- Capitolo 3 – Il mio migliore amico
- Nota: d’ora in poi, scriverò in carattere normale il punto di vista di Yumichika, e in grassetto quello di Ikkaku
- Quella sera, rimasi a lungo lì,
impalato, in mezzo al corridoio che separava le nostre nuove stanze.
- Maledii l’attimo in cui avevo
scelto una stanza non tropo distante dalla sua.
- Se mi avessero beccato lì, in
piedi, con quella bottiglia di sakè in mano, e lo sguardo idiota perso nel
vuoto, avrei perso quel po’ di rispetto che mi stavo conquistando a suon
di biglietti per l’infermeria che stavo distribuendo nell’Undicesima
Compagnia.
- Non ce la feci, a bussare.
- Me ne tornai in camera, e poggiai
la bottiglia ancora intatta sul tavolino.
- Non ci eravamo neanche incrociati
per tutto il giorno, come se mi evitasse.
- Non potevo dargli torto se mi
evitava. Io stesso mi sarei evitato.
- Mi sarei preso a pugni da solo.
- Era una stanza spoglia: futon,
armadio, un tavolino basso, un paio di cuscini.
- Ma era molto di più delle baracche
spoglie e fangose a cui eravamo abituati.
- Qualche inserviente aveva preparato
il futon. Dovevo abituarmi all’idea di avere della gente che si occupava
di lavare i miei vestiti e di prepararmi il futon la sera, adesso che la mia
nomina ufficiale a terzo seggio era questione di giorni. Una cosa
inconcepibile, per un vagabondo come me. Yumichika ci si sarebbe adattato in
un attimo, ne ero certo.
- Lo yukata che indossavo quando ero
arrivato qui, quello yukata senza maniche corto e stracciato, era stato
lavato, aggiustato, piegato e messo accanto al futon.
- D’improvviso trovai la divisa da
shinigami soffocante.
- Quella stanza stessa era
soffocante.
- Mi misi lo yukata e uscii, e quasi
andai a sbattere contro di lui.
- Di nuovo con quel kimono da donna.
Anche se adesso aveva i capelli corti, era dannatamente femminile, anche se
teneva l’abito semiaperto, mostrando il petto.
- Vidi di sfuggita una macchia scura.
- Distolsi lo sguardo.
- Non era il livido inflitto in un
giusto allenamento. Gli avevo fatto male apposta.
- E lui se l’era lasciato fare.
- Non ho mai avuto esitazioni a
colpire, ferire, uccidere chi mi stava davanti, in combattimento.
- Ma mi sentivo a disagio, con lui.
- -Sto andando a lavarmi. - mi disse
–Ti va di venire con me? Immagino che tu tra ieri e oggi abbia sudato
parecchio, mostrando a quei pivellini come si usa una spada. -
- Sorrideva.
- Come faceva a sapere cosa avevo
fatto?
- -Ne hai mandati dodici in
infermeria, oggi. Quelli della quarta compagnia ti manderanno il conto,
prima o poi!- rise.
- Come faceva a sapere il numero
esatto?
- -Dai, se vai a dormire tutto sporco
e puzzolente, farai così schifo che non riuscirò più ad avvicinarmi a
te!- mi esortò.
- Allora quel giorno aveva visto
mentre mi allenavo, e sfogavo la mia rabbia?
- Mi toccò il braccio col dorso
della mano.
- Quello era sempre stato il massimo
contatto che concedeva, al di fuori di quando mi medicava le ferite, fino
a… fino alla notte prima.
- Non avevo niente sottomano con cui
lavarmi, neanche un asciugamano. Mi ero sempre servito di quelli messi a
disposizione nei bagni dei soldati semplici.
- Lui aveva invece tutta la sua roba
personale, deve essere stata la prima cosa che si è procurato appena
diventato shinigami. Il secchiello di legno che aveva tra le braccia era
enorme e strapieno.
- Lo seguii comunque.
- Sai, ogni caserma ha i suoi bagni,
maschili e femminili, per i soldati e per gli ufficiali di seggio.
- L’acqua riscaldata corre in
scanalature di pietra, con i mestoli per tirarla su e le spugne per lavarsi,
e altra acqua bollente riempie le vasche per immergersi.
- Non c’era nessuno.
- Non sapevo se per l’ora, o perché
in questa Compagnia per molti l’igiene personale è una sciccheria poco
usata.
- Solo tempo dopo mi resi conto che
Yumichika mi aveva portato nei bagni degli ufficiali. Quelli delle DONNE.
Dato che non c’erano più ufficiali donne nell’Undicesima a parte il
luogotenente Kusajishi, questo avrebbe dovuto farmi capire qualcosa.
- Ma lui potrà dirti che pensare non
è la mia specialità. A volte vorrei davvero strozzarlo, anche se è il mio
migliore amico.
- Tutt’ora, il più assiduo
frequentatore di quei bagni è Yumichika… seguito a ruota da me. Sono
diventati quasi i suoi bagni personali.
- Se non fosse per i suoi brontolii,
neanche io mi grattugerei la pelle ogni sera o quasi.
- In passato, quando puntava i piedi
e pretendeva di fermarsi da qualche parte per lavarsi, io restavo sulla
riva, brontolando, e facevo la guardia i nostri pochi averi. Se poi riusciva
a convincermi a darmi una ripulita, quando io mi toglievo un po’ di fango
e sudore di dosso, restava lui a fare la guardia, invece.
- A Rukongai, la prudenza non è mai
troppa. C’è gente pronta ad ammazzarti per un pezzo di cibo. Gente come
noi.
- Raramente succedeva che potessimo,
o volessimo, entrare in acqua contemporaneamente.
- Quindi, quando si spogliò senza
pudore, piegando i suoi abiti nel cestello, e dirigendosi verso la zona
delle abluzioni, rimasi per un attimo incerto. Che fare?
- Oltretutto, non avevo neppure uno
straccio per coprimi.
- Dovevo coprirmi.
- Non potevo mostrare come, alla
vista del suo corpo nudo, il ricordo della notte prima mi aveva assalito,
causandomi un’erezione. Una cosa piuttosto imbarazzante, se meno di
diciotto ore prima hai affermato che c’era solo amicizia.
- Mi arrivò un asciugamano in
faccia.
- Yumichika sorrideva e mostrava il
cestello.
- Ne aveva portato uno per me?
- Quindi aveva intenzione fin dal
principio di invitarmi in quei bagni?
- Che accidenti aveva in mente?
- Cosa cazzo pensava?
- Canticchiava mentre si lavava.
- Lo vidi sussultare, interrompersi
per un attimo, quando toccò un livido.
- -Non fa molto male, non ti
preoccupare. - mi disse, quando si accorse che lo guardavo.
- Mi odiai.
- Finii di lavarsi, strofinarsi, fare
mille cose ai capelli. Aveva un’espressione di piacere sul viso che non
gli avevo più visto, da quando un uomo mezzo cieco l’aveva chiamato
“bella gnocca”.
- Era già entrato nelle vasche di
acqua calda, e io dovevo ancora iniziare a lavarmi.
- Dovevo pensare ad altro…
- Quella mattina, uscii da quella stanza sereno.
- Eravamo ancora amici.
- Andava tutto bene.
- Anche se lui voleva far finta che non fosse successo nulla.
- Voleva di nuovo bere assieme. Portare lui il sakè. Me lo diceva sempre,
che io lo sceglievo troppo leggero.
- Però quel giorno non riuscii a stare con lui.
- Non ce la facevo, a parlare e scherzare come nulla fosse.
- Se voleva far finta che non fosse accaduto nulla, io l’avrei assecondato. Ma in quel momento non ce la facevo.
- Lo osservai da lontano, nascosto, mentre con la bokuto, sfidava gli
shinigami dell’11° compagnia a farsi sotto, a misurarsi, colpendoli,
mandandoli così sgraziatamente a gambe all’aria. A dodici di essi, entro
sera, aveva causato ferite tanto gravi, da rendere necessario mandarli
all’infermeria della Quarta Compagnia a farsi rimettere in sesto.
- Sorrisi: sembrava così felice, mentre sventolava la spada e sfidava con
quel sorriso smargiasso gli avversari a farsi sotto, picchiando come un
fabbro gli sfortunati.
- Conoscevo bene la forza di quei colpi.
- La forza di quelle mani.
- Sulla mia pelle si erano formati dei lividi. Mi facevano male. Ma erano un
prezzo insignificante da pagare. Li avrei pagati altre cento e mille volte.
- Li toccavo e assieme al dolore rivivevo quella notte.
- Ma non sarebbe successo mai più.
- Erano un modo per prolungare ancora un poco quel sogno che si era concluso
all’alba.
- Sono un masochista, lo so. Sono bellissimo, sono intelligente, mi dicono anche un pelo sadico, ma una parte di me è anche masochista. Stavo cuocendo nel mio brodo di rimpianti e lacrime, tutto nascosto dietro il mio abituale, elegante sorriso.
- Sono un masochista e mi stavo anche comportando da… come si dice nel mondo terreno? Emo? Si. Sono una cosa così antiestetica, gli emo, con quegli accostamenti di colore e quella mania di tagliuzzarsi per morire senza ammazzarsi mai per davvero… Inorridisco al sol pensiero. Non parliamo poi del trucco…
- A metà mattinata, il capitano Zaraki Kenpachi mi fece chiamare: dato che
il vicecapitano dell’undicesima compagnia aveva chiesto il trasferimento e
finalmente l’aveva ottenuto, e nessuno era stato disposto a divenire il
suo nuovo vice degli shinigami adatti delle altre compagnie, mi voleva
chiedere di fare un po’ di pratica con quello che ora era l’ex-vicecapitano,
per imparare a sbrigare il lavoro d’ufficio.
- Ho sempre avuto una splendida calligrafia, oltre a una mente intelligente
e sveglia, e la capacità di apprendere meravigliosamente in fretta.
- Tutte queste mie doti intellettuali, non meno importanti di quelle
fisiche, diventarono la mia condanna: tutte le scartoffie dell’Undicesima
Compagnia, da quel giorno, sono sulle mie bellissime spalle, nelle mie
bellissime mani.
- Francamente, dai, ce lo vedere il Capitano Zaraki a fare lavoro di
ufficio? O il luogotenente Kusajishi? O Ikkaku? No, no. È tanto se riesco a
bloccare il capitano quel tanto che basta a fargli scarabocchiare una firma
o due su dei fogli.
- Passai tutto il pomeriggio tra le carte e l’inchiostro.
- Per un attimo, odiai la mia intelligenza, che mi stava condannando a quel
mucchio di carta.
- Le mie belle mani si erano macchiate di inchiostro, e chissà quanto avrei
dovuto strofinare per pulirle.
- Mi portarono qualcosa da mangiare nell’ufficio, mentre il mio
predecessore mi stava spiegando come compilare certi moduli, così a pranzo
non scesi alla mensa.
- Quel giorno praticamente non vidi Ikkaku. Inconsciamente lo cercavo con lo
sguardo. Mi aspettavo quasi che apparisse sulla porta a prendermi in giro
per il pasticcio in cui ero finito.
- L’ufficio si affacciava sul cortile, e ogni tanto, anzi, spesso, gettavo
bellissime occhiate all’angolo in cui si stava allenando.
- Ora combatteva con rabbia, come a sfogarsi.
- Lo conoscevo abbastanza bene da capire che il divertimento che mostrava
era solo superficiale.
- Mi dispiaceva, mi dispiaceva da morire non essere lì, a guardarlo, a
sorridere indifferente e bellissimo mentre scaraventava contro il muro
quell’omone, e rifaceva i connotati a quell’altro a colpi di bokuto.
- Sapevo che gli piaceva che io assistessi ai suoi scontri. E adoravo vedere le espressioni di terrore sui volti delle persone che pestava.
- Quando fui infine graziato da quella montagna di scartoffie, era ora di
cena. Ero affamato, e mi precipitai, anche se in modo sempre
aggraziatissimo, alla mensa, pregustando un pasto come si deve.
- Qualcuno si lamenta della qualità dei pasti alla mensa dell’undicesima
compagnia.
- Dovrebbero provare i topi semicrudi e le radici amare di Rukongai.
Credetemi, qui si mangia BENISSIMO, a confronto. E non lo dice solo Ikkaku,
che mangerebbe qualunque cosa non riuscisse ad azzannarlo (e non è sempre
detto). Ho ancora gli incubi su come mi riducevo le unghie per scavare dalla
terra qualcosa da mangiare, su come mi graffiavo a sangue per arrampicarmi e
prendere della frutta dagli alberi, il sangue di quelle bestie che
scannavamo e mangiavamo, appena arrostite su stecchi di legno, ancora mi
pare di vederlo sotto le unghie, nero e incrostato con la terra. Sono felice
di essere diventato uno shinigami anche solo per questo, non dover più
rovinare il mio splendido corpo per sopravvivere..
- Lo intravidi mentre lui andava a mangiare, e io stavo uscendo. Era sudato
e accaldato, lo vedevo anche da quella distanza.
- Sorrisi nel mio bellissimo modo di quando ho delle idee geniali e
splendide.
- Eravamo solo amici… e non avrei mai più potuto sentire il suo corpo
sopra il mio, non avrei più potuto aggrapparmi alle sue spalle, sentirlo
dentro di me.
- Ma potevo ancora vederlo. E ricordare, e immaginare cosa sarebbe potuto
essere se…
- Decisi che sarei andato ai bagni della caserma. Come uomo. Con un amico.
- Anche per smettere di farmi quelle “seghe mentali”, come le definirebbe Ikkaku.
- Preparai due asciugamani, assieme al necessario per lavarsi, e attesi,
ascoltando e tendendo l’orecchio ai suoi passi nel corridoio.
- Lo sentii fermarsi in mezzo al corridoio.
- Sbirciai da una fessura della porta: aveva una bottiglia di sakè in mano,
ancora chiusa.
- Strano, di solito non restano piene a lungo, quando sono alla sua portata.
- Mi chiedevo che cosa stesse facendo, cosa stesse aspettando.
- L’idea che non trovasse il coraggio di venire a parlarmi non mi sfiorò
neppure per un istante, lo ammetto. Tra i due, è sempre stato lui, quello
impulsivo, quello che fa le cose senza pensare, quello che si lancia avanti.
E poi tocca a me raccogliere i cocci quando si scorna contro qualcosa o
qualcuno più duro di lui. Il pensiero che una semplice porta di legno lo
spaventasse, era per me inconcepibile.
- Alla fine entrò in camera sua.
- Ne fui un po’ deluso.
- Un po’ ci avevo sperato, che bussasse alla porta della mia stanza.
- Mi stavo comportando come una ragazzina da romanzetti rosa. Ammetto che in
quei giorni, non ero completamente padrone della mia mente e del mio corpo.
Quel giorno mi sentivo davvero come una ragazzina alla prima cotta, idiozia
terminale compresa.
- Grazie al cielo nessuno di quei rozzi individui della Compagnia se n’era reso conto, o adesso non sarei il Nobile Yumichika “tu non vuoi sapere come ti può conciare” Ayasegawa.
- Chiamai a raccolta tutta la mia (bellissima) faccia tosta. Ce ne voleva,
per fare quello che volevo fare.
- Capii perfettamente come si sentiva Ikkaku poco prima solo quando anche io
mi trovai lì nel corridoio, di fronte alla porta della sua camera, senza
trovare la forza di bussare.
- Evidentemente doveva essere la mia giornata fortunata, perché fu lui ad
aprire e a venirmi addosso.
- I nostri corpi si toccarono. Mi venne la pelle d’oca, in una ondata, un
brivido gigantesco.
- “Solo amici” un cavolo. Lo volevo. Lo volevo di nuovo, lo volevo così
disperatamente che ero disposto a farmi di nuovo fare male, a rischiare di
farmi ammazzare da lui in caso di rifiuto, ero disposto davvero a tutto.
- Quando lo invitai a venire a darsi una ripulita con me, accettò subito.
- Mi faceva un po’ strano, saperlo camminare dietro di me, mentre ci
muovevamo tra i corridoi della caserma. Ero sempre io che camminavo dietro a
lui, o affiancato. Ma lui continuava a perdersi in quell’intrico, quindi
lasciava che facessi strada io, che ho un magnifico senso
dell’orientamento.
- L’undicesima compagnia non era mai stata, neanche prima dell’arrivo di
Zaraki, una compagnia con molte donne.
- Dopo che era arrivato lui, le donne erano state tra i primi elementi ad
andarsene.
- In ogni caserma ci sono quattro bagni: uno grande per i soldati donne, uno
ancora più grande per gli uomini, uno abbastanza piccolo per gli ufficiali
uomini, e un altro anche più piccolo per gli ufficiali donne. La
percentuale di donne shinigami è molto inferiore al 50%, a eccezion fatta
per la Quarta Compagnia.
- Quel mattino avevo deciso che non potevo andare in quello dei soldati
uomini.
- Potevo anche minimizzare e tentare di spacciarli per i lividi dovuti a un
allenamento con la bokuto, ma quelli sul mio corpo erano, innegabilmente,
senza scusa alcuna, i segni lasciati da mani che stringono troppo forte e
gambe che premono senza riguardo. I segni di una notte di sesso selvaggio.
- Erano il mio doloroso, dolcissimo segreto.
- Per cui, dato che tra pochi giorni sarei diventato ufficialmente un
ufficiale, dato che quel bagno veniva pulito ma mai usato… mi ero infilato
nel bagno degli ufficiali donne.
- E quella sera, ci condussi un ignaro Ikkaku.
- Quando in seguito lo scoprì, me ne disse di tutti i colori.
- Ma, accidenti, voleva andare in quello degli ufficiali uomini? Con tutto il viavai che doveva esserci quella sera? Con tutti gli ufficiali che aveva pestato? Quando glie lo chiesi, onestamente, ammise che avevo fatto bene.
- Era un bagno relativamente piccolo, ma bello, e comodo.
- E si poteva chiudere dall’interno.
- Non so perché lo chiusi, senza farmi notare.
- Non so dove trovai la forza di spogliarmi, come se nulla fosse.
- Neppure in passato, mi spogliavo con tanta indifferenza davanti a lui.
- Mi avrà visto nudo, all’infuori di quando era lui a medicare me, non più
di una dozzina di volte, negli anni precedenti.
- Ero già pulito e pronto per immergermi nella vasca di acqua calda, quando
alla fine anche lui si decise a spogliarsi e a lavarsi.
- Di nascosto, me lo mangiavo con gli occhi.
- Per lui sarà stata una sciocchezza da ubriachi. Ma io quella notte
l’avevo vissuta da… beh, ero QUASI sobrio. Ma non era stata una
sciocchezza da ubriachi, per me.
- Quella notte mi ero reso conto di amarlo, si, di amare il mio migliore
amico, e quella mattina mi ero reso conto che non avrei mai potuto
dirglielo.
- Avrei voluto uscire dall’acqua e lavargli la schiena, ma si sarebbe
arrabbiato: lavarsi a vicenda è una cosa da femminucce, mi potevo quasi
immaginare la sua faccia arrabbiata che lo diceva, mentre mi respingeva.
- Avrei voluto uscire dall’acqua e abbracciarlo, e appoggiarmi a lui. Ma
non potevo. Solo fantasticando su queste cose, sentivo il mi volto farsi
caldo. Sentivo che mi stavo eccitando.
- Se non avessi smesso, la cosa si sarebbe estesa visibilmente anche nelle
zone basse, e allora si che si sarebbe fatta decisamente imbarazzante.
- Mi fissava. Forse credeva che non
me ne accorgessi, ma mi sono sentito addosso il suo sguardo per troppi anni,
per non capire quando mi guarda.
- Mi lavai fino a cavarmi quasi la
pelle, indugiando.
- Non potevo prendere e andarmene,
semplicemente.
- Sarebbe stato come ammettere che
ero in imbarazzo. Con gli amici non ci si deve sentire in imbarazzo.
- Tra amici non c’è nulla di cui
vergognarsi, no?
- Riuscii a immergermi nell’acqua
calda e a far finta di nulla. Occhi chiusi, fingi di essere nel bagno dei
soldati, fingi che vada tutto bene.
- Lo sentii muoversi nell’acqua, e
sedersi accanto a me.
- Non ero nel bagno dei soldati e NON
andava tutto bene.
- Se non si allontanava subito, PRIMA
di subito, l’avrei di nuovo preso e spinto per terra e usato, come la
notte prima.
- Cercai disperatamente di non
pensarci.
- La mia testa cercava di non
pensarci, ma il mio corpo ci pensava eccome.
- Pregai che non notasse
l’erezione.
- Riaprii gli occhi, e me lo trovai
vicinissimo. Non mi sfiorava, ma era abbastanza vicino che sentivo il suo
fiato sulla faccia.
- Col cazzo “solo amici”.
- (Si, proprio col cazzo.)
- Ci stava provando, e anche
sfacciatamente.
- Per un attimo riconobbi in pieno il
suo stile vanitoso ed egocentrico.
- Sott’acqua, la sua mano toccava
la mia.
- L’avevo usato come un oggetto, e
lui ci stava provando.
- Non me ne fregava un accidenti di
niente. Ci baciammo di nuovo.
- Sfuggiva il mio sguardo, ma il suo corpo diceva ben altro.
- L’avevo osservato, ah, tante volte, quando portava le prostitute nelle stanzette di locanda dove ogni tanto ci fermavamo.
- Li osservavo, groviglio di membra, con una rabbia sorda, perché avrei tanto desiderato essere io, al posto di quelle stupide, inutili, volgari donne. Desideravo furiosamente che fosse il mio corpo, quello per cui il suo reagiva. Mi mordevo a sangue i pollici, per la frustrazione.
- Ma ora, eravamo soli. Non c’erano prostitute. Non c’erano donne.
- C’era solo il mio bianco, perfetto corpo, alla sua vista.
- C’era solo il suo corpo muscoloso, abbronzato, segnato da infinite cicatrici, accanto al mio.
- Volli disperatamente credere che fosse per me, per la mia bellezza, che si stava eccitando.
- Mi avvicinai. Piano. Piano. Poco per volta.
- Teneva gli occhi chiusi.
- Eravamo così vicini, sentivo il suo odore, che tante notti, stesi all’addiaccio o in stanzuccie di locanda, avevo sentito, tanto che lo conoscevo come il mio.
- Eravamo così vicini che avrei potuto toccare il suo viso col mio.
- Ma non lo feci.
- Malgrado mi dicessi che ero pronto a tutto, per un si o per un no… anzi, per un si, o per nulla, per un’amicizia stracciata, avevo ancora paura.
- E, di nuovo, mi sorprese.
- Aprì gli occhi, e mi fissò.
- Per un lungo istante.
- E mi baciò.
- Stavolta non eravamo ubriachi. Non era una “sciocchezza da ubriachi”.
- Fu un bacio gentile. Non avrei mai immaginato potesse essere anche tanto… leggero. Quasi non era più l’Ikkaku che conoscevo.
- Poi però mi scansò, spingendomi via, la sua mano sul mio petto.
- Mi sentii morire.
- -No. -
- -Perché?-
- Mi guardò.
- -Perché sei il mio migliore amico. -
- Mi spiazzò. Mi fece arrabbiare. Infuriare. Amico? Mi stava distruggendo. Amico? Dì piuttosto che mi vuoi morto!, pensai.
- Colpii l’acqua. Lo schizzai.
- -È proprio perché siamo amici che io… che tu…- tentai di colpirlo. Come una femminuccia. Si, quegli inutili colpi a pugno chiuso, dall’alto verso il basso, quei colpi che le donne usano per sfogare il dolore, e alla fine non fanno mai veramente male (o almeno così mi hanno detto. Non mi è mai successo di riceverli. Non ho mai fatto nulla per meritarmeli da una donna).
- Ovviamente mi bloccò.
- Le sue mani mi bloccarono i polsi. Stringeva, ovviamente, esattamente dove la notte prima…
- Sussultai di dolore, mentre stringeva. Malgrado avessi negato, poco prima, mi facevano male.
- -Siamo amici. Non voglio usarti. Non voglio che mi odi. -
- -Odiarti?-
- -Guarda! Non dire che non ti fa male! Lo so che ti fa male! Ti ho sempre fatto male e tu hai sempre negato! Ti ho usato come una puttana da due soldi e tu dici che siamo ancora amici! E adesso fai così, e se non te ne vai, ti userò di nuovo e ti farò di nuovo male! Stavolta non siamo ubriachi, mi odierai davvero e non potremo più essere amici!-
- -Ora ti sto odiando! Ora mi stai facendo male!-
- Mi urlò tutto in faccia. Ci urlammo tutto in faccia.
- Fortuna che quel bagno era lontano dagli altri, in una zona poco usata della caserma, quella femminile.
- Restammo lì, i miei polsi nelle sue mani, i nostri corpi nudi e vicini nell’acqua calda.
- Non dovevo piangere. Non dovevo piangere, era una cosa da donnicciole, non avevo mai pianto in sua presenza, e, diamine, non avrei cominciato in quel momento…
- Non volevo piangere, ma sentii le gocce scendere sulle mie guance arrossate, sul mento e sul collo.
- -Sei un idiota. - dissi piano.
- Continuava a tenermi i polsi serrati nelle sue mani, ma non stringeva più così forte. O forse, io non sentivo più quel male: il dolore del corpo ormai non era minimamente paragonabile a quello che provavo dentro.
- -Sei solo un idiota. -
- Piangevo. Non riuscivo a smettere. Al diavolo gli occhi arrossati. A volte, anche le lacrime possono essere bellissime.
- Mi avvicinai ancora, mi abbandonai sul suo petto, sulla sua spalla.
- Non mi lasciava i polsi, ma non mi fermò.
- Mi resi conto di avere le braccia libere solo quando sentii le sue mani sulla schiena.
- Non mi chiese scusa. Non l’ha mai fatto, mai, e non lo farà, neanche se da ciò dipendesse la sua vita.
- Ma capii lo stesso.
- -Io non ti odio. - mormorai. Ero vicino al suo orecchio, quindi andava bene. Non erano parole da pronunciare ad alta voce.
- La mia bellissima voce era roca, perché avevo gridato, e stavo piangendo. Sentivo il sale nella bocca.
- -Non mi hai usato. Lo volevo anche io. Lo voglio anche io. -
- Ancora quel silenzio pesante tra di noi.
- Mi accorsi che avevo la pelle d’oca, e tremavo. Ero bagnato e fuori dall’acqua, e avevo freddo.
- -Ma così non potremo più essere amici. - disse, piano anche lui. Era strano sentirlo parlare sottovoce.
- -Perché? Chi l’ha detto che non possiamo essere amici, e… - non riuscivo a dirlo. “E amarci”, conclusi nella mia mente. Ma quelle parole non mi uscivano. Non era una parola per noi, non da esprimere ad alta voce.
- -Le coppie litigano. Poi si odiano. Si lasciano. E tu sei il mio migliore amico. Il mio unico amico. -
- Amico.
- Come l’aveva detto, suonava più come “amante”.
- Sentii che avrei potuto amare, il modo in cui mi chiamava “amico”.
- Sorrisi.
- -Ikkaku… quante volte abbiamo litigato? Quante volte abbiamo urlato? E poi è andato tutto bene… Gli amici si perdonano a vicenda. -
- Avevo davvero freddo, ma non volevo spostarmi, non volevo assolutamente. Al diavolo raffreddori e nasi rossi.
- Sentii il suo braccio lasciare la mia schiena, immergersi nell’acqua, e poi passare, bagnato e caldo, e l’acqua scorrere sulla mia pelle, scaldandomi per un attimo.
- -Allora… migliori amici. Ma se ti farò ancora male… dovrai dirmelo. -
- Chiusi gli occhi, e sorrisi. Le mie braccia abbandonate gli cinsero la schiena.
- -Va bene. -
- Andava tutto bene.
- Era andato tutto bene.
- Eravamo amici, i migliori amici.
- E facemmo l’amore, in quell’acqua bassa e calda, lo fece con attenzione e con una dolcezza che, sapevo, alle donne che si era fatto in passato non aveva mai riservato. Solo per me, quell’attenzione.
- E anche in seguito, quando era più brusco, più duro, quando il desiderio premeva e non riusciva a trattenersi, se gli urlavo, gli dicevo che no, mi faceva male, solo io, in tutto il mondo, potevo fermarlo, calmarlo, trattenerlo, e grugniva qualcosa di incomprensibile, e mi abbracciava.
- Ed eravamo amici, di giorno, avvolti nelle nere vesti da shinigami, amici così diversi, così differenti che tutti si chiedevano come facessimo ad esserlo, e la notte, quando mi intrufolavo nel buio e nel silenzio nella sua camera, anche solo per dormire accanto a lui e sentire il suo respiro, eravamo Migliori Amici.
- Il suo migliore amico.
- Il mio migliore amico.
- E così, ce l'ho fatta a finire questa fanfic.
- Come già scritto nella presentazione, se pensate che abbia fatto clamorosi OoC, segnalatemelo, ditemelo, fatemelo notare. Mi sto facendo una maratona di Bleach analizzando attentamente il comportamento di quei due - se voglio scrivere su personaggi non miei, prima pretendo da me stessa una conoscenza il più approfondito possibile sulla storia e la psicologia, per quanto se ne possa capire dal materiale a disposizione.
- Forse in futuro scriverò altro su Bleach, su loro due ma anche su altri personaggi. personaggi secondari, però: non mi è mai piaciuto buttarmi a pesce sui pg principali, troppo inflazionati nelle fanfic. In particolare, in questo 1-2 giorni mi sto immaginando divertenti siparietti di Yumichika che cerca di "dialogare" con la sua spada per arrivare al bankai, dialoghi che degenerano in litigi tra narcisi. Lol. Una spada assomiglia sempre al suo padrone, ma il mondo non è ancora pronto per DUE Yumichika! EDIT! Ho anche fatto un disegno!