Il campanello
suonò due volte. Sherlock
era già in piedi, vestito di tutto punto, lo sguardo puntato
sui documenti del
sacerdote che un riluttante Lestrade gli aveva fatto pervenire in
mattinata.
Due volte. Anomalo, insolito, improbabile. Sherlock lasciò
vagare
distrattamente lo sguardo sulle carte, sbuffando appena. Pensa, pensa.
Nessuna
citazione, nessun riferimento, se non qualche rigo ambiguo nel quaderno
personale, composto con una grafia talmente contorta da risultare quasi
indecifrabile. L’inibizione sessuale che trasudano questi
scritti è talmente
palese da farmi torcere lo stomaco dal disgusto. La banalità
di questa vita è
palpabile. Inibito e banale: un connubio insopportabile.
Fatture, carte di
poco conto. Davvero un
uomo pulito, anonimo, insignificante. Perché farlo fuori? E
in modo tanto
atroce, per giunta.
Con una smorfia di
disappunto, Sherlock
riprese il quaderno dalla copertina nera tra le mani. La chiave del
mistero, a
quanto pare, è tutta celata qui dentro. Dovrò
passare al vaglio racconti di
giornate interminabili, riflessioni sulle Scritture, brevi annotazioni
sui
membri del coro – un possibile cantore, ulteriori
connessioni? Noioso. Odioso.
Sconfortante. E Laurine Gerthard? Nemmeno un riferimento?
Che senso ha
annotare minuziosamente
tutto quello che succede? Perché non immagazzinare,
semplicemente, tutto nel
proprio database cerebrale? Ognuno di noi ne possiede uno, pressappoco
con
simili potenzialità: se solo tutti sapessero usarlo con la
mia stessa
efficienza, il mondo sarebbe un posto migliore.
Il cigolio remoto
della porta
d’ingresso. Un suono sospeso, infinitesimo.
In ogni caso,
quest’uomo non doveva
avere granché da fare nelle sue giornate. Il tedio della sua
esistenza è
talmente intenso da risultare osceno. Persino la sua fede –
ma del resto, cosa
posso saperne io? – appare opaca, viziata, come un vetro
cosparso di ditate.
La carta di questo
quaderno è di pessima
qualità. L’inchiostro della sua penna è
vago, sbiadente, contenuto in una
cartuccia da pochi penny. Castità, umiltà,
povertà… non è così?
– ma qui si
esagera un tantino.
Esclamazioni di
contentezza di Mrs.
Hudson.
Osceno.
È la parola giusta.
Cosa diavolo starnazza quell’impossibile
donna? E dov’è finito il mio tè?
“Come sei
dimagrito! Il matrimonio ti
dona, non è vero?”
Il muscolo cardiaco
non può cedere a suo
piacimento, a meno che non ci si trovi in particolari condizioni di
scompenso o
di patologia conclamata. Di per sé, è normalmente
trattenuto dalle sue sierose
e dai suoi stessi fremiti instabili. Non è vero, consulente
investigativo?
“Te lo
garantisco, invece!”, cinguettò
Mrs. Hudson in risposta a qualcosa che il proprio interlocutore
– un
interlocutore familiare, sposato da poco, evidentemente giovane a
giudicare dal
passo elastico, atletico, conosciuto, adorato – aveva
proferito e il cui suono
non aveva raggiunto l’appartamento situato al piano superiore.
Sherlock non aveva
mai prestato
particolare attenzione alle istanze del proprio corpo, avendolo sempre
reputato
una sorta di involucro vuoto, finalizzato esclusivamente alla custodia
e alla
protezione del proprio granitico intelletto. Senza rendersi conto di
come
potesse essere accaduto, si ritrovò in piedi, ansante,
fremendo, vagando come
impazzito per il salotto. Scendo, si disse. Scendo e lo ammazzo. No,
no, no,
no! Lo aspetto qui, acquattato. Un predatore in attesa della sua
vittima. Lo
circondo con le braccia, il tempo necessario per confonderlo, e poi lo
stordisco con un pugno. I suoi passi erano sempre più
concitati, i suoi occhi
saettavano follemente dal muro al tavolino, dal tavolino al pavimento,
dal pavimento
alla porta, dalla porta alla finestra, in modo talmente sconnesso da
lasciare
intuire il caos frenetico esploso nella sua testa.
Non puoi
pensare così, chiarì l’eco di una voce
inquisitoria, la quale giunse ovattata,
come da dietro una porta chiusa. Sherlock, ringhiando,
visualizzò lo studio del
fratello, illuminato dalla luce sterile che filtrava attraverso le
eleganti
tende, udì il frusciare detestabile di granelli di zucchero
fendenti la
superficie ambrata del tè contenuto in una fragile tazza di
porcellana bianca. Sentì con
dolore l’odioso, ovattato,
acquatico rimestare di un cucchiaino al suo interno. Il liquido era
troppo,
pensò, pur non vedendolo: avrebbe raggiunto facilmente il
bordo della tazza.
Taci, Mycroft, per l’amor del cielo. Fratellino, sei
scomparso per due anni
senza lasciare traccia, lasciando il tuo partner nel lutto e nella
sofferenza.
Lasciagli riprendere ciò che gli spetta di
diritto… Il tè traboccò. Rivoli
color paglierino si raccolsero nel cerchio del piattino dai bordi
dorati.
Non è il
mio partner, replicò Sherlock
con un sibilo. Sapevo che il tè sarebbe traboccato. Sei un
idiota, Mycroft. La
porta cigolò delicatamente. Il cuore di Sherlock ebbe un
sobbalzo. Salì sul
tavolino, calpestando le carte del sacerdote ammonticchiatevi sopra.
Non è il
mio partner, non è il mio partner, non è il mio
partner, non è…
“È
un brutto momento?”, chiese una voce
con gentilezza.
Sherlock
sbiancò in volto, sgranando gli
occhi. Attese un istante prima di volgersi verso l’uscio,
fingendo di esaminare
un post-it appiccicato sulla parete all’altezza del proprio
sguardo chissà
quanto tempo prima.
Inspirò
lentamente. “Pessimo”, dichiarò
freddamente. “Il peggiore tra i peggiori.” Era
ancora di profilo, lo sguardo
glaciale e disperato puntato sulla carta da parati.
Gli
sembrò di percepire un sorriso in
risposta. “Sono contento anche io di vederti,
Sherlock.”
Sherlock
sbuffò. “Contento”,
pronunciò con sprezzo. Discese adagio dal tavolino e
sogguardò John per un istante, prima di dargli le spalle e
dirigersi verso la
piccola scrivania. Finzione, finzione, pensò con disgusto.
Sono la grottesca
pantomima di me stesso.
Avvertì
John sospirare. “Se ti sto
disturbando, posso ripassare un altro giorno.”
“No.”
Temette di aver alzato troppo la
voce. L’espressione vacua di John glielo confermò.
Per l’amor del cielo, non
arrossire. “Resta pure.” Resta, John.
“Accomodati.”
John si
schiarì la voce. “Ti ringrazio.”
Sherlock aveva
fatto tutto ciò che gli
era stato possibile per rimandare il momento in cui avrebbe nuovamente
posato davvero gli occhi su John.
Il periodo di
lontananza prima di quell’incontro era stato esiguo,
– qualsiasi frangente di
tempo è minimo rispetto all’eternità
scintillante della solitudine –
ciononostante Sherlock temeva, nel cuore del suo cuore, che John
potesse essere
cambiato a tal punto da divenire irriconoscibile agli occhi di chi ne
conosceva
ogni più recondito ed impenetrabile segreto, esposto in
piena luce sulla pelle
chiara. Tuttavia, quando posò gli occhi sul suo volto, sulle
sue mani, sulle
pieghe della camicia, sul cavallo dei pantaloni, si rese conto con un
fremito di
disperato riconoscimento che John era sempre John, anzi, che era
più John che
mai, con i capelli tagliati corti, la barba di due giorni e le borse
sotto gli
occhi chiari, schietti, onesti; John con i lacci della scarpa destra
appena
allentati, con i jeans scuri e le unghie rotonde tagliate corte; John
appena
più magro, più smunto, apparentemente
più infelice – il matrimonio, davvero, non ha poi tutti questi benefici
–. John
con la fede al dito, più lontano, più
irraggiungibile che mai.
Sherlock, con
incuriosito dolore, si
rese conto di non essersi mai sentito così prima di allora.
John era di nuovo
lì, la sua fisicità affondata nella poltrona, lo
sguardo quieto e affettuoso
posato su di lui, somigliante in tutto e per tutto a una lieve farfalla
dalle
ali variopinte adagiata inconsapevolmente sul tronco di una vecchia,
dura
quercia secolare… Una bolla tumida, gonfia di appassionata
nostalgia, prese a crescere
nel petto di Sherlock. La sua mente, snello, filiforme segugio,
cominciò a
inseguire immagini impossibili. Le mani gli tremavano.
Fratellino… controllo.
Sta’ zitto, Mycroft. Afferrò il violino posato
accanto alla propria poltrona e
cominciò a pizzicarne con forza le corde. John sorrideva,
consapevole di tutto
e di niente.
“Un nuovo
caso?”
“Sì,
nuovo.”
Il violino gemeva,
offeso e rassegnato.
“Di cosa
si tratta?”
Vuoi davvero
parlare di questo, John?
“Sacerdote.
Atrocemente avvelenato.”
“Sacerdote?
Avvelenato?”
“Atrocemente,
John.”
“Caspita.”
“Tu?”
“Io,
cosa?”
“Come…”,
Sherlock incespicò mentre
parlava. Ho la bocca dannatamente asciutta, maledizione.
Osservò per un istante
la tastiera del violino, e la sua mano si allontanò dalle
corde. Sentì lo
strumento tirare, per un
istante, un sospiro di sollievo. Premette con forza un dito
sull’intarsio del
ricciolo. Dove diavolo è Mrs. Hudson quando serve?
“Come stai?”.
Un velo
andò a oscurare lo sguardo di
John. Sospirò impercettibilmente, ma quando levò
il viso verso di lui, la sua
espressione era forzatamente cordiale. “Sto bene”,
rispose. “La vita coniugale
è…”
Sherlock distese le
labbra in un sorriso
a trentadue denti. Sta bluffando, pensò. Posso farlo anche
io.
“Assai
appagante”, proseguiva John,
ignaro di tutto. “Mary è molto, molto
cara.” Diede un colpetto di tosse, tentò
di schiarirsi la voce arrochita. Riprovò con maggiore
successo. “Tutto sommato
noi… stiamo molto bene, sì.”
Si guardarono per
un istante. Sherlock
sollevò un sopracciglio.
“E
tu?”, chiese John con forzata
allegria, spezzando il silenzio. Sherlock si rese conto di non averne
realmente
soppesato la profondità e il volume sino a quando John non
lo aveva interrotto,
forse di proposito, forse perché era tanto squamoso,
invadente, colmo di
significati inespressi da risultare intollerabile. Quel pensiero lo
turbò.
“Io,
cosa?”, chiese con malgarbo.
“Anche tu
non te la passi tanto male,
vedo”, commentò John con un lieve sorriso.
“Mrs. Hudson mi ha detto che hai una
nuova amica.”
Sconcerto.
“Se Mrs. Hudson si riferisce
alla rifugiata in calzamaglia venuta ad occupare abusivamente il tuo
posto,
John, direi che potremmo attribuirle gli appellativi più
disparati, ma nessuno
tra questi sarebbe per me più offensivo quanto quello che
hai appena usato tu.”
Fu la gelida replica.
John
roteò gli occhi, divertito. “Ah,
già. Dimenticavo che tu sei Sherlock Holmes,
l’uomo senza amici. Neanche per
sbaglio.” Lo guardò con una strana, inesprimibile
dolcezza negli occhi.
“Dovresti
dire: l’uomo con un solo
amico…” cominciò Sherlock, la bocca
arida. Dovette fermarsi. Un solo, vero
compagno di vita.
John volse lo
sguardo attorno a sé,
schiarendosi la voce, ma Sherlock percepì che aveva capito,
che taceva solo per
impedire che accadesse l’inimmaginabile. John, tu non hai
idea di come sia, gli
disse silenziosamente, sentire tutto, vedere tutto, sapere tutto. Hai
cambiato
bagnoschiuma: questo ha delle note floreali vagamente disturbanti. Un
regalo di
Mary? E la barba? I baci ispidi ora sono più graditi? O
forse no? Forse dormi
sul divano? Per terra? O vieni da una nottata di sfrenati amplessi,
tanti e
tali da lasciarti quelle spaventose occhiaie? I miei pugni stretti in
grembo. Una
serpeggiante, strisciante paura, frammista a orgoglio, gelosia,
emozione,
passionalità. Nostalgia. Oh, John, non riesco più
a leggerti. Pochi mesi di
distanza, la tua destra unita alla destra di un’altra donna,
e ti ho perso per
sempre. Ma il tuo tatto, il tuo odore… sono così
sterili, così impersonali. Hai
cancellato ogni traccia? Per me? O, semplicemente, non ho tracce da
seguire?
Con orrore,
udì John dire: “Bene, sarà
meglio che vada. Devo andare in ambulatorio.”
Un’occhiata all’orologio, una
mano tesa a stirare le pieghe della camicia. Con un movimento fluido,
snello,
John si alzò. “È
stato…” si schiarì nuovamente la voce,
“è stato un piacere
rivederti, Sherlock. Se dovessi avere bisogno di qualcosa…
di qualsiasi cosa…
conta pure su di me.”
“Certo”,
bisbigliò Sherlock, intontito
dal dolore.
“Ah, e
tienimi aggiornato sul caso del
sacerdote. Sembra… promettente.”
“Puoi
venire ad aiutarmi quando vuoi. Questa
è casa tua, John”, mormorò Sherlock.
“Ricordalo.”
John lo
guardò. Sherlock temette di non
riuscire più a contenersi, ma non poté fare a
meno di soffermare i propri occhi
in quelli dell’uomo che aveva di fronte. Un uomo giovane,
sposato, un corpo di
carne, ossa e cartilagini, come il proprio. Un corpo colmo di segreti,
di
pensieri, di specchi d’acqua profonda, di cancelli dorati, di
giardini al
crepuscolo… Sherlock avvertì una fitta di
rimpianto.
Si osservarono a
lungo, intensamente.
John fece un passo.
Uno solo. Mosse con
delicatezza il piede sinistro, flettendo il ginocchio, il suo tronco
s’inclinò
appena, i suoi occhi vagamente velati saettarono dagli occhi alle
labbra di
Sherlock. Erano umidi, torbidi, colmi d’un tremito infinito,
sospeso,
indecifrabile. Nessuno mi ha mai guardato così,
pensò Sherlock per un luminoso
istante. Trattenne il respiro, temendo di tramutarsi in cenere.
Qualsiasi cosa
faccia, si disse, è la cosa giusta.
John si
fermò. Il suo sguardo opaco
sembrò schiarirsi d’incanto. Osservò
Sherlock con sguardo nuovo, lontano, lo
sguardo di un uomo sposato, poi distese le labbra in un sorriso timido,
di
scusa, e bisbigliò con voce arrochita, senza più
tentare di schiarirla: “Ci
vediamo.”
Sherlock non
rispose. Vide John
voltargli le spalle, raggiungere con ritrovato vigore la porta,
aprirla,
uscire, richiuderla con delicatezza, senza guardarlo, senza aggiungere
altro. Udì
i suoi passi giù per la scale, lenti, misurati, eppure
abitati da una certa
frenesia remota, insondabile, inesprimibile. Desiderò di
averlo accompagnato
sulla soglia, di avergli fatto sbattere la porta alle spalle tanto da
far
vibrare i cardini, e una nuova frustrazione, simile ad incendio
liquido, lo
pervase sino alle più delicate fibre del corpo. Si rese
conto, con l’illuminazione
selvaggia delle grandi idee e delle più triviali passioni,
che John aveva
concentrato la sua presenza particellare in un solo punto della stanza:
e che
quel luogo era tanto più prezioso da frugare quanto
più l’essenza di John
sbiadiva con il trascorrere dei minuti. Con un salto animalesco,
Sherlock si
annidò sulla poltrona dove, fino a pochi istanti prima, John
si era accomodato,
facendo dondolare la gamba destra, passandosi una mano tra i capelli,
schiarendosi senza successo la voce. Con furia cieca di avvoltoio,
completamente
umana, Sherlock aspirò con violenza l’aria
circostante, tentando di catturare
ogni molecola di anidride carbonica che John aveva espirato nel suo
breve
soggiorno in salotto. Le mani tremanti del consulente investigativo
tastarono
disperatamente il sedile della poltrona, come se il suo tatto
infallibile
potesse ghermire il calore delle natiche e delle cosce di John,
lì dove erano
affondate nel tessuto dozzinale a fiori del rivestimento. Furioso,
Sherlock si
tirò su. Accecato, prostrato, si diresse verso la propria
poltrona, afferrò il
violino, il quale tremava – ne era certo – di
disperata paura, e cadde in
ginocchio sul pavimento, distendendosi con lentezza, le dita
implacabili pronte
a maltrattare nuovamente il suo strumento, il suo cuore. Sono un
miserabile,
pensò. Non posso darti torto, fratellino,
commentò Mycroft serafico, versando
un altro cucchiaino di zucchero nella tazza di tè.
Mille
scuse per il prolungato silenzio! Come sempre desidero ringraziare dal
profondo
del cuore chi legge e recensisce, in particolare emerenziano e
comeseiqui. Presto
aggiornerò anche “Il corpo di chi ti
ama”.
A
prestissimo,
Denirose
(da oggi Dolores Haze)