Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: vivis_    10/09/2016    7 recensioni
L'abbiamo provata tutti, quella sensazione di impotenza. Sì, quella che ti attanaglia l'anima quando ti senti in dovere di aiutare qualcuno, ma non credi di possedere i mezzi per farlo.
Tutti l'abbiamo provata, tutti tranne lui: Sherlock Holmes.
Lui ha sempre la soluzione a tutto, o almeno l'aveva sempre avuta, fino a quel giorno. Il giorno in cui lui e colui il quale rappresenta l'altra metà della sua vita, John Watson, si trovano letteralmente bloccati nell'ennesima sfida da affrontare insieme. Uno con l'altro, l'uno per l'altro.
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Dal secondo capitolo:
Era panico quello che sentiva, panico e impotenza. La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui."
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5. L'uomo che mi ha salvato



Sherlock si assicurò che John fosse ben appoggiato alla parete della cella frigorifera. Si sfilò la pashmina blu e gliela sistemò dietro la nuca, lo guardò raccomandandogli silenziosamente di rimanere cosciente. I brividi della febbre erano diventati tanto violenti che, per quanto John si sforzasse di nasconderlo, le sue labbra tremavano ormai in maniera costante. Se se fosse stato vero il fatto che Shelock non avesse un cuore, allora cos’era quel tonfo che sentiva nella cassa toracica ogni volta che John chiudeva gli occhi? Cos’era quella stretta quasi dolorosa in mezzo al petto che quella sensazione di impotenza gli causava?

La mancanza di ossigeno aveva iniziato a compromettere il suo equilibrio, tanto che quando si piegò però recuperare la torcia, fu costretto ad appoggiare un ginocchio a terra per non cadere. Un volta di nuovo in piedi, infilò la torcia sottobraccio e procedette a tentoni finché le lunghe dita affusolate non incontrarono il pesante tessuto del suo Belstaff. Quando lo sfilò dal gancio e se lo mise in spalla gli sembrò più pesante che mai, ma non si curò della sua fatica, sperò solo che non fosse troppo pesante per John. Avvolse il cappotto intorno alle spalle dell’amico, gli passò velocemente le dita tra i capelli sottili prima di issarsi sulle proprie ginocchia nel tentativo di alzarsi.

«Sherlock, dove… » cercò di chiedere il medico.

Il consulente detective alzò l’indice per tranquillizzare il suo migliore amico affinché non si sforzasse di parlare. Senza dire una parola si diresse con passo lento e barcollante verso la parete di fondo.

«Siamo a Stratford Upon Avon. Il padre di quei personaggi è il loro autore: William Shakespeare e Shakespeare è nato a Stratford» disse puntando il dito verso la webcam «L’ho risolto, figlio di puttana!» esclamò il consulente investigativo con più energia di quella che avrebbe dovuto spendere, trovandosi obbligato a sorreggersi alla parete. Continuò a fissare quella webcam in cagnesco finché non sentì John muoversi alle sue spalle. Si voltò di scatto ignorando l’ennesimo violento capogiro.

«John, cerca di non…» la sua frase fu interrotta da un urlo di dolore che fece tremare le pareti.

L’immagine di John con il gancio metallico nella mano mentre si accasciava a terra contorcendosi dal dolore lo paralizzò per qualche attimo, tutto sembrava così irreale. Non percepiva più nessun movimento del proprio corpo come se fosse fluttuando una grossa ampolla piena di liquido scuro. Ecco come si sentiva: come un pesce rosso in una ampolla di vetro: inutile, mentre le immagini del mondo gli sfilavano davanti in maniera distorta. L’urlo straziante fu seguito da un silenzio che gli gelò il sangue nelle vene.

« John!»

Fu un grido tanto intenso che quasi gli parve provenire da un’altra persona.

Sherlock si gettò al fianco dell’amico e vide come dalla ferita alla gamba, ormai aperta, zampillasse del denso liquido scarlatto. Sherlock Holmes agì d’istinto e prese la sciarpa che giaceva a pochi centimetri da lui e la premette contro la fonte dell’emorragia.

«Cosa ti è saltato in mente?! Perché lo hai fatto?!» chiese Sherlock ancora spiazzato dal folle gesto di John.

«Sherlock, era la cosa più logica e giusta da fare.» rispose Watson con una pacatezza innaturale.

«No che non lo è! Perché dovrebbe avere senso? Ti stai suicidando!» disse Sherlock ormai in preda al panico. Non aveva mai perso il controllo delle sue emozioni, mai, eppure in quel momento nemmeno si rese conto dei sue sottili fiumi salati che scorrevano sul profilo spigoloso dei suoi zigomi

«Vedi ma non osservi, Sherlock Holmes.» quella frase fu sufficiente ad ammutolire il Sherlock. «C’è una lucina vicino alla webcam, che lampeggia ogni 10 minuti. Ho contato quante volte ha lampeggiato e, nonostante credo di essermene persa qualcuna, credo che non ci rimanga più di un’ora di ossigeno.» proseguì il medico.

«Questo lo so anche io John ma continuo a non vedere il punto.»

«Se anche Lestrade si fosse messo in moto in questo momento, Stratford dista due ore da Londra» il silenzio calò di nuovo, più pesante di prima. «Sto salvando l’Inghilterra, sto salvando il mondo, sto salvando te

Sherlock si sorprese a negare l’evidenza, non aveva intenzione ascoltare Watson. Perché aveva smesso di crederci, perché gli stava facendo questo? Perché dopo aver salvato così tante vite si stava rifiutando di salvare la propria?

«Tu non sei lucido; sei tu l’unico che deve essere salvato.» si passò la mano sul viso per eliminare la fastidiosa sensazione che le prime lacrime rapprese gli provocavano. Le dita imbrattare di sangue lasciarono un marchio rosso che percorreva tutto il profilo dello zigomo e che gli fece desiderare di riuscire piangere di nuovo, per poterlo lavare via. «Io ti salverò» sentenziò una volta preso un respiro profondo. «Devo… devo solo capire come fermare l’emorragia, devo trovare un modo.»

Chiuse gli occhi.
 

Doveva esserci qualcosa nel suo palazzo mentale che avrebbe potuto aiutarlo. Dietro alle sue palpebre iniziarono a prendere forma i corridoi, le arcate in legno e i pesanti mobili in mogano che ornavano il palazzo mentale. Sapeva di dover agire velocemente, così si mise a correre lungo il sottile corridoio fino alla stanza dove aveva riposto tutte le informazioni di carattere medico che John gli forniva ogni tanto durante i loro casi ma trovò la porta sbarrata. Al lato della porta una figura sottile se ne stava appoggiata all’elaborato stipite con un ghigno impertinente stampato sul viso imbrattato di sporcizia. Ancora lui, Jim Moriarty.

«Oh Sherlock, Sherlock.» i capelli unti gli ricadevano sulla fronte nascondendo lo sguardo da folle. «Più passi del tempo insieme a John più diventi… deludente.»

Sherlock lo ignorò completamente e si avventò con tutte le sue forze contro quella dannata porta, senza però riuscire smuoverla.

«Povero Sherly, devo spiegarti io come funziona il tuo palazzo mentale?» disse di nuovo la sua nemesi. «Non sei abbastanza lucido per poterlo utilizzare. Dio, quanto sei diventato sentimentale.» concluse pronunciando l’ultima parola con disprezzo.

Il consulente detective continuò a dare spallate alla porta cercando di non ascoltare quelle parole velenose. Smettila Sherlock, disse una voce lontana. Smise di lottare contro lo spesso strato di legno e si voltò verso Moriarty.

«Cosa hai detto?» gli chiese con il fiato corto.

«Io, nulla, questa volta.» rispose alzando le mani.

Smettila Sherlock. Alzò gli occhi capendo, questa volta, che la voce veniva da fuori.

«John…» sussurrò tra sé.

«Corri da John, Sherlock. Vai e divertiti ad essere… umano.»
 

Riaprì gli occhi.

«Smettila Sherlock.» disse di nuovo John afferrandogli il polso con la poca forza che gli era rimasta.

« Sherlock è di te che il mondo ha bisogno.»

Il consulente investigativo sentì un nodo alla gola che si stringeva sempre di più ogni qualvolta tentasse di replicare. «Con due polmoni in meno in questo posto ti rimarrà abbastanza ossigeno per sopravvivere fino all’arrivo di Greg» spiegò John mentre una sottile lacrima scivolò dall’angolo dell'occhio.

«Non lascerò che tu muoia per salvare me.» riuscì a dire a fatica Sherlock.

«Che ipocrita che sei.» sorrise debolmente. «Tu per me lo hai fatto.»

Quella fu la pugnalata definitiva. Sentì uno squarcio aprirsi in mezzo al petto e, di colpo, si sentì vuoto. Vuoto, come se avessero raschiato via qualsiasi cosa vi fosse all’interno del suo corpo. Prese la mano di Watson e la portò al viso e ne fece combaciare il dorso con la propria guancia sorprendendosi di come si incastrassero perfettamente.

«Ascoltami bene, tu non te ne andrai, ok?» senza nemmeno accorgersene posò la mano dell’amico sulla morbida superficie delle proprie labbra e vi scoccò un bacio. «Ora, devi fingere che io sia la tua vita, per cui devi aggrapparti a me, stringimi la mano più forte che puoi e non osare lasciarmi andare, hai capito?» sentì le dita di John stringersi intorno alle sue.

«Sempre il solito modesto, eh?» rispose con una leggera risata.

Sherlock prese il viso di John tra le mani e si avvicinò fino a che le loro fronti non si toccarono.

«Tu sei la parte più umana di me, John. Senza di te io sono solo un sociopatico iperattivo e…» la sua voce si spezzò mentre sentiva gli occhi bruciare, preannunciando l’arrivo delle lacrime. «Io non voglio tornare ad essere un mostro John, io ho bisog…» a quella seconda interruzione seguì un pianto improvviso e violento, come un tuono nel bel mezzo di una notte placida.

John sollevò leggermente il capo e seguì la scia del fiato caldo fino alla sua fonte. Le labbra loro labbra si sfiorarono prima quasi per caso, poi si cercarono fino ad unirsi senza lasciare alcuno spazio. Non fu un bacio appassionato, durò solo pochi attimi. Le labbra non si mossero nemmeno, come se in quella posizione, le une a contatto con le altre, avessero trovato il loro posto nel mondo, finalmente. Per quei pochi secondi dimenticarono tutto, dimenticarono il sudicio pavimento su quale erano sdraiati, dimenticarono il dolore, la telecamera, gli indovinelli, tutto. C’erano solo loro due in quel momento, solo loro due contro il resto del mondo.

Quando le loro labbra si separarono, Sherlock mise John in posizione seduta, lasciando che si accoccolasse contro il suo petto. Il medico alzò gli occhi e con un ultimo sforzo sollevò il braccio e posò la mano sulla guancia di Sherlock.

«Tu non sei un mostro, Sherlock. Non lo sei mai stato.» gli disse accarezzandogli lo zigomo con il pollice. «Tu sei… l’essere umano più umano che io abbia mai conosciuto».

Sherlock glielo aveva già sentito dire, ma fu come se lo avesse fatto per la prima volta. Perché questa volta glielo stava dicendo guardandolo negli occhi. Glielo disse mentre il cielo grigio di Londra si tuffava in due scorci di mare nordico, scambiandosi messaggi silenziosi.

 

-Non andartene.

-Devo.

-Mi mancherai John.

-Anche tu Sherlock.

 

«Ti ricordi il nostro primo caso, Sherlock?» chiese continuando a disegnare linee curve sulla pallida pelle di Sherlock.

«Certo.» annuì accarezzando a sua volta la guancia dell’amico. La sua pelle sembrava così sottile ora, come se una pressione troppo decisa avrebbe potuto strapparla. Restò meravigliato dalla lucidità con cui John stava affrontando quella conversazione. Aveva sentito parlare di come molte persone, in punto di… prima di... andarsene avessero un picco di lucidità al quale seguiva una totale e definitiva perdita di conoscenza. Scosse la testa, non voleva ancora arrendersi all’evidenza.

«Mi hai chiesto “se stessi morendo, se ti stessero uccidendo, cosa diresti nei tuoi ultimi secondi di vita?”» disse John deciso a non voler staccare lo sguardo dal quel viso incorniciato da ricci corvini. Sherlock annuì invitandolo a proseguire.

John sbatté lentamente le palpebre. «Grazie, Sherlock.»

Sherlock sentì il tocco di John sempre più leggero fino a quando non sentì la mano scivolare a peso morto. Gli occhi di John si chiusero lentamente. Nella stanza in quel momento batteva un solo cuore.

Il consulente detective prese tra il corpo esanime di quello che era stato il compagno della suo nuova vita e lo strinse forte a sé come se avesse paura che potesse sbriciolarsi, scivolandogli tra le dita come sabbia. Scusa John, non sono riuscito a salvarti. Sentiva quella frase rimbombare nell’aria densa, senza nemmeno rendersi conto del fatto che quelle provenivano dalla sua stesa bocca.

-

Lestrade arrivò quasi due ore e venti minuti dopo, trovò il suo consulente ancora seduto contro la parete della cella frigorifera con in grembo il corpo esanime dell’unica persona per cui lui avesse provato dei sentimenti genuini, umani. «Non l’ho salvato Greg.» continuava a farfugliare mentre cullava John, come se stesse cercando di farlo addormentare. Ci vollero tre uomini alti un metro e ottanta per riuscire a dividere Sherlock da John. Quando le sue mani lasciarono il corpo esanime dell’amico si sentì come una bambola di pezza cui avevano tolto l’imbottatura. Sì sentiva svuotato di qualsiasi energia vitale, la nuova ondata di ossigeno che aveva accompagnato l’arrivo della polizia sembrò non fargli alcun effetto. Gli sembrò di non aver più dei polmoni per respirare, di non aver più delle gambe che potessero reggere il suo peso. Eppure sentiva di avere ancora un cervello per pensare, un cervello che pulsava dolorosamente ricordandogli quanto tutto quello che aveva appena vissuto fosse successo davvero.

Greg gli avvolse le braccia intorno alla via e lo sollevò, ma nel momento stesso in cui sembrava essere riuscito a sistemarlo in posizione eretta, il genio gli crollò letteralmente tra le braccia. L’ispettore lo strinse a se con forza, sentiva il suo torace espandersi e restringersi irregolarmente contro il suo. Gli appoggiò la mano sui ricci e lasciò che le lacrime rigassero anche le sue guance, unendosi a lui in quell’atroce pianto silenzioso.

-

Sherlock passò la punta dell’indice sul profilo dello scatolone, gli sembrò di essersi reso conto solo in quel momento di quanto il cartone fosse un materiale sgradevole al tatto. Indugiò ancora qualche secondo su quel ciglio ruvido prima di lasciare che le proprie mani affondassero nel morbido contenuto della scatola. Ma come diavolo facevano a piacerti? Pensò Sherlock mentre sollevava in aria uno di quegli assurdi maglioni a righe che quasi erano diventati l’epiteto di John.
 

«Harry passerà a prendere le cose John domani mattina.»

«Va bene, Mrs Hudson.»

«Sherlock?»

«Mh?»

«Come stai?»

«Credo che il nostro taxi diretto alla chiesa St Mary-le-Strand sia arrivato.»
 

Se lo portò al cuore e vi affondò il viso, sentì il profumo di schiuma da barba solleticargli le narici. La sua schiuma da barba. Inspirò profondamente lasciando che ogni singola nota di quella fresca fragranza lo invadesse, dandogli l’illusione, per qualche istante, che riuscisse a colmare parte di quel vuoto che gli appesantiva il petto.

Un lacrima solitaria gli rigò la guancia, costringendolo ad usare il polsino della camicia per asciugarsi. La rigida stoffa inamidata gli ricordò come non si fosse ancora cambiato dal funerale, che si era concluso più di quattro ore prima. Il ricordo di quella dannata, inutile e decisamente troppo appariscente cerimonia militare lo irritò a tal punto che iniziò a stringere i pugni attorno a quella lana soffice, fino a far sbiancare le nocche. Gli era stato chiesto di fare un discorso e lui aveva accettato solo per evitare eventuali discussioni con chi avrebbe comunque insistito per farglielo fare. Ma quando si era trovato davanti a tutte quelle persone che, con i visi arrossati, lo fissavano aspettandosi chissà quale discorso gli unici suoni che uscirono dalla sua bocca furono dei balbettii senza senso fra i quali si riuscirono a distinguere solo le parole ‘Perdonami John’. Ancora una volta si era sentito incapace, impotente e deludente. Sì, sentiva di aver deluso John, nuovamente. Quel pensiero lo aveva sopraffatto tanto che, senza aggiungere alcunché, aveva girato i tacchi, percorso la navata laterale della chiesa in fretta e furia e aveva atteso la fine della funzione seduto sulle gradinate del sagrato.

Scosse la testa respirando un’altra boccata di quel fresco profumo, cercando di memorizzarne anche la più lieve sfumatura. Si alzò in piedi, ignorando la violenta vertigine che lo scosse, e si diresse in salotto deciso a nascondere quell’orrendo maglione nella credenza del tè. Harry si presenterà con gli effetti di almeno mezza bottiglia di Gin in corpo, pensò il consulente investigativo girando la chiave del vecchio sportello, di certo non si accorgerà della mancanza di un unico, insignificante, orrendo maglione a righe che ancora profuma della presenza di John. Rimosse tutte le scatole di tè dallo scaffale, in modo tale che non potessero intaccare il profumo di John, e vi ripose il maglione ripiegato con cura.

Il genio si voltò verso destra lasciando che un particolare oggetto catturasse la propria attenzione e allargasse la già enorme voragine che sentiva nel petto. Il computer di John era ancora attaccato al cavo dell’alimentazione, nessuno lo aveva spostato da quel giorno. Sherlock pigiò il tasto di invio lasciando un’impronta ovale nel sottile strato di polvere. Per tutta risposta lo schermo si illuminò mettendo in evidenza lo spazio vuoto in cui avrebbe dovuto inserire la password, per la prima volta dopo quasi quarantotto ore le gli angoli della sua bocca si tesero verso l’alto quando si scoprì che la password era ancora “Sherlockfattigliaffarituoi”. La schermata che si aprì fu quella del famoso blog che li aveva resi un fenomeno della rete, in cima alla quale torreggiava, scritto a grandi lettere, il nome del suo migliore amico. Per un attimo (e per la prima volta) si sentì terribilmente in colpa per il fatto di voler invadere la privacy di John.

Oh per l’amor del cielo, Sherlock, hai sempre ficcato il naso nelle mie cose, non dirmi che ti stai facendo scrupoli ora che non sono più lì per rimproverarti. Sentì la voce di John rimbombare in testa. sorrise di nuovo rendendosi conto di quanto avesse ragione. Come sempre, John aveva ragione.

La pagina era aperta sulle bozze, in cima alla lista dei titoli spiccava la scritta in grassetto “TO THE MAN WHO SAVED ME TWICE”.

«Oh, John quanto vorrei che fossi qui per impedirmi di farlo.» sussurrò tra sé mentre la mano stretta attorno al mouse cliccava il tasto sinistro, aprendo finalmente il link.

 

Sapete? La vita militare si fonda sulla fiducia nei propri compagni di divisa. È un elemento assolutamente imprescindibile, tanto da essere, molto spesso, dato per scontato.

Poi una pallottola ti trapassa la spalla, il processo di guarigione della ferita arriva al suo termine e con esso anche la tua carriera militare. All’improvviso ti ritrovi solo, a bighellonare per le strade di Londra senza nessuno che si porti la mano rigida alla fronte per salutarti, tutti sembrano stare bene nella loro bolla di normalità e ti rendi conto di non essere altro che lo spettro di uomo pieno di incubi e che deve appoggiarsi ad un bastone perché la propria mente si è inceppata.

Ad un tratto arriva un “Afghanistan o Iraq?” e la tua vita ritorna ad essere una frenetica corsa contro un nemico, una corsa su due gambe sane, per giunta. Lo spettro riprende ad essere carne viva, animata da una perenne scarica di adrenalina. Ad un tratto io, il Capitano John H. Watson, sono di nuovo vivo e non sono solo.

Ma non fu l’unica volta in cui Sherlock Holmes mi riportò in vita, no. Anche il suo ritorno dopo la… caduta fu una rinascita. Forse ancora più rinvigorente della prima. Per quanto si sia meritato quei due pugni ben assestati, che gli ho tirato quando ha deciso di risbucare come un margherita dopo due anni di completo silenzio, due anni in cui credevo si essere tornato ad essere uno spettro pieno di incubi, quella volta senza possibilità di cura, il mio cuore scoppiò di gioia senza nemmeno darmi il tempo di rendermi conto di non essere nel bel mezzo di un’allucinazione.

Ora vi starete chiedendo dove voglio andare a parare. Bene, farò subito chiarezza.

Voglio che chiunque sappia che Sherlock è stato la mia salvezza, è la mia salvezza. Nonostante lui si consideri un antieroe, una persone che nessuno dovrebbe avere la disgrazia di incontrare, io non sono mai stato così grato a Dio o chiunque ci sia lassù per avermi permesso di incappare in un eroe come lo è Sherlock Holmes.

E, Sherlock, se stai leggendo questo post (perché sei riuscito ad hackerare il mio computer per l’ennesima volta) arrenditi all’idea di essere considerato un angelo custode da qualcuno. Spero solo di riuscire a restituirti il favore un giorno. Ti voglio bene, Sherlock, e grazie di tutto.

John H. Watson.

 

Lesse quel post tre volte di fila, mentre le lacrime gli bagnavano il colletto della camicia. Ne assaporò ogni lettera, indugiando su ogni singola parola immaginando l’espressione che avrebbe avuto John se gli avesse detto tutto di persona.

Strinse ulteriormente il mouse e fece scorrere la piccola freccia bianca fino alla scritta “nuovo post”. Non sapeva perché lo stesse facendo, ma sentiva che non avrebbe voluto essere in nessun altro posto mentre sotto la dicitura ‘titolo’ digitava:
 

LOCKED IN.

How John Watson saved my life

   
 
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