11. Schiene
Si era abituato al campanello – e il resto dei cinque stelle con lui.
Non che questo avesse risolto il suo status: la
maggior parte dei suoi compagni cercava di non stargli troppo vicino, alcuni
temendo che dar troppa confidenza a un bocciato potesse, non si sa bene come, portare a delle conseguenze. Anche il gruppo cui
si era accodato – Jukka, Radi, Asha e Zara
– intervallava momenti di normalità ad atteggiamenti scostanti.
Anzi, a ben pensarci questo valeva per i
primi tre: Zara manteneva una neutralità disarmante. E se diceva tre
parole al giorno, era tanto.
Kisanee se ne stava per le sue,
come molti altri usavano fare. Ogni tanto li intercettava per scambiare due
parole, ma sembrava che il livello della conversazione non la soddisfacesse
mai: perennemente annoiata, la bambina mal celava una
boria cui non lasciava prendere il totale sopravvento per la sola noia di
venire richiamata. Non ci teneva, a passare dal gatto. E pensava fosse molto
stupido continuare a passarci, alla veneranda età di dieci anni.
Il continuo pungolare Asha, dovuto al suo perpetuo e anomalo
studiare, s’interrompeva bruscamente durante gli allenamenti.
Non era un bambino particolarmente alto come Jukka, né grosso, e non aveva nemmeno maturato il tono muscolare,
compatto e marmoreo, che aveva Miran: a vederli uno accanto
all’altro, anche Zara sembrava più forte di lui.
Ma Asha correva. Correva come un
dannato.
Non gli si riusciva a stare dietro. Non rimaneva mai senza
fiato.
Miran se n’era fatto una ragione.
Scatto, dieci metri, flessione, indietro, flessione,
indietro, venti metri, flessione, indietro – di dieci metri in dieci
metri, aumentando il tratto percorso fra una flessione e l’altra fino a coprire
tutta la palestra, lunga cento. E poi di nuovo, a
scalare: cento, novanta, ottanta... Asha finiva sempre
per primo, e ci volevano almeno altri venti secondi prima che qualcun altro lo
raggiungesse. Quel qualcuno, se si trovavano nella stessa batteria, era Zara: considerata
la differenza di altezza, anche lei era una scheggia nata – gli altri ci
mettevano anche un minuto in più.
Finita la corsa Asha rimaneva
immobile, in piedi, imponendosi il respiro profondo e lento per decelerare il
cuore.
Miran, che aveva ormai notato
questo comportamento, finito il suo turno di corsa gli
si avvicinò: “Ehi
–” iniziò, mentre si accovacciava accanto a lui e, ancora col fiatone,
iniziava a spiccare alti balzi nell’attesa di istruzioni dal Magister. “– lo sai... che... se rallenti subito il
cuore... poi... non ti crescono... i muscoli... vero?”
In risposta Asha divaricò le gambe,
scendendo in spaccata – e lì rimase, concentrato.
“Ci sono molti modi per far crescere i muscoli –”
sentenziò, vedendo che Miran né si fermava né
accennava a volersene andare “– e io non voglio
farlo.”
Effettivamente pareva molto più interessato allo stirarli, i
muscoli, piuttosto che all’ingrossarli. Tutti loro avevano una buona mobilità, ma
bisognava riconoscere che lui eccelleva. Non tanto quanto nella corsa, certo
– però era come un pezzo di gomma.
“Perché... studi... sempre?” chiese Miran,
lasciando perdere la sua attività ed emulando l’altro.
“Mi piace leggere.”
“Hai paura di essere bocciato?”
“No.” Sibilò quello. “Tu?”
Miran corrugò la fronte.
Pensò.
Concluse: “Adesso sì.”
“Perché non te ne vai?” domandò Asha, infastidito.
Miran si alzò in piedi: “Va bene, scusa.”
“No – non in quel senso –” lo
richiamò Asha.
Anche se forse avrebbe preferito che lo lasciasse in pace:
era un po’ combattuto tra il continuare a parlarci e il liberarsene. Non gli
piaceva interagire troppo a lungo con il bocciato.
“Perché non me ne vado dal Ludus?”
“I bocciati se ne vanno, a un certo punto.”
“Che importa quello che fanno gli altri? Se è per quello, gli
altri non passano tutto il tempo che passi tu a leggere e studiare.”
Asha storse le labbra, accusando il colpo.
“Se resti, Kisanee vincerà la
scommessa.” Borbottò poi.
“Buon per lei. Cosa avete scommesso?”
“Niente. Non si può scommettere, lo sai.”
Il Magister li
chiamò, facendoli scattare sull’attenti: si ricominciava. “Non perdete tempo” Ammonì
i due “Se non fate fare qualcosa al vostro corpo fra
una corsa e l’altra, vi cederà a venticinque anni! Avanti!”.
Le attività fisiche del Ludus non includevano solo la corsa:
l’atletica era accompagnata da allenamenti di ogni genere, a
cui non sempre gli studenti sapevano dare un nome. Una delle loro poche
certezze erano le arti marziali – pane per i denti di Jukka,
che s’era prefisso l’obiettivo di battere Miran: le occasioni non mancavano, ma il bocciato non gli rendeva
certo la vita facile.
Dopo la storia della cinta muraria Jukka
aveva rincarato la dose, gonfiato d’astio: appena poteva
era addosso al bocciato. In qualche mese aveva capito come si muoveva l’altro,
e cercava di portarlo continuamente a terra – dove la massa contava molto
di più che in altre situazioni. Effettivamente, una volta persa la presa sulle
gambe, Miran era spacciato: ci vollero
svariati tentativi e non poco sangue da parte di entrambi – naso e
labbra erano delicati –, ma alla fine Jukka ci riuscì.
Fece perdere definitivamente l’equilibrio all’altro, lanciandolo a terra: lo sovrastò rapidamente, bloccandolo in una presa saldissima
– e ignorò per tre volte la voce del Magister,
che gli ordinava di fermarsi. Miran continuava a
battere per terra per dichiarare la resa, ma Jukka non ne voleva sapere: così messi, non lo poteva certo
uccidere. Mantenne la sua posizione di dominanza finché il Magister
non lo afferrò per la maglia, trascinandolo via.
Il resto del gruppo aveva interrotto quanto stava facendo per guardare la scena.
***
Videro, in lontananza, un ragazzino procedere a torso nudo.
Era quasi primavera, ma questo non significava che facesse
caldo: solo da poco la temperatura era salita sopra lo zero – quattro o cinque gradi. Durante la notte ancora si formava
del ghiaccio.
Neanche a dirlo, era Miran:
camminava verso il dormitorio, la sopravveste sotto spalla, assieme al resto
dei vestiti che non aveva addosso – e in mano, eterna, la sua borraccia.
Radi lo scrutò perplessa
avvicinarsi a loro, ricordando quanto aveva detto sulle sue punizioni. Come
faceva? Perché era ovvio che stesse arrivando dallo stanzino delle punizioni
– o, visto l’abbigliamento, qualsiasi Magister
lo avrebbe immediatamente bloccato, per poi portarcelo.
“Ciao!” li salutò, ancora lontano,
con un tono solare. Solare.
Tornava da un incontro col gatto, e rimaneva perennemente allegro.
Radi non tollerava la cosa. Doveva essere fuori.
Zara concordava con lei – era raro che si
sbilanciasse, ma su quello, non si poteva non farlo.
Ansiosa di capire quali assurdità potevano
essere costate così tanto a Miran – la sua
schiena era un susseguirsi di cicatrici, ora interrotte dalle nuova ferite
sanguinanti – Radi domandò: “Che hai fatto?”
“Dodici anni.” Fu la risposta del bocciato.
Zara gli lanciò un’occhiata, proseguendo poi per la sua strada.
“E quindi?” chiese Asha, seccato.
“Isia ha cambiato frusta. Mi
devo ancora abituare.”
“Piantala di chiamarlo per nome.” Grugnì Radi.
“Per cosa ti hanno punito?”
“Non è affar vostro –”
iniziò l’altro, non troppo serio. A dirla tutta era vero, non ci si doveva
interessare delle punizioni altrui.
Attese, Radi e Asha che lo squadravano scettici.
“Avete presente la zona dietro le palazzine mediche?”
“No.”
Miran si strinse nelle spalle.
“Forse non ci siete mai stati. Sono a Nord, a un paio di chilometri dalla Sphaera.”
“No.”
Ma perché quello faceva sempre cose che non era normale fare? Nessuno dei due aveva messo piede nelle
palazzine mediche. Sapevano a stento che esistevano, ma si erano sempre ben guardati
dall’infortunarsi abbastanza da metterci mai piede.
“Comunque, c’è una cosa strana, come una
casetta, – un cubo di cemento, ecco, largo come una porta. E con
una porta. Penso che scenda.”
“E...?”
“Stavo solo guardando – non sono tanto agricola da entrare
in un posto che va giù!”
I Magistri erano sempre stati molto chiari sull’andar giù.
Anche nella Sphaera c’erano molte scale che andavano giù.
Gli studenti erano più che liberi di andare giù: solo che non avrebbero
più avuto modo di tornare su: questo avevano
detto i Magistri.
“Te le vai proprio a cercare.”
“Il Magister che mi ha beccato era
nuovo, secondo me. Non mi meritavo tutti quei colpi.”
E si metteva anche a discutere l’operato
di un Custos.
Complimenti.
“Te lo meriti solo per questo –” mormorò Asha.
“Bha.” Fece Radi. Serrò le braccia
al petto e se ne andò.
Asha rimase un attimo lì, fermo, davanti a Miran.
Chi camminava attorno a loro si scansava – questa
volta, non tanto per il campanello, ammutolito nella stoffa, ma per lo stato in
cui era ridotto Miran.
“Non dovresti fare così l’esibizionista. Sembra che ti vanti
del tuo farti punire, a mostrar la schiena in quel modo con queste
temperature.”
“I vestiti sulle ferite bruciano.” spiegò lui, facendo
spallucce per l’ennesima volta. “E poi bisogna lavarli.”
Asha non rispose. Sapeva che era il
primo a non doversi curare di cosa facevano gli altri, ma i comportamenti del
bocciato non potevano non indisporlo. Quelli come lui, nella sua mente,
avrebbero dovuto lasciare il Ludus anni prima.
Senza aggiungere altro si allontanò, verso la Sphaera, irritato.
Come al solito.
Non faceva altro che far irritare
gli altri, si rese conto Miran. Non sempre, in
realtà. No. Ma a un certo punto quasi tutti se ne
andavano via infastiditi, o gli abbaiavano contro.
A parte Zara. E Kisanee. La prima
si faceva gli affari suoi, la seconda si faceva irritare da chiunque.
Riprese a camminare, organizzandosi mentalmente il resto
della giornata: doveva andare in camera, disinfettarsi, bendarsi, muoversi per
andare a pranzare e non perdere l’inizio delle lezioni pomeridiane. Accelerò il
passo – le ferite doloranti a ogni sobbalzo.
Passarono tre giorni.
Al
quarto, Radi non si fece vedere.
Al quinto, nemmeno.
Al
sesto, finalmente, ricomparve: si muoveva male, mordendosi spesso le labbra. Nessuno disse
nulla. Sorvolarono.
Ma Miran non ce
la fece:
la affiancò sulla strada verso il dormitorio, chiamandola:
“Ehi!”
“Vai via.”
“Che hai fatto?”
“Affari miei, vattene – mi assordi, con quel campanello.”
“Si vede lontano un miglio che ne hai prese a iosa – ”
“E allora?” sbottò la ragazzina, fermandosi di colpo. “Che ti interessa?”
Aveva un tono di voce decisamente troppo elevato: Miran
si guardò attorno, sperando che nessun Magister li
avesse sentiti. No. Salvi.
Riprese a camminare, sperando che l’altra lo emulasse. Rimase ferma.
A cinque metri da lei, notato che non si moveva, si arrestò
nuovamente.
“Prima regola – non passare dallo stanzino due giorni
di fila, o due volte nello stesso giorno. O prima di
essere guarita del tutto.”
“Non mi interessa!”
“Abbassa la voce –” sibilò Miran.
Di solito erano gli altri che ammonivano lui, non viceversa.
“Che hai fatto?” domandò nuovamente.
“Non te lo dirò mai. Ecco. Lasciami
in pace.”
Miran desistette. La guardò un ultimo istante e poi riprese a
camminare, allontanandosi.
Non era da Radi farsi punire. Figurarsi poi così tanto.
Fecero fatica a rivolgerle la parola per giorni, dato anche
il suo pessimo umore. Giunta la seconda sessione dell’anno di sopravvivenza, se
ne andò via da sola. Jukka la
seguì tutto il tempo: quella passò almeno venti volte vicino
alla cinta, scalando il muro e mettendosi a guardare oltre la rete.
Non la superò mai.
E non fece più coppia con Jukka per il resto
dell’anno.