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Autore: Kimmy_90    15/07/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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11. Schiene



Si era abituato al campanello – e il resto dei cinque stelle con lui.

Non che questo avesse risolto il suo status: la maggior parte dei suoi compagni cercava di non stargli troppo vicino, alcuni temendo che dar troppa confidenza a un bocciato potesse, non si sa bene come, portare a delle conseguenze. Anche il gruppo cui si era accodato – Jukka, Radi, Asha e Zara – intervallava momenti di normalità ad atteggiamenti scostanti.

Anzi, a ben pensarci questo valeva per i primi tre: Zara manteneva una neutralità disarmante. E se diceva tre parole al giorno, era tanto.

Kisanee se ne stava per le sue, come molti altri usavano fare. Ogni tanto li intercettava per scambiare due parole, ma sembrava che il livello della conversazione non la soddisfacesse mai: perennemente annoiata, la bambina mal celava una boria cui non lasciava prendere il totale sopravvento per la sola noia di venire richiamata. Non ci teneva, a passare dal gatto. E pensava fosse molto stupido continuare a passarci, alla veneranda età di dieci anni.

Il continuo pungolare Asha, dovuto al suo perpetuo e anomalo studiare, s’interrompeva bruscamente durante gli allenamenti.

Non era un bambino particolarmente alto come Jukka, né grosso, e non aveva nemmeno maturato il tono muscolare, compatto e marmoreo, che aveva Miran: a vederli uno accanto all’altro, anche Zara sembrava più forte di lui.

Ma Asha correva. Correva come un dannato.

Non gli si riusciva a stare dietro. Non rimaneva mai senza fiato.
Miran se n’era fatto una ragione.

Scatto, dieci metri, flessione, indietro, flessione, indietro, venti metri, flessione, indietro – di dieci metri in dieci metri, aumentando il tratto percorso fra una flessione e l’altra fino a coprire tutta la palestra, lunga cento. E poi di nuovo, a scalare: cento, novanta, ottanta... Asha finiva sempre per primo, e ci volevano almeno altri venti secondi prima che qualcun altro lo raggiungesse. Quel qualcuno, se si trovavano nella stessa batteria, era Zara: considerata la differenza di altezza, anche lei era una scheggia nata – gli altri ci mettevano anche un minuto in più.

Finita la corsa Asha rimaneva immobile, in piedi, imponendosi il respiro profondo e lento per decelerare il cuore.

Miran, che aveva ormai notato questo comportamento, finito il suo turno di corsa gli si avvicinò: “Ehi –” iniziò, mentre si accovacciava accanto a lui e, ancora col fiatone, iniziava a spiccare alti balzi nell’attesa di istruzioni dal Magister. “– lo sai... che... se rallenti subito il cuore... poi... non ti crescono... i muscoli... vero?”

In risposta Asha divaricò le gambe, scendendo in spaccata – e lì rimase, concentrato.

“Ci sono molti modi per far crescere i muscoli –” sentenziò, vedendo che Miran né si fermava né accennava a volersene andare “– e io non voglio farlo.”

Effettivamente pareva molto più interessato allo stirarli, i muscoli, piuttosto che all’ingrossarli. Tutti loro avevano una buona mobilità, ma bisognava riconoscere che lui eccelleva. Non tanto quanto nella corsa, certo – però era come un pezzo di gomma.

“Perché... studi... sempre?” chiese Miran, lasciando perdere la sua attività ed emulando l’altro.

“Mi piace leggere.”

“Hai paura di essere bocciato?”

No.” Sibilò quello. “Tu?”

Miran corrugò la fronte.
Pensò.

Concluse: “Adesso sì.
“Perché non te ne vai?” domandò Asha, infastidito.

Miran si alzò in piedi: “Va bene, scusa.

“No – non in quel senso –” lo richiamò Asha.

Anche se forse avrebbe preferito che lo lasciasse in pace: era un po’ combattuto tra il continuare a parlarci e il liberarsene. Non gli piaceva interagire troppo a lungo con il bocciato.

“Perché non me ne vado dal Ludus?”


“I bocciati se ne vanno, a un certo punto.”


“Che importa quello che fanno gli altri? Se è per quello, gli altri non passano tutto il tempo che passi tu a leggere e studiare.

Asha storse le labbra, accusando il colpo.

“Se resti, Kisanee vincerà la scommessa.” Borbottò poi.

“Buon per lei. Cosa avete scommesso?”


“Niente. Non si può scommettere, lo sai.

Il Magister li chiamò, facendoli scattare sull’attenti: si ricominciava. “Non perdete tempo” Ammonì i due “Se non fate fare qualcosa al vostro corpo fra una corsa e l’altra, vi cederà a venticinque anni! Avanti!”.

Le attività fisiche del Ludus non includevano solo la corsa: l’atletica era accompagnata da allenamenti di ogni genere, a cui non sempre gli studenti sapevano dare un nome. Una delle loro poche certezze erano le arti marziali – pane per i denti di Jukka, che s’era prefisso l’obiettivo di battere Miran: le occasioni non mancavano, ma il bocciato non gli rendeva certo la vita facile.

Dopo la storia della cinta muraria Jukka aveva rincarato la dose, gonfiato d’astio: appena poteva era addosso al bocciato. In qualche mese aveva capito come si muoveva l’altro, e cercava di portarlo continuamente a terra – dove la massa contava molto di più che in altre situazioni. Effettivamente, una volta persa la presa sulle gambe, Miran era spacciato: ci vollero svariati tentativi e non poco sangue da parte di entrambi – naso e labbra erano delicati –, ma alla fine Jukka ci riuscì. Fece perdere definitivamente l’equilibrio all’altro, lanciandolo a terra: lo sovrastò rapidamente, bloccandolo in una presa saldissima – e ignorò per tre volte la voce del Magister, che gli ordinava di fermarsi. Miran continuava a battere per terra per dichiarare la resa, ma Jukka non ne voleva sapere: così messi, non lo poteva certo uccidere. Mantenne la sua posizione di dominanza finché il Magister non lo afferrò per la maglia, trascinandolo via.

Il resto del gruppo aveva interrotto quanto stava facendo per guardare la scena.

 

***

 

Videro, in lontananza, un ragazzino procedere a torso nudo.

Era quasi primavera, ma questo non significava che facesse caldo: solo da poco la temperatura era salita sopra lo zero – quattro o cinque gradi. Durante la notte ancora si formava del ghiaccio.

Neanche a dirlo, era Miran: camminava verso il dormitorio, la sopravveste sotto spalla, assieme al resto dei vestiti che non aveva addosso – e in mano, eterna, la sua borraccia.

Radi lo scrutò perplessa avvicinarsi a loro, ricordando quanto aveva detto sulle sue punizioni. Come faceva? Perché era ovvio che stesse arrivando dallo stanzino delle punizioni – o, visto l’abbigliamento, qualsiasi Magister lo avrebbe immediatamente bloccato, per poi portarcelo.

“Ciao!” li salutò, ancora lontano, con un tono solare. Solare.

Tornava da un incontro col gatto, e rimaneva perennemente allegro.

Radi non tollerava la cosa. Doveva essere fuori.

Zara concordava con lei – era raro che si sbilanciasse, ma su quello, non si poteva non farlo.

Ansiosa di capire quali assurdità potevano essere costate così tanto a Miran – la sua schiena era un susseguirsi di cicatrici, ora interrotte dalle nuova ferite sanguinanti – Radi domandò: “Che hai fatto?”

“Dodici anni.” Fu la risposta del bocciato.
Zara gli lanciò un’occhiata, proseguendo poi per la sua strada.

“E quindi?” chiese Asha, seccato.
Isia ha cambiato frusta. Mi devo ancora abituare.”
Piantala di chiamarlo per nome.” Grugnì Radi.

“Per cosa ti hanno punito?”

“Non è affar vostro –” iniziò l’altro, non troppo serio. A dirla tutta era vero, non ci si doveva interessare delle punizioni altrui.

Attese, Radi e Asha che lo squadravano scettici.

“Avete presente la zona dietro le palazzine mediche?”

“No.”

Miran si strinse nelle spalle. “Forse non ci siete mai stati. Sono a Nord, a un paio di chilometri dalla Sphaera.

“No.”

Ma perché quello faceva sempre cose che non era normale fare? Nessuno dei due aveva messo piede nelle palazzine mediche. Sapevano a stento che esistevano, ma si erano sempre ben guardati dall’infortunarsi abbastanza da metterci mai piede.

“Comunque, c’è una cosa strana, come una casetta, – un cubo di cemento, ecco, largo come una porta. E con una porta. Penso che scenda.”

“E...?

“Stavo solo guardando – non sono tanto agricola da entrare in un posto che va giù!”

I Magistri erano sempre stati molto chiari sull’andar giù. Anche nella Sphaera c’erano molte scale che andavano giù. Gli studenti erano più che liberi di andare giù: solo che non avrebbero più avuto modo di tornare su: questo avevano detto i Magistri.

“Te le vai proprio a cercare.”

“Il Magister che mi ha beccato era nuovo, secondo me. Non mi meritavo tutti quei colpi.”

E si metteva anche a discutere l’operato di un Custos.

Complimenti.

“Te lo meriti solo per questo –” mormorò Asha.

Bha.” Fece Radi. Serrò le braccia al petto e se ne andò.

Asha rimase un attimo lì, fermo, davanti a Miran.

Chi camminava attorno a loro si scansava – questa volta, non tanto per il campanello, ammutolito nella stoffa, ma per lo stato in cui era ridotto Miran.

“Non dovresti fare così l’esibizionista. Sembra che ti vanti del tuo farti punire, a mostrar la schiena in quel modo con queste temperature.”

“I vestiti sulle ferite bruciano.” spiegò lui, facendo spallucce per l’ennesima volta. “E poi bisogna lavarli.”

Asha non rispose. Sapeva che era il primo a non doversi curare di cosa facevano gli altri, ma i comportamenti del bocciato non potevano non indisporlo. Quelli come lui, nella sua mente, avrebbero dovuto lasciare il Ludus anni prima.

Senza aggiungere altro si allontanò, verso la Sphaera, irritato.

Come al solito.

Non faceva altro che far irritare gli altri, si rese conto Miran. Non sempre, in realtà. No. Ma a un certo punto quasi tutti se ne andavano via infastiditi, o gli abbaiavano contro.

A parte Zara. E Kisanee. La prima si faceva gli affari suoi, la seconda si faceva irritare da chiunque.

Riprese a camminare, organizzandosi mentalmente il resto della giornata: doveva andare in camera, disinfettarsi, bendarsi, muoversi per andare a pranzare e non perdere l’inizio delle lezioni pomeridiane. Accelerò il passo – le ferite doloranti a ogni sobbalzo.

Passarono tre giorni. 
Al quarto, Radi non si fece vedere. 
Al quinto, nemmeno.
Al sesto, finalmente, ricomparve: si muoveva male, mordendosi spesso le labbra. Nessuno disse nulla. Sorvolarono.

Ma Miran non ce la fece:
la affiancò sulla strada verso il dormitorio, chiamandola: “Ehi!”
“Vai via.
”

“Che hai fatto?”

“Affari miei, vattene – mi assordi, con quel campanello.”


“Si vede lontano un miglio che ne hai prese a iosa –
“E allora?” sbottò la ragazzina, fermandosi di colpo. “Che ti interessa?” Aveva un tono di voce decisamente troppo elevato: Miran si guardò attorno, sperando che nessun Magister li avesse sentiti. No. Salvi.

Riprese a camminare, sperando che l’altra lo emulasse. Rimase ferma.

A cinque metri da lei, notato che non si moveva, si arrestò nuovamente.
“Prima regola – non passare dallo stanzino due giorni di fila, o due volte nello stesso giorno. O prima di essere guarita del tutto.”

“Non mi interessa!”

“Abbassa la voce –” sibilò Miran. Di solito erano gli altri che ammonivano lui, non viceversa.

“Che hai fatto?” domandò nuovamente.
“Non te lo dirò mai. Ecco. Lasciami in pace.”
Miran desistette. La guardò un ultimo istante e poi riprese a camminare, allontanandosi.

Non era da Radi farsi punire. Figurarsi poi così tanto.

Fecero fatica a rivolgerle la parola per giorni, dato anche il suo pessimo umore. Giunta la seconda sessione dell’anno di sopravvivenza, se ne andò via da sola. Jukka la seguì tutto il tempo: quella passò almeno venti volte vicino alla cinta, scalando il muro e mettendosi a guardare oltre la rete.

Non la superò mai.
E non fece più coppia con Jukka per il resto dell’anno.

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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