,
nascosto, come un suono segreto, come un messaggio. Cosa diavolo ci
faceva lì
quell’uomo? Come ci è entrato?
“Caro,
non tocchi cibo da troppo tempo.
Ho pensato che un buon tè potesse farti tornare un
po’ di appetito.”
Un suono gutturale
in risposta.
“Come ti
senti, a proposito?”
Apparentemente
è l’omicidio perfetto.
Non riesco a individuare il movente. Ho troppi pochi dati a
disposizione. La
serratura della porta di ingresso è stata forzata una volta
sola, l’ultima.
L’unica stanza impiegata (per cosa, poi?) è stata
utilizzata una volta sola,
l’ultima. Potrebbe sembrare un suicidio.
“Ho
pensato che stasera potessimo
trascorrere un po’ di tempo tutti assieme. Sai, scambiarci i
regali,
chiacchierare, bere qualcosa…”
Ma io so per certo
che non lo è.
Si
schiarì la voce. “Non credo di poter
partecipare. Sto lavorando ad un caso.”
Mrs. Hudson
sembrò delusa. “Anche
stanotte, Sherlock? Non puoi proprio prendere una giornata di pausa per
stare
con i tuoi amici?”
“I
criminali non vanno mai in vacanza,
Mrs. Hudson”, replicò Sherlock.
“Ma i
consulenti investigativi possono
farlo per qualche ora”, lo rimbeccò lei con
determinazione, scrutandolo con
occhi duri.
Un sospiro.
“Per
quanto possa trovare
incredibilmente avvincente la sua
dedizione a certe incomprensibili tradizioni, Mrs. Hudson, non ho
nessunissima
ragione logicamente validata per sottostarvi”.
“E invece
ne hai a bizzeffe, caro,
perché i tuoi amici hanno un grande desiderio di stare in
tua compagnia. Non
puoi deluderli.” Mentre lo diceva, allungò una
mano esile per dargli un
buffetto sulla guancia. Sherlock rimase paralizzato da una sensazione
di
imbarazzo difficile da classificare. La sua mente, con strida di
ingranaggi
impazziti, riprese a lavorare freneticamente.
Tradizione. Compagnia. Champagne. Amici. Diamine.
Terrificante, noioso,
impensabile. Londra è piena di pericoli di ogni sorta,
c’è un pazzo
avvelenatore a piede libero e il mio destino è quello di
ritrovarmi imprigionato
in una situazione sociale talmente spinosa da farmi venir voglia di
strapparmi
i capelli a ciocche. Il mio battito cardiaco sta accelerando, ho le
mani
sudate. C’è un pensiero, uno solo, che preme per
uscire, si dibatte e scalcia
come in un incubo, ma non lo lascerò andare. Devo
trattenerlo.
“Non mi
interessa deludere o meno
chicchessia. E poi ho ancora un po’ di febbre”,
azzardò timidamente.
Smettila di
punzecchiarmi, smettila,
smettila, smettila…
Mrs. Hudson prese
un lungo, eloquente
respiro. Si alzò e si diresse verso il vassoio che aveva
deposto sul tavolo,
accanto al laptop e a una pila di libri di chimica e fisiologia.
“Sherlock…”
Oh, ti
prego…
“John.”
Espirò senza riuscire più a
trattenersi. Con un sobbalzo, riuscì a focalizzare
visivamente il proprio
muscolo cardiaco saltare un battito e riprendere a pompare sangue con
più
voluminosa audacia di prima. Arterie, capillari, vene. Scambi gassosi.
John. Tu
sai cosa mi sta accadendo. Tutto questo accade dentro di me, ora,
subito. Lo
sai bene, benissimo, eppure non ci sei.
Mrs. Hudson non
diede segno di sorpresa.
Era troppo impegnata a versare il tè nella tazza sbreccata,
a raccogliere i
granelli di zucchero sfuggiti al cucchiaino, a pianificare
l’orrenda serata che,
date le premesse, si preannunciava più cupa che mai. Il
soffitto non si è
sbriciolato sulle nostre teste, Mrs. Hudson non ha avuto nessun colpo
apoplettico, io non sono morto.
L’ho
detto. L’ho detto davvero. John. John ci sarà?
Lui, Mary, la famigliola felice?
“So
bene”, stava dicendo Mrs. Hudson,
porgendogli la tazza di tè con un sorriso felino
“che le circostanze siano
particolari e che tu non tenga particolarmente a queste feste, ma ci
incontriamo ogni anno assieme agli altri. Non interrompiamo questa
tradizione.”
Sherlock
sorbì il tè senza replicare.
Era caldo, gradevole, rinvigorente. Effettivamente, dopo qualche
istante si
sentì meglio. Ripose la tazzina e chiuse gli occhi,
massaggiandosi le tempie
indolenzite. Percepì un’esitazione infinitesima in
Mrs. Hudson, la quale aveva
prontamente messo in ordine il tavolino ed aveva cominciato ad avviarsi
verso
l’ingresso, sulla soglia del quale si era fermata, vagamente
a disagio.
Attraverso l’intercapedine delle palpebre chiuse, Sherlock ne
visualizzò gli
occhi inumiditi dalla stanchezza, l’anca dolorante, i denti
che rincorrevano le
labbra, affondando nella carne rosea e resa più accesa dal
rossetto. Tracce di
trucco, un sospiro strozzato, mani che si torcerebbero, se non avessero
l’impedimento del vassoio appena tremante. Tanto
bastò a metterlo in allerta.
Spalancò
gli occhi. “Che c’è?”,
sbottò.
Mrs. Hudson si
finse sorpresa con una
smorfia che qualunque altra persona avrebbe trovato graziosa, ma non
Sherlock,
il quale, dopo averla soppesata per un istante, inarcò le
sopracciglia e decretò:
“Ha
qualcosa da dirmi, Mrs. Hudson?”
La donna emise un
suono soffocato, a
metà tra un gemito e un risolino. “Oh, Sherlock,
niente di particolarmente
interessante. Ho pensato, però, che dovessi essere preparato.” All’udire
quelle parole, Sherlock si visualizzò nello
stesso modo in cui si trovava in quel momento: esile, semisdraiato in
poltrona,
il volto pallido, i grandi occhi chiari sgranati, le dita giunte, le
vene
improvvisamente pulsanti. La voce gli uscì sottile,
appuntita: “Preparato a
cosa, esattamente, Mrs. Hudson?”
Un respiro
voluminoso, concentrato,
saturo d’ossigeno. “Stasera…”
“Stasera?”
Ho un
presentimento. Ed è il più
terribile che possa mai essere concepito.
Mrs. Hudson si
corresse
precipitosamente. “Quel che voglio dire, Sherlock,
è che vorrei tu fossi
presente stasera per dare il benvenuto ad una
ospite…”
È peggio
di quanto credessi. Una ospite.
Sesso femminile. Ospite.
“Una ospite?”
“Per la
precisione, una sorta di… coinquilina”,
esalò Mrs. Hudson, bianca
come un lenzuolo.
Sherlock non
avrebbe potuto descrivere
in nessun modo il caos coagulato che gli esplose improvvisamente in
tutto il
corpo all’udire quelle parole. Era come se ogni suo organo si
fosse ribellato
alla decisione presa da Mrs. Hudson contro la propria
volontà e protestasse con
tutta la forza di cui era capace. Il cuore gli pulsava contro la gabbia
toracica con impetuosa disperazione. I suoi polmoni sembravano
necessitare
improvvisamente di un quantitativo maggiore di aria da inalare, e
ciononostante
ogni respiro gli bruciava curiosamente e dolorosamente la trachea. Il
tè
sembrava avergli incollato il cardias ed il piloro, un tappo zuccherino
aromatizzato al limone, sigillandogli, apparentemente per
l’eternità, lo
stomaco. Stille di sudore freddo gli imperlarono sgradevolmente la
fronte.
Di quella
deflagrazione lacerante Mrs.
Hudson captò un unico, impercettibile segnale: le labbra di
Sherlock, appena
impallidite, si mossero appena per congedarla. “Ci
sarò”, fu l’unica cosa che
disse.
Sherlock trascorse
le ore successive
profondamente immerso nell’oceano che aveva invaso il suo
palazzo mentale con
un fragore insopportabile in seguito allo scambio avuto con Mrs.
Hudson. Si era
aggirato per qualche tempo per le stanze ed i corridoi umidi,
muovendosi a
fatica a causa dell’acqua che ne intralciava il passaggio,
osservando con
tristezza lo sfacelo che lo circondava e chiedendosi con orrore quando
sarebbe
stato nuovamente agibile. Temeva che i danni potessero essere
permanenti, ma si
costrinse a focalizzarsi su un solo pensiero: se non poteva affrontare
tutta quell’acqua,
avrebbe lasciato che quest’ultima lo ghermisse e lo portasse
in qualsiasi
direzione. Solo così avrebbe avuto chiara tutta la
situazione e avrebbe potuto
collocare al loro posto le tessere mancanti del puzzle. Così
fece. Smise di
opporre resistenza all’acqua e le permise di trasportarlo,
muovendo appena le
braccia e le gambe per rimanere a galla. La sensazione non era
spiacevole: i
suoi vestiti si erano gonfiati e fluttuavano, i suoi movimenti erano
lenti e
cadenzati. L’abbraccio dell’oceano era quasi
confortante.
Quando Mrs. Hudson,
vestita di tutto
punto, si affacciò sulla soglia dell’appartamento,
carica di stuzzichini e
decorazioni natalizie, lo trovò nella stessa posizione in
cui l’aveva lasciato
più di sei ore prima, con gli stessi vestiti, lo stesso
respiro e lo sguardo
liquido e lontano. Per un istante la donna ebbe l’impulso di
correre al
telefono e annullare tutto, ma dopo pochi istanti prese un respiro
profondo e
si disse: Martha, non essere ridicola. Sarebbe peggio per lui se tutto
gli fosse
dovuto, se tutto gli fosse reso facile.
“Sherlock”,
ordinò “va’ a vestirti. Gli
altri saranno qui tra poco.”
Sherlock, pur non
avendo dato cenno di
averla vista o udita, si alzò lentamente e si diresse verso
la propria camera.
Passando nel piccolo corridoio diede un’occhiata
all’orologio che portava al
polso: tale gesto sembrò rinvigorirlo, perché
frugò con decisione nell’armadio
e scelse la camicia color bordeaux che aveva sempre indossato in
occasioni come
quella. Con altrettanta sicurezza passò nel bagno per
lavarsi, esile, rapido,
efficiente. In poco tempo fu pronto. Mrs. Hudson, nel frattempo, si
apprestò ad
allestire il piccolo salotto per la festa, senza perderlo
d’occhio un solo
istante. Dal canto suo, Sherlock non diede alcun segnale di averla
notata.
Terminò di vestirsi e rientrò in camera, mentre
Mrs. Hudson, dopo aver
sistemato le ghirlande e le lucine, pensava a quanto strana fosse
quella danza
inconsapevole che stavano entrambi compiendo, quasi stessero girando
intorno ad
un fantasma, senza toccarlo mai, senza affrontare mai il problema.
Com’è
possibile che un uomo tanto geniale e colto, così esperto
nelle sue deduzioni,
o quel che diavolo sono, possa essere tanto ingenuo e spaesato di
fronte ai
sentimenti? Qualunque altra persona avrebbe affrontato la cosa con una
leggerezza diversa rispetto a quella che lui sta ostentando.
Così si diceva
Mrs. Hudson, mentre Sherlock le passava accanto senza quasi vederla,
dirigendosi verso il violino posato sul tavolo polveroso e lasciando
dietro di
sé una lieve scia di acqua di colonia.
Le prime, esitanti
note di un valzer
riempirono la stanza. Mrs. Hudson si fermò sulla soglia,
accarezzando Sherlock
con occhi affettuosi. È così vulnerabile, si
disse. Come un bambino, come un
figlio. Vorrei poterlo aiutare in qualche modo.
Sherlock chiuse gli
occhi, e la melodia
che stava suonando divenne un sottofondo ovattato, distante. Si
ritrovò nel palazzo
mentale, percependo come le cose fossero cambiate in quel lasso di
tempo in cui
era rientrato nella quotidianità. Il flusso
d’acqua si era ingrossato ed aveva
aumentato la sua velocità, costringendolo a voltarsi sulla
pancia e a nuotare
con ampie e abili falcate. Nel farlo, lanciava sguardi angosciati
intorno,
appurando come l’acqua avesse corroso gli ambienti,
apparentemente in modo
irreversibile. Accadrà ancora? Si chiese. Tutto questo
deperirà senza che io
possa impedirlo? Tutto questo deperirà prima che possa
risolvere il caso del
sacerdote avvelenato?
I suoi pensieri
furono arrestati
bruscamente dall’arrivo di Lestrade e Molly Hooper, i quali
lo salutarono con
premura esitante. Sherlock offrì loro un sorriso tirato, poi
ripose il violino
e sedette, tamburellando le dita sul tavolo con manifesto nervosismo.
Mrs.
Hudson offrì del vino e salatini a tutti, i quali
accettarono, eccezion fatta
per Sherlock, che sedeva rigido e teso. “Allora,
Molly”, disse “hai esaminato
il corpo del sacerdote?”
Molly
arrossì, ma rispose con
compostezza. “Tutto lascia presagire che sia morto per
avvelenamento, come
avevi… insomma… già detto tu.
Aspettiamo i risultati del tossicologico per una
conferma definitiva.”
Sherlock
annuì seccamente. Mrs. Hudson
intervenne: “Non parliamo di queste cose tristi, caro.
È pur sempre la notte
della vigilia di Natale…”
“Un
vecchio trucco che con me non attacca”,
replicò Sherlock con fare apparentemente gioviale. Mrs.
Hudson scosse la testa
con fare rassegnato. Sherlock lanciò un’occhiata
nervosa verso la soglia
dell’appartamento. Arriverà? Si chiese.
Arriveranno?
Molly si rivolse a
Lestrade con un
sorriso imbarazzato. “Come sta tua moglie, Greg?”
Sherlock decise di
indirizzare la
propria attenzione su quello scambio banale solo ed esclusivamente per
contraddire qualsiasi risposta Lestrade avesse proferito, ma prima che
potesse selezionare
le affermazioni più deboli e gustose da attaccare, un suono
remoto lo fece
appena sobbalzare. Nessuno diede cenno di essersene accorto. Il suo
stomaco
sembrò rivoltarsi come un guanto, il cuore
cominciò a sbatacchiare in maniera
impensabile, come una finestra lasciata aperta in un giorno di vento.
Strofinò
nervosamente le mani sulle ginocchia, per nasconderne il sudore
crescente. Sono
disgustoso, si disse. E le mie metafore fanno schifo.
Sono arrivati. Lui
è qui.
Si era sbagliato,
ma non completamente.
I passi che aveva udito sulle scale si fecero più nitidi man
mano che i piedi
cui appartenevano si avvicinavano. Dopo un’iniziale attimo di
incredulità,
rivoli di amarezza si ingrossarono nelle sue viscere. Sherlock
roteò gli occhi,
visibilmente disgustato. Una sola persona. Camminata leggera, quasi
felpata.
Struttura corporea certamente minuta e poco pesante. Niente tacchi. A
giudicare
dal rumore è più probabile che siano anfibi.
Dànno volume al suono dei passi,
che altrimenti sarebbe indistinguibile e pertanto passerebbe
inosservato. Non
promette nulla di buono. Ci sarebbe molto da dire sulla psicologia
delle
calzature. Dovrei scrivere un saggio in merito. Riassumiamo.
È una donna,
minuta, magra, giovane. Detesto i
giovani.
“Ah,
Helvia!”, esclamò Mrs. Hudson non
appena quest’ultima si affacciò sulla soglia con
un sorriso impacciato.
Sherlock non riuscì a trattenersi e sbuffò
rumorosamente. Molly gli rivolse uno
sguardo interrogativo ed intenso, ma lui non se ne accorse. La sua
mente
riprese a lavorare con frenesia, passando al vaglio e demolendo quasi
simultaneamente i dettagli e le caratteristiche ricavate
dall’osservazione
della ragazza.
Noioso, noioso,
noioso. È stato davvero questo
a prostrarmi per un pomeriggio intero?
Una biondina con un anello al naso e i jeans strappati? Una sciocca che
cerca
di emergere dalla banalità della sua stessa vita
pasticciandosi i capelli e
forandosi le cartilagini? Impensabile.
“Buonasera
a tutti!”, esclamò
quest’ultima, rivolgendo un sorriso ai presenti.
Baciò Mrs. Hudson sulle guance
e si rivolse a Sherlock con un’espressione cordiale,
tendendogli la mano.
“Molto piacere, signor Holmes. Mi chiamo Helvia Haynes.
Martha mi ha parlato
molto bene di lei.” Sherlock la inchiodò con uno
sguardo gelido, ma la giovane
non diede mostra di essere rimasta impressionata. Ritrasse
elegantemente il
braccio e gli diede le spalle. Molly e Lestrade osservavano la scena a
bocca
aperta.
“Ti
stavamo aspettando!”, intervenne
Mrs. Hudson con voce appena stridula, spezzando il silenzio imbarazzato
che si
era improvvisamente impadronito dei presenti. “Accomodati
pure.”
“Sì,
accomodati, Helvia”, fece eco
Lestrade con voce arrochita. “Gradisci del vino?”
“Volentieri,
grazie!”, rispose la
ragazza, ravvivandosi i capelli con un gesto che Sherlock
soppesò per un
istante. Pratico, non affettato né vanitoso. Apparentemente
non egocentrica.
Accolse il calice tra le mani esili e bevve un sorso. Le sue guance si
tinsero
leggermente di rosa. Buono a sapersi, pensava Sherlock, sarà
più facile tenerla
alla larga. Lanciò un’altra occhiata
all’orologio e si sentì improvvisamente
meglio. Manca poco, si disse.
E John non
verrà.
Quel pensiero fu
talmente insostenibile
da spingere Sherlock ad alzarsi bruscamente, incupito. Le mani gli
tremavano
leggermente, ma i suoi movimenti erano secchi. Indossò il
cappotto e la sciarpa
e si guardò attorno alla ricerca dei guanti. Mrs. Hudson lo
guardava con
tristezza. Sherlock intercettò lo sguardo di Molly e
Lestrade, i quali
apparivano più rassegnati che sorpresi. La ragazza bionda
continuava a
sorseggiare il vino, ma le sue dita erano contratte. Sherlock
avvertì un
palpito di soddisfazione.
“Dove
stai andando, Sherlock?”, chiese
Lestrade.
“Ho un
improvviso e frenetico desiderio
di tranquillità”, rispose Sherlock con voce neutra.
Lestrade lo
scrutò con diffidenza. “Non
dirmi che ha a che fare con il sacerdote dell’altro
giorno.”
“Se te lo
dicessi non farebbe
differenza, dico bene?”
Mrs. Hudson fece
per aprire bocca, ma l’occhiata
che Sherlock le lanciò la ammutolì. “Ti
lascio qualcosa da mangiare”, disse con
voce flebile.
Sherlock rivolse un
ultimo sguardo agli
astanti. I suoi occhi si soffermarono sulla pelle opaca e sugli
anellini alle
orecchie di Helvia, la quale scrutava il fondo del suo calice. Coinquilina, pensò con vago
disgusto. Potrebbe
rivelarsi più arduo del previsto. Ma del resto potrebbe
rivelarsi anche più facile
e scontato del previsto.
Si volse e scese le
scale. Mrs. Hudson
si rivolse con un sorriso tirato a Helvia: “Ci farai
l’abitudine, cara. Sotto quella
corazza batte un cuore gentile.”
Lestrade fece una
smorfia. “Probabilmente
si sta confondendo con qualcun altro.” Molly gli
tirò una gomitata, senza
sorridere. Aveva gli occhi velati di lacrime.
Sherlock
uscì nella notte fredda e
immobile. Guardò un’altra volta
l’orologio e pensò che avrebbe potuto
facilmente raggiungere la chiesa di St Peter a piedi. Mancava ancora
qualche
ora alla veglia di mezzanotte. Sorridendo appena tra sé,
ripensò al pomeriggio
trascorso nell’incertezza e nello spavento
dell’ignoto che si era poi
materializzato sulla soglia dell’appartamento con un anello
al naso. Si figurò
la ragazza bionda, sbiadita come una vecchia immagine, e
pensò a quanto l’ignoto
potesse essere sorprendente nella sua banalità. Poi i suoi
pensieri si
soffermarono con amarezza su John, più lontano che mai, e
poi pensò a se
stesso, gonfio di tristezza, dolente e vulnerabile come mai si era
sentito
prima di allora.
Desidero
ringraziare sentitamente tutti coloro che hanno letto e recensito, in
particolare
emerenziano. Ti ringrazio davvero per tutti i complimenti (che non
merito), mi
riscaldano il cuore in un modo che davvero non so descrivere!
Un
abbraccio, a presto,
Denirose