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Autore: reginamills    19/07/2016    9 recensioni
{Sequel di Take Me Away} | Outlaw Queen AU. Robin Locksley aveva tutto: una bellissima casa, una moglie che amava con tutto sé stesso e che lo ricambiava, un bambino in arrivo e perfino un fedele amico: si tratta di Wilson, il Golden Retriever che lui e Regina avevano adottato. Ma ecco qui: un battito di ciglia e tutto ciò che ama di più sembra scomparire davanti ai suoi occhi. E, come se non bastasse, il passato sembra ripresentarsi...
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Buona sera! Allora, prima di buttarci a capofitto in questa nuova avventura, voglio avvertirvi: non sarà una storia facile, leggera come quelle che sono abituata a scrivere, come quella che avete letto. Si tratta di una storia che ho sempre tenuto chiusa in un angolo del mio pc, sperando di pubblicarla un giorno o l'altro, ma, come tutt'ora mi aspetto, credevo nessuno avrebbe avuto abbastanza interesse per leggerla. Poi, però, è arrivata Take Me Away, che è senza ombra di dubbio la mia fanfiction Outlaw Queen preferita (ovviamente, tra quelle scritte dalla sottoscritta!), e quindi ho detto: perché no? Perché non aggiungerla come sequel? Calza alla perfezione.
Voglio avvertirvi, ahimé, di nuovo: SIETE ANCORA IN TEMPO PER FUGGIRE. Chiudete chrome/safari/firefox finché siete ancora in tempo and RUN! 
Scherzi a parte, mi rendo conto che non è semplice, mi rendo conto che, con quello che sta succedendo nello show, questa storia è l'ultima cosa di cui abbiate bisogno, ma voglio dirvi una cosa: fidatevi di me, lasciate che vi porti fino alla fine di quest'altra follia e capirete che non sono Adam Horowitz.
Ultima cosa: date le tematiche di questo sequel, ci tengo a dire che non siete obbligati a leggerlo come sequel di Take Me Away: potete tapparvi occhi e pc/telefono e pensare che "tutti vissero per sempre felici e contenti".
Okay, finito! Finalmente vi lascio alla lettura (per quei pochi che ancora sono rimasti a leggere :D)
Un bacio grande e, ancora, scusate.

 

Robin Locksley girò la chiave nella serratura e l’aria di casa lo avvolse. Quell’aria che, da quasi otto anni, era diventata opprimente. Ad accoglierlo il famigliare abbaio del suo cane, Wilson, un vecchio golden retriever che gli era rimasto fedele per tutto quel tempo. Sorrise, mentre poggiava i due sacchetti della spesa che aveva in mano per chinarsi ad accarezzarlo. Essere accolto dalle persone che amava, al suo ritorno, era il momento della giornata che preferiva.
“Wilson, mio fedele compagno” disse in modo teatrale, mentre il suo sorriso tentava invano di raggiungere gli occhi “Hai protetto il nostro tesoro a costo della vita?” il cane lo fissò per un lungo istante con quei languidi occhi marroni che esprimevano tenerezza e voglia di coccole più di quanto non lo facesse la coda che continuava ad agitare insistentemente. Robin sorrise al pensiero che forse quello era il suo modo di rispondergli.
“Certo che l’hai fatto.” ridacchiò, prima di grattarlo dietro alle orecchie per un’ultima volta.
“Mr. Locksley!” si sentì chiamare dalla cucina, priva di veder comparire una figura alta e snella uscirne. “Per fortuna è qui. Rey aveva fame, così le ho dato dei crackers, ma forse non avrei dovuto, visto che è mezzogiorno. Mi dispiace tanto” la ragazza mora con qualche ciocca di un rosso intenso era imbarazzatissima, Robin poteva dirlo dal modo in cui si guardava i piedi e si mordeva il labbro mestamente. Tentò di sorriderle: 
“Ruby, è tutto ok, davvero. Hai fatto benissimo a darle i crackers, è colpa mia se sono arrivato tardi con il pranzo.”
Ruby Lucas, sua studentessa da tre anni e babysitter da uno, sembrò ritrovare il sorriso:
“Rey è adorabile, non so proprio dire di no a quegli occhioni” ridacchiò, poi prese la sua borsa “Beh, comunque… ora è meglio che vada.” 
“Oh certo,” si infilò una mano in tasca, per cercare e tirar fuori cinquanta verdoni. Vide Ruby spalancare gli occhi: erano davvero tanti soldi per solo mezza giornata. 
“Signor Locksley…” 
“No, Ruby, ti prego accettali. Prendersi cura di Rey la mattina non è semplice, ha bisogno di continue attenzioni. La colazione, e quelle crisi che potrebbe avere al risveglio… Io credo che questi soldi siano più che meritati.” Ruby esitò ancora qualche secondo, poi, con un imbarazzo tangibile, tese la mano verso quella di Robin e prese i soldi, sorridendo timidamente. 
“Per me è un piacere trascorrere del tempo con lei.”
“Lo so. So che avete legato molto, mi parla spesso di te la sera, prima di addormentarsi. Ti adora.”
“E’ reciproco. Una bambina davvero dolcissima. E’ così facile volerle bene…” sorrise, un sorriso che Robin trovò sincero. Ogni parola che diceva era vera, non solo un modo per impressionarlo e tenere il lavoro, lui lo sapeva. “Grazie di tutto signor Locksley, ci vediamo lunedì.”
Lui annuì: “A lunedì.” per un istante pensò di accompagnarla alla porta, ma Ruby sapeva benissimo dov’era. Senza contare che Robin moriva dalla voglia di vedere il suo piccolo angelo, ogni secondo in più lontano da lei era una tortura.
Aveva dovuto convivere con quello, con la voglia di mollare il lavoro per stare accanto alla sua piccola meraviglia, con la paura che, al suo ritorno, lei potesse non esserci più, per qualche altro crudele scherzo del destino. Robin Locksley conviveva con il dolore e la paura da ormai otto anni, da quando, quel maledetto giorno, il più brutto della sua vita, quel Dio a cui non aveva mai creduto aveva deciso di riprendersi tutto ciò che gli aveva regalato negli anni precedenti, di portargli via la felicità per sempre.

I suoni di quello stramaledetto macchinario a cui l’amore della sua vita era attaccato erano l’unica cosa che sentiva ripetersi nella sua testa, mentre le parole dei medici che invano cercavano di allontanarlo dalla sala gli arrivavano come deboli sussurri, confusi, soffocati dal terrore.
Robin cercò di formulare un pensiero coerente ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era il suo angelo, disteso inerme su quel letto accanto al quale era seduto fino a pochi minuti prima, mentre sorrideva serena e teneva in braccio il frutto del loro amore, il loro piccolo miracolo. Non aveva idea che quello sarebbe stato l’ultimo ricordo di Regina Mills che avrebbe posseduto, non poteva saperlo, non se lo immaginava. La gioia aveva pervaso il suo corpo nel momento in cui aveva sentito quel pianto risuonare tra le quattro mura della sala, quasi a volerle buttare giù. 
Era una femmina, gli avevano detto. 
Una bellissima bambina che non vedeva l’ora di conoscere il suo papà e la sua mamma, ma a quanto pare faceva fatica a dimostrarlo, visto che aveva deciso di rimanere nel caldo e comodo pancione della mamma oltre i tempi stabiliti dal ginecologo. A Robin non importava. Gli sembrava una cosa così superficiale paragonata alla gioia che, mentre tagliava il cordone ombelicale (nonostante la paura e l’esitazione iniziali, nel momento in cui l’ostetrica glielo aveva gentilmente chiesto), provava nel guardare quell’esserino così piccolo che aveva contribuito a creare.
Era stato il primo a tenerla in braccio, a dirle ‘ciao’ e ‘ti amo’ con quelle lacrime che neppure si era reso conto di aver iniziato a liberare. Era rimasto fermo a guardare quei dolci occhioni tenuti stretti in due fessure che non gli permettevano di conoscerne il colore; quei -tantissimi, davvero tantissimi, non si aspettava che potessero essere così tanti- capelli neri come la notte e quelle labbra, che somigliavano così maledettamente già a quelle della madre, spalancate in un pianto implacabile.
Robin sorrise, come se il piccolo angelo l’avesse appena risvegliato dai suoi pensieri, e, pian piano, come se non si ricordasse più come camminare correttamente, si avvicinò al letto dove l’amore della sua vita lo attendeva impaziente.
Regina aveva il viso madido di sudore, le guance in fiamme completamente rigate dal pianto ma Robin giurò che mai come allora gli era sembrata così bella. 
“Ecco, tesoro” sussurrò “Ecco la mamma.” poggiare quella creatura così piccola ed indifesa tra le braccia tremanti della madre era stato come rendersi conto che tutto ciò che di bello aveva fatto nella vita e che avrebbe fatto nei futuri anni, si annullasse totalmente: niente sarebbe stato mai più importante del gesto appena compiuto.
“Amore mio…” la sentì sussurrare e Robin si rese conto solo allora che la sua voce era soltanto un debole soffio di vento. Era stremata, faticava a tenere gli occhi aperti, ma voleva comunque resistere per salutare il suo Piccolo Miracolo. Si tirò giù la spallina del camice bianco che indossava e, immediatamente, come una luce che la guidava nel buio, la bambina si attaccò al suo seno, e per entrambi fu un tuffo al cuore. Robin strinse Regina a sé e le baciò la fronte, sussurrandole ancora una volta quanto la amasse. L’ultima. 
L’ultima volta.
La vide sorridere e sussurrare, con le sue ultime forze: “E’ bellissima.” e lo era. Ora che aveva schiuso quegli occhioni poteva dire decisamente che erano identici a quelli del papà, di un azzurro che le fece venire la pelle d’oca.
“Renee.” la sentì dire poi, la voce ancora più flebile.
“Come?”
“Ti piace?” sorrise “Renee.” si strinse nelle spalle con delicatezza, come se avesse paura che un solo gesto potesse far del male a quell’angelo di cristallo.
“E’… perfetto.” una lacrima rigò il viso di entrambi, poi lei lo disse ancora una volta, l’ultima:
“Renee Angela Locksley.” 
E poi, tutto divenne buio.

Si asciugò in fretta quelle dannate lacrime che erano sfuggite al suo controllo prima che potesse fermarle, mentre il ricordo del giorno più brutto della sua vita si faceva spazio nella sua mente. Odiava ricordarlo. Lo odiava.
Prese la busta di carta marrone con il regalo speciale che aveva comprato alla sua bellissima bambina, poi salì le scale. Le sarebbe piaciuto. L’avrebbe vista sorridere e, almeno per qualche secondo, il dolore sarebbe scomparso.
Bussò alla porta e cercò di fare di tutto pur di non lasciarle guardare oltre quel finto sorriso. 
Sua figlia era molto intelligente, sensibile proprio come sua madre. Aveva solo sette anni, e forse era per quello che ancora non parlava al padre di quanto lo vedesse triste, di quanto sentisse che qualcosa non andava, che non era mai andato.
“Avanti.” la sentì dire dall’altra parte della porta di legno. Aprì ed entrò nella piccola stanza che, un giorno, tanto tempo prima, Regina e Robin avevano guardato e deciso che sarebbe stata la camera da letto del loro piccolo angelo.
Renee Angela Locksley era sdraiata sul suo letto, a guardare il soffitto, con in braccio il suo peluche preferito, Mr. Johnson, un tenero orsacchiotto arancione che aveva da ancora prima di venire al mondo. Robin ricordava bene il giorno in cui Regina l’aveva comprato, in un negozio di giocattoli che le piaceva particolarmente, dove era solita andare per comprare oggetti di vario genere per l’arrivo della piccola. 
Ogni volta che sua figlia l’abbracciava, Robin provava una sensazione orribile alla bocca dello stomaco; come se qualcuno stesse tentando di stringere forte, senza mollare, col solo scopo di vederlo piegato in due dal dolore.
“Buongiorno, principessa.” sorrise, con la voglia di stringere finalmente sua figlia tra le braccia, dopo una mattinata di lungo ed estenuante lavoro.
Era tornato a fare il preside, il che non era stato affatto facile dopo il trasferimento. Aveva dovuto lavorare come semplice professore per alcuni anni, ma poi era riuscito ad ottenere la promozione alla quale faceva il filo. Non riusciva a dire di esserne totalmente contento: essere il preside gli portava via del tempo prezioso che avrebbe di gran lunga preferito spendere con sua figlia, ma lavorare e distrarsi, infondo, gli faceva bene. Quella casa gli stava sempre più stretta, e inoltre era stufo di rannicchiarsi sul letto e piangere ogni notte, finché il sonno non fosse arrivato ad accoglierlo tra le sue braccia.
“Ciao papà” il suo tono era piatto, malinconico, quasi triste. Di solito l’accoglieva saltellando in giro per la stanza con quel suo orsacchiotto tra le mani; oppure correva per tutta la casa, facendo impazzire il povero Wilson. Renee Angela Locksley aveva lo stesso identico carattere della madre e, quando rideva, si assicurava che tutto il mondo la sentisse.
Robin sorrise a quel pensiero. Si mise a sedere sul letto, accanto alla sua bambina, poi, notando il modo in cui Renee si era spostata un po’ più in là, decise di approfittarne per sdraiarsi accanto a lei. Non gli diede neppure il tempo di mettersi comodo che le piccole braccia sottili gli si strinsero forte attorno alla vita, mentre i boccoli color dell’ebano l’aiutavano a nascondere il viso nel suo petto. Si strinse a lui come se fosse il suo tutto -e lo era-, si strinse a lui come se fosse ancora piccola -e lo era, anche se Robin sentiva il modo in cui, giorno per giorno, la sua bambina diventava sempre più grande.
“Che succede, tesoro mio?” si sentì sussurrare prima di baciarle i morbidi capelli neri ereditati in tutto e per tutto da sua madre. La piccola prese un profondo respiro, poi si lasciò andare:
“Domani sarà il mio compleanno.” sospirò, come se si fosse tolta un enorme peso dal petto. Poterne parlare con qualcuno che capisse come si sentiva era effettivamente un enorme sfogo per lei.
Robin chiuse gli occhi, li strinse in due fessure piccolissime, pregando chiunque volesse ascoltarlo di dargli la forza per non piangere.
“Tesoro… Lo renderemo un giorno speciale, lo sai. Come tutti gli anni.”
“No papà. Sono stanca di fingere.” disse, come se fosse abbastanza grande per capire il peso delle parole che pronunciava. “Otto anni fa io nascevo. E la mamma moriva.”

Tre ore erano passate dall’istante in cui la terra gli era mancata da sotto i piedi. Tre ore da quando il chirurgo gli aveva detto che no, non c’era stato niente da fare per il suo angelo meraviglioso, che niente avrebbe potuto salvarla dall’emorragia interna che il parto aveva scatenato.
Niente gliel’avrebbe riportata. 
Niente più sorrisi. Niente più baci. Niente più abbracci. Niente più nottate spese a venerare il suo corpo. 
Regina Mills non c’era più. Se n’era andata per sempre, nonostante gli avesse giurato più volte il contrario. Glielo aveva promesso. Gli aveva sempre ripetuto che non sarebbe andata da nessuna parte, che era sua, per sempre, e che nulla li avrebbe mai separati.
Lei era il suo tutto e…
No.
Non poteva essere vero. 
Robin Locksley aveva già passato quella fase mentre tornava a sedersi in sala d’aspetto, due ore e mezzo dopo quell’orribile notizia; dopo aver valutato per una lunga manciata di secondi di andare a ubriacarsi, fare a botte in un bar e soffrire quanto più il suo corpo glielo permettesse. Aveva anche considerato l’idea di uccidersi e raggiungere l’unica sua ragione di vita. Invece era semplicemente uscito da quell’ospedale nel quale solo poco prima era entrato insieme a lei, quando era viva, felice, sorridente nonostante il dolore atroce del parto che stava per affrontare. Era uscito ed aveva rigettato tutto ciò che torturava il suo stomaco, la sua mente, il suo cuore. Aveva pianto fino all’ultima lacrima, poi aveva preso la macchina -dove poco prima era seduto accanto a lei, al suo angelo, quando era viva, felice, sorridente nonostante il dolore atroce del parto che stava per affrontare- ed aveva guidato con fatica, con lacrime che neppure sapeva più da dove provenissero, visto che sentiva di non averne più, che gli offuscavano la vista. Aveva guidato fino al parco, quel magico parco in cui gli aveva finalmente confessato di essere incinta. Sedette sull’altalena sul quale l’aveva spinta -quella dove era felice, rideva, del tutto ignara di ciò che sarebbe successo- e pianse ancora, finché non sentì gli occhi diventargli pesanti e la voglia di continuare a respirare come un enorme fardello di cui tentava invano di liberarsi.
Si sdraiò sul prato per un’ora intera. Guardò le stelle, si chiese dove fosse il suo angelo in quel momento. Se esisteva un paradiso, si disse, sicuramente lei era l’angelo più bello di tutti.
Sorrise a quel pensiero, poi gli venne voglia di piangere, ma dai suoi occhi non uscì nulla.
Guardò l’ora. Mezzanotte e mezza. La sua bambina era nata da due ore e mezza, il suo angelo l’aveva lasciato da due. Eppure, sembrava essere trascorsa una vita.
Da qualche parte, nel suo cuore, come se fosse guidato da una forza esterna, si alzò con fatica e ritornò alla macchina. Guidò di nuovo fino all’ospedale e trovò sua madre ad aspettarlo lì, in sala d’aspetto, dove ora era seduto.
L’aveva abbracciata così forte da credere di ucciderla e, ancora una volta, sentì il bisogno di piangere, ma non uscì neppure una lacrima.
“Renee ti aspetta, tesoro. L’ho vista, sai? E’ una bambina bellissima. La più bella che io abbia mai visto.” Angela Locksley sorrise, scacciando via quelle che, anche per lei, erano le ultime lacrime.
“No.” disse, deciso.
“Robin…”
“Non ce la faccio, mamma. Se Regina non c’è più è colpa di quella bambina.”
“Adesso non essere ridicolo, Robin.” aveva usato un tono così severo che lo fece rabbrividire. Ricordava l’ultima volta che l’aveva fatto, quando le aveva comunicato di voler uccidere quel figlio di puttana dell’ex marito di Regina. “Quella bambina è la cosa più pura ed innocente che esista al mondo e tu lo sai. E’ normale che tu sia arrabbiato. So come ti senti. Vorresti spaccare il mondo, prendertela con chiunque perché l’amore della tua vita non c’è più ma devi andare avanti. Devi trovare la forza di prendere la tua bambina tra le braccia ed andare a casa, di crescerla come avresti fatto se Regina fosse stata qui. Lei lo vorrebbe.” 
Robin esitò per qualche minuto e un senso di colpa lo divorò in meno di un istante: come aveva potuto usare quelle parole nei confronti della loro bambina? Regina la amava più di ogni altra cosa, se fosse stata lì l’avrebbe sicuramente preso a schiaffi, e anche giustamente. Si morse il labbro:
“Hai ragione, io… Mi dispiace.” abbassò lo sguardo mestamente.
“Lo so, tesoro.” sussurrò “Coraggio, andiamo dalla mia piccola nipotina.” cercò di sorridergli, mentre gli avvolgeva un braccio attorno alla vita, come usava fare quando era un bambino, guidandolo verso la sala piena di neonati che Robin si era sempre immaginato quando aveva fantasticato sulla nascita della sua piccola meraviglia. Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tutto così… di merda.
Era la seconda volta che la vedeva. La seconda dopo tre ore.
Era lì, nel suo lettino, con una morbida coperta rosa avvolta attorno al fragile corpicino. Riconosceva quella copertina. Gliel’aveva presa lei. L’aveva scelta lei, quella copertina, era quella che aveva scelto la sua Regina. Prima che potesse accorgersene, le lacrime che tanto bramava poco prima tornarono a scendere incontrollatamente, e sembrarono aumentare nel momento in cui prese tra le braccia quell’angelo così piccolo e delicato da sembrargli di cristallo.
Profumava di buono, di pulito, di neonato. Qualcosa che non aveva mai sentito prima ma che non avrebbe mai dimenticato. Sorrise a quell’esserino così piccolo, poi poggiò lentamente le labbra sulla sua guancia paffuta. Dormiva, non voleva rischiare di svegliarla.
E poi avvenne. Sentì la bimba muovere una piccola manina per afferrargli la punta del naso, come se, inconsciamente, stesse cercando di creare un contatto con il suo papà. 
“Amore mio…” aveva sussurrato prima che lui ed Angela potessero lasciarsi andare all’ennesimo interminabile pianto.

 

just so you know, sono apertissima a qualsiasi critica, a meno che non vogliate venire sotto casa mia coi forconi!
risponderò a qualsiasi recensione vogliate lasciarmi, e vi ringrazio per aver letto fin qui.
alla prossima, se lo vorrete.

 
   
 
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