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Autore: keska    10/05/2009    36 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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-Bella

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Bella? Bella, tesoro?» mi chiamò la voce di Edward.

Sobbalzai, portandomi una mano alla testa e spalancando gli occhi. La stanza era in penombra, le tende tirate, lui era in piedi accanto al letto.

Mi fissava, al mio fianco, preoccupato. «Perché sei coricata? E perché vestita?».

Mi portai una mano alla testa dolorante confusa. «Sei tornato…» balbettai, sbattendo le palpebre.

Posò una mano sul mio viso, facendolo piegare nella sua direzione. «Jasper mi ha detto di venire, ma non mi ha spiegato il perché» fece, perplesso «cosa succede?».

Sibilai fra i denti, portandomi mani alle tempie. «Non urlare, per favore…».

Lo vidi fissarmi preoccupato, con un sopracciglio inarcato. «Bella? Ti senti male?» mi chiese confuso.

Dovevo avere un cantiere in costruzione nella testa, perché altrimenti non avrebbe dovuto farmi così male. «Oddio!» esclamai, ferendomi con la mia stessa voce. Nella testa avevo come una matassa di cotone, se il cotone potesse essere dotato di infiniti spuntoni che penetravano in ogni dove. Ogni pensiero era stanco e rallentato. Non capivo come potessi trovarmi lì, faticavo a ricordare il motivo, il luogo e il tempo in cui mi ero addormentata.

«Che ore sono?» sussurrai, fissandolo con gli occhi semi-chiusi. Cercavo di fare mente locale.

Sospirò, avviandosi ad aprire la tenda della mia stanza. «Sono le sei e mezza» dichiarò, spalancandola e facendo entrare la luce gialla del sole basso.

«Ah! Chiudila, per favore, ti prego!» esclamai. Gli occhi mi bruciavano come se fossi davvero un vampiro.

Malgrado fosse estremamente confuso fece come gli avevo chiesto, richiudendola immediatamente. Mi venne accanto, circondandomi il viso con le mani e costringendomi a riaprire gli occhi. «Temo di doverti chiedere cosa sta accadendo, Bella. Inizio a preoccuparmi seriamente» dichiarò, osservandomi con attenzione, come per uno studio medico.

«Ed io temo di doverti chiedere di parlare a bassa voce, se non vuoi che mi metta a urlare di dolore. Per favore».

Sfiorò una tempia con il pollice. «Non è così che avevo immaginato il mio ritorno» mormorò, adattandosi al mio volume di voce, «ti fa male la testa?».

Annuii, una smorfia sul viso. «Mi dispiace. Sono contenta che tu sia tornato» aggiunsi con un piccolo sorriso.

Lo ricambiò dolcemente. Si chinò, e mi lasciò un bacio sulle labbra. «Lo sono anch’io. Mi sei mancata. Ma adesso temo tu abbia bisogno di un’aspirina».

A quella parole battei le palpebre, scattando in piedi. Aspirina. Mi fiondai fuori dalla stanza e mi precipitai giù per le scale. Ogni mio passo mi rimbombava nella testa con una furia pazzesca. Entrai in cucina e afferrai dal mobiletto il pacchetto di medicinali, notando la scatola di cereali posta in bilico. I cereali. Jasper. Lo stato di ubriachezza. La farneticazioni. La vicina. La nausea. Le confessioni. Il sonno. Tutto ritornò bruscamente alla memoria, colpendomi all’improvviso.

Sbiancai, respirando a fatica, ansimando.

C’erano tre principali problemi di cui preoccuparmi.

1. Avevo praticamente urlato contro la vicina di non essere incinta.

2. Avevo confessato a Jasper il mio idiota, fulmineo, momentaneo, momento di smarrimento e voglia di essere madre.

3. Non conoscevo la causa perché tutto ciò potesse essere successo. Insomma, non mi ero mica ubriacata…

«Bella» mi richiamò Edward, confuso.

Sentivo il cuore in gola e le lacrime agli angoli degli occhi. Avrebbe letto la mente di Jasper? Lo aveva già fatto? Come potevo essere stata tanto stupida da dire o ancor prima pensare una cosa simile? Deglutii con forza, sentendo la bile salirmi fin sulla faringe.

Pensieroso si avvicinò di un passo.

Mi bloccai subito, voltandomi e prendendo dei lunghi respiri per stabilizzarmi. Non l’avrebbe mai saputo. Jasper avrebbe mantenuto la promessa, ci saremmo sposati, e niente più sarebbe cambiato. Questo era quello che volevo. Il resto era solo un delizioso contorno. Avevo avuto troppo dalla vita per desiderare seriamente di più.

«Ti spiacerebbe…» esordì Edward alle mie spalle.

Sollevai una mano per bloccare le sua parole. Lo sguardo mi scivolò su una bottiglia sul ripiano della cucina. Era una normale bottiglia d’acqua, quella da cui avevo bevuto quella mattina. La presi fra le mani e la osservai. Ne ispirai l’odore. Feci una smorfia. Decisamente pessimo.

La feci annusare a Edward, che rifece la mia stessa smorfia. «Alcol. Anche piuttosto concentrato, direi».

Sospirai, scuotendo il capo. Tutto mi era tornato alla mente. A cominciare dalle parole di mio padre: ti lascio un’aspirina sul ripiano della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a ritirare la bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato a quei teppistelli… Avevo preso l’aspirina, credendo che la bottiglia che mio padre ci aveva lasciato accanto fosse acqua, ma in realtà doveva essere l’alcol che aveva sequestrato a dei ragazzi. Ecco perché aveva quel saporaccio! Piuttosto concentrato aveva detto Edward. Mischiato con un medicinale doveva essere stato un mix letale per le mie povere meningi.

«Questo vorrebbe dire che ti sei data all’alcol?» domandò, fra lo scettico e l’ansioso. Altro che tranquillanti. Forse stava pensando di ricoverarmi in una clinica psichiatrica.

Feci una smorfia, osservandolo con un’espressione di scusa. «Non è come sembra».

«Spero davvero di no».

Sospirai, andandomi a sedere su una sedia. Posai la testa pesante su una mano. «Questa mattina mio padre mi ha lasciato un’aspirina per il mal di testa. Sono scesa in cucina e ho trovato accanto al medicinale una bottiglia. Pensavo fosse acqua, ma in realtà era quella» indicai la bottiglia di alcol che stava poggiata sul tavolo «il resto, lo puoi immaginare…» borbottai vergognosa.

Mi fissò confuso per un momento, poi, scoppiò a ridere. Mi sentii esplodere la testa, soppressa da mille suoni stridenti e contrastanti.

«Ahia!» esclamai, la testa fra le mani.

Mi prese velocemente fra le braccia, baciandomi la fronte. «Scusa, scusa, mi dispiace!» sussurrò, cercando di trattenere le risate.

«Questo non fa bene al mio ego» piagnucolai, querula. «Non che io abbia un orgoglio, dopo tutte le mie magre figure, ma ti pregherei di non ridere, se fosse possibile».

Le sue labbra s’incresparono. «Non volevo ferire il tuo ego, lo sai».

Sospirai, posando il capo contro il suo petto. I tiepidi raggi del sole illuminavano debolmente il suo viso, facendolo risplendere leggermente e i suoi capelli spettinati rifulgevano di riflessi bronzei. Misi fine alla mia tortura accorciando la distanza che rimaneva fra le nostre labbra. Le mie mani finirono fra i suoi capelli, morbidi, setosi, soffici, contorcendoglieli e attorcigliandoglieli intorno alle mie dita. «Lo so che non vuoi ferirlo. Tu tendi a gonfiare il mio ego, anche troppo. Vedi iscrivermi in una scuola per gente talentuosa senza neppure chiedermi il permesso».

Sorrise, baciandomi la fronte. «Come va il lavoro con il dipinto?».

Spalancai gli occhi, mordendomi ferocemente il labbro, e fui salvata solo dal suono del campanello.

«Ciao Bella, tuo padre deve aver lasciato qualcosa per me» disse l’agente di polizia, collega di mio padre, presentandosi alla porta. Feci una smorfia al volume della sua voce, sentendo la testa pulsare, dolorante, ma non ebbi il coraggio di chiedergli di non urlare: quale spiegazione avrei potuto dargli?

Annuii brevemente. Cincischiando un assenso fra le labbra andai a prendere quell’odiosa bottiglia di alcol di cui mi volevo sbarazzare il prima possibile.

Quando gliela porsi, salutandolo discretamente, notai alle sue spalle qualcuno di ben conosciuto. La mia vicina! Mi congedai frettolosamente dall’uomo, poi richiusi la porta alle mie spalle, lasciandomi scivolare seduta con le spalle contro il portone chiuso.

La donnina mi aveva lanciato un’occhiata spaventata.

Sollevai timorosa lo sguardo fino a incontrare quello di Edward, che si stava evidentemente trattenendo per non ridermi in faccia.

Nascosi il volto fra le mani, scuotendo il capo. «Cosa stava pensando?» sussurrai imbarazzata, allargando le dita della mano per guardarlo negli occhi.

«Beh, penso che non oserà mai più fissarti la pancia, sei contenta?» sghignazzò lui. Mi nascosi nuovamente con il volto fra le mani. «Che cosa mi sono perso Bella?» ghignò, sforzandosi di non scoppiare in una sonora risata.

«Credo di avere dei problemi legati alla tua assenza…».

Ridacchiò, risvegliando le ferite pulsanti alla testa.

Mi morsi un labbro, scuotendo la testa, rossa in viso, e rievocando ricordi ingombranti. «Temo che dovrò scusarmi anche con Jasper».

Rise più forte, un po’ sorpreso. «Jasper era qui? Devo correre immediatamente a casa a leggergli i pensieri! Torno subito!».

Sgranai gli occhi, improvvisamente terrorizzata. «No, Edward, no!».

Mi prese in giro, incurante del mio stato. «Ti prego Bella, qualcosa, qualche istante, un flash!» mi supplicò, continuando a ridere sotto i baffi.

Mi avvinghiai con le braccia attorno alle sue gambe, gli occhi ampi. «Non te ne andare» mormorai fra le labbra, deglutendo a più riprese tutta la mia paura.

«Ehi» mormorò serio, accorgendosi del mia stato. Sospirò, accovacciandosi al mio fianco e accarezzandomi la guancia. «Come ti senti ora?» mi chiese con un sorriso gentile.

Presi un respiro fra le labbra. Non volevo che si rendesse conto che c’era qualcosa che non andasse. Se solo avesse scoperto, o anche lontanamente immaginato quello che avevo detto a Jasper, ero certa che mi avrebbe lasciata immediatamente. Non potevo credere che quelle parole fossero proprio uscite dalla mia bocca, non avendo mai io provato uno spiccato desiderio di maternità. Era vero anche che, ripensandoci, non potevo non ammettere di essere stata sincera con me stessa. Avrei voluto un bambino. Ma, molto di più, volevo Edward.

Posai una mano sulla sua guancia. «Se continui a sussurrare e la smetti di ridere, per quanto io sia ridicola, posso ignorare il dolore alla testa» bisbigliai, «Mi sei mancato, e ora non posso stare con te come vorrei perché devo finire un dipinto per domani. Forse non sono tagliata per tutto questo. Mi vorrai sempre, anche se non mi avvicinerò neppure ad essere un’artista decente, o qualunque altra cosa?».

Scosse il capo, stringendo il mio fra le mani. «Certo che sì» dichiarò serio, probabilmente sorpreso dalle mie parole.

Mi strinsi a lui, posando il capo sul suo petto. «Non mi lasciare. Mai».

«Mai» ribadì, accarezzandomi la schiena. Rimanemmo così per qualche secondo, finché non decise di rompere il silenzio. «Vuoi vedere che riuscirai a finire la tua opera d’arte per domani?».

Sorrisi, staccandomi da lui. «Come?».

Lasciò un leggero buffetto sul mio naso. «Fidati di me».

Pochi minuti più tardi dipingevo la mia tela, con un grosso bicchiere d’acqua ed uno di caffè accanto a me. La presenza di Edward non mi dava fastidio, era discreta e riposante, e mi faceva mettere tutto nella giusta prospettiva. La paura, il senso di vuoto, erano completamente spariti, lasciando spazio ad un appagamento dato dalla sua vicinanza. Non avevo bisogno di nient’altro se lui era con me. Questo era quello che volevo.

Sentivo il rumore dei pennelli strisciare sulla tela ruvida, ma non era fastidioso, mi aiutava a concentrarmi. Cambiavo spesso pennello, la forma e la dimensione erano determinanti. Così anche il piacevole suono che ne fuoriusciva mutava, creando quasi una sinfonia. Rosso, verde, blu, bianco. Ogni colore prendeva posto e si accavallava, sposava, sovrapponeva, mischiava con l’altro, in un gioco d’intrecci.

Mi accorsi che ogni personaggio aveva preso il suo posto sul prato, solo quando mi ritrovai ad osservarlo, con Edward che mi cingeva i fianchi. La Cortigiana aveva accanto a sé un meraviglioso Lord, e sorrideva felice.

L’indomani Edward mi accompagnò all’Accademia. Il dipinto giaceva nel portabagagli, ben impacchettato per opera sua; io ero sfinita, appena dopo averlo terminato mi ero addormentata. Gli avevo espressamente chiesto, comunque, di non guardare il dipinto finito. Non sapevo se sarei riuscita a reggere il suo sguardo critico senza pensare che potesse immaginare la storia costruita dietro quelle immagini. Lui, da vero galantuomo qual era sempre stato acconsentì al mio volere.

Avevo gli occhi chiusi quando giungemmo a Port Angeles.

«Siamo arrivati» mi richiamò Edward, facendomi quasi sobbalzare.

Battei le palpebre, guardandomi attorno disorientata. «Sì, certo» mormorai, affannandomi a tastare con le mani la maniglia della portiera. I miei occhi scivolarono verso l’ambiente aperto dei giardini dell’accademia. Un brivido percorse per intero la mia spina dorsale. Mi voltai vero di lui, regalandogli una piccola occhiata timorosa. «D-devo solo consegnare il dipinto, m-mi… aspetti qui?».

Mi sorrise con comprensione. «Certo». Scese dall’auto con un movimento fluido, recuperando la mia opera dal bagagliaio. «Sicura che non vuoi che ti accompagni? È pesante?» fece, sistemandomelo con cautela fra le mani.

Non feci a tempo a rispondergli che la voce timida della mia amica Amber mi chiamò, a qualche decina di metri di distanza. Eppure non si avvicinò.

Salutai frettolosamente Edward con un bacio sulle labbra, desiderosa di allontanare quel dipinto incriminato da lui - seppur bisognosa della sua vicinanza.

Parlare con Amber fu tranquillo e distensivo. Era una delle poche persone con cui mi lasciavo andare rispetto all’arte. Con tutti i vampiri finivo per sentirmi fin troppo inibita, i miei genitori non avevano conoscenza alcuna in materia.

Stavo ancora discorrendo tranquillamente con lei quando il mio professore di disegno creativo mi chiamò: “Signorina Isabella Marie Swan”. Con mani tremanti sfilai il dipinto dal portaritratti e mi avviai verso la cattedra , lasciando che le sue mani rugose e sfilate avvolgessero la cornice del dipinto. Quel professore aveva la reputazione di essere molto severo, in pochi superavano il suo esame con un voto dignitoso. Si diceva che di tanto in tanto, quando le creazioni degli studenti non lo soddisfacevano, usasse distruggerli davanti ai loro occhi. Osservavo la mia cortigiana con un sentimento ambivalente: volevo che scomparisse per sempre, insieme ai miei pensieri assurdi, eppure non potevo che continuare a sentirmene legata.

Il professore se ne stava seduto comodamente su una poltrona dietro la cattedra, con i suoi occhialini tondi, posati sul naso aquilino, e i capelli e la barba bianchi, pizzuti, a incorniciargli il volto austero e caprino. Con aria svogliata, strappò malamente la carta da imballaggio marroncina, che tanto accuratamente Edward aveva usato. Mise il dipinto ben in vista di fronte ai suoi occhi, scrutandolo. Stavo attenta a notare ogni cambiamento di espressione, torturandomi il labbro inferiore. All’inizio le sue sopracciglia erano crucciate, aveva un’aria pensierosa. Osservava ogni dettaglio, abbassando di tanto in tanto gli occhiali, per vedere meglio.

La sua espressione si fece più concentrata, poi, sul suo viso, comparve un’espressione quasi… disgustata? Il cuore iniziò a battermi forte nel petto. Il mio pensiero volò a Edward. Distruggilo. Ti prego, distruggilo e cancella i miei pensieri.

Il professore annuì. «Lo vedo. Rimarrà per sempre qui» i suoi occhi azzurri, quasi cerulei, si tuffarono nei miei. Era come se mi stesse scrutando nell’anima. Un profondo turbamento mi avvolse completamente. Cosa aveva quell’uomo di così strano? Mi osservava come se mi stesse vedendo per la prima e ultima volta.

Scosse il capo con un movimento secco, distogliendo lo sguardo, come turbato intimamente. «È un trenta» borbottò.

Il mio petto fremeva di appagamento e ansia, mentre le sue dita artigliavano la penna stilografica. La strinse, si bloccò. Sollevò il capo di scatto, intimorendomi con la sua occhiata penetrante. «Me la vuole raccontare?» continuò, sollevando un sopracciglio in segno di sfida.

Deglutii, destabilizzata.

Lanciò un’occhiata alla mia tela. «La sua storia».

Boccheggiai, presa completamente in contropiede. Ci misi qualche istante a riprendere il controllo di me stessa. Edward. Mai. «No». La sua espressione si fece più interessata, la mia ancor più intimorita. Volevo andare via. I suoi occhi mi stavano scrutando, troppo, troppo a fondo. «No» balbettai ancora. Le mie mani si strinsero sulla mia borsa in un riflesso automatico. Scappa.

Annuì, e questa volta la sua penna non esitò.

30*  Trenta cum laude

Recitava in meravigliosa calligrafia.

«E adesso vada» mormorò, annuendo e chiudendo gli occhi, strofinando una mano sulle palpebre. Stanco.

Ero ancora scossa quando io, Edward e Amber ci ritrovammo in un caffè davanti all’Accademia. La mia amica era comprensibilmente caduta vittima del fascino del mio fidanzato, ma si era previdentemente ripresa, soprattutto in vista della visita prossima del suo amato ragazzo.

La mia amica aveva spiattellato con orgoglio il mio voto a Edward, sottolineando come il professor Danbaster - questo era il suo nome - non fosse affatto generoso nelle sue valutazioni. Per questo motivo Edward e Amber si erano decisi a festeggiare il mio successo.

Non senza una mia certa ritrosia, Edward aveva tanto insistito per vedere il dipinto completato, e io non avevo potuto che accettare, arrendevole. Ne era rimasto sinceramente strabiliato.

Io avevo trattenuto il fiato e pensato: come, poi avrebbe potuto scoprire la machiavellica storia che vi era dietro? Ma l’avrebbe comunque ricordata a me.

L’avrei odiato. E amato, insieme.

«Cosa c’è?» domandò Edward, carezzandomi la schiena attraverso il sottile strato della mia magliettina estiva.

Scrollai le spalle, continuando a guardare basso dove mettevo i piedi. Camminavano nel sole alto di un mezzogiorno d’estate verso l’auto.

«Va tutto bene? Non sei contenta del tuo risultato?» mi chiese pensieroso.

«Certo che lo sono» mormorai sottovoce, stringendomi al dolce refrigerio che mi offriva il suo corpo.

Si bloccò, voltandosi a osservarmi. Piegò il capo da un lato, tracciando un semicerchio con il pollice sulla mia guancia. «E allora?».

«Niente. Non lo so, ho una brutta sensazione» confessai, tremando appena. Addosso sentivo ancora l’ultimo sguardo che il professore mi aveva rivolto. Era uno sguardo di chi prometteva molto. Di chi giurava che ci saremmo rivisti.

Una ruga increspò la fronte perfetta del mio futuro marito. Mi baciò. «Va meglio?».

Gli sorrisi appena. «Baciami ancora e te lo dirò».

 

   
 
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