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Autore: Dolores Haze    15/02/2016    1 recensioni
“Quello che voglio dire, Sherlock, è questo: ho l’impressione che negli ultimi anni tu abbia trovato qualcosa o qualcuno che sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile legge che regola la tua vita.”
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il campanello suonò due volte. Sherlock era già in piedi, vestito di tutto punto, lo sguardo puntato sui documenti del sacerdote che un riluttante Lestrade gli aveva fatto pervenire in mattinata. Due volte. Anomalo, insolito, improbabile. Sherlock lasciò vagare distrattamente lo sguardo sulle carte, sbuffando appena. Pensa, pensa. Nessuna citazione, nessun riferimento, se non qualche rigo ambiguo nel quaderno personale, composto con una grafia talmente contorta da risultare quasi indecifrabile. L’inibizione sessuale che trasudano questi scritti è talmente palese da farmi torcere lo stomaco dal disgusto. La banalità di questa vita è palpabile. Inibito e banale: un connubio insopportabile.

Fatture, carte di poco conto. Davvero un uomo pulito, anonimo, insignificante. Perché farlo fuori? E in modo tanto atroce, per giunta.

Con una smorfia di disappunto, Sherlock riprese il quaderno dalla copertina nera tra le mani. La chiave del mistero, a quanto pare, è tutta celata qui dentro. Dovrò passare al vaglio racconti di giornate interminabili, riflessioni sulle Scritture, brevi annotazioni sui membri del coro – un possibile cantore, ulteriori connessioni? Noioso. Odioso. Sconfortante. E Laurine Gerthard? Nemmeno un riferimento?

Che senso ha annotare minuziosamente tutto quello che succede? Perché non immagazzinare, semplicemente, tutto nel proprio database cerebrale? Ognuno di noi ne possiede uno, pressappoco con simili potenzialità: se solo tutti sapessero usarlo con la mia stessa efficienza, il mondo sarebbe un posto migliore.

Il cigolio remoto della porta d’ingresso. Un suono sospeso, infinitesimo.

In ogni caso, quest’uomo non doveva avere granché da fare nelle sue giornate. Il tedio della sua esistenza è talmente intenso da risultare osceno. Persino la sua fede – ma del resto, cosa posso saperne io? – appare opaca, viziata, come un vetro cosparso di ditate.

La carta di questo quaderno è di pessima qualità. L’inchiostro della sua penna è vago, sbiadente, contenuto in una cartuccia da pochi penny. Castità, umiltà, povertà… non è così? – ma qui si esagera un tantino.

Esclamazioni di contentezza di Mrs. Hudson.

Osceno. È la parola giusta.

Cosa diavolo starnazza quell’impossibile donna? E dov’è finito il mio tè?

“Come sei dimagrito! Il matrimonio ti dona, non è vero?”

Il muscolo cardiaco non può cedere a suo piacimento, a meno che non ci si trovi in particolari condizioni di scompenso o di patologia conclamata. Di per sé, è normalmente trattenuto dalle sue sierose e dai suoi stessi fremiti instabili. Non è vero, consulente investigativo?

“Te lo garantisco, invece!”, cinguettò Mrs. Hudson in risposta a qualcosa che il proprio interlocutore – un interlocutore familiare, sposato da poco, evidentemente giovane a giudicare dal passo elastico, atletico, conosciuto, adorato – aveva proferito e il cui suono non aveva raggiunto l’appartamento situato al piano superiore.

Sherlock non aveva mai prestato particolare attenzione alle istanze del proprio corpo, avendolo sempre reputato una sorta di involucro vuoto, finalizzato esclusivamente alla custodia e alla protezione del proprio granitico intelletto. Senza rendersi conto di come potesse essere accaduto, si ritrovò in piedi, ansante, fremendo, vagando come impazzito per il salotto. Scendo, si disse. Scendo e lo ammazzo. No, no, no, no! Lo aspetto qui, acquattato. Un predatore in attesa della sua vittima. Lo circondo con le braccia, il tempo necessario per confonderlo, e poi lo stordisco con un pugno. I suoi passi erano sempre più concitati, i suoi occhi saettavano follemente dal muro al tavolino, dal tavolino al pavimento, dal pavimento alla porta, dalla porta alla finestra, in modo talmente sconnesso da lasciare intuire il caos frenetico esploso nella sua testa.

Non puoi pensare così, chiarì l’eco di una voce inquisitoria, la quale giunse ovattata, come da dietro una porta chiusa. Sherlock, ringhiando, visualizzò lo studio del fratello, illuminato dalla luce sterile che filtrava attraverso le eleganti tende, udì il frusciare detestabile di granelli di zucchero fendenti la superficie ambrata del tè contenuto in una fragile tazza di porcellana bianca. Sentì con dolore l’odioso, ovattato, acquatico rimestare di un cucchiaino al suo interno. Il liquido era troppo, pensò, pur non vedendolo: avrebbe raggiunto facilmente il bordo della tazza. Taci, Mycroft, per l’amor del cielo. Fratellino, sei scomparso per due anni senza lasciare traccia, lasciando il tuo partner nel lutto e nella sofferenza. Lasciagli riprendere ciò che gli spetta di diritto… Il tè traboccò. Rivoli color paglierino si raccolsero nel cerchio del piattino dai bordi dorati.

Non è il mio partner, replicò Sherlock con un sibilo. Sapevo che il tè sarebbe traboccato. Sei un idiota, Mycroft. La porta cigolò delicatamente. Il cuore di Sherlock ebbe un sobbalzo. Salì sul tavolino, calpestando le carte del sacerdote ammonticchiatevi sopra. Non è il mio partner, non è il mio partner, non è il mio partner, non è…

“È un brutto momento?”, chiese una voce con gentilezza.

Sherlock sbiancò in volto, sgranando gli occhi. Attese un istante prima di volgersi verso l’uscio, fingendo di esaminare un post-it appiccicato sulla parete all’altezza del proprio sguardo chissà quanto tempo prima.

Inspirò lentamente. “Pessimo”, dichiarò freddamente. “Il peggiore tra i peggiori.” Era ancora di profilo, lo sguardo glaciale e disperato puntato sulla carta da parati.

Gli sembrò di percepire un sorriso in risposta. “Sono contento anche io di vederti, Sherlock.”

Sherlock sbuffò. “Contento”, pronunciò con sprezzo. Discese adagio dal tavolino e sogguardò John per un istante, prima di dargli le spalle e dirigersi verso la piccola scrivania. Finzione, finzione, pensò con disgusto. Sono la grottesca pantomima di me stesso.

Avvertì John sospirare. “Se ti sto disturbando, posso ripassare un altro giorno.”

“No.” Temette di aver alzato troppo la voce. L’espressione vacua di John glielo confermò. Per l’amor del cielo, non arrossire. “Resta pure.” Resta, John. “Accomodati.”

John si schiarì la voce. “Ti ringrazio.”

Sherlock aveva fatto tutto ciò che gli era stato possibile per rimandare il momento in cui avrebbe nuovamente posato davvero gli occhi su John. Il periodo di lontananza prima di quell’incontro era stato esiguo, – qualsiasi frangente di tempo è minimo rispetto all’eternità scintillante della solitudine – ciononostante Sherlock temeva, nel cuore del suo cuore, che John potesse essere cambiato a tal punto da divenire irriconoscibile agli occhi di chi ne conosceva ogni più recondito ed impenetrabile segreto, esposto in piena luce sulla pelle chiara. Tuttavia, quando posò gli occhi sul suo volto, sulle sue mani, sulle pieghe della camicia, sul cavallo dei pantaloni, si rese conto con un fremito di disperato riconoscimento che John era sempre John, anzi, che era più John che mai, con i capelli tagliati corti, la barba di due giorni e le borse sotto gli occhi chiari, schietti, onesti; John con i lacci della scarpa destra appena allentati, con i jeans scuri e le unghie rotonde tagliate corte; John appena più magro, più smunto, apparentemente più infelice – il matrimonio, davvero, non ha poi tutti questi benefici –. John con la fede al dito, più lontano, più irraggiungibile che mai.

Sherlock, con incuriosito dolore, si rese conto di non essersi mai sentito così prima di allora. John era di nuovo lì, la sua fisicità affondata nella poltrona, lo sguardo quieto e affettuoso posato su di lui, somigliante in tutto e per tutto a una lieve farfalla dalle ali variopinte adagiata inconsapevolmente sul tronco di una vecchia, dura quercia secolare… Una bolla tumida, gonfia di appassionata nostalgia, prese a crescere nel petto di Sherlock. La sua mente, snello, filiforme segugio, cominciò a inseguire immagini impossibili. Le mani gli tremavano. Fratellino… controllo. Sta’ zitto, Mycroft. Afferrò il violino posato accanto alla propria poltrona e cominciò a pizzicarne con forza le corde. John sorrideva, consapevole di tutto e di niente.

“Un nuovo caso?”

“Sì, nuovo.”

Il violino gemeva, offeso e rassegnato.

“Di cosa si tratta?”

Vuoi davvero parlare di questo, John?

“Sacerdote. Atrocemente avvelenato.”

“Sacerdote? Avvelenato?”

“Atrocemente, John.”

“Caspita.”

“Tu?”

“Io, cosa?”

“Come…”, Sherlock incespicò mentre parlava. Ho la bocca dannatamente asciutta, maledizione. Osservò per un istante la tastiera del violino, e la sua mano si allontanò dalle corde. Sentì lo strumento tirare, per un istante, un sospiro di sollievo. Premette con forza un dito sull’intarsio del ricciolo. Dove diavolo è Mrs. Hudson quando serve? “Come stai?”.

Un velo andò a oscurare lo sguardo di John. Sospirò impercettibilmente, ma quando levò il viso verso di lui, la sua espressione era forzatamente cordiale. “Sto bene”, rispose. “La vita coniugale è…”

Sherlock distese le labbra in un sorriso a trentadue denti. Sta bluffando, pensò. Posso farlo anche io.

“Assai appagante”, proseguiva John, ignaro di tutto. “Mary è molto, molto cara.” Diede un colpetto di tosse, tentò di schiarirsi la voce arrochita. Riprovò con maggiore successo. “Tutto sommato noi… stiamo molto bene, sì.”

Si guardarono per un istante. Sherlock sollevò un sopracciglio.

“E tu?”, chiese John con forzata allegria, spezzando il silenzio. Sherlock si rese conto di non averne realmente soppesato la profondità e il volume sino a quando John non lo aveva interrotto, forse di proposito, forse perché era tanto squamoso, invadente, colmo di significati inespressi da risultare intollerabile. Quel pensiero lo turbò.

“Io, cosa?”, chiese con malgarbo.

“Anche tu non te la passi tanto male, vedo”, commentò John con un lieve sorriso. “Mrs. Hudson mi ha detto che hai una nuova amica.”

Sconcerto. “Se Mrs. Hudson si riferisce alla rifugiata in calzamaglia venuta ad occupare abusivamente il tuo posto, John, direi che potremmo attribuirle gli appellativi più disparati, ma nessuno tra questi sarebbe per me più offensivo quanto quello che hai appena usato tu.” Fu la gelida replica. 

John roteò gli occhi, divertito. “Ah, già. Dimenticavo che tu sei Sherlock Holmes, l’uomo senza amici. Neanche per sbaglio.” Lo guardò con una strana, inesprimibile dolcezza negli occhi.

“Dovresti dire: l’uomo con un solo amico…” cominciò Sherlock, la bocca arida. Dovette fermarsi. Un solo, vero compagno di vita.

John volse lo sguardo attorno a sé, schiarendosi la voce, ma Sherlock percepì che aveva capito, che taceva solo per impedire che accadesse l’inimmaginabile. John, tu non hai idea di come sia, gli disse silenziosamente, sentire tutto, vedere tutto, sapere tutto. Hai cambiato bagnoschiuma: questo ha delle note floreali vagamente disturbanti. Un regalo di Mary? E la barba? I baci ispidi ora sono più graditi? O forse no? Forse dormi sul divano? Per terra? O vieni da una nottata di sfrenati amplessi, tanti e tali da lasciarti quelle spaventose occhiaie? I miei pugni stretti in grembo. Una serpeggiante, strisciante paura, frammista a orgoglio, gelosia, emozione, passionalità. Nostalgia. Oh, John, non riesco più a leggerti. Pochi mesi di distanza, la tua destra unita alla destra di un’altra donna, e ti ho perso per sempre. Ma il tuo tatto, il tuo odore… sono così sterili, così impersonali. Hai cancellato ogni traccia? Per me? O, semplicemente, non ho tracce da seguire?

Con orrore, udì John dire: “Bene, sarà meglio che vada. Devo andare in ambulatorio.” Un’occhiata all’orologio, una mano tesa a stirare le pieghe della camicia. Con un movimento fluido, snello, John si alzò. “È stato…” si schiarì nuovamente la voce, “è stato un piacere rivederti, Sherlock. Se dovessi avere bisogno di qualcosa… di qualsiasi cosa… conta pure su di me.”

“Certo”, bisbigliò Sherlock, intontito dal dolore.

“Ah, e tienimi aggiornato sul caso del sacerdote. Sembra… promettente.”

“Puoi venire ad aiutarmi quando vuoi. Questa è casa tua, John”, mormorò Sherlock. “Ricordalo.”

John lo guardò. Sherlock temette di non riuscire più a contenersi, ma non poté fare a meno di soffermare i propri occhi in quelli dell’uomo che aveva di fronte. Un uomo giovane, sposato, un corpo di carne, ossa e cartilagini, come il proprio. Un corpo colmo di segreti, di pensieri, di specchi d’acqua profonda, di cancelli dorati, di giardini al crepuscolo… Sherlock avvertì una fitta di rimpianto.

Si osservarono a lungo, intensamente.

John fece un passo. Uno solo. Mosse con delicatezza il piede sinistro, flettendo il ginocchio, il suo tronco s’inclinò appena, i suoi occhi vagamente velati saettarono dagli occhi alle labbra di Sherlock. Erano umidi, torbidi, colmi d’un tremito infinito, sospeso, indecifrabile. Nessuno mi ha mai guardato così, pensò Sherlock per un luminoso istante. Trattenne il respiro, temendo di tramutarsi in cenere. Qualsiasi cosa faccia, si disse, è la cosa giusta.

John si fermò. Il suo sguardo opaco sembrò schiarirsi d’incanto. Osservò Sherlock con sguardo nuovo, lontano, lo sguardo di un uomo sposato, poi distese le labbra in un sorriso timido, di scusa, e bisbigliò con voce arrochita, senza più tentare di schiarirla: “Ci vediamo.”

Sherlock non rispose. Vide John voltargli le spalle, raggiungere con ritrovato vigore la porta, aprirla, uscire, richiuderla con delicatezza, senza guardarlo, senza aggiungere altro. Udì i suoi passi giù per la scale, lenti, misurati, eppure abitati da una certa frenesia remota, insondabile, inesprimibile. Desiderò di averlo accompagnato sulla soglia, di avergli fatto sbattere la porta alle spalle tanto da far vibrare i cardini, e una nuova frustrazione, simile ad incendio liquido, lo pervase sino alle più delicate fibre del corpo. Si rese conto, con l’illuminazione selvaggia delle grandi idee e delle più triviali passioni, che John aveva concentrato la sua presenza particellare in un solo punto della stanza: e che quel luogo era tanto più prezioso da frugare quanto più l’essenza di John sbiadiva con il trascorrere dei minuti. Con un salto animalesco, Sherlock si annidò sulla poltrona dove, fino a pochi istanti prima, John si era accomodato, facendo dondolare la gamba destra, passandosi una mano tra i capelli, schiarendosi senza successo la voce. Con furia cieca di avvoltoio, completamente umana, Sherlock aspirò con violenza l’aria circostante, tentando di catturare ogni molecola di anidride carbonica che John aveva espirato nel suo breve soggiorno in salotto. Le mani tremanti del consulente investigativo tastarono disperatamente il sedile della poltrona, come se il suo tatto infallibile potesse ghermire il calore delle natiche e delle cosce di John, lì dove erano affondate nel tessuto dozzinale a fiori del rivestimento. Furioso, Sherlock si tirò su. Accecato, prostrato, si diresse verso la propria poltrona, afferrò il violino, il quale tremava – ne era certo – di disperata paura, e cadde in ginocchio sul pavimento, distendendosi con lentezza, le dita implacabili pronte a maltrattare nuovamente il suo strumento, il suo cuore. Sono un miserabile, pensò. Non posso darti torto, fratellino, commentò Mycroft serafico, versando un altro cucchiaino di zucchero nella tazza di tè.

 

Mille scuse per il prolungato silenzio! Come sempre desidero ringraziare dal profondo del cuore chi legge e recensisce, in particolare emerenziano e comeseiqui. Presto aggiornerò anche “Il corpo di chi ti ama”.

A prestissimo,

Denirose (da oggi Dolores Haze)

   
 
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