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Autore: dreaming_eclipse    07/04/2009    3 recensioni
Helene è sua amica, Helene lo ama, Helene lo conosce, Helene lo capisce. Ma non capisce sé stessa. Una piccola love_story sul classico caso: innamorata del migliore amico. "Ma ciò che più mi spaventava erano i suoi occhi. Lucidi, di quel verde profondo che mi aveva sempre intrappolata, di cui mi sentivo così dipendente e schiava, sembravano implorare di essere chiusi. Mi inginocchiai al suo fianco e gli passai un braccio sulle spalle. La mia voce tremava quando parlai, cercai di nascondere il mio turbamento: <>."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi è venuta la voglia leggendo delle fic di Turkina... Ed ecco qui. Spero vi piaccia.

                            dreaming_eclipse

 

 

 

Your Tears, my Sea

 

 

Credetti seriamente di impazzire.

Era lì… il ragazzo che tanto avevo desiderato, che mi aveva soffocato il cuore con il suo sorriso, che mi aveva riscaldato con poche parole… ora era lì davanti a me.

E piangeva. Era fragile: il suo appoggio, il suo pilastro in mezzo alla disperazione che costantemente sembrava avvolgerla, sembrava poter crollare da un momento all’altro. E lei sapeva che qualunque cosa sarebbe seguita, sarebbe crollata con lui.

Si era sempre ripetuta che il senso di protezione che aveva nei suoi confronti era stupido: lui non aveva bisogno di lei, lui aveva già tutto ciò che poteva chiedere alla vita, lui era completo.

E adesso aveva anche una ragazza, un’estranea, qualcuna che non conosceva le sensazioni che vi erano tra loro.

Eppure… ora piangeva. Accoccolato nell’angolo delle scale, stringeva le braccia attorno ai jeans, che umidi di lacrime imbarazzate coprivano il fisico che tanto avevo ammirato in qualche momento di debolezza, sul viso una leggera barba incolta, un segno di ribellione e, forse, infantile, colorava la pelle vicine alle labbra fini, una parte di lui che non ero mai riuscita a guardare veramente.

Ma ciò che più mi spaventava erano i suoi occhi. Lucidi, di quel verde profondo che mi aveva sempre intrappolata, di cui mi sentivo così dipendente e schiava, sembravano implorare di essere chiusi.

Mi inginocchiai al suo fianco e gli passai un braccio sulle spalle.

La mia voce tremava quando parlai, cercai di nascondere il mio turbamento: "Lore, cosa è successo?".

Il mio verde oceano torno a fissare le proprie ginocchia: "È finita. Mi ha detto che non vuole più avere a che fare con me. Credevo che dopo l’ultimo litigio la situazione si fosse ristabilizzata, ma… sembrava così tranquilla, non… non me lo aspettavo.".

Pazza. Hai tutte le fortune… e le rifiuti così. Se solo lui mi dedicasse un briciolo dell’affetto che prova per te.

Dovevo stare zitta, io non meritavi certo più fiducia: lo tradivo costantemente, desiderandolo e mentendogli, desiderio e menzogna in un turbine di momenti, incisi nella mia memoria.

Non seppi rispondere al suo tormento, forse troppo sopraffatta dal mio. Semplicemente mi strinsi a lui, non sapendo se fossi io a confortare lui, o il contrario.

 

Il giorno dopo lo trovai davanti alla fermata dell’autobus, ad aspettarmi. Mi accorsi di lui troppo tardi per il quotidiano esercizio di autocontrollo a cui mi sottoponevo quotidianamente e il battito del mio cuore calò di colpo, per poi ripartire come un cavallo al galoppo nei pascoli infiniti delle sue iridi, pronto ad essere inghiottito dal baratro scuro che le sormontava. L’ipod mi estraneò come sempre dal resto della folla, da tutti i rumori della città e rimase solo la sua immagine e il rintocco del mio amore nascosto. Nient’altro.

Arrivammo insieme a scuola. Lui stava in silenzio e di tanto in tanto cercava i miei occhi. Cercavo di sorridergli, incoraggiante, ma la preoccupazione traspariva visibilmente, dato che ogni volta si voltava prima che potessi proferire parola.

Venne a prendermi anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, ma il silenzio continuava a imperversare e la sua sofferenza mi consumava.

Un mattina decisi di parlargli. Mi mancava il mio appoggio, la mia colonna portante, senza di lui non vivevo. Non volevo pensare all’egoismo nascosto da questa frase.

 

"Piantala!" esordii mentre scendevamo dal pullman. "Di fare cosa?".

"Con questo silenzio. Piantala!" risposi innervosita.

Lui mi osservò per un po’ e ancora una volta non riuscii a ricambiare lo sguardo: "Cosa vuoi che faccia?".

La domanda mi prese alla sprovvista. Cosa voleva dire? Avevo detto in modo parecchio chiaro cosa volevo, non mi pareva servissero spiegazioni. "Parla! Mi togli l’aria col tuo mutismo!".

Si rivolse nuovamente alla strada: "Scusa…".

Ecco. Lo odiavo quando faceva così. Sembrava non capirlo, ma quella parola era capace di portare a galla i più profondi sensi di colpa della mia anima. Di colpo mi infuriai: "Non chiedere scusa, cavolo! Reagisci! Dì qualcosa, qualunque cosa! Ma non mi portare giù con te.". Sentii di avere le lacrime agli occhi. Ero andata oltre: stupida, stupida stupida!

E non resistetti, sfiorai i suoi occhi, per poco, ma basto. Ero roventi. "E allora lasciami in pace! Fammi andare giù da solo!".

Za! Pugnalata al cuore! E le lacrime scivolarono dall’argine. "Credi davvero che io possa rimanere quassù senza di te?". Silenzio. E i miei passi che lo abbandonava sul marciapiede.

 

 


 
  
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