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Autore: L0g1c1ta    11/08/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Ha sempre considerato suo figlio un ingrato per tutte le opportunità che gli regalava come caramelle. Nella vita si lavora o si resta senza casa, così è la vita e non solo in Russia. Ma pare che il suo primogenito non l’abbia ancora capito. Ha sempre dovuto pregarlo di lavorare anche solo per un ora e oggi gli ha addirittura chiesto di avere dei giorni di ferie. E la motivazione fu più che ridicola: perché è estate, papà. Ridicolo. Perché è estate?!, aveva risposto lui, più che indignato. L’aveva praticamente gettato fuori di casa e chiuso alla stazione al suo posto di lavoro. Quel giorno era importante: sarebbe dovuto partire per Mosca e superare quasi tutto il baltico fino a Vilnius, sorpassando l’Estonia. Pochi giorni, ma importanti. Non doveva assolutamente farsi mettere i bastoni fra i piedi dal suo ragazzo. Ha chiesto ad un suo amico di tenere a bada suo figlio fino al suo ritorno. Si è scusato ed è corso nel vagone treno, più veloce di una scheggia. Il treno e il capo non perdonano, nemmeno un ritardo. E lui di ritardi non ne ha mai fatti in una vita intera. E suo figlio? Che impari a vivere e ad apprezzare ciò che gli viene regalato. Così, convinto e fiero delle proprie decisioni, aveva svolto il suo lavoro ed era andato a dormire. Avevano superato di poco il confine russo ed altre persone si erano raggruppate nei vagoni. Ha fatto un controllo nel terzo vagone e ora sta per iniziare la pausa pranzo. Non vede l’ora! Felice per quest’ultimo pensiero, si liscia i baffi scuri, bussa piano ed entra dentro. Manca solo quel vagone stretto e poi ha finito.

“B-Buongiorno” mormora il ragazzino alla sua sinistra, appena entrato. Lo ignora, non è tipo da saluti né da cortesie. Vuole solo muoversi. Eppure non riesce a non notare quanto siano giovani i passeggeri. Gli sorge quasi un dubbio. Dubbio che viene distrutto voltando il capo e vedendo gli altri due ragazzi. Uno dei due dorme, con la tempia poggiata sul ginocchio dell’altro più alto e forse più anziano. Non vede molto, ma pare dormire, anche se con quella coperta è ben difficile comprenderlo. Decide di fare piano e di non disturbare i passeggeri.

“Biglietti e passaporti” il moro e forse il più grande fra i tre, annuisce piano, getta il braccio sul baule aperto e prende ciò che gli occorre. Glieli offre e attente. Il ragazzino, ancora rosse le guance, abbassa la fronte e tenta di non tremare. Questo non gli sfugge all’occhio, ben allenato per i clandestini e i truffatori, ma finge di non vedere nulla. Guarda i passaporti e nota ben più che di strano. Nessun nome, nessuna data di nascita, solo foto e provenienza. E nella provenienza si sofferma più: Lituania, Lettonia, Estonia. E una fiaccola d’incredulità e consapevolezza si accende dentro di sé. Si sente sudare la fronte e le mani. Si sente bollente ed è certo che stia arrossendo più del ragazzino biondiccio vicino a lui. Col volto fiammeggiante di vergogna, osserva i tre e si sente più che in imbarazzo. E la consapevolezza di sapere diventa più che inopportuna e fastidiosa.

“Ma voi siete…?” mormora e gli manca il fiato. Vorrebbe quasi sbagliarsi e portarli al capotreno per aver tentato di truffarlo. Ma ha troppo caldo alle guance e troppo peso nell’anima per farlo. Ricorda di averli già visti o, almeno, due di loro li ha già visti di sicuro. Ma non ci ha mai parlato. Era un tipo troppo impaziente per capire chi fossero e la folla, all’epoca, era così tanta che era difficile avere concentrazione per le urla di gioia di fine guerra. Il moro ha alzato la mano, in segno di silenzio, e blocca altre parole. Gli abiti quotidiani che indossano quasi stonano con la grandezza che immaginava da giovane.

“Mi perdoni, ma siamo in viaggio in incognito e non vorremo essere riconosciuti…” più di così non riesce ad inventare, il povero Lituania. La bugia non è la sua materia e Russia ben sa questo. La lingua gli si spezza e più di questo non riesce a dire. Un brivido di panico non congela, ma brucia di frustrazione. E non sa cos’altro dire. Lettonia pare respirare con fremito, forse impaurito. Si aggiusta sul suo posto, come se la sedia sia scomoda, e si schiarisce la voce.

“…Visti i rapporti che abbiamo avuto con la Polonia, abbiamo deciso di visitare Varsavia per le congratulazioni per essere ritornata in vita. Per questo siamo partiti senza dire nulla al governo per non oltraggiare con la nostra presenza la Russia” Lituania riabbassa il capo, forse più rosso in volto dello stesso uomo “Vi chiediamo solo di non rivelare la nostra presenza… qui” conclude, imbarazzato e tremante il piccolo Lettonia. Deglutisce e il respiro si fa più regolare guardando negli occhi scuri il controllore, foglia d’autunno, tremante nei suoi stivali. Non ha mai voluto dubitare delle parole dei Baltici, non ci ha nemmeno riflettuto né vorrebbe rifletterci troppo. Ricorda il bianco della neve, i fiocchi leggeri vibranti nell’aria ghiacciata, le urla di gioia e i tedeschi morti nelle loro foreste. Non ha motivo di dubitare di loro. Ma l’emozione è forte e lo fa tremare come un bambino. Si sente quasi patetico. E il cuore non smette di battere per aver visto ciò che i loro nonni consideravano pari agli dei. Si meraviglia che siano così giovani e ben più timidi di lui, che di età ne ha decisamente poca rispetto a loro. Brontola la sua gola, si scarica dell’adrenalina. Sente arrivare un attacco di tosse, proprio ora. E le gambe gli tremano ancora così forte…

“Ora… ora non ha importanza. Spero che facciate buon viaggio” e il tono burbero che usa sempre con suo figlio lo precede e lo avvolge. Le gambe non tremano più, le guance affatto paonazze, il sudore congelato e morto. Si pente di ciò che ha detto e della sua voce fin troppo sgarbata per dei ragazzi, anche se immortali. Timbra frettolosamente e con eccessiva forza i biglietti. Altrettanto scortese e rude, esce fuori dal vagone e cammina veloce nel corridoio, pentito e mortificato per la brutta impressione appena fatta. In un attimo gli è passato l’appetito.

Lettonia s’alza piano e traballante. Occhieggia malamente, infantile, il corridoio e vede l’uomo chiudere la porta dietro di sé, per altri vagoni sconosciuti, immersi della luce del mezzogiorno. Lettonia si sente più sollevato. Cade, desidera cadere per terra e si lascia scivolare giù, il corpo più pesante di come ricordasse. Lituania sospira, ancora seduto, ancora con la mano sul capo coperto di Polonia, scambiato per Estonia. Fortuna che abbiano gli stessi capelli biondi. E la morte ha reso meno raggianti le sue ciocche lunghe, come quelle del Baltico, ora intrappolato chissà dove. Ma si sono disperati ieri per Estonia, fin troppo per voler fare domande su di lui e sul suo sacrificio. Lituania si sente ancora in colpa, ma non è il momento per pensare al male. Il suo fratellino si stringe le ginocchia e i due cuori battenti smettono di infastidire le membra fra le costole.

“Fiuu…! Ce l’abbiamo fatta…”

“Quel tipo fa paura. Pensavo che volesse arrestarci…”

“Grazie al Cielo non ha visto la faccia di Polonia” Lituania sente il proprio cuore sbattere nella gabbia toracica e, frustrato, butta l’intero suo battito fino alle ossa e nelle vene delle braccia. La mano, dove la vena palpita sangue e terrore appena scomparso, lascia il volto coperto fino alle labbra del principe addormentato. Immagina il caldo che debba avere il corpo abbracciato con forza dalla coperta, anche se leggera. Scopre piano e cauto la carne e l’abito di Polonia. Le ciocche bionde cadono sul labbro leporino. Lentamente, prudente e fraterno, porta i fili morti di capelli dietro l’orecchio grigiastro, senza una goccia di cremisi. E sospira ancora di sollievo, il ragazzo, che gli pare che tutto sia finito. Lettonia torna calmo e dolce, gattona e raggiunge entrambi. L’istinto e la tenerezza lo fanno sorridere.

“Credi che stia bene ora?” quel maledetto ciuffo biondo, insistente, cade ancora sull’occhio e sul labbro. Lettonia guarda lì e il sorriso, come tramonto, scompare e l’avvolge la tristezza. Non ha idea di come il labbro si sia sfregiato così tanto, ma lo trova comunque orribile. Tanto la carne è stata scavata da mostrare due denti gialli e il canino minuto. E sembrano più piccoli ed innocenti, le delicate ossa fra le gengive. Potrebbero essere i denti da latte di un bambino, ma non quelli di un ragazzo. Immagina che il tempo li abbia rovinati e la muffa e lo sporco li abbiano consumati. Lituania vede ciò che vede il fratellino e con malinconia sospira. Non sa e non riesce ad immaginare come possa ritornare in vita il suo migliore amico. Spera che i ciuffi biondi non debbano essere per forza tagliati in futuro. Polonia non sarebbe lo stesso senza i suoi capelli lunghi.

“Spero di sì, Lettonia. Di sicuro avremo tante cose da raccontargli” e vive ancora nei sogni, il giovane cavaliere. Immagina di ritornare ad abbracciarlo, di stringerlo forte e di raccontargli tutte le avventure della guerra passata. La nuova amicizia coi suoi fratelli. I boschi in estate in Russia. Russia. Gli occhi azzurri perdono un po’ di luce. L’iride, nostalgica, cade sulla propria mano e incontra la giacca nuova, profumata, luminosa. Guarda anche i pantaloni scuri e le scarpe appena lucidate. Uno spirito inquieto si poggia sul suo cuore e pressa, morbido e pacato, sulla vena principale. E un senso di colpa lo avvolge. Ricorda anche Estonia e lo spirito comprime sulle arterie. Ma non è il momento di ricordare. Sbatte le palpebre e vede la mano di Lettonia sui capelli del dormiente. Anche con l’occhio lo nota: le ciocche bionde sono morte e al tatto non sono più soffici, ma dure e crespe come capelli di bambola. Sembra un oggetto inanimato, Polonia, con le gambe stese, la pelle malamente perlacea, il labbro rotto di porcellana e il respiro regolare ma impercettibile. Guarda il fratellino e pensa che dovrebbe prendersi cura anche di lui “Lettonia, siediti qui vicino a me” e sorride affettuoso, Lituania. Lettonia abbandona i capelli morti e ubbidisce. Poggiatosi al braccio del maggiore, cede alla mano calda sui suoi riccioli. Si sente in pace, il ragazzino, anche se dovrebbe sentirsi tutt’altro che quieto.

“Vuoi dirmi qualcosa?” la pace rimane nell’animo, anche se sbattuta contro le parole del fratello. Lituania lo sa, anche se nessuno l’ha mai detto. Lettonia ha imparato a contenere le parole e ad usarle per il bene, però non ha imparato ad usarle per se stesso. Lettonia ha imparato ad avere la lingua ferma e le labbra sigillate, ma non ad aprirle quando desidera. Non vuole cadere nell’errore come in passato, né vuole dire qualcosa di sbagliato, che di sbagli ne ha fatti tanti con la lingua. Ma se il fratello desidera, ben parli.

“Come potrà mai ritornare come prima?” sente di aver sbagliato, Lettonia. Sente il sobbalzo prepotente e sbigottito del fratello maggiore e vorrebbe ricucirsi la bocca, ma Lituania lo carezza e vuole sapere ciò che pensa e crede “Insomma, hai visto com’è il suo corpo. So che Estonia e Russia gli hanno ricucito la pancia ed è stato un lavoraccio. Ha anche la gola tagliata e una parte delle sue labbra… praticamente non c’è. Anche se si sveglierà, secondo te tornerà mai come prima? E, se non sarà così, riuscirà a vivere felice, anche se messo così male? Io… io non credo che ce la farei a vivere con tutte quelle cicatrici…” e qui Lettonia si blocca e questa volta è lui a sobbalzare forte. Deglutisce e sente cadere le sopracciglia verso il basso. Deglutisce ancora e un groppo di saliva acre scivola lenta nella propria gola. Ricorda solo ora della schiena di Lituania. Ricorda solo ora che anche lui ha cicatrici. E che le avrà per tutta la vita. Il ragazzino si sente in colpa, ma abbassa il capo, comunque cosciente di aver detto il suo pensiero. Solo ora il pavimento trema e ruggisce col fischio del treno. Entrambi sentono le rotaie sotto i propri piedi, ma non hanno pensieri a riguardo.

“N-Non lo so, Lettonia. Non lo so” pare più tremore che brusco, Lituania. Il fratellino vorrebbe sprofondare nel legno e cadere sotto le rotaie. Si era promesso anni fa di non imitare più il suo vecchio io di secoli fa, prima che Russia diventasse buono. E anche le guance s’imporporano e non per vergogna. Deglutisce ancora e nella saliva c’è anche disgustosa bile acerba. Lituania è rigido e sente quelle stesse cicatrici tendersi insieme a lui. Come se le parole di Lettonia avessero lanciato un proiettile lì, in mezzo alle ragnatele nere dietro alle proprie spalle. Ma è calmo, Lituania, toccato ma calmo. Il treno fischia ancora. Non conoscono questi segnali, i due Baltici, per questo li ignorano. Così come ignorano il baule che, lentamente, pare muoversi da sé “So solo che dobbiamo arrivare presto a Varsavia e che dovrò restare lì con Polska per un po’ di tempo prima di tornare a Mosca” questo fa alzare il collo del ragazzino e rende pallide le guance di Lettonia.

“Ne sei sicuro?”

“Certo. Non credo che potrebbe riconoscere di nuovo la sua città, nemmeno potrebbe trovare da mangiare o un posto per dormire, non trovi?” Lettonia ci ragiona su e annuisce, convinto. Il baule continua a tremare e a spostarsi ancora un po’ “E poi vorrei passare un po’ di tempo con lui. Sono… sono decenni che non lo vedo, né sono riuscito ad abbracciarlo. Vorrei prendermi cura di lui ed aiutarlo, anche perché sono passati più di dieci anni dalla sua… beh, comunque è passato molto tempo e i tempi sono cambiati, no? E vorrei parlargli tanto… Non sai quante cose vorrei chiedergli” e si perde, Lituania. Lettonia è felice e sollevato che il fratello abbia dimenticato le sue parole. Si ripromette di non farlo mai più, a costo di dover dimenticare il proprio cuore e i propri pensieri. Sorride, addolcito anche nel cuore.

“Cosa vorresti chiedergli?” il baule freme con più forza e anche il treno pare inclinarsi lentamente verso sinistra. Nessuno ancora comprende quel che stia accadendo. Lituania poggia gli occhi azzurri sulla mano minuta del fratellino. Questa è quieta e tiepida di felicità. La stringe forte nella sua, tanto piccola da scomparire dentro il pugno chiuso del più grande. Sente il corpicino morbido e profumato del più piccolo accucciato al suo fianco e il pollice della mano carezza la pelle liscia, senza tagli né sangue. Anche Russia ha amato tanto Lettonia in questi anni.

“Vorrei chiedergli se abbia sentito qualcosa quando era nella casetta. Vorrei chiedergli dove abbia trascorso tutto questo tempo e… sono curioso di sapere che cosa stia facendo ora!” soffia una risata calda, il piccolo. Le guance sono mele rosse, pronte da mordere. I riccioli brillano, entusiasti. La felicità del fratello lo entusiasma. Il vagone del treno continua ad inclinarsi, così come il baule “E anche… Sai, non gli ho mai chiesto come abbia passato la sua vita prima di incontrarmi” e sbiancano subito, le guance rosse, prese dall’incredula sorpresa. Sbatte tante volte le palpebre e il blu nelle iridi brilla di curiosità. Sbianca anche Lituania, che ha mascherato bene le sue parole. Ben altro vuole chiedere a Polonia, ma non vuole allarmare Lettonia, per questo decide di mentire.

“Davvero? Non lo sai?”

“No, in effetti no. È una cosa che mi tengo dentro da tanto tempo, ma credo che glielo chiederò”

“Uh… Credi che sia stato felice anche senza di te?” la risposta si fa attendere. Perplesso, il ragazzino alza la fronte. I suoi occhi non incontrano quelli di Lituania. In attesa, col cuore fermo, Lettonia crede che il cavaliere sia ritornato nell’anima del fratello. Il petto è dritto, le spalle ferme, il capo diritto di fronte a sé. E gli occhi seri e tristi. Le ciocche brune cadono sugli occhi, ma il piccolo vede lo stesso. E la domanda viene dimenticata, solo da lui. Il cavaliere non ha dimenticato. Ricorda il passato e ricorda il male dentro il suo amico. Ricorda la notte cupa, senza luna con stelle d’argento. Le guardie in preghiera per la morte della cattolica regina. Ricorda la finestra spalancata con forza e ricorda la prima volta in cui vide il vero Polska. Aveva gettato sotto ai propri piedi la maschera di principe severo ed indifferente, il povero Polonia. Fino a quella notte credeva che quello fosse il vero principe polacco e mai l’avrebbe immaginato come quella notte senza anima. Lituania aveva conosciuto veramente Polonia solo nella camera da notte della regina, giaciuta morta. E aveva conosciuto il suo primo amico con la crudeltà della torre alta e il vento freddo scaraventatogli in faccia. E con la morte della sua sovrana.

Sobbalza, si sta muovendo sul sedile e solo ora si accorge del baule tremante. Il treno fischia con più forza e affronta la pesante curva. Inesperti e disorientati, i due Baltici sussultano e si sentono scivolare e cadere quasi sul pavimento. Il treno fischia e la curva prende velocità. Le ruote aumentano i movimenti e scricchiolano, massacrano il ferro delle rotaie ghiacciate nella notte. Lettonia cade per terra e le ginocchia lo impuntano per terra. Geme per il dolore e la scarica di adrenalina elettrizza il suo cuoricino. Lituania pare non comprendere quello che stia succedendo e il fratellino pensa prima da sé. Gattona veloce, indica il corpo di Polonia e il ragazzo si rianima. Passa il braccio sulla pancia. Sente le bende e sotto di quelle le ossa appena rimarginate ma deboli. Lo tiene stretto, ma comunque scivola all’ingiù e un sobbalzo di terrore gli raschia i polmoni deboli. Lettonia lo salva e salva anche Polonia. Dal basso, lo tiene fermo e lo spinge forte all’indietro, i capelli morti cadenti verso terra. Il treno fischia e la curva è superata. Sbattono ancora. Lettonia si fa male e la testa colpisce malamente il ginocchio del fratello che, sentito un dolore ben diverso, lo ignora. Sbatte anche lui e Polonia, conto il legno e i cuscini. Passa il panico, passa la paura. Lettonia, traballante e dolorante, torna in piedi. Vede il biondo dormiente con le labbra al soffitto e il collo scoperto e cucito. Sospirano entrambi di sollievo.

“Oddio, che paura” esclama il piccino e il ragazzo annuisce, con eguale conforto. Polonia avrebbe potuto farsi male. I quattro occhi, fratelli anch’essi, cadono piano sul polacco. La gola tagliata si è riaperta, ma nemmeno un fiotto di sangue vermiglio la bagna. I fili della cucitura sono nulli e scomparsi, tagliati dalla curva del treno. Lituania sente Lettonia, anche se alto in piedi, piccolo e sbigottito. Ma il ragazzo se lo chiede per davvero. Si chiede se Polonia possa mai sopportare tutto questo sulla sua pelle già fin troppo magra. Si chiede se possa mai riconoscersi in quel corpo smorto. E non si chiede nemmeno le risposte, che non ne ha. Che risposte non potrebbero mai esistere. Polonia morrebbe in un corpo come questo, anche se tornato in vita. Ed è tristezza. Ed è un cuore rotto. Lettonia sobbalza e pare che gli manchi aria nei polmoni.

“L-Lituania, guarda le labbra!” e l’istinto fa muovere i suoi occhi prima della ragione e del dubbio. Il cuore si rigenera dal malanno della gola squarciata e la tristezza sfuma nella meraviglia. Le labbra, che fino a poco prima erano leporine, ora sono rigenerate. Come per magia. Come per miracolo. Sente aria nel cervello e l’anima incatenare vicina al cuore. Il labbro si è trasformato, eppure ha lasciato il marchio di sé: una striscia più bianca che grigiastra taglia le labbra e sorvola fin dove la carne mancava e dove i denti si mostravano “L-La gola!” singhiozza incredulo il piccolo Lettonia che pare più terrorizzato che stupefatto. La carne si muove, si sporge come essere vivente verso la gemella strappata dalla lama di Russia, irato della sua stessa esistenza. Bacia la sorella mancata per anni, tenuta lontana da sé e dalla propria vera casa. Si ricongiungono e s’abbracciano strette. S’uniscono e si ricreano da sé. Come prima di essersi separata. Come se nulla l’avessero allontanate. Lituania ha un groppo in gola, come se la gioia la chiudesse forte in una morsa di ferro. Respira a fatica e vorrebbe non scoppiare a piangere proprio ora, di fronte a Lettonia.

“Lettonia, corri e chiedi dove siamo ora” più meraviglia che confusione, anche il ragazzino pare voler piangere, forte è l’emozione. Ma ubbidisce, rosse le guance e gli occhi lucidi. Aspetta ben poco, Lituania, che il fratellino ritorna, col passo meno svelto ed ansimante. Le labbra piccole di bambino si sono alzate sulle guance. Le iridi pretendono di liberarsi dalla morsa delle lacrime. Pretendono di farlo.

“Siamo in Lettonia. Abbiamo appena toccato il confine” singhiozza e il respiro manca. I polmoni fanno fatica, tanta fatica a portare aria dentro di sé e per dare ossigeno al cuore esultante di felicità. Lituania non vuole più piangere e non lo fa. Le lacrime si ritirano, la gola si libera dalla morsa. Afferra per il braccio il fratellino e il corpo pretende un abbraccio. Sente lacrime tiepide sulla sua guancia quando il piccolo lo stringe forte, dimenticandosi quasi di Polonia “Domani pomeriggio saremo a Riga!” e singhiozza il corpo più della gola. Lituania, semplicemente, lo stringe forte, non sapendo per chi essere più felice.

Per Lettonia che dopo decenni sta per rivedere la sua città o per Polonia che non deve temere di avere un corpo maledetto dalle cicatrici come il suo.

 

 

 

 

 

La lancia pare brillare di una forza sconosciuta ma ignorata. Il ricordo continua. La carta muta e cambia colore.

Il bambino è gettato di nuovo su di una sedia, ben troppo alta e scomoda per lui. Sbuffa e protesta con occhi corrucciati, ma viene ignorato come sempre. Le mani scure che l’hanno costretto lì, a quella tavola, in mezzo a quella gente che non conosce, che non è mai riuscito a conoscere, scompaiono. Ora perplesso, cauto e lento si volta. Non ha mai visto in faccia colui o colei che lo hanno sempre trascinato per ogni gradino di quel castello, come se nemmeno lui sapesse camminare. E un piatto appare di fronte a sé, sulla tavola, fra le posate d’argento. Si volta veloce, il bimbo, ed è ancora più confuso. Nemmeno sa chi poggia i piatti e prepara le pietanze per lui. Anche questa figura scompare e mai più riuscirà a vederla.

Insicuro come un ragazzetto in un luogo sconosciuto, alza la testa dal piatto e guarda. Geme tra le labbra serrate, che nessuno vuole mai ascoltarlo. Un altro pezzo di carne, altre cose più grandi di lui che non riuscirà mai a mangiare. La pancia brontola forte. Il bimbo la stringe, gli fa male il rumore che lo scuote come un tamburo. Si sente affamato come un lupo, ma non riesce a mangiare tutto quello che gli danno. Si volta alla destra e alla sinistra, timido. Vede altre barbe, altri vestiti luminosi e fastidiosi: troppo accecanti, tanto da fargli abbassare il capo. Guarda stupefatto gli altri alla tavola, anch’essi senza volto. Si chiede come facciano a mangiare così tanto, così velocemente. Ma, in realtà, si chiede il bimbo, come facciano a mangiare. Il pancino borbotta e protesta. Non può più disubbidirgli, da mesi non mangia quasi nulla, meno che foglioline verdi e piselli. Aveva pensato che fossero simili ai mirtilli dolci del bosco, ma si era sbagliato. E da mesi non fa altro che cercare ciò che ha perso. Sono mesi che si trova lì, ma già si pente di non essere scappato dalle guardie e dai cacciatori.

Guarda ancora la carne nel suo piatto e la trova troppo grande per lui, troppo piccolo e magro. Guarda gli altri alla tavola e li trova disgustosi. Ma ricorda che ha fame e tenta di nuovo. Passa la lingua sui denti e avvicina il piatto più a sé. Afferra malamente la gigantesca forchetta. È pesante, ma è anche un bimbo testardo, per questo la pianta forte nella carne. La manica della tunica scivola giù e lecca la carne sanguigna. Il blu e l’oro si macchiano e si sporcano. Precipitoso, il piccolo ritira la manica, prima che qualche altro sconosciuto se ne accorga. Fanno sempre i cattivi: se prova a scivolare dalla sedia lo rimettono al suo posto, se si sporca deve scendere e uscire dalla stanza, senza mangiare, se geme troppo forte lo alzano e lo strattonano sulla sedia. Fa male quando lo fanno. Ora più prudente, fa scivolare la posata con forza fino al bordo. Abbassa piano la testa e scopre i denti. Arpiona la carne e la stringe forte. Il sapore del sangue, ferroso, e della carne bruciata, secca, gli fanno rivoltare il povero stomaco come il manico della sua veste. I dentini, soldati fin troppo minuti per un avversario così imponente, tirano con coraggio e provano a strapparne almeno un pezzettino. Tirano forte, i soldatini bianchi, la forchetta ben piantata nel piatto. Pare una missione impossibile, ma tirano ancora, con virtù di cavalieri. Ma nulla, la carne è ancora solida. Lo stomaco si lamenta una terza volta: ha fame. Il bambino si spazientisce e gli occhietti verdi brillano di rabbia ed incomprensione.

I soldatini ora sono mercenari senza paura. Si piantano come paletti nella loro preda e tirano come coloro che debbano uccidere solo per avere oro. I mercenari non hanno pietà, anche se stremati ed esausti per il dolore e lo sforzo. Si sentono mancare, ma la fame è pressante e lo stomaco pretende cibo e non più la poca carne fra le ossa del bambino. E qui viene l’errore. Lo strattone è troppo violento e la frustrazione troppo incalzante. La carne, tutta la fetta, cade a terra e macchia il pavimento. Pare più i resti di un morto. Angosciato, risvegliato dalla paura, il bimbo si sporge e s’angoscia nel tentare di afferrarla in tempo, prima che se ne accorgano. Qualcosa sguscia sotto al tavolo. Gli occhietti verdi e terrorizzati s’incrociano con una pelliccia chiara. Il cane, ordinato di stare lì per afferrare ciò che viene gettato giù, afferra il pezzo di carne e, veloce com’è apparso, sgattaiola di nuovo sotto al tavolo. Scompare nel buio. Incredulo per la sua sfortuna, il pancino protesta ancora, ma piange in silenzio, che la disgrazia non è solo sua.

Il bimbo, appena cacciata di nuovo la testa tra i drappeggi folgoranti delle tuniche, si sente strattonare e trascinare di nuovo. Sente i piedi in terra e un’altra mano sconosciuta lo conduce a forza in un luogo che non conosce. Impaurito per la futura punizione e forse per un male che ancora non ha mai provato, tenta di liberarsi. Si divincola e le unghie corte s’allarmano sulle mani bianche. Gli occhi lucidi chiedono aiuto, si voltano verso la tavola, verso tutti gli altri nobili e prega di essere salvato. La porta viene chiusa dietro di sé e nessuno pare essersi accorto di nulla, troppo impegnati a mangiare.

Si sente urlare contro, si sente ancora trascinare, ancora, come se non sapesse poggiare i piedi da sé. Il bimbo si sente insicuro persino di camminare, ora che la voce da una è mutata in più d’una. Non capisce cosa dicano, non capisce cosa vogliano. Ma ha paura, si sente spaventato, che tutte queste grida non le ha mai sentite in vita mia. Non è mai stato sgridato in vita sua. Vorrebbe mormorare delle scuse, ma non sa pronunciarle ancora, troppo piccolo. E nessuno si è mai disturbato di insegnargli le parole. Nemmeno quelle di perdono. Allora geme, sente le guance in lacrime. Gli importa poco di cosa pensino ora, vuole solo che smettano. Le urla da due diventano tre. Il cuoricino è un sussulto di terrore. Piange come mai ha fatto, come mai ha fatto nella foresta di mirtilli. Cade a terra e l’istinto gli fa coprire le orecchie. Da tre le urla diventano quattro. Ha paura e le lacrime sono sale che pizzicano sulle sue guance.

Qualcosa muta, in qualcosa di mai visto. Da quattro, le urla tornano tre, ma ciò non lo convince e piange ancora. Una mano lo afferra e le poche ciocche biondicce vengono strattonate. Questo fa male. Il bimbo urla e il gemito di dolore si trascina per tutta la stanza, gigantesca com’è. Pare che questo faccia spazientire ancor di più le quattro voci, per questo gli vengono tirati i capelli. Il povero, piccolo bambino piange e a nessuno sembra importare. Si sente trascinare di nuovo. Ora riesce a vedere dove sta andando, il piccolino. Occhieggia attorno a sé, un cucciolo incatenato, e si spaventa ancor di più. Questo lato del castello non l’aveva mai visto. Non sa dove stanno andando. Ha paura, non sa cosa gli stia succedendo. Senti i propri passi fare male nelle scarpine. Le guance pallide come la pancia di un pesce. Protesta ancora, tenta di fare parole, ma la bocca è ancora quella di un bimbo e un bimbo non sa che gemere. Lui non sa parlare ancora. Ha paura.

Non vede nemmeno la porta, gli viene semplicemente aperto di fronte un varco buio come il catrame. Non ha mai visto tanto buio in vita sua. Per un attimo il cuoricino si ferma e i capelli baciano per la prima volta le perle di sudore, macchiate del suo terrore. Gli occhietti vacillanti, i polmoni bloccati. Si sente bloccato. Viene spinto lì e per un attimo non capisce quel che stia avvenendo. Il buio gli viene parato di fronte e per il piccolo è come gettarsi fra le braccia della morte. Questo posto fa male e sbatte pesantemente contro le costole. Non inciampa, si volta subito e rivede la luce. Rivede il buio della figura che l’ha portato qui. Scorge per un attimo lo scintillio dorato di un anello e la punta di rubino pare splendere più forte in sintonia con la sua paura. I piedini infantili zampettano, saltellano verso la luce che gli viene negata.

La porta viene sbarrata e il bimbo ci sbatte contro. Il buio è un mantello di pece soffocante. Fa freddo lì. Urla, vuole uscire da lì, vuole essere di nuovo libero. Vuole chiedere perdono per quel che ha fatto. Nulla, i passi pesanti dietro al legno sembrano allontanarsi. E il panico è sovrano di quel regno atroce. Salta in alto, tenta di afferrare la maniglia, ma è troppo piccolo per farlo e rimane bloccato ancora per terra. Prima ha urlato, ora soffre e si addolora. Qualcosa gli sussurra che è inutile. I piedini rinunciano a rimanere in piedi e si chiudono in terra. Le manine aggrappate ancora al legno scuro. Cercano la libertà, cercano di essere nella luce e di rendere libero anche il piccolino. Ha paura di quel posto. Non prova nemmeno a voltarsi. Non vuole vedere quel posto orribile. Anche la testolina cade e gli occhietti si serrano. I gemiti sono singhiozzi trattenuti. A loro non piace che lui pianga. Pensa ancora che siano lì dietro ad aspettare che ci sia silenzio e che non dica nulla per poi liberarlo. Ora c’è il silenzio, ma anche dietro la porta vi è silenzio. Il bambino pensa di essere stato abbandonato. Ha paura. Non è mai stato abbandonato in quel castello. Disabituato ad essere solo, si accuccia per terra. Il buio dietro le sue spalle lo arpiona per le costole. Polonia ragazzo è inflessibile.

“Mi hanno chiuso là dentro per tre giorni” Prussia sente la testa pesante come un carroarmato, la lingua secca come un deserto e l’aquila sulla sua spalla molto più pressante di quel che ricordava. Si sente confuso per quel che sta vedendo e non capisce perché lo stia vedendo. Ma la presa alla lancia è ancora salda. Volta per poco gli occhi lontano da Polonia bambino e si concentra sul ragazzo vicino a lui. Il volto bianco, gli occhi vuoti, le labbra serrate. Eppure Prussia vede nell’iride smeraldina della vita. Vede muoversi tutto un mondo e pare che là dentro l’anima abbia portato tutta la sua energia. Sghignazza, nonostante non sia affatto divertito da quel che ha visto.

“Davvero, così poco?” sbuffa una risata che si spegne in un battito di ciglia. Polonia è silenzioso, ancora concentrato sulla sua figura di bambino “No, dai, non possono essersi incazzati solo per un po’ di carne sul tappeto…”

“Si erano dimenticati di me” il comandante ha il sorriso inalterato, statico, persa anima e vita. Pensa e spera di aver sentito male. Le labbra, bloccate, lentamente si abbassano. E gli occhi vermigli non brillano più. Per un attimo ha sentito gli artigli acuminati dell’aquila nera iniziare a serrargli la spalla, come irritato da queste parole. Prussia la ignora e poggia con più insistenza lo sguardo sul polacco. Vorrebbe aver sentito male.

“Stai scherzando?” non volta nemmeno l’iride, ma il comandante immagina già lo sguardo che ha il più piccolo. Incredibilmente, ha voglia di ridere, tanto gli sembra assurdo tutto quel che ha sentito “No, dai, è impossibile. Non ci si può dimenticare della propria Nazione! E poi, anche se non lo fossi stato, non si rinchiude un marmocchio in uno stanzino solo per…”

“Eppure l’hanno fatto” e sembra che voglia smettere di parlare e di continuare a parlare di se stesso e del bambino di carta che, impaurito, si è stretto in una morsa fra le braccia già troppo magre all’epoca. Infantile ed inquieto, si chiude in bozzolo e pare attendere di essere salvato. Non verrà nessuno, vorrebbe sussurrargli Polonia ragazzo. Vorrebbe essere annoiato per quel che sta succedendo. Per la prima volta odia Toris per avergli fatto vedere questo e per averlo fatto vedere anche a Prussia, vicino a lui. Non voleva rivedersi da bambino, piccolo ed impacciato. Ancora inconsapevole della crudeltà della corte. Prussia vorrebbe aggiungere qualcosa, ma non lo fa. Perché non sa bene cosa dire, ancora confuso e disorientato per la novità di quel che sta osservando e perché non è la persona giusta per dire qualcosa di buono in questi momenti. Lo sa bene.

Il tempo nella carta colorata pare correre più veloce. Il bambino, affamato, assetato, morto e bianco nell’anima, sente qualcosa muoversi dietro la porta. Speranzoso, sempre stato speranzoso, si alza in piedi. Solo il cuore emozionato lo tiene in piedi. I passi decisi e forse anche frettolosi avanzano nel corridoio dietro la porta. Non sembra volerlo raggiungere. Lacrimevole, emozionato di poter essere liberato, poggia i palmi sul legno scuro e la poca forza fa oscillare la porta. Sa che non è sufficiente. Urla, urla di essere aiutato. E la gola secca gli blocca le parole che mai ha pronunciato. I passi sembrano fermarsi. Paura e terrore, sono le guance bianche. Lo stomaco impreca nella pancia, ancor più che affamato. I passi si voltano e corrono verso di lui. Sente la figura dietro la porta e schiamazzi di donne incredule. Lacrime salate tagliano come spade gli zigomi del piccino. È salvo, finalmente è salvo.

La porta si spalanca. Non vede la luce, non la vede ancora. Riconosce la porta troppo pesante, spinta con troppo enfasi, troppo velocemente. Troppo vicino a lui. Lo spesso legno lo colpisce forte e il cranio sussulta. Confusione e punti bianchi tempestano come stelle le iridi. Il bambino non riesce più a pensare, nemmeno a reggersi in piedi. Traballa, una zattera in mezzo alla tempesta. I punti bianchi gli oscurano la luce. Il piede non tocca più terra e cade giù, ancora più a fondo nel buio. Sente il proprio corpicino rotolare. E la carcassa della zattera sprofonda nel mare. Il bimbo si sente sprofondare e la testa pulsa, i puntini bianchi lo rendono cieco e la pancia protesta ancora.

Sente confusione di voci, altre figure sconosciute, altro male. Ancora retto e portato in braccio. Il bambino detesta essere preso in braccio. Lacrime e umido in fronte. I capelli corti come elettrizzati, ma sporchi. È libero, è sotto la luce. I puntini bianchi non ci sono più. Ora vede bene. Le figure sono soffocanti e sembra un affollarsi di galline in un pollaio. Lui, piccolo pulcino, capisce di essere stato preso in giro. Non sono lì per aiutarlo. Sono lì per fargli ancora del male. Crede a quest’idea e la fa sua. Non è più un bimbo, non c’è più innocenza in lui. Le guance sono del rosso dell’Inferno e gli occhi gridano di una vendetta che non avrà mai. Una delle figura, quella che lo tiene fermo, riceve il suo pugno. Per un attimo c’è silenzio e i battibecchi di quelle chiocce smettono di assillarlo. Sente la propria anima battere e gridare tra le proprie carni, frustrata, tradita, affamata, assetata, sorda di ogni parola di cortesia per le fanciulle. Il bimbo le odia. E per la prima volta conosce l’odio. Odia tutti e quel castello dov’è imprigionato. Odia tutta quella luce. Odia essere stato fasciato con quei vestiti ingombranti. Odia essere stato portato lì, felice della sua casa nella foresta. Odia queste giovani donne che l’unica cosa di cui vede sono gli occhi corrucciati e perplessi. Ed è mortificazione e male alla testa.

Muori!” urla la sua prima parola, la sua prima maledizione, il suo primo rancore. Le fanciulle non sanno cosa dire. Vedono solo la tempia lacrimevole di rosso del bambino. Non sanno che lui è la loro Nazione, nessuno gliel’ha mai spiegato. Lo ignorano e riprovano a prenderlo in braccio. Il piccolo si divincola e sbatte di nuovo il pugno al seno di una delle tante chiocce “Morite! Morite! Dovete morire!” continua a ripete questa parola, che ricorda essergli spesso urlata contro, vedendo gli occhi di galline angosciarsi. C’è confusione di parole, confusione di azioni. Sono tentate di lasciarlo lì, con la ferita ancora pulsante e gli occhi stregati di demone che ora le fanno paura. Non sanno chi sia questo bimbo, ma è orribile. Un piccolo demone. Per questo si allontanano piano da lui.

Il bambino ora piange. Sente solo in un frangente il dolore al cranio e le ditine toccano per la prima volta il sangue rosso e appiccicoso. Non sa ancora cosa sia, ma gli fa male. Confuso, affamato e dolorante, piange e urla il suo dolore. Le fanciulle credono veramente che sia un piccolo demone, allora scappano e scompaiono dentro la luce dei tizzoni. Il bimbo si sente abbandonato di nuovo. L’anima pulsa sulla ferita ancora scoperta. Si sente male, un male che non ha mai provato. Non si è accorto che una delle figure non se n’è andata. La fanciulla non vede quel che hanno visto le sue compagne. Piano, cauta, cade in ginocchio e avvicina il bambino a sé. Il piccolo si lascia alle lacrime e ai singhiozzi. Non vuole essere preso in braccio, ma vuole essere compreso. Sente la mano fine e preziosa fra le sue ciocche. Non sa cosa sia, ma al bambino piace molto. Sente il calore della fanciulla e il suo profumo. Sa di un frutto che ancora non conosce, ma che già ama.

“Muori…” mormora, rilassato. Non voleva dire quella parola, ma conosce solo questa e si accontenta. La fanciulla finge di non sentire e continua a cullarlo. Sotto la sua spessa veste il bambino sente vivere un cuore. I battiti vezzeggiano le sue orecchie. Il profumo è una ninnananna, il grembo della ragazza una culla. Per la prima volta il principino si sente a casa. Gli occhietti cedono e si chiudono impacciati. La guancia poggiata sul seno ancora giovane. Le manine tra le ciocche lunghe e morbide. E il cuoricino si addormenta, come il padroncino. Sente solo ora di essere sollevato. Non protesta: c’è ancora il profumo dolce, il battito tranquillo, la mano minuta fra i suoi capelli. Quietato del tutto, si addormenta.

Svegliato in un letto morbido, non sente più il dolore alla testa. Riaperti gli occhietti verdi, vede la fanciulla e il cuoricino batte forte per l’emozione. Materna forse ancora impacciata per la tenera età, sorride, gli sussurra qualcosa e gli indica le proprie mani. Un piatto colmo. Meravigliato, il bambino non sa cosa sia questa pietanza. Ma sembra calda, tanti fiotti di fumo bollenti gli solleticano il nasino. Ha un buon profumo, anche se di uno strano colore. Ma ha fame, tanta fame. Geme un lamento, vuole subito da mangiare. Il cucchiaio si riempie in fretta. Nemmeno conosce il nuovo sapore che già inghiotte il liquido. La zuppa gli scivola in gola. Lo riscalda e fa calmare il pancino. Per la prima volta realmente felice, poggia gli occhi sugli azzurri della giovane. Sorride e pare voler saltellare sul letto tanto è contento. Non riconosce ancora un’espressione imbarazzata, vede solo il sorriso tremolante della fanciulla. E si lascia poggiare di nuovo il cucchiaio dolce sulle labbra. Si sente felice, il piccolo Polska.

Prussia non apre bocca. Gli occhi eloquenti e freddi si poggiano pigramente sulla chioma bionda del polacco. Si sente molto più calmo di quel che dovrebbe essere. Capisce che per il polacco l’anima è ben più lontana dalla quiete. Quel che ha visto fa male e gli fa aprire più occhi di quel che credeva di avere “Lei… lei chi era?” Polonia abbassa la fronte. Vede ancora gli occhi azzurri della fanciulla e si accorge di ciò che avrebbe dovuto accorgersi da bambino.

“Una nobile come tanti” Prussia sente angoscia nella voce, allora ferma in tempo un commento ironico. Un grande velo è caduto dalla sua fronte e vedere così bene gli fa appesantire il cuore. La carta è veloce a cambiare e a mostrare il suo passato che detesta. Vede la stessa fanciulla scandirgli parole e insegnargliele. Il bambino la guarda come un angelo caduto in cielo. Polonia è incredulo per la sua ingenuità. Non voleva vedere tutto questo. Un nodo si chiude forte alla gola e non lo fa respirare. Le iridi pungono, i denti mordono forti il labbro e il suo bordo. Non vuole piangere, non ora almeno. L’aquila nera, suo consigliere, guarda l’allievo con seria mortificazione. Col becco gli indica il principe. Prussia comprende e annuisce. Polonia sente il comandante trascinarsi piano vicino a lui, più vicino. Ora può guardarlo e vede gli occhi lucidi.

“E’ stata con te per molto tempo?” il nodo alla gola stringe più forte. Ora si sente soffocare. Le labbra inghiottono aria con gran forza, ma il nodo non si scioglie. Comincia a far male, anche il ricordo dei tanti anni passati con lei. Sente un sussurro, più esausto che scoraggiato. Polonia dimentica Toris e l’aquila nera. Immagina di essere solo con Prussia. Solo con lui, annoiato e forse con un’ironia crudele in cuore. Ma il vero prussiano non ha nulla di questo e gli occhi del ragazzo brillano come fari quando annuisce, freneticamente, quasi dimenticando come si faccia. Ma cerca di schiudere il nodo e questo non si apre, tanto è stretto. Tanto fa male “Sai il suo nome?” inghiotte saliva acre. La tranquilla calma di Prussia gli sembra crudele.

“S-Sì, ma non voglio…”

“Non fa niente, tranquillo” la carta di fronte a loro non perdona e le immagini sono sempre più veloci, sempre più pesanti per Polonia. Prussia è distante. Un buon amico prussiano gli darebbe una pacca sulla spalla e gli direbbe di essere forte e di dimenticare il dolore, ma Prussia non si è mai promesso di essere un buon amico per Polonia. Resta semplicemente in silenzio. Lascia un sospiro che per le orecchie del biondo è una risata trattenuta. Tira su il naso con forza. Respira ed inspira, il nodo inizia a sciogliersi. Stringe la lancia tra le dita talmente tanto forte da farla tremare. Prussia sente e comprende bene. Il falcone rosso alla spalla di Polonia ha occhi lucidi come i suoi, ma non per le lacrime. Brilla un intero cosmo negli occhi di Toris e mostrano bontà nell’animo di custode. Le piume soffici solleticano il suo orecchio, la testa del rapace sfrega sui capelli lunghi e la tempia provata dal sudore. Un po’ si calma il suo cuore, ma non ringrazia Toris: è colpa sua se quel che sta vedendo sta accadendo di nuovo.

E muta di nuovo la carta. Il nodo si riforma nella gola e gli blocca il respiro. La lancia è stretta forte fra le dita vacillanti del polacco.

Il piccolo Polska non si era mai sentito così felice come in questi anni. Aveva dimenticato la realtà buia del castello e la sua vita precedente, perché era certo che ora la sua vita era cambiata e sarebbe cambiata ancora più in meglio. Il giardino, se per lui prima era grigio ed indifferente, ora vede luci e sfavilli di fate e folletti invisibili. Il cuoricino crede di essere in un luogo incantato e magico che prima si rifiutava di conoscere. Non dovrebbe nemmeno essere lì, ma ha voluto farlo. Per la sua amata qualsiasi cosa, anche la morte. Perché è certo: lui ama quella fanciulla e quella fanciulla ama lui. È ingenuo, il piccolo Polska, ma è un’ingenuità infantile, sempre benigna, anche se irrazionale.

Allunga le forbici nel folto delle rovi, dove la rosa più grande dell’intreccio mostra orgogliosa il rosso dei suoi petali. Il rosso è il sangue e il sangue è trabocco d’amore per lei. È ancora molto piccolo, Polska, ma quello che prova è certo che sia amore. Perché una sensazione così forte di felicità non l’ha mai provata. Taglia lo stelo che lacrima verde rugiada. Afferra la rosa, la più grande, la più bella e la poggia insieme alle altre. Alle altre rose, alle margherite, e ad altre meraviglie di cui non sa il nome. Il mazzo è più grande di lui stesso. Le manine sputano gocce di sangue. I rovi hanno fatto male. Loro, malvagi, non volevano che prendesse i loro gioielli per la sua amata. Ma lui è stato coraggioso. Si è battuto con orgoglio e fedeltà per la sua fanciulla e scappa dalla foresta di rovi, malandato e sanguinante, ma felice.

Il mazzo è completo, ora è stretto forte fra le sue braccia. I fiori sono gioielli incantati, conquistati nel castello di un orrido stregone che è l’intreccio dei rovi, e lui, valoroso cavaliere, darà in regalo quella meraviglia per lei. E la ama tanto, la ama così tanto! Non potrebbe mai amare nessun’altra se non lei, tanto dolce come un madre e tanto bella da sembrare una strega. Perché le crudeli dame del castello la credono una strega. Perché è bella, perché è dolce e pia, perché ha gli occhi della sua stessa Nazione. Polonia le ha maledette tutte. E se sia veramente una strega, allora ha realizzato bene il suo incantesimo su di lui.Vuole solo essere amato, il piccolo, vuole solo essere voluto bene. Nessuno l’ha mai capito se non quella fanciulla. E se sia veramente una strega, allora si darà a lei per l’eternità, tanto la ama.

Pigola il suo nome, fuori dalle sue stanze. Non può più entrarci, ormai diventata donna. L’attesa sussulta di gioia: da dietro al legno lei ha acconsentito ad entrare. Il cuore è un’esaltazione di felicità ed entra, contento ed emozionato. È il suo primo regalo per lei, dopo anni che l’ha conosciuta. È stato proprio crudele per non averle dato i trofei dei suoi viaggi immaginari. È stato proprio meschino. Ma lui non lo sapeva, ancora troppo piccolo ed inesperto. Entra nella sua camera e nei gesti si mostra rispettoso. Ora è più grande, ora è più alta, più fiera, più donna. Più bella e dolce. Porta i fiori in alto e si guarda bene di non farne cadere nemmeno uno, troppo preziosi e sudati di avventure. Lei si volta e il cuore sussulta ancora. Gli occhi azzurri brillano di vita, di una parte di felicità che ha regalato tutta a lui, e mai è stato tanto grato ad una donna per averlo salvato. Mormora il suo nome e l’emozione muove l’anima agitata del bambino. Ammirerà le sue imprese? Apprezzerà i suoi sforzi fatti per lei?

I capelli neri, onde del mantello della notte, scivolano sulla spalla nel chinarsi sui tesori colti per lei. Dei fili scuri si poggiano sul suo nasino. Lo arruffa e ispira il profumo di quel che pensa che sia un abbraccio. Ora conosce bene quell’aroma, tanto buono da morire in braccio a lei. Se dovesse morire, lo farebbe tra le sue braccia e il capo sul suo seno. La donna porta alle mani i fiori senza spine, tolti tutti. Spera che sia felicità quella che illumina i suoi occhi e fa cadere i capelli sui petali profondi di rosso. Sorride, entusiasta per l’impresa riuscita. Le manine sono un groviglio di tagli e rosso rappreso, la tunica sporca del sangue verde dei fiori. La fanciulla sorride, allora anche il bambino sorride. E nessuno vede il padre della ragazza e nemmeno il suo sguardo fermo ed inquisitorio.

Polonia ragazzo, con la gola bloccata e il respiro mozzato, vede. Vede il sorriso incredulo ed imbarazzato della fanciulla, non avendo mai creduto che il suo amore prestato potesse fare questo. Vede i suoi occhi vuoti e dubbiosi del dono. I fiori si regalano agli amanti e lei non potrebbe mai toccare un bambino e mai l’ha fatto. Nemmeno lei vede il proprio padre, ha occhi incerti solo per Polska. Vorrebbe spiegazioni e vorrebbe sapere cosa voglia intendere con quel dono così bizzarro, anche se ben accettato. Tuttavia è cortese d’animo e non vorrebbe nemmeno far morire la contentezza del bambino. Polska sorride raggiante e la giovane donna ben sa che sia un segnale di pericolo.

Polonia ragazzo ricorda quel giorno e trattiene le lacrime. La lancia pare bruciare nella sua mano.

“Ti amo” la voce sussurrata e piena di emozioni del bambino pare una lancia scagliata nello stomaco. La povera fanciulla, col filo e l’ago tra le dita e il ricamo ancora da perfezionare, alza timorosa la testa. Le guance rosse del bambino e le dita piccole appena fasciate fanno ridipingere di colore il volto. Ciononostante, lo stomaco è ancora una zavorra pesante e ghiacciata. Le duole il ventre come non mai e gli occhietti timidi del bambino appesantiscono le viscere.

“No, piccolo, non puoi dirmi questo” pensa e spera in un solito scherzo. Perché Polska è un bambino ignorato che ha bisogno di attenzioni e le opportunità le crea da sé. Ma dentro il proprio cuore comprende la realtà di quel che ha appena detto. Polska è brioso, ma mai bugiardo. Soprattutto con lei. La fanciulla lo sa bene, pur tuttavia torna col capo chino e le mani s’impigliano di nuovo nella stoffa. Spera ancora che Polska le abbia giocato un brutto scherzo o che fraintenda qualcosa che deve avergli insegnato.

“Ti amo” voce più decisa, quasi minacciosa. Ha sbagliato ancora il tono, il bambino. Avrebbe voluto usare un’inflessione più amorevole e serena, come ha letto nei libri di cavalieri della giovane donna. E il dolore persiste, non vuole fare del male al bambino. Non vuole e vorrebbe non esserne in grado. Capisce ciò che le ha detto e sa bene che Polska, questa volta, intende esattamente ciò che ha pronunciato. Ma vuole comunque provare a fuggire dalle parole. Ricorda i fiori regalati quel pomeriggio e teme che significhino ciò che ora sta provando a dirle. Ritorna il capo in alto. Il rossore sulle guance del più piccolo è svanito, ma la luce dei batticuori brilla forte nel verde smeraldino. Il prete le ha ben detto e suo padre le ha confermato: il demonio ha gli occhi verdi. E lei li ha ignorati entrambi.

“No, Polska, questo lo dovrai dire alla donna che ami” la luce di speranza muore. Il bambino pare spegnersi, anche le manine smettono di assillarsi fra di loro. La giovane dimentica l’ago e il filo e teme di averlo ferito. Non trova motivi per cui avrebbe dovuto. Si sente sinceramente in colpa. Ma Polska è anche testardo, quasi se n’era dimenticata. L’iride ritorna a splendere quanto un sole verde. Le braccia, meno paffute di come dovrebbero essere, sembrano ali d’uccello che vorrebbero, desidererebbero spiccare il volo in quell’istante.

“Ti amo tanto!” e le ali si liberano, si aprono di fronte a lei, entusiaste. La povera fanciulla sospira. Polska non ha compreso molto, anzi, pare che non voglia comprendere. Con occhi a lei incomprensibili, le si avvicina. Pesta indifferente la gonna e le si siede in grembo. Le ginocchia, se pur piccole, le danno dolore alle gambe e il suo lavoro ben fatto scivola a terra. Sospira ancora, affranta che non possa più occuparsi del cucito. Preso l’equilibrio e con le manine alle sue spalle, Polska sembra aver timore di pronunciare ciò che brucia sulla sua lingua “Tu mi ami?” il cuore di lei cade e forse di frantuma. Questo ha fatto molto male. Riflette veloce.

“Sì…” è un mormorio ridico e anche falso. Per la prima volta in vita sua non si pente di aver detto una bugia, anche se fatale. Il piccolino sembra essersi tolto un grosso dubbio. Calmo e molto più allegro, mormora qualcosa fra sé, forse un sospiro di sollievo. La giovane donna, ancora più confusa, e preoccupata che il piccolo possa cadere, lo afferra per le spalle e lo avvicina al petto. Questo gesto viene frainteso, il bambino le si accoccola al seno.

“Ti sono piaciuti i fiori?” altre parole imbarazzate. La donna s’intenerisce.

“Sì, tantissimo”

“Bene! Perché… perché volevo farti un altro regalo” la fanciulla si paralizza di fronte al sorriso del bambino. Si preoccupa. Si chiede cosa intenda dire e perché affermare una cosa del genere a lei. Si maledice per la sua sfortuna e per aver dato credito e false affermazioni a quel bambino. Sa bene che sia una Nazione e che vivrà per sempre e proprio per questo non avrebbe voluto trovarlo rinchiuso in quella stanzetta buia. Spesso si chiede cosa le sarebbe accaduto se non avesse chiamato le sue sorelle per fermarsi e per aiutare quel bambino. Non sa bene se essere l’unica persona per Polska sia un bene. Il bambino poggia il capo arruffato al suo cuore e ascolta i battiti come ammaliato dal loro suono “Il tuo papà non ti vuole bene. Allora non lo vedrai mai più, sei felice?”

“Sì, piccolo, ora però vai a dormire, sembri molto stanco” è una scusa, il piccolo Polska non è mai sembrato così tanto vivace. Non potrebbe dormire nemmeno volendolo. Ma ubbidisce, ha delle cose da fare nella sua camera. Polska lo sa: il padre della sua amata è feroce e spregevole. Litiga sempre con lei e la fa piangere. Lei non deve mai piangere e quell’uomo non ha il diritto di farle del male. Vuole liberarla da lei e sarà soltanto sua. Potrà vivere felice, così come vivrà felice anche lui.

In camera sua ha scritto una lettera. Giorni e giorni di lavoro per rendere la sua scrittura immacolata e le sue parole audaci ed armoniose come quella di un vero cavaliere. La carta fine e pregiata, nessun altro se non il re può averla. Gliel’ha sottratta, ma per una buona causa. Le ha scritto parole d’amore, i libri l’hanno aiutato ad aprirgli il cuore. Le ha scritto che l’ama, che la vorrebbe sua, che quel luogo infimo non è adatto per un angelo come lei. Le ha scritto di essere il suo cavaliere e di servirla fino e ben oltre la sua morte. Le ha scritto che quella mattina l’avrebbe voluta pronta per il viaggio che avrebbero vissuto, pronti per una nuova vita. Non firmò, nome troppo empio il suo, e fece scivolare la lettera sotto la porta della sua dama. Felice e preparato il tutto per il lungo viaggio, s’addormentò.

Si svegliò e andò nelle stanze della sua amata. Si allarmò e impazzì: la camera era vuota, come se niente e nessuno ci abbia mai abitato prima d’ora. Spaventato e preoccupato, era andato a chiedere persino a coloro che odia per sapere che fine abbia fatto il suo amore. È andata via la scorsa notte, dissero tutti, quella strega se n’è andata via, finalmente. Il padre disse solo che sarebbe dovuta andare a sposarsi, ben lontano da questa città. Li ha maledetti. Ha urlato e strillato di avere di nuovo la sua dama, l’unica persona che aveva, il suo cuore e la sua anima. Ha rotto un bel po’ di oggetti e i rimproveri non hanno funzionato.

Hanno usato le mani. Per la prima volta Polska è stato picchiato. Ha fatto molto più male di quel che ha creduto. Non riusciva a reggersi più in piedi. L’hanno chiuso di nuovo in quella stanza buia. Pianse tanto. Per essere di nuovo lì, al buio, coi ratti. Per essere stato di nuovo abbandonato e per aver perso la sua amata, per sempre. Questa volta non si dimenticarono di lui e il suo insegnamento fu più duro di quello applicato in precedenza. Se è troppo debole e gracile per essere cavaliere, allora sarebbe diventato un principe. E un principe deve saper dominare i sentimenti.

Prussia sente come un vento lontano, prepotente, che scaraventa la lancia lontano da lui. Si volta, incredulo, e vede Polonia. Vede il suo falcone rincorrerlo nel vento per provare a raggiungerlo e a fermarlo. Vede la macchiolina verde scomparire piano dalla sua vista. Agitato, riafferrando la lancia, inizia a correre. Urla il nome del ragazzo e gli ordina di fermarsi. Giacché non si piange per una donna. Nemmeno per un ricordo d’infanzia ben lontano. Neppure per essere soli al mondo. Nonostante tutti questi avvertimenti, Polonia corre ancora. Non vuole vedere nessuno.

 

Da quando Gilbird gli ha pigolato dove fossero i due sposini, e da quando si è nascosto dietro al folto dei cespugli, non ha fatto altro che strabuzzare gli occhi. Quel che vede dev’essere irreale, falso o una sceneggiata creata per prenderlo in giro. Alla sponda del lago non possono esserci Austria ed Ungheria insieme. Non possono essere felici di essere insieme. Dopotutto si sono sempre detestati e da quando Polonia ha iniziato ad abitare con loro, credeva che l’odio per Ungheria verso il marito fasullo fosse ancora più forte. Invece sono lì e l’aristocratico pare meno elegante del solito. È sorpreso di vederlo insieme alla donna, senza scarpe né calzettoni. Col pantalone arrotolato, la casacca buttata sull’erba fresca, il farsetto srotolato, Austria sembra sinceramente felice. Assottiglia ancor di più gli occhi, sbalordito. Forse non l’ha mai visto sorridere veramente in vita sua. Le catene signorili sono state sciolte e ora lui innaffia i piedi in acqua con quella che riteneva una selvaggia fino a pochi mesi fa.

Gilbird pigola ancora sulla sua testa e, con le alette indaffarate nel volo, indica poco lontano dalla coppia. Ancora più incredulità. C’è il malato della casa, sdraiato sull’erba. Crede in un abbaglio. Che forse non veda bene per la distanza? No, ora è più chiaro. Gli sposi si avvicinano al polacco, pasciuto al sole, e lo fanno alzare. Fa caldo quel giorno, tanto da potersi lasciare i vestiti alle spalle e buttarsi a nuotare. A Polonia viene sfilata la camicia, le scarpe e i calzini. Austria gli arrotola i pantaloni. Cieco e sordo, ma fiducioso, si lascia trasportare dai due. E i piedi toccano fieri l’acqua. Entusiasta di sentire qualcosa di nuovo, inizia a schizzare col piede, trattenuto alle braccia dalla coppia. Polonia sembra capire e sentire felicità, per questo continua e ride beato, finalmente felice.

Si allontana dal suo nascondiglio e i passi marciano all’indietro. Si sente veramente turbato. È dovuto partire per pochi mesi e solo rivedere quello gli spezza il cuore. Teme che in quei quattro, quasi cinque mesi sia accaduto qualcosa di solido e potente. Teme in questo. Gilbird pigola ancora sulla sua testa e si posa sui capelli chiari. Sente il proprio padrone turbato ed agitato, allora si agita anch’egli e si domanda cosa l’abbia fatto sentire male. Prussia abbassa il capo e si chiede se i fiori che con cura ha raccolto e confezionato siano una buona idea. Si chiede se aprire il cuore ad Ungheria sia una buona idea.

Scuote la testa, irritato per i suoi stessi pensieri. Ungheria odia Austria e spesso gli ha rilevato di volere il divorzio da quel matrimonio forzato. Qualche mese non può essere cambiato tanto, anzi, non deve essere cambiato niente. Persino il Vecchio Fritz non ha mai amato una donna. Gli raccomandava di non ingannarsi mai. Una donna non la si ama, mai è esistito un uomo che ami la propria donna, specialmente se presa in sposa. Ma Prussia non si è mai preso il disturbo di ascoltare ogni parola di quel che diceva il Vecchio. Senza più alcun turbamento, il comandante si decide di attendere la sera, quando Austria sarebbe stato impegnato in altro ed Ungheria sarebbe stata fuori in giardino, con vento geloso dei propri capelli e le nuvole rossastre per il tramonto.

Sarebbe andato tutto bene. Se lo sentiva.

 

Polonia, finalmente, dopo minuti di corsa, ha deciso di fermarsi e di dare tregua anche a lui. Si è rannicchiato in terra, col viso premuto contro le ginocchia, le mani sotto la fronte e la schiena spezzata in avanti. Da un po’ sono in silenzio, non esistono nemmeno singhiozzi incastrati nell’uniforme del ragazzo. I capelli dorati scendono tenui sul verde dei pantaloni. Sfiorano gli stivali lunghi e si rifiutano di tornare al proprio posto. Seduto anch’esso per terra e con l’aquila ora in volo su di loro, Prussia è indeciso su cosa fare. Non è fatto per incastrarsi in situazioni come queste e detesta ritrovarsi incapace di decidere. Lui è fatto per la guerra e in guerra tutto è più facile. Non c’è spazio per le lacrime, per questo ne è sempre grato della sua esistenza. Resta fermo, alto, col gomito sul ginocchio e il pugno sulla guancia fredda. Non ha idea nemmeno di cosa dire. L’aquila nera continua a volare e la lancia brilla al suo fianco di una luce argentea. Respira profondamente, Polonia, e questo lo fa preoccupare.

“Suo padre ha trovato la lettera quella sera” la voce è roca, ha qualcosa di rotto, quasi mostruoso “Aveva notato la calligrafia e le parole e ha creduto che lei avesse un amante e che volesse scappare dal palazzo. Me l’ha portata via prima dell’alba. Aveva avvertito pochi conoscenti della sua partenza e l’ha trascinata via, in un’altra città. L’ha fatta sposare con un nobile del luogo” respiro profondo, la spiegazione s’interrompe per poco “Già da qualche anno voleva farlo, ma lei ha sempre rifiutato, conosceva l’uomo che doveva sposare e questo non l’amava e lei non amava lui. Ma il padre non ne voleva sapere, voleva solo che si sposasse e ha trovato l’occasione per farlo. Forse sapeva anche che fossi stato io l’idiota ad aver scritto quella lettera, ma non gli è importato” i guanti scendono dalle ginocchia alle gambe e il viso ritorna alto, scoperto “Non l’ho mai più vista, né ho avuto più notizie di lei” e cala il silenzio. L’uomo affianco a sé si spazientisce subito.

“Hey, stai bene?” Prussia si era preparato allo scoppio di lacrime o di rabbia repressa da anni, ma questa è l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Ha occhi più stanchi che tristi, l’infelice. Sente il suo respiro debole, quasi trattenuto nella trachea. Per un attimo è felice e fiero che il ragazzo abbia dimenticato il ricordo e l’impercettibile movimento di assenso del capo è più che sufficiente per rassicurarlo. Detesta e non sa consolare nessuno, il comandante prussiano e l’idea di provarci in questo luogo bianco eppure così scuro gli ha quasi spezzato il cuore dalla tristezza. È contento che Polonia stia bene e questo gli basta per fargli rifiorire il sorriso sghembo. Non sa e non vuole sapere del nodo ancora fermo nella gola e delle lacrime trattenute con la forza della vergogna. Non vuole piangere, Polonia, che ha pianto fin troppo quand’era bambino. Toris è muto affianco a lui, intuisce l’animo dell’amico, ma non sa bene nemmeno lui cosa fare per renderlo felice. Piuttosto poggia gli occhietti sul fianco del prussiano e saltella interessato verso altri oggetti misteriosi, probabilmente colti di recente. Il biondo, ancora inclinato per il ricordo di capelli neri e occhi azzurri, aguzza lo sguardo ed è ben felice di distrarsi su qualcosa che non sia il passato.

“Cioè, ma che roba è quella?” ha la voce strascicata e debole, ma il prussiano ignora il particolare. Non vorrebbe far notare il turbamento che ha per il piccolo Polonia, né la sua preoccupazione. È una cosa ben poco magnifica. È una cosa ben poco adulta e ragionevole. Se qualcuno soffre, se ragazzo o uomo, l’ultima cosa che desiderano è che qualcuno glielo faccia notare. Prussia lo sa bene e sa bene come si senta il polacco. Quando, quella notte lontana, Ungheria gli ha negato il suo cuore, avrebbe voluto morire nelle lacrime da solo, come sempre. Avrebbe sparato al soldato che gli ha spiegato il suo tormento. Per fortuna la birra risolve tutto. Per fortuna, il mattino dopo, West l’ha ritrovato e portato a casa e ha compreso la sua sofferenza. Era ancora un ragazzino, il suo fratellino, ma è stato comunque la migliore medicina che il Signore gli abbia mai regalato.

“Mentre ti rincorrevo ho trovato tutta questa roba e muoio dalla voglia di vedere cosa nascondano!” nemmeno vede di cosa si trattino che già un brivido di terrore ha seghettato le vertebre di Polonia. Col volto pallido, incredulo della contentezza di Prussia, Polonia abbassa gli occhi su quegli oggetti. Toris cala, veloce e scattante, la testolina e il becco, bacchetta interessato questi nuovi tesori. Non hanno il valore della coroncina che ha nella tasca della divisa, quasi dimenticata nella fretta degli avvenimenti portati dalla lancia. Prussia prende fra le mani i due oggetti e li mostra con un ghigno orgoglioso: quel che pare una coperta bianca, leggera e quasi odiosa, e un fiocco scuro. La malinconia per i ricordi appena rivisti gli rende insopportabili alla vista. Ma quando si ha nulla anche un granello di sabbia, questa diventa una pepita d’oro. Il comandante rialza il capo, vivace e curioso “Sono troppo curioso! Ti do l’onore di scegliere”

Ma io non voglio!, vorrebbe rispondergli, ma la lingua rimane incastrata, così come il nodo che gli chiude ancora la trachea. Il respiro si fa sempre più corto e sofferente. Con tutta la forza della sua volontà, si rimette in piedi, per stare dietro a Prussia e alla sua malevola curiosità. Si sente soffocare. Non gli piace scegliere e non vuole scegliere. L’idea di vedere la vergogna del suo passato blocca l’anima nel suo corpo. Si vede in una stanza buia e nera, umida ed insicura, come lo sgabuzzino in cui spesso è stato incarcerato. Si vede soffocare, tendere il mento verso il cielo. Implorare Dio di salvarlo e di liberarlo. Vede serpenti grandi quanto lui stesso, piccolo ed angosciato topolino, di cui le spire cruenti lo stringono con forza. E l’abbraccio di morte si trasforma in una ricerca disperata d’aria. Si vede ancora nello sgabuzzino buio, pieno di ratti e di serpenti, e crede che questo pasticcio in cui si sia rinchiuso non sia tanto diverso dal suo passato triste.

Ma Prussia è ignorante e vuole ignorare. Per questo afferra la copertina, entusiasta, e l’avvolge fra lui stesso e Polonia. Toris, appoggiato con un balzo d’ali sulla sua spalla, si strappa nuovamente tre penne e le brucia addosso alla coperta. Vede la lancia ancora in mano del prussiano e i gesti veloci del pennuto e si chiede perché siano così crudeli con lui. Tira su il naso, trattiene ancora le lacrime. Il paesaggio si colora di nuovo e la carta prende nuove forme e figure.

L’aquila nera, appena in tempo, si cala sulla spalla del protetto. Cauta e severa, assiste anch’ella.

 

 

 

 

 

“Vi darei tredici… no, quattordici anni!” esclama la vecchia balia. Il gracidare della sua voce alle orecchie del ragazzino sembra il rauco strillo di dolore di un asino. Ama e detesta questa donna, non sa ben dire nemmeno lui per quale motivo. La ama perché è una delle poche che lo tratta come un figlioletto. Lo veste e gli pettina i capelli. Gli prepara sempre da mangiare, da quando deve studiare i libri imposti dai suoi re, e lo conforta quando si lamenta. Eppure, nonostante tutte queste premure, la vede come una figura distante. Anni dopo, diversi anni dopo, quando seppe della sua morte, non avvertì nulla e l’animo non si angosciò troppo per la perdita. E la detesta. Forse perché, come tanti altri in quella corte, è appiccicosa, è servile, anche se lo ritiene meno importante dei propri bambini. E ne ha tante, di creature da allevare. Polonia lo sa bene che lui è solo un ragazzetto come molti che deve tenere sotto il pugno di madre. E lui deve subire come sempre, ormai l’ha capito e ha accettato decenni fa il suo destino.

Ha dimenticato la fanciulla e tutta la felicità che gli ha donato. Ha dimenticato ogni cosa. Non saprebbe dire cosa sia un bacio o una carezza. Nessuno l’ha più amato dopo quel giorno. Gliel’hanno fatta dimenticare. Era solo una nobile come tanti, dicevano, non puoi soffrire per così poco. E ha dimenticato l’importanza dell’amore. Sa cosa sia, i libri sono i suoi veri maestri, ma non potrebbe mai spiegarlo. È come uno scolare che, imparata a memoria la lezione, non saprebbe come illustrarla a parole proprie. Ma non se ne cura, il piccolo principe, nessuno potrà più dargli quel che ha perso, quindi non vale la pena soffrirne. Già soffre per la noia e per il mantello che deve indossare ogni ora della sua vita. Questo basta per dimenticare.

Un’altra balia, ben diversa di volto e d’abbigliamento, esce ancora dalla stanza. Arraffa di fretta altri lenzuoli bianchi e scappa ancora dentro, dove accade quel che pare più una guerra che un parto. Polonia sospira e la balia di fronte a lei, polacca anche nel sorriso, scandisce altre sue possibili età. Ricorda un altro motivo per cui la detesta. Detesta darsi delle età e mostrarsi più piccolo di quel che sia. In realtà, Polonia non tiene conto nemmeno degli anni della sua vita, annoiato anche di quelli. Non ha mai vissuto quegli anni, quindi non ne possiede e non sono sue. Non deve avere un’età perché non ne ha mai avuta. Ma la donna continua, indifferente al suo dolore, come chiunque altro abbia conosciuto nelle varie corti in cui ha viaggiato. Era la loro bambola: lo vestivano come li aggradava, gli dipingevano un sorriso quando ne avevano bisogno e uno sguardo severo quando erano tempi crudi. Lo sbattevano in stanza in stanza e ignoravano il cuore palpitante, selvaggio, che pretendeva la liberazione da loro, dalle brucianti, false, carezze. Ma, con sforzi e punizioni, sono riusciti a domare quel cavallo pazzo e a riportarlo al suo posto. Anche se dovettero tagliargli criniera e zoccoli per farlo.

“La Maestà si sta riposando. Potete vederla” conosce ben poco l’ungherese, ma comprende l’essenziale. Si alza e lo fa anche la balia, con le braccia prepotenti e le gambe tozze e frizzanti. Lei felice, lui serio. Lei eccitata, lui probabilmente annoiato. Non saprebbe dire nemmeno come sia il suo animo. Scene come queste le ha viste fin troppe volte e ben altre volte ha dovuto dare la propria benedizione ai figli dei suoi sovrani. Ne è sinceramente annoiato. È annoiato anche di essere lì, in Ungheria, invece che a casa sua. Solo questa è l’unica innovazione che gli si è mostrata. Ma non può mostrarsi con un volto del genere alla sua signora. Quindi indossa la maschera parzialmente cucita sul suo viso ed entra.

Niente di nuovo o diverso e non si sente onorato di essere lì, nemmeno perché lui sia un ragazzo. Le finestre questa volta sono aperte e Polonia ringrazia Dio che lo siano: questa stanza puzza di sangue e dolore di donna e lui non ne vuole essere contagiato. Ignora il fagotto portato via dalle balie ungheresi e naviga dentro quell’aria pesante. La sovrana pare più morta che viva e non è la prima volta per lui vederla in quello stato. Si chiede perché dare alla luce così tanti bambini e con così tanto dolore. Le coperte e le lenzuola sono già state sostituite e presto quelle altre saranno bruciate. Per Polonia un giorno del genere dev’essere pieno di lamento che di felicità. Non capisce perché una donna debba essere così tanto entusiasta per la nascita di una creatura che in futuro, probabilmente, tenterà di strapparle via ogni briciolo di potere che possiede. A maggior ragione se non sia il primo di quello strazio. La donna è coperta bene, ma il biondo vede comunque il sudore che le imperla la fronte. È sollevato che possa almeno dormire. Ma sa della sua presenza e sa che deve, purtroppo, parlarle.

“Non serve parlarmi, Elisabetta. So che è stato molto più faticoso del tuo primo parto” riapre gli occhi, la sovrana. La stanchezza e lo sforzo si sentono anche dalle iridi spente. Ha fatto molto più male di quel che credeva lei stessa. Eppure ha dovuto, il bambino chiedeva solo di nascere. Guarda gli occhi torvi del ragazzino, ma legge tutt’altra espressione di compassione. Le è rimasto a cuore quel ragazzo più di quanto mostrasse a lui stesso. Ma perché all’inizio lo vedeva come un demone con occhi verdi e labbra rigide. Ha compreso tardi che l’hanno mutato in questi abiti il suo stesso popolo, ma ora soffre per lui più di quanto faccia ora, tra queste coperte sudice.

“Oh, Polonia…” pare soffrire anche nel pronunciare queste poche parole. Ma il biondo la rispetta e rimane in silenzio. Un brivido bollente di compassione lo abbraccia dalle spalle e ha quasi la sensazione che qualcosa lo stia tenendo fermo per le costole. E questo sconosciuto gli sussurra molte più domande e altra pietà. Quanto potrà mai portare dolore ad una donna mostrare la luce ad una creatura non del tutto sua? E lo spirito scuro che lo trattiene gli sussurra altra compassione. Il ragazzino sente di non dover essere qui e di non avere alcun motivo di disturbare questa donna, presa da un dolore a lui ignoto ma comunque terribile. Solo la fama di quel male lo fa tremare. Deglutisce, il piccolo Polonia e vorrebbe andare via per davvero.

“Io potrei anche andarmene…”

“Polonia, sai che è una bambina?” lo interrompe lei stessa. Polonia la guarda confuso e pare che negli occhi sia tornata la gioia e la vita “Ho pianto nel saperlo, ragazzo mio. Ho veramente pianto, tanto ero felice” e gli occhi s’intrecciano di lacrime, il fiato ritorna placido e calmo. Polonia è confuso e non potrebbe mai conoscere l’allegria che prova la sua sovrana. Sente i capelli più spettinati di quel che siano e le braccia ben più leggere di quel che crede. Una parte di maschera cucita, una grande fetta di cuoio, si stacca dal suo viso e cade. Lo sguardo affatto contento, ma neppure triste. La sorpresa forte. Nessuno è mai stato felice per la nascita di una bambina “Vorrei fartela conoscere. Magari… magari le piacerai” e chiude di nuovo gli occhi “Magari sarà il tuo re e ti aprirà il cuore” e crolla nel sonno, come morta.

Sta delirando, pensa lui e la balia affianco a lei. La misericordia per lei è padrona nel suo animo. Poche volte il suo cuore si è mai mosso con così tanta forza. Sono stati bravi a sigillarglielo, i malati della corte polacca. Sono stati aggressivi nel farlo, ma hanno realizzato un ottimo lavoro. Un principe non ha lacrime, né può permettersi un cuore troppo schietto. Un principe è severo e ha l’occhio attento al mondo. Un principe non ha amici, ma servitori. Un principe deve comandare e sapere quando dev’essere comandato. E dev’essere il braccio del sovrano nel momento del bisogno. Questo gli hanno insegnato e non è mai stato certo della loro veridicità. Ma a nessuno ha mai importato del suo cuore né se ne soffrisse, quindi finse di non soffrire e man a mano negli anni non ne soffrì veramente più. Era solo un ragazzino capriccioso ed infantile, questo gli hanno urlato per decenni e di questo ormai si nutre. Hanno creato e plasmato una maschera per lui, loro bambola di cristallo, e gliel’hanno cucita addosso. L’ago aveva dato più dolore di quel che credeva, il cuoio bruciava e la pelle gridava dalla sofferenza. Tanta disperazione gli hanno donato per modellarlo come gradiva a loro, maledette serpi. Ma ce l’hanno fatta. Eppure sente che un frammento di maschera sia stato sciolto dal filo di metallo e sia caduto, lontano da lui. Vedere la sofferenza di Elisabetta è stato doloroso. Ora non risponde più, completamente stremata. Polonia la rispetta e si allontana, e anche il corpo è felice di eseguire.

“Signore, ecco la bambina” ancora provato, ancora scosso e sfiancato, Polonia si volta. La balia ungherese, una delle tante, le porge il fagotto bianco. Il ragazzino si siede, sospira, ricordando la noia, riavendo noia. Ma, cauto e prudente, l’afferra piano. Poggiata sulle proprie ginocchia, la piccolina smette di agitarsi e rimane come paralizzata, forse per la sorpresa o forse per il nuovo calore mai provato prima d’ora. Guarda in basso, Polonia, colei che un giorno, come ha dichiarato la sovrana, lo guiderà e lui guiderà lei. Apre gli occhietti assonnati, il corpicino arrossato. Anche la balia si allontana, sicura di non dover interferire. L’avrebbe mortificata se l’avesse fatto.

Le palpebre della piccola mai si sono schiuse, nemmeno per vedere la madre o le copertine bianche. Ora si aprono, per la prima volta vede il mondo. Nel panno bianco, più puro di lei stessa, prova a stiracchiarsi, col corpicino fin troppo grassoccio e la pelle troppo rosata e raggrinzita. Il capo senza nemmeno un capello, i pugnetti serrati fuori dall’involucro niveo. Gli occhi chiari s’alzano e incontrano gli smeraldi di un giovane demone. Mai visto qualcosa in vita sua. S’interessa e comincia a fissare col blu il verde della Polonia. Polonia sbatte le palpebre, perplesso e preoccupato. La bambina è immobile ora, con l’occhio adulto e preciso sui suoi. Non potrebbe guardare nient’altro, osserva il ragazzino. Ben altri bambini ha preso in braccio e tutti erano fin troppo diversi da lei. Qualcuno di quelli voleva i suoi capelli e alzava le manine, già egoiste, verso i ciuffi biondi per farli suoi. Alcuni, già paurosi e vigliacchi, vedevano i suoi occhi di volpe scaltra e crudele e piangevano dimenandosi. Altri ancora, già indifferenti della vita, già indifferenti di altre vite, non lo guardavano e si scrollavano in cerca di tesori inesistenti. La bimba che ha in braccio non si muove ancora e Polonia viene stregato dai suoi occhi, così come lei lo è dai suoi.

Sente il proprio cuore ora, il piccolo Polonia. Lo sente forte, vibrante con quello della piccina, debole e veloce, diverso dal suo. Chiude piano le palpebre e pare che vene e margini di pelle facciano ugual cosa. Riaccende le iridi, il blu concentrato con più attenzione e virtù nei suoi occhi. Sembra anziana, questa piccina, con lo sguardo profondo e gli occhi instancabili. Aria fredda sfiora e penetra nella carne del biondo, che pure i capelli, anche se abbassati, si rifiutano di cadere verso la piccola. Questi occhi penetranti, che possano pure ospitare l’intero cielo d’estate, lo terrorizzano e lo tormentano. Tiene fermi i tremiti e vorrebbe far fuggire gli occhi da quelli suoi, ma è in qualche modo anche incantato. Preoccupato, terrorizzato, affascinato è Polonia, che questa bambina lo strega più d’una pozione. Ed è preoccupato per quel che prova. È terrorizzato da quel che sta vedendo. Ed è incantato dalla virtù di questi occhi. Per una volta, l’occhio di demone trema nel posarsi sulla figura di un angelo.

Il pugnetto si schiude. Discreta, grande e lenta, la manina s’alza, che vorrebbe provare la realtà di quel che sta vedendo. Polonia è incredulità pura: i bambini non sono niente di tutto questo. Non sono docili al tatto, non sapendo di poter essere cauti. Non sono così lenti, solo quando temono la novità lo sono. Ma questa bimba brucia di coraggio ed onestà e la mano pasciuta si poggia bollente sulla guancia del polacco. È ardente, ma morbida come piuma, la sua manina. Polonia è muto e provato ed osserva incantato ancora quegli occhi, luci turchine nel buio di questa stanza. Avverte la manina, che invece di salire verso ciò che studia, scendere sulle labbra di Polonia. Nel bordo della bocca non si ferma. I polpastrelli scottano sulle labbra sottili e bianche. Lì si fermano e lì si bloccano, come nel tacerlo, come nel confortarlo. Gli occhi blu sono ancora rapiti dai suoi. Polonia si sente rapito, incantato ed angosciato dalla pericolosità di questa bambina. Avverte il petto privo d’aria e spera che non siano queste iridi ad avergli tolto il respiro.

Non sente l’ungherese mormorato dalla balia, ma capisce che la bambina gli viene sottratta dalle braccia. Anche se allontanata da lui, il suo sguardo interessato ed inquieto continua a poggiarsi sugli occhi della piccina. Ancora l’osserva, ancora lo scruta, come se avesse già compreso che lei stessa sarebbe diventata sovrana di quel principino. La porta si sbarra, gli occhi chiari svaniscono, ma l’angoscia del ragazzino si protrae e l’assilla anche quella notte. E tra le lenzuola sudate di terrore per il blu del cielo, prega che quella creatura non la riveda mai più. Che troppa paura l’ha avvolto con un solo sguardo, anche se tacito.

Prussia alza un sopracciglio, intrecciato il corpo nel tessuto bianco e la mano ferma sulla lancia d’argento. Volta lentamente il capo verso Polonia. Perplesso, batte le palpebre. Il ragazzo ha una luce ben diversa da quella vista con l’arma d’argento. Con la bocca schiusa piano e gli occhi affatto luciferi, Polonia ricorda e ne è incantato. Persino Toris, alla sua spalla, vede la luce gioire negli occhi verdi e china il capo piumato, come sospirando, ma non per malinconia.

Frammenti di carta vengono strappati dal vento silente. E altro colore brilla sugli squarci candidi.

Anni sono passati e il blu degli occhi della bimba è ormai carta stracciata di un passato dimenticato. Ha dimenticato quella piccina, nient’altro che un fagotto innocente e forse anche morto. Molti bambini muoiono poco dopo il parto e ha sperato tanto che la stessa sorte baciasse anche la neonata. Forse è egoismo, ma non gli importa, che l’egoismo gliel’hanno insegnato e lui non è che il loro infido discepolo. E un discepolo non può lamentarsi degli insegnamenti dei maestri, anche se falsi più di lui stesso. Allo specchio si ammira e il cuore rimane ancora muto. È stato legato per troppe volte a queste catene e non ne sente più la stretta ai polsi. Guarda il mantello rosso più del vermiglio dei soldati caduti e pensa che una sorte del genere gli è ormai fin troppo familiare. Ci si dimentica di essere incatenati, se lo sia per quasi un secolo. Ci si dimentica di soffrire, se sia l’unico sentimento che ha mai provato per tutti questi decenni. Si guarda allo specchio e la monotonia di giornate come questa non lo toccano più. È una delle tante incoronazioni a cui è costretto ad assistere e ve ne saranno ben altre come questa.

“Siete meraviglioso! Siete voi il vero sovrano!” la balia la detesta ancora, le parla ancora ben poco. È una servitrice, dovrebbe stare zitta e sbarrare i denti. La detesta, anche se i suoi occhi affermano ciò che pronuncia con tanta esaltazione e gioia. Non c’è niente per essere gioiosi. Ma lei, anche se anziana, è pur sempre un madre e una madre è stretta bene al figlio, anche se alfine Polonia non ha una goccia del suo sangue. Ma Polonia non vuole essere trattato da figlio, per questo sbuffa e rigira gli occhi. Questa botte grassa è attenta, fin troppo per lui. Nota l’atteggiamento irrispettoso e fa anche lei la cattiva “Dovreste gioire anche voi: attendevo anch’io da anni un sovrano fuorché uomo! Dovreste emozionarvi così come faccia io e tanti altri!” Polonia vorrebbe trovare un modo per farsi giustizia di lei, ma non lo trova, allora fugge dalla camera e la lascia lì, ancor più che furiosa. L’avrebbe sentita il mattino dopo, alla fine dei festeggiamenti, ben più furba e vendicatrice.

Il mantello è uno strascico pesante ed opprimente, la tunica fin troppo leggera e larga e gli anelli gettati immediatamente al suolo. Ignora gli occhi alti degli uomini e lo sconcerto delle donne. Credeva che decenni di parole potessero spezzare l’energia di un uomo, ma si è sbagliato: li ha rimproverati più volte, ma non esisterà mai un anello che potrà mai indossare. Ed infilarsi gemme femminili è fuori discussione. Disprezza questa gente solo per i loro occhi, per questo li ignora. Che gli strappino le vesti, se ne importerà ben poco. È immortale e le generazioni mutano come un alito di vento: li dimenticherà e loro dimenticheranno lui, con la morte. Anche per questo tutto ciò è poco importante.

Apre brusco le porte e, nemmeno è entrato, che già i piedi scappano al loro posto. La nobiltà si volta stupefatta ed impaziente. Gli occhi si spengono, sfugge qualche sospiro: è solo la loro Nazione. Sconfortati, più che agitati per l’emozione, ritornano a confrontarsi fra loro sulla futura sovrana della loro terra. Polonia è ignorato e vuole essere ignorato, per questo rimane vicino alle porte, in attesa che il suo compito raggiunga il termine. Non ascolta il chiacchierio della nobiltà, nemmeno vorrebbe conversare coi soldati vicini, alla guardia della sala. Ha rinunciato persino a squarciare il mantello com’aveva precedentemente ponderato di fare. È pesante, troppo pesante per lui, ma sopporta il dolore alle spalle. Sospira, infelice di essere lì e di non essere nessuno per questa gente. L’occhio vaga, in cerca di distrazione. La cappella brilla d’oro, simbolo degli antichi sovrani caduti, i vetri colorati non brillano neppure, forse anch’essi stanchi, la croce con Gesù, piangente, pare davvero riprendere a vivere e a supplicare di cessare il tormento che è anche del principe polacco. Compatisce quella croce, così come la croce compatisce lui. Gli occhi scavati del figlio di Dio bruciano di passione e lacrimano di sangue alla vista dello scempio della nobiltà e del suo dolore nascosto. La corona di spine, anche se dell’uomo crocifisso, Polonia la sente sul proprio capo, come Gesù si è sentito incoronato del sangue del suo popolo. Il ragazzino pensa di essere il principe del nulla e si sente vicino al figlio del Signore per lo stesso strazio. Anche lui ha una corona fasulla, di falso oro, di una falsa Nazione, implorante di morire. Si chiede se l’uomo alla croce, quando fu eretto sul colle assieme ad altri colpevoli, si fosse sentito preso in giro per la sua sciagura. Perché ora Polonia si sente veramente un povero fringuello, incatenato in una gabbia argentata, splendente e perfetta. Ma pur sempre una gabbia. Polonia si commuove, fa il segno della croce e ringrazia silente Dio di avergli fatto sfiorare il dolore del figlio. Perché alfine Lui ebbe il trono meritato nei Cieli e spera che un giorno ne avrà anch’egli uno per lui di vero oro e vero argento. Con una vera corona e una vera nazione.

Le porte, lente di attesa, si spalancano. Polonia fa cadere lo sguardo: per poco il mantello maledetto non si sarebbe strappato. Controlla se si sia lesionato o peggio. La balia non glielo avrebbe perdonato e lui non saprebbe ancora come vendicarsi di lei. Tacciono i nobili e la luce del mattino folgora l’intera Chiesa. Polonia non sa ancora che sia benevola questa luce, per questo la ignora. La musica si scalda e dà calore all’intera sala dell’amorevole melodia. Polonia non sa neanche che sia una musica diversa da quella che ascolta al solito, allora ignora anch’essa. L’ombra timida carezza il proprio mantello e i piedi calzati con pregiate stoffe. Sa solo che la sua sovrana è assai più piccola di quel che gran parte della corte si aspettava, per questo non se ne meraviglia. Ignora il mantello, ben poco importante ora. Alza piano il capo, lo sguardo di principe severo e occhio ricurvo. Alza gli occhi e vede blu di cielo.

La musica si ferma e anche il cuore del polacco fa ugual suono. Il gelo dell’inverno appena trascorso lo congela e penetra fin dentro le carni. Lo sguardo che avrebbe dovuto sempre mostrare pare come incenerito e dimenticato. L’occhio di demone mostra il proprio terrore e danza malamente nell’iride pallida del ragazzo. Il respiro si stringe e la gola non pretende più aria, vuole solo fuggire da questo corpo ingombrante, ma per farlo deve renderlo più leggero possibile. Ma i piedi sono marmo incastrato nei ghirigori del tappeto e si rifiutano di fuggire, anche se l’anima pretende di farlo. Con cuore fermo e il cervello strascicato dal terrore, Polonia non riesce a pensare e semplicemente non lo fa. Il blu ancora si posa sui suoi occhi luciferi e, come un demone alla vista di un angelo, il ragazzino vorrebbe fuggire. Ma ben poco può fare.

Il corpicino di bambina muove la mano prima di egli stesso. Si scuote poco, il cuore, come nel vedere fra le dita della piccina degli artigliacci di strega. Forse la melodia esiste ancora nella sala, ma non potrebbe dirlo: il cuore fa troppo baccano tra le costole spezzate dalla paura. La bambina non muta sguardo, né sbatte le palpebre, come cristallizzate, ma è la manina a muoversi ed intreccia le unghie minute fra gli spazi delle sue dita. Il cuore romba nelle orecchie del principe e pare urlargli di fuggire, di scappare da questa follia dove si è cacciato. Che lei non è una futura sovrana, ma la sua condanna. Ma non potrebbe ascoltarlo nemmeno se lo desiderasse. Allora stringe forte le dita ghiacciate e camminano assieme verso l’altare. Come Nazione e re. Come principe e principessa. Come marito e moglie. Perché è questo quello che sta facendo Polonia: sarà sposato con questa bambina, finché la morte non la strapperà dalle sue braccia. E il ragazzino vorrebbe che la figura oscura e misteriosa dell’angelo nero la porti via da lui, lontana, affinché svanisca come cenere. Ma non accade e i gradini vengono superati.

La mano non si separa dalla sua, anzi, le altre dita solitarie accolgono quelle bianche della bambina. Per quel poco che gli occhi blu lo lasciano, posandosi sulle nocche del principe, Polonia riprende il fiato che ha perso e ne è confortato. Eppure il cuore palpita ancora e rende bianche le proprie guance e leggeri i capelli color grano. Vorrebbe un vento caldo per accogliere le spalle sfibrate. Vorrebbe che Dio lo salvasse. Guarda in alto, sulla croce di suo figlio e gli prega di dargli risposte sul perché si trovi lì e sul perché questa bambina debba essere la sua sovrana e perché Elisabetta abbia voluto dannarlo invece che rincuorarlo. Dall’alto non ha risposte e allora riabbassa il capo, deluso.

Il prete li avvolge insieme, con la stoffa fresca e pura di un velo. Il respiro gli viene di nuovo negato, dovendo per forza poggiare gli occhi di nuovo su quelli della piccina. Il cielo nelle iridi è tenue dietro ai fili sottili del velo. Ne è sollevato, gli reca meno dolore l’occhio saggio e carezzevole della bambina. Dietro alla stoffa, dietro a questa barriera fasulla ma efficace, Polonia riesce a concentrarsi e la paura viene meno. La croce avvolge i due capi giovani, sopra alla stoffa leggera, ma l’oro del crocifisso non lo tocca e non lo scoraggia, nonostante sia pesante. Riesce il cuore ad essere più elastico, a non assillarlo più. Terrore ne ha, ma ora è indagatorio, scoperta la natura mite della piccina. Non vede solo blu, ma anche il nasino piccolo, infantile e tenero. Le guance tonde, i capelli fini nell’acconciatura elaborata. Non ha più paura, Polonia: è solo una bambina. Una bambina con uno sguardo ed occhi di signora e questo è insolito per lei. Insolito, ma non pericoloso. Non ha sentito una parola del prete, completamente perso ad altro. Il velo e la croce vengono tolti e la realtà riappare nitida come prima, ma non per niente mostruosa. Ora l’anima è sollevata, quella del ragazzino, avendo scoperto la curiosità invece della paura. Il cuore ha piccoli palpiti, meno energici, più persi di lui stesso. La corona grossa, viziata dei re viene retta sul capo minuto della bambina. Questa, virtuosa e non deviata, si erge per mostrarsi. Come una sovrana. Come il Re.

“Jadwiga d’Angiò è il nostro nuovo Re!” urla di gioia, chi falsa chi autentica, intonano l’intera chiesa. E petali di fiori, di ogni sfumatura e colore cadono sulla giovanissima sovrana, ancora forte dello sguardo, immutato come pietra fiera e leale. Eppure il capo volta e incontra lui, il suo debole sposo, che l’ha resa sua questo giorno. Che lei ha reso sua quel giorno. L’occhio più curioso, ma affatto immaturo, poggia la propria anima su quella sporca del biondo. Polonia si sente teso come una corda di fronte a lei, ben più piccola e pacata. La maschera che doveva indossare per tutti questi anni si è sfibrata e ora cade, dimenticata del tutto.

Prussia riconosce la bambina, causa di grandi sventure per lui. Ma, affatto meschino e vendicativo, volta il collo verso il più piccolo, per burlarsi di lui e della sua ridicola paura. Toris è girato verso comandante e lo fa tacere con gli occhiacci severi. Prussia blocca le parole, non solo per lo sguardo sprezzante del falcone o per le piume scosse dell’aquila nera, ma perché una luce così forte non ha mai visto negli occhi di Polonia. Tace e continua ad osservare la carta mutare di fronte a loro.

“Non vi vado molto a genio, Polonia” il ragazzino sente un brivido di freddo terrore a queste parole. È congelata, l’anima ribelle, che di ribellioni non ne ha più fatte. Non ne ha avuto mai l’occasione o il consenso. Volta piano il capo, Polonia ed incontra gli occhi di Jadwiga. Se n’è vergognato molto di non aver chiesto chi fosse lei, prima dell’incoronazione. Chi sarebbe stato il suo Re e di chi è figlio. Non l’ha chiesto: troppa noia, troppa pigrizia. Troppa indifferenza. Sarebbe stato uguale a tanti altri sovrani, aveva pensato giorni prima. Non avrebbe fatto differenza. Eppure, ora, questa sera, seduto su quest’erba, con questo tramonto, Polonia se ne vergogna. Inclina il capo, serioso. Cerca la maschera di principe, ma non la trova.

“Cosa glielo fa credere, Maestà?” la piccina è seduta sull’erba come lui. Che vergogna per una sovrana! Nonostante ciò pare più toccata dalle sue parole che dalla rugiada tiepida sui suoi vestiti. Inclina il capo in basso, ma gli occhi sempre fermi sui suoi, anche se spenti. Gliel’ha spenti lui, questi occhi. Ma non se ne pente. Non subito.

“Mi guardate con timore, eppure non vi ho fatto alcun male” un’altra scarica di freddo vento ghiacciato striscia veloce sotto la tunica troppo leggera del ragazzo. Il cuore tonante, lo sguardo fermo sul suo. Vorrebbe sovrastarla, questa bambina, ben più piccola di lui. Ma non ne è in grado e non potrebbe mai farlo. Perderebbe contro di lei anche se avesse un intero esercito fra le sue dita. È troppo potente, solo per gli occhi. È troppo piccina, anche se importante per il suo trono. Non volta il capo, tuttavia sente i bisbigli di sconcerto, di disgusto forse. Non sono troppo lontani dal castello, e le balconate sono spalancate per ammirare il tramonto. Il cielo rossiccio, il sole biancastro, cadente dietro agli alberi delle sue foreste, le nuvole quasi scure per l’avvento della notte. È meraviglioso, questo tramonto. Ma il gelo viene scacciato dalla schiena di Polonia. Ora è bollente come fuoco. La frustrazione per questi uomini e donne che li fissano, cattivi, crudeli, lo fa bollire nella rabbia. Vorrebbe digrignare i denti, pestare qualcosa fra i molari. Spesso ha pensato di pregare il sole di bruciare quel castello e di far vivere solo lui, per farlo fuggire e per lasciarlo sopravvivere nelle foreste. Saprebbe già come cacciare e dormire laggiù, in quei labirinti di foglie e lupi. Sarebbe felice di essere libero. Un fringuello fuggente dalla gabbia d’oro. Sarebbe il ragazzo più felice del mondo. La piccola sovrana ha gli occhi attenti e ancora scuri. Ha sbirciato dietro le loro spalle e vede ciò che Polonia detesta. Le guance sono bianche quando gli parla, quando ormai il tramonto è scomparso e le stelle cominciano a brillare dietro le nuvole.

“Credete che diventerò come loro. Credete che vi deriderei e v’ignorerei” afferma sempre, mai domanda, si rende conto il biondo. Polonia, affatto annoiato di lei, la guarda ancora. Ma gli occhi blu non lo stregano affatto. Se vi è stato un incantesimo, allora si è sciolto. Non ha paura di lei. Ora l’osserva bene. È una bambina come tante, che ha di fronte a sé un destino già scritto. E forse nell’essersi reso conto che sia uguale alle altre, lo rende triste. Preferirebbe temerla ancora, come ha fatto quand’era una neonata, come ha fatto quand’era in quella chiesa e l’ha rivista. Quando i suoi occhi sembravano celestiali e pericolosi. Ora sono solo delle pupille blu, affatto diverse da altri occhi chiari che ha visto in passato. Si sente sconfortato. Però, anche se come tante altre bambine, gli occhi di questa sovrana sono adulti e saggi. Sono seri e pacati. Sono virtuosi e forti. Questo lo ha meravigliato la prima volta che la vide, ora ricorda. Non è affatto uguale ad altre fanciulle, infantili ed ignoranti. Lei lo guarda ancora e pare interessarsi di lui. Polonia spera che non possa mai stancarsi del suo animo di demone. Spera che continui ad affermare il vero e mai a chiedergli. Si sente dispiaciuto per averle poggiato malamente l’occhio su di sé. Si vorrebbe scusare, non è da lui fare questo.

“Non l’ho neppure pensato, Maestà” il turchese nelle iridi pare bruciare e scongiurare di non diventare cenere. Ha alzato di nuovo gli occhi su di sé e ora brillano, spezzati. Non gli crede, nemmeno una parola. Ma non pronuncia i suoi pensieri, fin da ora sapiente e serena. Polonia arrossisce di vergogna, non sapendo più cosa fare. E il rossore pare toccare anche la propria schiena che, pentita, cade in basso. Il naso vorrebbe sfiorare i ciuffi verdi d’erba, tanto si sente mortificato. Per la prima volta dopo anni si pente di aver offeso una persona. Si pente di non aver compreso che questi sono occhi d’angelo: vedono ogni cosa che ha in cuore, anche nel suo, cuore di demone. Pensa che forse dovrebbe allontanarsi, ha già dato fin troppo peso con la sua presenza. Come sempre. Ma in passato non ne voleva sapere di accettarlo. Rialza il capo e crede veramente di alzarsi. La bambina alza il mento grigio al cielo, sopra i picchi di foglie degli alberi, come concentrata. Il blu ritorna in vita.

“Credo di averti già visto. Forse molti anni fa, ma ti ho già visto” uno scatto, solo uno scatto ha il corpo del ragazzino, ma lo trattiene con tutta la sua forza. Il volto, però, dimentica come sia fatta la maschera che sta cercando da tempo. Il verde smeraldino è cadente, vergognato di trovarsi vicino a lei. Di poterla guardare così da vicino.

“D-Davvero?” chiede, la voce minuta, più infantile di questa piccina. La veste color oro fa brillare i capelli del medesimo colore della pietra aurea. Il cuore impazzisce, come scoperto un segreto di anni. E il desiderio di nascondersi è forte. Ma non vuole, non ancora. È pur sempre un ragazzo e un ragazzo è un garbuglio d’ingenua curiosità. È curioso, Polonia, della sua sovrana. E a malapena ricorda che gli ha dato del tu. Come un fratello. Come un marito amato. Eppure non è nulla di tutto questo, l’infantile principe polacco.

“Ricordo sempre strani sogni. In uno ci sono occhi come i tuoi, Polska” ancora novità, ancora qualcosa di mai sentito prima d’ora. Nessuno l’ha mai chiamato così amorevolmente. Ma il pensiero è ben più lontano, ben più impaziente. Chiamati in causa, come accusati di un omicidio mai commesso, i propri cristalli verdi cadono, tentano di celarsi, ma non ci riescono. Anche un cieco li vedrebbe. Due occhi così cattivi e crudeli li vedrebbe e li disprezzerebbe qualsiasi buon uomo. Ma la bambina cattura nel suo cielo il verde delle gemme e lo culla tra i pezzetti di nubi, incastrati nell’iride colorata. È meravigliato, Polonia, ma non felice. Forse terrorizzato.

“Occhi, bimba…?” altro di nuovo, altro d’insolito. Non avrebbe mai osato parlare in questo modo ad un sovrano. Se i suoi maestri lo sentissero, prenderebbero il bastone e lo costringerebbero a chiedere perdono col capo sul marmo. Sa bene cosa gli farebbero. Madre mia, ha detto ad Elisabetta, per ringraziarla, per averlo baciato e cullato, quando dimostrava ancora pochi anni. Le è stato grato e l’ha baciata anch’egli. Nessuno ha mai fatto questo per lui. Ma è stato visto, è girata la parola e ha avuto la punizione. Elisabetta non l’ha saputo. Gliene ha parlato quand’ebbe Maria, la sua prima bambina. Gliel’era sfuggito dalle labbra e lei voleva punire i colpevoli. Non era possibile, troppo tardi: già morti, già mangiati dai vermi della terra. Ma nessuno ora lo sta ascoltando e non si pente delle sue parole. Questa annuisce, per la prima volta pare più bambina.

“Sì, erano verdi come i tuoi, tagliati come un buon demone”

“Un demone non è buono, Jadwiga” le sorride, sinceramente grato della nuova scoperta: è pur sempre una bambina, assai saggia, ma pur sempre una bambina. I bambini sono ingenui e ben poco sanno della realtà. Non conoscono nemmeno la ferocia di un demone. Un demone come lui. La piccina lo guarda, le guance più tonde e i capelli un arruffamento di boccoli lucenti. Le stelle la illuminano e la desiderano anch’essa come propria maestà. Non apre bocca, ma ha un lieve sorriso. E basta questo per controbatterlo, a non credergli. Al ragazzino muore il volto lieto, come colpito da un fulmine. E il brivido elettrico lo fa tremare e lo paralizza. È pazza, questa. Una pazza molto buona. Le guance più pallide per il freddo, ma lo ignora, poco importante. Il cuore un lieve palpito innocente. Polonia si stende e i capelli si macchiano di rugiada. Jadwiga lo imita, il capo cadente e gli occhi specchio di stelle turchesi. In silenzio, per nulla ignorato, Polonia si sente stranamente in pace ora.

“Nel mio sogno mi sentivo in trappola. Era tutto, tutto buio e a malapena riuscivo a concentrarmi. Pensavo di essere bloccata, e infatti non riuscivo a muovermi. Ma poi aprii gli occhi e ho visto solo verde” Polonia fa un respiro molto più profondo e attende che il cuore fermi i palpiti fin troppo prepotenti. Eppure non è paura, la sua nuova malattia “Non vedevo nient’altro e a me sembrava di non guardare nient’altro di più bello. Ne ero incantata. Volevo capire se fossero veri occhi quelli che vedevo e se potessi in qualche modo non allontanarli da me. Ho alzato la mia mano e presi la guancia del fanciullo. Per me lui era un fanciullo e io una bimba ancora troppo piccola per camminare. Ma presi la guancia e sperai almeno che potesse baciarmi la mano, perché è così che si suggella l’amore, così mi ha raccontato mia madre. Ma il mio sogno si conclude sempre così, anche se ora ho risposte di tutto questo” sembra riprendere fiato, fermarsi e attendere di avere aria alla gola. Polonia non ha fretta, il cuore ancora troppo estasiato, gli occhi umidi “Era solo un sogno… Non ho mai visto quegli occhi e gli ho immaginati” la voce ancora più fine, la rugiada increspata fra i capelli di entrambi “Mi è dispiaciuto veramente tanto scoprirlo… Erano veramente belli…” e tace, forse esausta.

Ha occhi umidi, guance pallide e fredde, vento troppo severo, capelli impregnati di lacrime d’erba verde. Il naso vorrebbe gocciolare, ma glielo impedisce. Non può mostrarsi piangente di fronte a lei, anche se piccina. Sente il cuore spezzato, tranciato in due. Ma è ridicolo: non è triste, non è stato nemmeno distrutto e schiacciato. È felice. Per la prima volta dopo anni si sente veramente felice. E non comprende il motivo delle sue lacrime, terribilmente infantili. Maldestro, detestandosi, tira su il naso, deglutisce bile e saliva, acerba come sangue malato, e si strofina gli occhi con troppa forza. Ma così ferma i tremiti e le altre gocce del suo pianto. Si sente felice, eppure si sente così male… Forse non è più abituato alla felicità e provarla di nuovo gli procura ora fastidio e dolore. Il corpo umano è come una grande e complessa macchina, in continuo movimento, anche in emozioni. Come ogni congegno, se un meccanismo non viene utilizzato per un buon periodo di tempo, questo si arrugginisce e forse si rovina. E riutilizzare lo stesso procedimento, distrutto dal tempo, compromette l’intero circolo e rischia di frantumare bulloni e motori.

Per nulla calmo, decide di rivelare il sogno alla piccina. Alza piano il petto e già vorrebbe parlare, ma si blocca. Jadwiga dorme cullata dal vento notturno, carezzata dalle stelle della sera. È dolce ed infantile, con le guance tonde, le manine rivolte allo scuro manto della notte e i capelli abbandonati alle premure degli steli d’erba. Se ne innamora, il piccolo Polonia. Se ne innamora e ne soffre, non potendo il suo amore essere mai ricambiato. Spera che un giorno possa amarlo come lui ora ama lei. Lo spera tanto. Bacia il palmo aperto della sua mano, come lei desiderava ogni notte e chiede a Dio di darle in sogno lui stesso, di avere nei suoi pensieri i suoi occhi che nessun altro ha mai apprezzato fino ad ora. Spinge il corpo vicino al suo e, per la prima volta nella sua vita, veglia il sonno di un suo Re.

Anni e stagioni sono passati. Polonia non ha più contato le primavere e gli inverni trascorsi insieme a Jadwiga. L’ha fatto per breve tempo, fino a quando altri sovrani desideravano la propria bambina. Passarono solo tre stagioni prima che il Granducato di Lituania si presentò insieme al proprio sovrano, per avere Jadwiga. L’avrebbe persa per sempre, aveva pensato. E si era comportato come un bambino, Polonia, perché non voleva perdere l’unica fanciulla che amava veramente. Ma ha dovuto accettare la richiesta: diecimila persone erano contro di lui. La corte lo desiderava. Elisabetta lo desiderava. Allora ingoiò il malore e tentò di accettarlo. Jadwiga era la sposa di Jogaila e lui non poteva fare molto. Ma la medicina amara passò veloce ed indolore nello stomaco: Jadwiga gli parlava ancora, gli sorrideva come prima che il suo regno diventò più grande e forte. Non l’aveva persa, non come la fanciulla senza nome che l’aveva accudito. Era ancora sua. Ma guardava il granduca col mento alto e lo sguardo truce: il matrimonio è utile solo per portare tanto male. Polonia lo sa per esperienza ed era certo che la sventura avrebbe indicato con la sua mano aguzza anche Jadwiga. E lo fece. E lui non fece nulla, non poteva fare nulla.

Entra nella camera, timido come mai ha fatto. Ha dolore e ricordi. Elisabetta è morta anni prima, ma gli ha lasciato il disagio del parto e la cruda realtà del dolore. Anche la sua sovrana ha dovuto subire questa punizione di Dio, per un delitto che non ha mai commesso. Ogni donna deve subire tutto questo per l’egoismo del proprio uomo. Nelle ore precedenti, coi lamenti di Jadwiga dietro alle mura scure, aveva meditato di farsi assassino di Jogaila, maledetto cane come tanti altri mariti. Non poteva un dolore del genere stracciarle il suo grembo. Non poteva il Signore essere così insensibile con una creatura anche sua. Non poteva e basta.

Storce il naso: stesso odore malsano, stessa aria chiusa, stessa donna gettata in quel pantano. Prima di qualsiasi altro servo spalanca le finestre e la pioggia scroscia dentro. L’aria fredda sferza la propria ira addosso alla pietra sotto ai suoi piedi. Entra un po’ di luce e spera che lei stia bene. Stessa pelle bianca. Stessi segni scuri sotto agli occhi. Stesse palpebre senza vita. Il dolore rende uguale qualsiasi uomo o donna. È una triste verità: persino la sua sovrana ha lo stesso volto di qualsiasi altra donna che abbia mai visto. È identica a sua madre ora, Jadwiga, e Polonia non sa se esserne felice o amareggiato. Lo stomaco ha un tormento di sensazioni. Poggia le ginocchia sulla pietra e i gomiti sul letto. È ancora piccolo e gracile, il ragazzino, ma dopo anni solo ora se ne rende conto. Jadwiga è brava a far dimenticare la vergogna di sé stessi.

“Polska, sei qui!” mormora lei, con gli occhi spenti e le labbra troppo fini. La morte le ha strappato gli occhi e rubato il turchese. L’anima si muove tenue, incatenata ad un corpo morto. Polonia vorrebbe piangere, anche ora che si trova vicino a lei. È persino cresciuta più di lui, la dolce Jadwiga, lui incapace di trattenere fra le dita una spada. Lo chiama ancora per nomignoli, tanto è buona. Basta poco per farlo rendere bambino, il piccolo Polonia. Sorella e moglie amata, piange in silenzio, che ha sentito gli altri crudeli della corte, malvagi ma veritieri. Il parto è dolore. Il parto è sangue. Il parto è morte. E nessuno l’ha voluto consolare mai, l’innocente Polonia. L’ha reso lei innocente e di questo ne è grata anche la più minuta delle sue ossa. Polonia dà la colpa del suo dolore allo sposo ingrato, il grande Jogaila, che lui l’ha maledetta e ha maledetto anche lui. Che la ama. Un amore ben più maturo del suo precedente, con la fanciulla senza nome. E sussurra ora in mente sua: che tu possa morire agli Inferi, Jogaila! Che Dio, che non hai mai conosciuto veramente, possa fulminarti! Jadwiga non lo sente, le orecchie per metà sorde. Il dolore porta anche alla mancanza. Non sente nemmeno il proprio grembo, che il bambino ha rifiutato di nascere. Ha perso anche parte della vista, la sventurata, pura sovrana. Appunto, non vede le lacrime di Polonia “Dov’è mia figlia?” le scosse più forti, i tormenti nell’animo, ma la voce forte, sprezzante del destino spietato.

“E’ morta!” urla e forse solo ora Jadwiga sussulta, in tutta la sua vita piena di luce e di Dio “Elisabetta Bonifacia è morta! E tu hai dato la tua vita per una creatura ingrata!” vergognoso per le sue parole sdegnose e agitate, fa spezzare il proprio collo e sbatte forte la testa sulle coperte. Bianche, vergini di purezza, si macchiano delle sue lacrime. Geme forte, arrabbiato, Polonia, che un destino così crudele non è voluto nemmeno al più infimo degli uomini. Nemmeno ad un piccolo demone, che in vita sua ha fatto poco che niente di male. Ora odia lo sposo della sua sovrana, anche se mai gli ha rivolto la parola e mai lo farà. Non vorrà più guardarlo in volto, non vorrà più mangiare alla sua stessa tavola. Non dopo ciò che gli ha fatto. Non dopo averle strappato via la sua amata. Con fatica alza il volto e l’anima sobbalza ancora. Fa fatica, anche a guardare Jadwiga. Il suo volto morto gli fa urlare il cuore per la frustrazione. Doveva impedire quel matrimonio. Doveva, ma non l’ha fatto e ora ne paga le conseguenze “Jadwiga… non andartene…”.

Meraviglia. Occhi sbarrati e commossi. Credeva che le forze per parlare fossero poche. Ma s’è alzata, con forza di santa. Ha alzato anche le braccia e gliele avvolge attorno. Ha calore, Polonia. Quel calore di donna, di amore che raramente ha mai provato. E ora la ama veramente, il ragazzino. La ama come si ama una sposa. Avrebbe voluto sposarla lui, come un qualsiasi uomo. Come un qualsiasi umano. Si è trovato la sfortuna deridente di lui, ogni giorno della sua vita. Ha creduto che l’avesse abbandonato, la crudele megera, quando quella sera fu incoronata la sua sovrana. Ha creduto che la vita potesse sorridergli ancora e che potesse tenerlo abbracciato nel proprio grembo. È stato tutto falso. È stato preso in giro di nuovo. E anche se lei ora lo tiene stretto, Polonia piange ancora. Si sente un bambino, strappata via la madre morente. Se ne vergogna, ma non riesce neppure a fermarsi “Devi essere forte, piccolo. Veglierò su di te da lassù. Te lo prometto, Polska” e l’abbraccio pare meno energico, anche se disperato.

La stringe lei. I gemiti più prepotenti. Le lacrime instancabili fiumi. L’anima strascicata dal destino brutale. Immagina la megera ridere di lui, della sfortuna che lei stessa gli ha causato sin dalla nascita, chiuso in quel castello di adulti. Così in trappola non si era mai sentito, l’ingenuo Polonia, che un peccato del genere non doveva mai ricevere. Straziato dall’interno delle carni, tranciato, sofferente, Polonia libera il volto dalla spalla debole della donna. L’urlo è forte, allarma le donne raccolte fuori dalla camera. Stretto al corpo morto di Jadwiga, Polonia urla, finchè la gola non si strappa e le grida non si stringono per il dolore. Brucia, la gola del ragazzino. Grida l’anima sofferente. Jadwiga è spirata nel suo abbraccio e a nessuno pare importare della sua angoscia.

La donna che ha amato è morta e nessuno lo consola o lo ascolta, perenne fantasma fra queste mura di carta.

Ha osservato portare in città, a Cracovia, il corpo della sua sposa. Ora è solo e non desidera altro che solitudine. Sul prato verde, senza fiori, bagnato dalla pioggia insistente, Polonia vuole lasciarsi morire da solo. Chiunque lo desidererebbe, ma quei pazzi hanno creduto il contrario. Ha rifiutato più volte di seguirli e di portare via Jadwiga insieme a loro. Gli ha minacciati, ha mortificato le donne e scocciato gli uomini. Se un altro di loro avesse aperto bocca, aveva detto, lo avrebbe appeso a testa in giù in cima alla torre, fino a quando la morte non lo avrebbe strappato dal supplizio. E più nessuno più si sarebbe ricordato di lui. Nessuno gli ha creduto. Un bambino viziato dev’essere solo ignorato. Così fecero e se ne andarono lontano da lui. Il funerale sarà celebrato in città, ma non vuole parteciparvi, né osservarlo.

Un altro tuono romba nel cielo scuro. È mattino, eppure fa così freddo… La pioggia è come un bagno ghiacciato sulla sua pelle. Anche Dio piange la morte della sua signora, nonostante le abbia dato la morte. Un essere supremo, ma ipocrita, non lo vorrebbe mai conoscere. Avrebbe dovuto lasciargliela. L’avrebbe resa felice fino alla vecchiaia. Sarebbe stato più paziente e meno lacrimevole, se l’avesse portata ai suoi angeli da anziana e saggia. Avrebbe vissuto una lunga vita, avrebbe dato a quell’ingrato marito altri figli, solo per accontentarlo. L’avrebbe fatta ridere e vivere i suoi anni. Pensa veramente di odiare Dio. Un individuo così spietato non dovrebbe nemmeno esistere. Forse l’infelice Lucifero è un re ben più buono, forse spodestato non per sua superbia, ma per sua generosità. Polonia ci crede veramente e, guardando attraverso la pioggia, attraverso gli spari veloci dei fulmini, osserva il cielo. L’occhio fin dalla sera prima era scuro, ora brilla di vendetta che non avrà mai. Non potrà vendicarsi di Dio, ma può disprezzarlo. Le gocce gelate gli appannano la vista, ma si fa coraggio e guarda ciò che non dovrebbe guardare. Crede che Dio sia proprio lì, ad osservarlo e, con falsa misericordia, lo compatisce. Ha lo sguardo di un demone, Polonia, e lo riserva solo al suo persecutore. Odia Dio e spera che venga tradito una seconda volta dai suoi angeli, per distruggerlo del tutto. Per eliminare questo inganno.

Per poco la sua vista si oscura. Rizza la schiena, terrorizzato che i suoi pensieri possano essere stati dannosi per lui. È solo un mantello, lanciatogli sulle spalle e sui capelli infradiciati. È ancora caldo e morbido, mai toccato dalla pioggia. Più irritato che grato, volta il capo. Aveva creduto che nessuno ci fosse al castello, tutti presi dalla marcia verso la chiesa. Eppure qualcuno è rimasto, meno che le guardie. E’ Lituania, solo lui, eppure maledettamente fastidioso. Il suo sguardo compassionevole e il suo sorriso puerile fanno agitare il fuoco in lui. Potrebbe fulminarlo, se potesse. Non ha mai parlato col ragazzino, meno che la prima volta che si incontrarono, più di dieci anni prima. Aveva Jadwiga, non aveva bisogno di nient’altro. E già detestava Jogaila, quindi la sua Nazione doveva essere ugualmente cinica. Ma Lituania è solo un ragazzino, rimasto lì per malinconia. Ha visto la Nazione infelice e ha voluto dargli conforto. Ma Polonia fa stridere i denti.

“Vattene! Non ti voglio vedere mai più!” non ne ha mai avuta di compassione, e non ne vuole avere. Soprattutto da un lituano che, è certo, sia stato la causa di tutti i suoi mali. Maledice qualsiasi cosa, il ragazzino, ma perché non riesce ad incolpare sé stesso.

Lituania si trova il mantello rigettatogli addosso, come uno straccio. È il suo mantello preferito e ha pensato che l’altro ne avesse bisogno. L’ha osservato per vari minuti sotto la pioggia, a bestemmiare in silenzio contro il cielo, con gli occhi che paiono lame incandescenti, lasciate per giorni sul fuoco per cuocere la propria ira. Ha uno sguardo mortificato, il piccolo Lituania. Si sente in colpa per un misfatto mai compiuto. Anche lui ora è zuppo di pioggia, i capelli un panno infangato in uno sporco fiume. Deglutisce ed indietreggia: gli occhi furibondi di Polonia sembrano veramente pericolosi. È solo un ragazzino, ancora pagano nel cuore, e ha sentito spesso di certi demoni che si nascondono nei corpi della gente, per abitarci e nutrirsi del loro odio. Lituania crede molto a questa storia, ma vuole comunque scacciare quel presagio di malvagità in Polonia. Un po’ più coraggioso, decide di avvicinarsi. Il biondo, imbizzarrito, adirato, desideroso solo di solitudine, lo colpisce. Non ha mai colpito una persona in vita sua e non ha mai creduto che potesse fargli così male il pugno.

Lituania cade a terra, infangato ancor di più e col cuore spezzato. Non voleva essere colpito. Fa male, ma non è il dolore che conosce già, diventato un piccolo cavaliere. Coraggioso, piccolo Lituania, alza la fronte e gli occhi blu s’incastrano in quelli del demone. Piange, Polonia, anche se non ha mai conosciuto Lituania non ha mai voluto fargli del male. Credeva di non esserne in grado. Si ricrede. Lo guarda piano negli occhi infranti. Anche questi sono occhi chiari, azzurri di infanzia orgogliosa. Lituania è un’anima felice, lui non lo è mai stato. Tira su il naso e il dolore del lituano passa del tutto sul suo cuore. Fa ancora più male colpire qualcuno. A Jadwiga non sarebbe piaciuto il suo comportamento. Ma non vuole essere più maledetto da occhi azzurri. Mai più da quelli dolci della fanciulla senza nome, né da quelli profondi di Jadwiga, né da questi ingenui di Lituania. L’istinto gli sussurra di odiarlo ancora di più.

Uno spasmo di dolore lo percuote e fa vibrare tutto il suo corpo, ben più gracile di quello di Lituania “Devi morire” la voce annullata, quasi incomprensibile. Ma il moretto comprende e deglutisce, impaurito “Per colpa tua è morta Jadwiga. Non ti perdonerò mai” la pioggia nasconde malamente il proprio dolore, ma riesce nell’intento, anche se con poca efficacia. Ma Lituania sa già che Polonia piange, quindi è tutto inutile. E il cuore fa così male… Trascina i piedi lontano da quel piccolo traditore. Non aveva dato alcuna fiducia in lui, ma fa comunque male l’assassinio della propria amata. Non vuole più incontrare nessuno. Veramente vuole stare da solo a compatirsi da sé, che nessuno mai lo farà più. Vorrebbe che Krewo sia distrutta solo per il Trattato che ha dovuto firmare. Morirebbe parte di sé stesso, ma non gli importerebbe affatto. Avrebbe ancora Jadwiga e questo basterebbe per lui. Entra nello scuro, perfido castello e s’accascia al proprio letto. Butta via i vestiti. Piange altre lacrime che non è riuscito a piangere.

Polonia ragazzo vede il ricordo spezzettarsi ancora una volta e svanire, frantumarsi nell’aria infinita di questo spazio bianco. Crede di aver rivissuto anni ed anni di nuovo dentro le proprie carni. Anche ora ha occhi lucidi, ma si rifiuta di nasconderli. Non è più un principe, non ha più un onore. La coperta cade alfine addosso al biondo e anche il calore di Prussia riscalda le sue spalle. Questo è statua, questo è marmo. Il comandante ha nell’anima un garbuglio di sensazioni che non potrebbe mai spiegare. Si volta solo per guardare Polonia. Il vermiglio è un lago di fuoco liquido. Non è qualcosa che potrebbe mai vedere in Prussia. Il comandante fa cadere la lancia, fra le dita rimane solo il nastro scuro, forse dimenticato nell’affanno dei ricordi. Entrambi guardano l’ultimo oggetto rimasto, ma solo il più grande chiede con lo sguardo il consenso. Polonia annuisce, non per curiosità. Vuole dannarsi fino in fondo. Vuole ricordare fino in fondo. Prussia si muove dietro di lui. Cauto, preciso, anomalo per lui, gli lega i capelli col tessuto nero. Anche Polonia lascia cadere dalle spalle la coperta. Alza gli occhi al cielo e un frammento di anima vola insieme ai suoi occhi.

La carta muta ancora, fin troppo brusca per le due anime dannate.

 

 

 

 

 

Ogni suono si è annullato. È come trovarsi nella foresta notturna, senza fischi di uccelli, né passetti di animali. L’orecchio è diventato sordo, come quello di Jadwiga, prima di morire. Il cuore, dopo ore di pianto, si è spezzato ancora e batte piano, solo il necessario per dargli ossigeno nelle vene. E lo compatisce, Polonia, perché non ne può più di ascoltarlo nel silenzio del proprio dolore. Sente il viso tirare per il sale delle lacrime, i capelli ancora umidi per la pioggia di questa mattina, le iridi pulsanti di un rosso esausto. Si sente stanco, ha voglia di dormire, ma non ci riesce.

Schiude le labbra e l’aria ghiacciata esce fuori in una nuvoletta color neve. L’osserva riscaldarsi, toccare l’aria calda della sua stanza e svanire, come il sogno di fuggire da questo posto. Anche l’odio di stare tra queste quattro mura è scomparso. Il cervello si è annullato del tutto, il cuore spezzato non vuole ricucire la propria ferita.

Debole, ancora stanco per il pianto, si alza. I piedi spogli, umidi, toccano il grigio della pietra. È fredda, ma per il ragazzino è tiepida veste di lana. Anche lo stomaco stringe, senza una briciola di pane all’interno, svuotato e disidratato. D’istinto poggia una mano lì e il tocco assente viaggia anche sul fianco liscio. Debole, gracile, magro. Troppo magro. A loro non è mai piaciuto che lui fosse magro. Volevano un cavaliere e un cavaliere dev’essere robusto. Per questo l’hanno fatto principe, per disperazione. Il ricordo fa male. Il cuore ha un’altra crepa.

Fa dei passi nel buio, il corpicino minuto viene riflesso nello specchio. Ha occhi fiacchi, annoiati, ma una noia diversa da quella che conosce da anni. È una noia più triste e asfissiata. Si guarda allo specchio e non si piace. Non si è mai piaciuto. Sin da piccolo aveva adottato l’idea della corte. Un ragazzo troppo scarno ed ossuto è meno che una donna. Ricorda che qualche suo falso coetaneo gli aveva riso. Pensavo fossi una fanciulla!, credeva che fosse divertente. Non lo era affatto. Qualche decennio fa si era tagliato i capelli e l’effetto era medesimo. Forse anche più orribile. Un ragazzo malato e addolorato, avevano pensato che fosse. Non gli ha tagliati più da quel giorno. Gli occhi curvi e seccati di quelle persone lo assillarono per anni. Lo fanno ancora, ma ora per la nobiltà è solo un fantasma. E un fantasma non lo si vede, invisibile. Un’altra crepa, più profonda, trafigge il cuore.

Scalzo, col petto nudo ed infreddolito e i capelli disfatti dalla pioggia, esce fuori. Fa ancora più freddo, ma anche questo per Polonia è un falso calore. Non ne ha avuto più bisogno. Il castello è ancora vuoto, nota. C’è solo lui là dentro, a piangere. Devono essere fuggiti veloci dal funerale e rimasti in città per giocare e spendere danari, immagina. Nessuno in questo castello ha mai guardato la bella Jadwiga come l’ha guardata lui. Era bellissima, ma una bellezza attribuita all’anima. Virtù e Dio erano i suoi comandamenti e li rispettava ogni giorno ed ogni ora. Riusciva veramente a disprezzare le altre fanciulle in questa gabbia, se guardava prima la sua sposa. E mai si è tanto sentito onorato Polonia nel comprendere che lei fosse nata per stare insieme a lui. E forse lui era nato per seguirla e proteggerla. Per essere suo cavaliere e lei suo Re. Per la prima volta considerò qualcheduno suo Re. Due crepe, altre due spaccano le arterie.

La grande, inutile sala da pranzo è dimora di fantasmi. Fa ancora più freddo. Il corpo glielo fa notare, ma lui lo ignora. Ricorda dove Jadwiga era solita sedersi e lui affianco a lei, il posto dello sposo. E aveva riso in faccia agli altri che non comprendevano che lei e lui erano come coniugi. Polonia aveva il diritto di sedersi affianco a lei. Forse era l’unica, dopo sua madre, la premurosa Elisabetta, ad indurlo a mangiare. La pace durò solo un anno, dopo che Jogaila si unì a lei. Si sentì tradito. Non dalla piccola sovrana, anche la sua bambina non poteva decidere il proprio destino, ma dalla corte, che desiderava un’unione per lei, per essere più forte. Per avere un trono ricolmo d’oro e avorio. Sfiora il legno del suo vecchio posto. Il sedile è levigato male, rovinato dalla statura e dal peso di Jogaila. L’aveva sin dal principio odiato, il Granduca. Non era sua, era lui lo sposo. Non doveva e non poteva tenerla stretta con sé, indegno. Ma la chiesa desiderava il loro vero matrimonio e le due corone unite. Ha odiato anche loro, che gliela stavano portando via. Eppure… eppure non le hanno fatto dimenticare di lui. La vedeva sempre, prima bambina, poi sua coetanea, poi ancora ragazza e alfine giovane donna. Era sempre la sua luna e Polonia si era promesso di essere il suo cielo, di cingerla sempre quando chiedeva di lui, di proteggerla quando era minacciata. L’aveva giurato, Polonia, ma il giuramento l’ha spezzato con le sue stesse mani. La mano poggia le dita sul posto di Jadwiga. Carezza il suo fantasma, sorridente a lui. Eppure ha fallito, anche se l’amava tanto, più di sé stesso. Una vena si buca e il sangue fatica a raggiungere il cuore.

La stanza di Jadwiga, dove tempo prima dormiva, dove ha partorito e dov’è spirata, pare mai abitata prima. Deglutisce e i polmoni tagliano piano la carne. Si riempiono d’aria, ma non la catturano, né l’usufruiscono. Sono inutili, proprio come lui. Il letto bianco, il profumo di carta e gelsomini dal fondo della camera, i fuochi spenti, lo specchio coperto da un lenzuolo nero. Respira più morte qui che in altro luogo del castello. Piano, malinconico, il corpo stanco s’accascia alla lana. Sente il morbido della coperta e il profumo mutato della sua bambina. Profumava di bosco, Jadwiga, come tornata da una passeggiata nel verde. Profumava di fiori, di mirtilli e di lamponi. Era buono, il profumo della sua sposa, dolce anche nella pelle che talvolta, per scherzo e gioco, gliela baciava. E mai aveva toccato le labbra e ora come ora rimpiange di non averle mai assaggiate. Le desiderava quando era cresciuta e dimostrava la sua età. Stava diventando una piccola donna e la desiderava al tempo più per gli abbracci che per i giochi. Stava maturando anche lui, l’amore che sentiva per lei era vero come l’amore per lei verso Dio. Lo stesso che l’ha portata via da lui. Ma ora non si può fare più nulla e Polonia non sa più per quale motivo vivere. Il corpo e la mente, annullati dall’infelicità e dalla consapevolezza, si rendono conto di non poterne più della vita.

S’alza, il passo forse un poco più certo e meno debole. La stessa finestra che prima aveva aperto per dare aria a Jadwiga, spalanca. Il vento, la pioggia, con la porta aperta, pare che vogliano spingerlo al di fuori. Non entra dentro, non pretende di vedere la morte anch’egli, il vento. Piuttosto lo afferra e le braccia ancor più gracili di quelle di Polonia lo vorrebbero veder cadere, abbracciato al proprio collo ghiacciato. Il biondo si lascia cullare e i soffi d’aria gli carezzano il viso, portano lontani le gocce di pioggia, sapendo già di essere odiati dal principino. Ragazzaccio malizioso è il vento, lo stesso che l’ha fatto nascere e portare su quella collinetta, nella foresta di mirtilli. Si alza sul gradino, il povero ragazzino, si trattiene per poco. Pare che il vento lo acclami, trattenendolo più a sé e lo solleciti. Buttati, Polonia!, urla il ragazzaccio ridente, Buttati, che la tua amata ti aspetta! Ma Jadwiga è sul trono di Dio e lui non vuole vedere quell’essere. Rinuncerebbe di vederlo. Piuttosto diventerebbe un demone, un vero demone. Sarebbe cavaliere di Satana, ubbidendo ai suoi ordini. Sarebbe il suo braccio, il suo servitore più fedele, per aiutarlo, per servirlo nell’eternità. Per spodestare quel pazzo e crudele Signore dei Cieli. Attaccherebbe il suo Paradiso e liberebbe ogni anima affatto felice di essere stata condannata all’Inferno. Avrebbe di nuovo Jadwiga e lì sarebbero sposi. Dio non potrebbe dire altro per impedirglielo. Il vento, impaziente più che mai, quasi lo spinge lui stesso. E Polonia non vuole più farsi pregare.

“Polonia, che fai?” sobbalza con prepotenza, ma non cade. Il mondo si è rigirato. Il vento non è più ragazzaccio gioioso, ma solo aria viziata, la pioggia non è più mare di lame di ghiaccio su di lui. Lì nei cieli non c’è più Dio ad osservarlo, nel sfidarlo con lo sguardo. Polonia, che prima si sentiva ad un passo dal vento, ora ha i piedi conficcati nel legno della finestra. Il cuore è l’unico che riprende vita, l’unico che ritorna regolare. I polmoni ancora impigliati fra loro, il respiro estinto, aria ghiacciata su di lui. Ora lo sente chiaramente, il freddo della notte, che mai l’ha voluto perdonare per i suoi pensieri. Rimane ancora fermo lì, a guardare l’altezza sotto di sé, anche se i passi si sono fermati dietro la propria schiena. Forse impallidisce ancor di più, preso da un sentimento ben diverso.

Questa stessa persona lo afferra e gli stringe le mani al petto. Le ossa di questo tremano, differenti da lui, paralizzato anche nella parola. È forte, questa persona: riesce a trattenerlo e a portarlo gentilmente dentro, al caldo. Polonia guarda ancora fuori, il vento non lo chiama più, è stato solo un miraggio. Non vorrebbe voltarsi, ma questa stessa mano calma ma tremante chiede piano la sua attenzione. L’occhio, quasi costretto, s’inclina verso l’alto. Lituania si è asciugato, i vestiti cambiati, i capelli ora stretti in un nastro nero. Intuisce chiaramente che è un nastro: non ha il coraggio di sfiorare gli occhi del ragazzino, più alto di lui, con uno sguardo probabilmente incredulo per il suo gesto. Lo assale la vergogna, eppure le guance sono ancora troppo bianche. Non lo vede, ma lo sente: Lituania trema ancora, scosso, ma alza il sorriso.

“Dai, su, vieni con me” esclama, la voce scossa che con fatica cerca di essere calma e forse ilare. È la prima volta che gli dà del tu “Sei tutto sporco. Se il Granduca ti vede così ti azzanna!” Polonia guarda ancora in basso. Le mani del moretto sono salde ai suoi polsi. Li stringe forte, solidi. Preme le palme e le poggia a sé, al suo cuore. Sotto la maglia leggera, il principino ne sente il battito, un continuo martellare di tamburi. È teso e sussultante il povero, piccolo cavaliere lituano. Gli ha fatto paura, eppure sorride. Gli sorride, come per nascondere la verità. Sa benissimo cosa voleva fare e Polonia comprende tutto. Non tenta nemmeno di liberarsi dalla stretta. Non vuole nemmeno pensarci. Ha così sonno che potrebbe morirgli addosso “Questa volta ti faccio io il bagno, va bene?” non risponde e Lituania non si aspettava una risposta.

Ora sente suoni e odori, quelli che prima l’avevano abbandonato. Il cantuccio di legno è pieno d’acqua, forse fin troppo per lui, sottile come un giunco. Ma sente il caldo e il vapore, allora non gli importa. Le mani di Lituania sono più gentili di quel che credeva. Credeva che un cavaliere, soprattutto se lituano, non conoscesse la bontà. Sbagliava, sbagliava assai. E si vergogna anche di questo. Lo sta gestendo come una bambola e lo muove come un burattino. A malapena sente la compassione e l’agitazione del ragazzino. A Lituania importa di lui, ma lui non lo comprende. Sente di far male, sa bene di fare male. Ma pensa solo a Jadwiga e forse nessun altro è in grado di comprendere il suo dolore. Non sa nemmeno se maledire ancora il ragazzino per avergli impedito il gesto, ma anche ringraziarlo gli pare disonorevole. Come se si fosse voluto gettare per capriccio. Non potrebbe mai accettare un’idea simile di sé stesso, ben sapendo che chiunque in questo castello pensi la medesima cosa di lui. Si stringe forte a sé, più leggero nel calore dell’acqua. E dalle mani insaponate sui suoi capelli.

La stanza di Lituania è piccina in confronto alla sua. Non sa bene nemmeno se gli piaccia. Ma non vuole avere un’opinione ora. Non ascolta il ragazzino, che gli chiede di dormire insieme a lui. Non risponde, non vuole pensare a questo. Non avendo risposte, il moretto si risponde da sé: dormirà insieme a lui. Ha paura, il ragazzino, capisce bene Polonia. Ha paura che possa ritentare il salto e che possa riuscirci per colpa sua. Il corpo infreddolito nella camicia di lino, il cuore e l’anima bollenti.

Faticando come un moribondo, Polonia s’infila nella coperta e così fa Lituania, affianco a lui. Non gli importa nemmeno che siano nello stesso letto. Anche se la camera è minuta, il materasso è ben più morbido e caldo del suo. I cuscini, gonfi di piume, sembrano pezzi di nuvole, soffici e accoglienti. Volta le spalle al suo salvatore e guarda bene di fronte a sé, stranamente sveglio. Lituania striscia piano dietro alle sue spalle.

Pensa di Lituania come ha sempre pensato di ogni persona. Crede che sia uguale a tutti gli altri in questo castello. Pensa che lo dirà a tutti e tutti lo sapranno. Sapranno che ha voluto buttarsi giù e che volesse morire. Non vuole che pensino questo di lui. Ha già troppi problemi con la corte. Non vuole che sappiano anche questo. Lituania è proprio dietro di lui. Vorrebbe toccare il principino, ma è esitante. Non sa bene come reagirebbe ad un abbraccio, quindi non fa nulla, indeciso. Polonia questo non lo sa, ma per una volta vorrebbe essere davvero un ragazzino viziato. Ricorda Jadwiga e ogni cosa, ora, sembra non avere più alcuna importanza.

“L’ultima cosa che ha fatto è abbracciarmi” Lituania, alle sue spalle, reprime il sobbalzo, non aspettandosi delle parole. Accetta in lui il silenzio e le parole del compagno “Mi ha detto di essere forte e che veglierà su di me dal Cielo” ha un nodo alla gola ed entrambi capiscono che presto si scioglierà in lacrime “Ma io non volevo che se ne andasse! Doveva restare qui e non partorire quella cosa! Non doveva nemmeno sposarsi! Sarebbe rimasta insieme a me e tutto questo non sarebbe acc-… Non toccarmi!” si è deciso, finalmente. Lituania ha sentito il pianto ed è accorso. Le mani bollenti e rigide del ragazzino toccano e stringono la pelle sotto la camicia. Non l’ha fatto apposta, ma la pelle si è scoperta. È marmo bianco e freddo, in confronto a sé. Ma Polonia è morbido, anche se sottile, quindi non gli farà del male stringendolo. Il principino aveva urlato di non toccarlo, eppure non li libera, né prova a liberarsi. E’ rimasto scioccato quando Lituania l’ha veramente abbracciato. Nessuno l’avrebbe mai fatto. E l’onore gli ordina di essere forte, come ha detto Jadwiga, e di ordinare a questo cavaliere di non toccarlo, che non ha bisogno di essere consolato. Ma il cuore è spezzato e chiede, supplica di essere risanato. Ha bisogno di amore, Polonia, non lo sa ma è così. Lituania glielo sta concedendo, e lui non se ne rende conto.

Vergogna, con ancora più ostinata vergogna, si abbandona e si volta. Preme il volto sul collo del lituano, piano, affinché lo respinga, come tutti hanno sempre fatto. Ma Lituania non è come loro, si rende conto Polonia. Non lo respinge, poggia la mano nei capelli biondi e lo carezza. Come faceva la fanciulla senza nome. Come faceva Jadwiga. Sente tutto il calore della sua mano tra i fili dorati. Piange veramente, il povero Polonia. Vorrebbe morire di vergogna, vorrebbe che Jadwiga non gli avesse raccomandato qualcosa di così difficile da mantenere. Ma non è mai stato capace di mantenere promesse, il principino. Infatti piange e continua a gemere sul collo del moretto. In qualche modo, sente che questo ragazzino manterrà il silenzio e non dirà a nessuno del suo cuore spezzato.

Stretto forte, morto il pianto, Polonia crolla nel sonno, aggrappato ancora al piccolo cavaliere. Il nastro nero di Lituania cade sotto al letto. Sospira, rasserenato che il principe sia salvo e felice. Prova ad addormentarsi ed ore dopo ci riesce.

 

 

 

 

 

Toris ha fatto di tutto per far alzare il capo a Polonia. Gli ha strofinato il becco, sia con l’osso morbido che con quello più rigido. Ha portato le piume e le ali sotto i capelli lunghi. Ha usato le maniere forti, spazientito. Gli ha tirato ciocche di capelli e gli ha punzecchiato e tirato le orecchie. Arrabbiato, aveva alzato il capo, affatto consolato. Sa che il falcone ha voluto aiutarlo e accetta il pensiero. Ma si sente comunque esausto, distrutto, malinconico. La presenza, anche se silenziosa, di Prussia l’ha trovata fin troppo antipatica. Non voleva mostrare certi pezzi del suo passato, soprattutto a lui, suo nemico sin dai tempi più antichi. Nonostante questi pensieri, il comandante prussiano non immagina nemmeno di dover ridere di lui, povero infelice. Non potrebbe mai farlo. Eppure ha la parola più veloce del pensiero. E quest’atmosfera la disgusta. Afferra la divisa di Polonia e lo costringe veloce in piedi. Riluttante, ancora provato, il ragazzo accetta l’azione. Toris ritorna sulla sua spalla.

“Bene, abbiamo ufficialmente scoperto che non sei un frocetto. Sono felice di questa scoperta” conclude, con un ghigno sarcastico. Vorrebbe distruggere tutto il bianco che c’è in questo posto e modificarlo in un altro colore. Vorrebbe che Polonia si arrabbiasse come sempre e che gli urlasse contro. Lo vorrebbe tanto. Ma il cuore è ancora spossato e il pennuto sulla spalla del biondo sfrega dolcemente le piume della guancia sulle lacrime. Le cancella e ammorbidisce il rosso della pelle. Il ricordo ha fatto più male di quel che credeva. Ma non si pente di aver usato le sue piume. Uno dei suoi compiti è stato saldato, anche se con un pianto. Ma Polonia ha bisogno di pianto, per aprire gli occhi. Lo consola e gli asciuga le lacrime.

Il ricordo ha fatto veramente male. Gli fa ricordare altro di orribile. Ricorda ciò che nella guerra contro la Russia gli ha fatto pensare e ben credere. Quello fu uno dei pochi atti fraterni che ebbe con Lituania. Per lui, principe viziato, Lituania era poco più che un servitore, suo cavaliere. Quand’era ragazzino non vedeva la realtà, fin troppo infantile, senza che nessuno gli abbia mai insegnato come essere buono con una persona che ti ama. Ha sempre, fin da quella sera, creduto che Lituania fosse in quel castello solo per fargli del bene, per consolarlo quando stava male, per abbracciarlo quando piangeva. Per servirlo quando aveva bisogno di lui. Un lampo di consapevolezza, più fluido e doloroso gli strappa parte del respiro. Sente vento freddo d’Inverno, neve ghiacciata, una casa in mezzo al bosco. Ricorda occhi d’ametista, capelli di cenere, sorriso crudele. Ricorda Russia e ha un secondo di terrore. Si paragona a lui e non si vede molto diverso dal generale russo.

“H-Hey… stavo scherzando. Insomma, non l’ho mai creduto veramente…” alza gli occhi. Vede negli occhi vermigli di Prussia una vena di preoccupazione e pentimento. Non è colpa sua e ben presto anche il comandante, calmato, lo crede. Sospira di sollievo. Ha comunque un briciolo di preoccupazione in lui, subito ingigantito dagli occhi scuri del ragazzo. Decide di usare anch’egli il silenzio, come Lituania. Ma non è così buono come lui, quindi gli volta lo sguardo e rimane fermo, fisso verso il bianco incontaminato. Polonia continua ad osservarlo, spaventato dalla sua reazione. Crede che il prussiano sia rimasto indignato dal suo comportamento e che non voglia mostrargli gli occhi per il suo sdegno. Ne rimane spaventato e deglutisce nulla che aria fredda. Ancora occhi violacei, ancora sguardo di mostro. Ha paura, Polonia, che possa essere stato un male simile a Russia per il suo amico. Terrorizzato da questa idea, rivolge ancora gli occhi al comandante, fin troppo concentrato. L’aquila nera s’adagia sulla spalla nera dell’uomo e anch’ella fissa il nulla di fronte a sé.

“Prussia, che cos’è l’amore?” non batte ciglio, il prussiano, eppure l’espressione muta in qualcosa che forse Polonia non ha mai visto. Non potrebbe dire cosa sia e il non saperlo lo spaventa. Che abbia chiesto qualcosa di stupido? Ma gli occhi vermigli riflettono ben altro che ironia. E Prussia è sollevato che Polonia non sappia il peso della sua domanda per lui. Spezza la serietà, porta alle labbra uno sbuffo di risata.

“Lo chiedi alla persona sbagliata, nanerottolo” Polonia riconosce il proprio errore. Annuisce fra sé. Prussia vede il movimento chiaro dei capelli del ragazzo e rimane deluso. Di sé stesso. Respira profondamente e libera tutta l’aria che ha nei polmoni “E’ quando vorresti la felicità di una persona più della tua” incuriosito, Polonia rialza gli occhi. Non se l’aspettava. Sospira ancora, il prussiano, preso coraggio. L’amore non è la sua materia, ma per un periodo ha pensato che lo fosse, quindi tenta, anche se con difficoltà “E’ un continuo ed infinito dare. Daresti qualsiasi oggetto o diavoleria che desidera alla persona che ami. Le regalasti la cosa più preziosa di questo mondo, anche la tua anima. E se non hai niente vorresti comunque darle        ancora oggetti o tesori. Potresti anche rubare la felicità di un altro o strapparti ogni cosa che possiedi per avere il suo sorriso. E sei felice quando lei è felice” incredulo per le parole di Prussia, Polonia rimane in silenzio per riflettere su ciò che ha sentito. La confusione e il dubbio sono ancora più forti. Non è certo che verso Lituania abbia avuto questo atteggiamento. Forse non sempre…

“E, invece…?”

“Il contrario dell’amore? È quando tu vorresti prendere e basta, nanerottolo” pare quasi accusarlo, il prussiano, con un’occhiata veloce e dolorosa a lui “E’ quando vorresti la tua felicità più della sua e per questo faresti di tutto per te stesso. È un continuo prendere, anche se forse provi qualcosa per quella persona tu vorresti prendere comunque. Potresti anche rinchiuderla vicino a te, per continuare a rubare. E a te non importerà se sia in catene o che stia soffrendo. Ti interessa solo rubarle tutto ciò che ha e anche se non ha più nulla da darti vorresti in ogni modo avere ancora e ancora. Fino in fondo…” smorza la frase, la rende cripta, intraducibile. Polonia è terrorizzato da questa consapevolezza. Ricorda una casetta cadente, sangue su pareti e pavimenti, Lituania torturato e Russia piangente. Ricorda il desiderio di portarlo via da quell’Inferno di ghiaccio e del suo tentativo quasi riuscito. Ha dubbio, ancora più dubbio. E quel fino in fondo gli dà più insicurezza. Così come gli dà insicurezza lo sguardo rigido e rigoroso di Prussia, concentrato ancora lontano da lui. Ha paura, Polonia.

“Intendi... tipo, ucciderla?” colto nel segno, Prussia impallidisce. Queste non sono nemmeno sue parole. In preda al dubbio, voleva parlare con qualcuno più esperto di lui. Era andato da Francia, per chiedergli risposte. Si era subito dato dell’idiota per questo: per quale motivo quel depravato avrebbe dovuto dargli risposta a delle domande che ben pochi sanno rispondere? Eppure… eppure lui fu ben più saggio di quel che credeva. Si era meravigliato di essere riuscito, grazie a lui, a sciogliere il suo cuore. Si era incantato, sinceramente incantato, Prussia. Come Austria, aveva anche lui giudicato male Francia. E lo sguardo fraterno che gli aveva rivolto era più che sufficiente per comprendere il vero. Era diventato suo amico, e anni dopo, il suo migliore amico. L’aveva aiutato e nemmeno l’ha ringraziato. Ma ora pensa a Polonia e la sua domanda brucia e gli frantuma il cuore. Per fortuna che è nipote di Germania Magna e dal suo nonno ha ereditato lo sguardo duro. Mai l’ha ringraziato come ora. Perché, quella lontana sera, quando incontrò Ungheria e le aprì il cuore, fu rifiutato. Era sposata, diceva, e ora amava quell’uomo che forse aveva giudicato male. Non l’aveva accettato. Non l’aveva veramente accettato. E mai, anni ed anni dopo, aveva ringraziato Austria per essere stato lì, ad ascoltare, per fermarlo dal suo intento. Che, con tutta l’anima di bestia che possedeva in quel breve istante, aveva odiato Ungheria. E mai avrebbe voluto che lo rifiutasse.

“No, no, non per forza” mente, legge bene l’aquila nera che, con sdegno, lo fissa metà incredula metà rabbiosa “Beh, sì, anche quello, ma non sempre” sospira, indeciso ancora sulle parole da usare “Intendo dire che potresti anche farle del male. Magari tu le vuoi bene, ma lo dimostri come se non fosse così. La tratti come un giocattolo o come una di quelle marionette a cui tiri i fili per farle muovere le braccia o le gambe” e, piano, volta gli occhi, sorprendentemente più luminosi dei rubini che lo stesso Spagna ha rubato nel Nuovo Mondo “Credo che tu abbia capito” queste ultime parole erano per Polonia, comprende lo stesso.

Prussia ha veramente occhi più demoniaci dei suoi, piccolo e gracile polacco. Lo guarda, occhi negli occhi, e si sente ben più basso e piccino di quel che sia. Se lui è un demone, Prussia allora è Satana in persona. Capisce questo e cala gli occhi. Incontrano i propri stivali e lì concentra i pensieri. Mai sentito più sporco ed indeciso di sé stesso. Non si sente affatto sollevato, ma nemmeno ha ora la consapevolezza di essere stato un mostro. Il cervello è ben confuso. Il paragone creato di sé stesso con Russia spinge nel proprio cranio. Non può essere stato come lui. È impossibile. Russia è malato, è solo, è un mostro. Lui… lui cos’è stato per Liet? Immagina ancora il suo vecchio avversario e pensa di non essere come lui. Lui non era malato, era solo, ma con Liet stava guarendo dalla sua solitudine, non era un mostro. Infatti, non lo era affatto. Ma si scuote, ricordando. Non era un mostro, ma era un demone. E un demone è ben peggiore di un mostro. Ma, ricorda, Liet ha voluto la morte per stare con lui. Quindi è stato buono con lui. Ma lo è stato veramente? Un demone è ben peggiore di un mostro, ricorda: se il mostro sfoggia immediatamente tutto il suo male, il demone lo tiene ben nascosto. Possiede ben più crudeltà del mostro ed è cauto nell’usufruirne. Il demone mostra pian piano la sua cattiveria. Fa in modo che la vittima se ne abitui con lentezza, fino a mostrarla del tutto e l’oppresso non penserà mai di essere usato o preso in inganno, credendo nella natura fasulla del suo compagno. Scuote il capo, quasi indignato dei suoi pensieri. Rifiuta di pensare di sé stesso in questo modo. Non potrebbe essere stato crudele con Liet. Era l’unica persona che si curava di lui, in quel castello, e la prima con cui ha stretto amicizia. Non può essere stato un demone col lituano, anche se involontariamente. Confortato per questi pensieri, pensa di doverne essere certo. Pensa che debba fare un’azione decisamente buona per assicurarsi di essere stato un buon amico per Lituania. Gli viene in mente un pensiero, che tempo prima, con solo Toris al suo fianco, aveva ponderato per qualche tempo.

“Sai, vorrei sapere come stia il mio popolo” Prussia sembra assai più rigido di prima. Non lo nota, preso dalla sua buona azione “Cioè, sono passati un bel po’ di anni. Sono totalmente curioso di scoprire se stiano bene o se la guerra abbia fatto loro del male. Tu, tipo, pensi la stessa cosa?” si volta, entusiasta. Prussia l’osserva. Sembra più suo fratello Germania che altri. Non capisce il suo volto pallido, nemmeno gli occhiacci dell’aquila sui capelli biancastri. Non capisce e ora non vuole capire.

“Sì…” annuisce lentamente il prussiano, senza veri pensieri in testa. Si sente ben più confuso del ragazzo vicino a lui e nessuno dei due lo nota.

Come lanciato un segnale, l’aquila nera si lancia dalla spalla della divisa scura. Prussia l’osserva scendere e prendere il volo. Entrambi, confusi, l’osservano. Il rapace, con colpi secchi d’ala, svanisce in un punto impreciso in quel deserto bianco. Forse preoccupato, Prussia scioglie il suo incantesimo e ritorna il comandante prussiano che Polonia conosce. Increduli, tranne che per il piccolo Toris, il pennuto ritorna. Tra il becco svolazza qualcosa. Il prussiano alza il braccio e questa si posa. Strappa ciò che ha nel becco. L’osserva corrucciato e lo mostra poi al polacco. Polonia stringe fra le mani una vecchia fotografia che mai ha visto in vita sua. Senza guardarla bene, la volta. Lukasiewisz. Scritto in grassetto e con calligrafia accurata, di un fotografo. Il ritratto di una famiglia e il loro cognome mostrato dietro allo scatto.

Prussia, anima ben più preoccupata di Polonia, si guarda. Guarda la lancia con cui, quasi inconsapevolmente, giocava. Guarda la copertina piegata sulla spalla del ragazzo e il falcone rosso poggiato prudentemente su di essa. Guarda il nastro nero, ora sciolto e gettato nella tasca della divisa di Polonia. Guarda il gonfiore che crea la coroncina d’oro dentro una seconda tasca del completo verde. Si chiede che fine faranno con tutti questi oggetti e che altro male vorranno farli questi due pennuti. Osserva l’aquila nera sul proprio braccio. Lo guarda attento, gli occhi azzurri lo zittiscono e lo impongono a procedere. Sospira e si avvicina al biondo. Polonia si concentra.

Come ha pensato, è una foto di famiglia. Una famiglia polacca, numerosa. Sente di non conoscerli e di non poterli dare dei nome. Ma si è dato un impegno, per questo si concentra di più. Vede due uomini, con la spalla contro l’altra. Il più alto e baffuto, con gli occhi scuri come il petrolio, osserva col sorriso, tirato, verso la fotocamera. Polonia esamina il balzo veloce che deve aver fatto il suo labbro: probabilmente non è stata una sua idea fare la foto di famiglia. Accanto a lui c’è l’altro uomo. Anch’egli è baffuto, eppure i capelli scuri e disordinati gli rovinano la serietà che ha probabilmente voluto mostrare. Con la cravatta ben avvitata, in contrasto con la divisa di soldato del suo compagno, cozza pesantemente la spalla contro quella del fratello più robusto ed alto. Come per sfidarlo anche in una foto. Guarda ancora: ci sono due donne, forse le loro mogli. Vicino al soldato, la treccia bionda della signora e gli occhi azzurri brillano di allegria. Deve piacerle stare lì, vicino all’obiettivo. La luce su di lei e le labbra sottili la fanno bella, la fronte bianca e il vestito morbido sul corpo magro la rendono giovane. È una bella donna, una bellissima donna. Tra le braccia, questa porta un fagotto rosa, affatto interessato di guardare la fotocamera: la bambina è veramente piccola, ma probabilmente diventerà bella come la madre. Una mano tocca la spalla della donna: un ragazzo, occhi seri, eppure il sorriso sfrontato e giovane guarda attraverso l’immagine e pare vantarsi di essere lì, com’è ora felice la madre. Già ha creato una famiglia, Polonia, ma guarda alla sinistra, verso il secondo uomo, illustre nell’abbigliamento. È sposato anche lui, vede. La donna accanto è ben diversa dall’altra, solare e felice. Pare più calma e pacata, questa signora, con gli zigomi pronunciati e un velo scuro sotto gli occhi e sulla fronte stanca. I capelli chiari, tirati in una coda malfatta e un sorriso debole. Ai loro piedi, accucciato su una roccia, a sbucciare un’arancia, ignorante del tutto della posa, c’è un bambino, più grande della neonata, ma più piccolo del ragazzo. Concentrato sul frutto, non guarda l’obiettivo, nascosto lo sguardo probabilmente indifferente dai capelli biondicci e il nasino lentigginoso. Si sorprende di non averlo notato prima: al centro di tutte quelle persone c’è un anziano, sulla sedia a rotelle, forse il padre dei due uomini. Fissa l’obiettivo con un sorriso fin troppo aperto, quasi sciocco. Si mostra parecchio divertito di essere lì, bambino di cuore.

Interessato della foto fra le mani, troppo tardi Polonia vede le piume rossicce che, leggiadre, cadono sull’oggetto fra le dita. E il bianco ritorna a colorarsi.

 

  
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