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Autore: _Pulse_    22/05/2009    2 recensioni
Eva, una ragazza con genitori divorziati, insofferente verso il genere umano, ritrova sè stessa grazie a due piccoli gemelli, per i quali farà di tutto. Chi sono loro per farla addolcire in quel modo? Beh, lo scoprirete solo leggendo!
Genere: Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arrivo inaspettato

 

Sapete che vuol dire stare in silenzio, con gli occhi chiusi, sentendo il proprio corpo, il battito del proprio cuore e il proprio respiro, magari nell’ombra di una stanzetta illuminata solo da una piccola finestra, nella solitudine? Ecco, lei era così.

Era sdraiata sul suo letto, in silenzio; lei, il suo corpo e la sua musica. La sua mente viaggiava, pensando a mille cose diverse, da quelle più belle della sua vita non proprio uno spettacolo a quelle peggiori. Passava da un argomento all’altro, senza un senso apparentemente logico, ma con una spensieratezza assoluta. Contenta di quello che stava facendo: il niente. A volte le piaceva fare nulla, si rilassava molto e stava lontana da tutto il resto, isolandosi dal mondo.

Il suo corpo, fermo immobile, si rilassava, i muscoli riposavano, mentre la sua mente lavorava senza sosta. Milioni di omini lì dentro si davano da fare per soddisfare un cervello difficile come quello. 

La musica, la musica era quella che le piaceva, le piaceva e la faceva stare bene con sé stessa, era la sua medicina quando le cose andavano di merda, era tutto ciò che le serviva per sopravvivere in un mondo ingiusto come quello, dove le guerre incombevano, l’ecologia non era un granché e le discriminazioni raziali erano ormai sul quotidiano. Lei andava avanti, ma come pochi si caricava sulle sue spalle tutti i problemi del mondo, e soffriva perché non poteva farci niente. Era insofferente verso l’intera umanità, perciò la maggior parte delle volte cercava l’isolamento totale. Meglio soli che mal accompagnati.

 

***

 

Uffa… Che pizza…

Pensò un ragazzino sull’età dei tredici anni, entrato in quella casa, assieme al gemello e alla madre, scortati da una donna, circa dell’età di quest’ultima.

“Ciao Simone! Che bello rivederti!”, aveva accolto la mamma dei gemelli.

“Ciao, anche per me! Come stai?”

Le due donne erano nel salotto, che si scambiavano i convenevoli, dopo due baci sulle guance, con dietro i gemelli che si guardavano e si parlavano solo con gli occhi.

Ma chi ce l’ha fatto fare?

Beh, sicuramente meglio di stare dai nonni!

Il gemello biondo rabbrividì al pensiero delle ramanzine della nonna e a tutti quei pizzicotti sulle guance.

“Sto bene, grazie. Tu, tutto a posto, ti trovo benissimo.”

“Grazie.”

Simone si girò verso i figli con un sorriso e li abbracciò per le spalle, mettendoseli ai fianchi.

“Ragazzi, vi ricordate di lei? No, eravate piccoli…”

“Sì, veramente degli scriccioli! Guardatevi adesso! Come siete cresciuti!” Passò le mani sulle testa ad entrambi, sorridendo.

No! Merda! I capelli no!, pensò il gemello dai capelli corti e mori, accuratamente in piedi sulla testa.

Quella mattina ci era voluto un sacco di tempo perché i capelli rimanessero in quello stato, e ora tutto il suo lavoro era sfumato in un secondo. Tutto per colpa di un’amica di sua madre, che non sapeva nemmeno chi fosse di per sé e quale ruolo avesse avuto nella loro infanzia, sapeva solo che sarebbero stati ospiti, lui e il fratello, a casa sua per una settimana perché loro madre doveva andare via per lavoro.

Avrebbero tanto voluto restare a casa da soli, ma Simone glielo aveva vietato assolutamente, facendo una scenata di quelle che si fanno una volta nella vita: “Voi non rimarrete mai a casa da soli per un’intera settimana! Almeno fin quando non sarete maggiorenni e liberi di uscire da queste mura!

Ma almeno erano in città: loro abitavano in campagna, e odiavano la campagna. Adesso che erano in città, anche se per solo una settimana, non potevano lamentarsi più di tanto. Era l’unica consolazione.

E adesso si ritrovavano lì, con valige al seguito, uno in una situazione piuttosto imbarazzante.

Cercò inutilmente di tirarsi su i capelli, facendo un’espressione buffa con il viso, mezza lingua fuori dalla bocca, come se stesse facendo un’opera d’arte.  Il gemello, vedendo la scena e la faccia del fratello, se la sghignazzava alle sue spalle.

 

***

 

Lei aveva una visione un po’ pessimista della vita, una concezione di essa del tutto differente rispetto ai ragazzi della sua età. Poteva restare giorni e giorni in quel silenzio, in quella sua pace interiore, senza mai uscire di casa, a pensare al senso della vita, perché l’umanità la disgustava in quel modo. Forse la colpa per la sua mentalità differente era dovuta al modo in cui era cresciuta, troppo in fretta, non capendo mai che voleva dire amare la vita.

Ma anche un cervello così evoluto aveva bisogno di energie e, in effetti, aveva un certo languorino.

Si alzò dal letto e si infilò i pantaloncini e una maglietta forse troppo lunga e larga per il suo fisico snello, per questo la usava solo in casa.

Appena uscita dalla sua camera sentì delle voci differenti da quella di sua madre. Avvicinandosi al salotto, le sentì meglio, e ce ne fu una in particolare che la paralizzò del tutto. Non ne sapeva il motivo, ma era così.

Si scosse, riprendendo il controllo del suo corpo, e decise di guardare in sala, anche se aveva uno strano nodo in gola e i brividi. Appena varcò la soglia del soggiorno, si paralizzò di nuovo, vedendo una donna, bella, alta, dai capelli ricci, che parlava accanto alla madre.

Non sapeva chi fosse, ma quella donna fece scattare qualcosa nella sua mente, come un ricordo lontano, sfuocato, in bianco nero, proprio come i vecchi film.

Era la festa del suo compleanno, compiva tre anni. Vide il viso giovane di una bella donna, sorridente, con in braccio due bambini appena nati, identici. Vide sua madre al suo fianco, che la stringeva da dietro, con le braccia intorno al collo, mentre un suo ditino era nella manina di uno dei piccoli. Improvvisamente notte, le urla dei suoi, ancora una volta a litigare, lei che si copriva le orecchie.

“Ehi, mamma! Non ci avevi detto che la tua amica aveva una figlia!”, disse il gemello biondo, nella realtà, prendendo la manica della madre.

“Finalmente! Eccoti! Dove ti eri cacciata?!”, chiese l’altra donna, la madre della ragazza, mettendosi le mani sui fianchi.

Ma lei non la sentì neppure, guardava Simone, completamente impietrita sui suoi passi. Simone, dal canto suo, guardava lei, con le lacrime agli occhi.

Il ragazzino moro si sentì stringere il polso: era la madre che lo teneva, come se volesse sentire qualcuno, per non sentirsi sola. Le due si guardarono ancora un po’, in silenzio, la ragazza, sedici anni appena compiuti, era quasi a bocca aperta, da quanto l’aveva sorpresa quella sua reazione tutt’altro che volontaria.

“Eva…”, mormorò Simone, sull’orlo del pianto, mollando il polso del figlio minore e andando ad abbracciare la ragazza, quasi di corsa.

Eva, era quello il nome della sedicenne, presa alla sprovvista, rimase con le braccia aperte, non capendo ciò che la donna voleva dirle con quell’abbraccio. Quelle braccia che la stringevano forte, le conosceva nel suo inconscio, ma non ricordava. Non ricordava nient’altro oltre a quello che aveva rivissuto nella sua mente come un flashback.

Improvvisamente l’istinto di abbracciare Simone, stringerla, sentire quel profumo dolce che le aveva ricordato casa. Eva si lasciò andare alla salda stretta della donna e ricambiò, mettendogli le braccia intorno al collo.

I gemelli si guardarono: non capivano. Chi era quella ragazza? Perché loro madre sembrava aver ritrovato una figlia perduta? Ma soprattutto, perché quella ragazza sconosciuta abbracciava loro madre? E in quel modo… come se fosse sul serio sua mamma.

Ora, ora che Simone la stringeva, ora che Eva stringeva Simone, Eva era riuscita a ricordare. Aveva sbirciato anche il viso di sua madre, sorrideva e un velo di lacrime luccicava nei suoi occhi scuri. Non la vedeva sorridere da quando Simone, la sua migliore amica, era uscita dalla loro vita, anzi, da quando loro erano uscite dalla vita di Simone, trasferendosi in Inghilterra, per ben tredici anni. Ora erano tornate, di nuovo in Germania, di nuovo da Simone, che, a quanto sembrava, non le aveva per niente dimenticate. Anzi, sembrava aver sofferto molto la loro mancanza in questi anni.

Simone si staccò dall’abbraccio e le prese le spalle, cercando di non piangere, di trattenere le lacrime. Anche Eva aveva quell’istinto di piangere tra le sue braccia, ma non poteva lasciarsi andare, non avrebbe offeso il suo orgoglio per questo. Non piangeva mai, perché avrebbe dovuto farlo in quel momento? Appunto, non lo avrebbe fatto. Così si era imposta.

La donna le accarezzò i capelli, con l’affetto di una mamma, quell’affetto naturale che Eva non aveva mai ricevuto dalla sua di mamma, tutto per colpa di suo padre. Tutto per colpa sua. Forse anche un po’ da quello derivava la sua insofferenza verso il genere umano. In quegli istanti, in quella dolcezza, pensò che ne valeva la pena di vivere solo per le persone come Simone, solo per quelle.  

Appoggiò una ciocca dei suoi capelli lunghi, lisci e biondo scuro sulla sua spalla, sorridendo con amarezza, poi il suo sguardo si posò negli occhi di Eva, impietrita, completamente immobile davanti a lei.

“Eva, lei è Simone, ti ricordi di lei?”, le chiese dolcemente la madre.

Eva non ebbe la forza di rispondere. Simone non ci badò troppo e le prese la mano, la avvicinò ai gemelli.

“Eva, loro sono Bill…”

Bill, il gemello moro, con i capelli (una volta) in piedi, trucco nero sugli occhi e un piercing sul sopraciglio, le porse la mano esibendo un sorriso tipico da bambini.

“Ciao”, disse timidamente, mentre la ragazza gliela stringeva.

Ora era più che sicura che i bambini che aveva in braccio la versione giovane di Simone, nel suo ricordo, erano loro. Due minuscoli bimbi identici, che ora lo erano un po’ meno. L’altro ragazzino, accanto al moro, stese la mano ancora prima che la madre facesse il suo nome.

“Tom, piacere”, la prevenì lui, sorridendo.

Era apparentemente diverso dal gemello, aveva i capelli biondi, al contrario del fratello che li aveva neri, e portava i dreads. Inoltre si vestiva stile hip hop, maglia e pantaloni larghi, non come l’altro, che portava una maglietta attillata nera e dei jeans altrettanto stretti.

Eva fece un mezzo sorriso e alzò un sopracciglio, stringendogli la mano.

Fai l’indipendente, ragazzino?

Avevano entrambi la faccia da ribelli, ma Bill conquistò subito la sua simpatia: sapeva riconoscere ad occhio le persone con le quali poteva avere speranze di comunicazione, ed erano poche.

Bill era una delle poche persone con cui si sentiva in dovere di comunicare espressamente le sue idee, lui sarebbe rimasto ad ascoltarla, ne era certa, e quindi non avrebbe sprecato fiato inutilmente. In più, Bill aveva qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di irresistibile, quel misto tra innocenza e mistero. E per concludere era quello tra i due che si vestiva più simile a lei, colori scuri e accessori stravaganti.

“Scommetto che vi divertirete assieme”, disse la mamma di Eva, sorridendo ai ragazzi.

Che vuol dire che ci divertiremo?, si chiese Eva.

Ecco che notò le valigie dei gemelli all’entrata, solo allora l’illuminazione.

Questa… è opera tua, mamma.

Non ne sapeva niente, sua mamma non le aveva detto niente, né dell’arrivo di Simone né dei gemelli e della loro permanenza in casa loro. Il suo umore cambiò all’improvviso, guardò la madre con rabbia. Però si limitò a quello, perché di dare spettacolo anche davanti a Simone non le andava proprio.

Promemoria: litigare con mamma dopo che Simone sia lontana almeno dieci chilometri.   

Quando madre e figlia litigavano lì dentro cadevano le mura, si scatenava la terza guerra mondiale.

“Mi dispiace molto, ma io adesso sul serio devo andare.”

Simone guardò l’orologio al polso e si affrettò a riprendere la borsa e il cappotto che aveva lasciato sul divano lì di fianco.

Come? Di già?, pensò Eva con la tristezza negli occhi, guardandola mentre baciava i figli sulle guance.

“Mi raccomando, fate i bravi, eh”, disse sorridendo.

“Mamma, l’hai fatto apposta vero? Ce l’hai già detto mille di volte!”

“Ma io direi anche duemila!”, concluse Tom con un sorriso.

“Sì, ok, però è meglio saperlo bene che non saperlo.”

La madre di Eva accompagnò Simone alla porta, parlando ancora, e Simone che la ringraziava per tenere i gemelli in sua assenza.   

Bill, Tom e Eva si guardarono per un istante. Ora che li guardava bene, riusciva ad accorgersi che i loro lineamenti dolci e morbidi erano identici e anche i loro occhi nocciola uguali. Quei ragazzini le fecero tornare in mente amari ricordi, ricordi che nemmeno credeva di avere.

Non pensava mai al suo passato e quando lo faceva non andava a pensare a due mocciosetti (anche se avevano dell’adorabile, erano pur sempre mocciosetti); aveva affrontato cose ben peggiori e di gemelli non se n’era affatto parlato.

“Ciao ragazzi! Baci!”, Simone soffiò dei baci nel salotto, sorridendo e scappando via.

I gemelli l’avevano salutata con la mano, mentre Eva non aveva fatto proprio un bel tubo. In tutto quel tempo, non aveva detto una sola parola. Era proprio di lei: non sprecava parole e poi non era una chiacchierona. Pure con i pochi amici che aveva parlava poco o niente.

“Eva, vuoi renderti utile nella società? Ecco, ne hai l’opportunità: sistema le valigie di Bill e Tom e falli accomodare. Mica vuoi farli stare in piedi così, no?”, disse la madre di lei, sorridendo.

Eva non sapeva proprio come prenderla: era incazzata con lei, non le aveva detto che avrebbe dovuto condividere casa con due ragazzini, i figli di Simone, una delle persone a cui si era accorta di tenere di più al mondo (che erano già poche), eppure, vedendo la sua gioia, quel suo sorriso che era mancato per troppo tempo sul suo viso, non riusciva a litigarci e ad esserci incazzata fino in fondo.

Eva si lasciò scappare un sorriso, che nascose subito tra le labbra, e andò all’entrata per prendere le valigie dei gemelli.

“Ma va’, lascia stare, facciamo noi. Tu dicci solo dove dobbiamo metterle”, era intervenuto Bill, bolccandole il polso della mano che già aveva preso il manico di una borsa.

Eva lo guardò in viso, stupita dalla sua gentilezza. Ogni minuto che passava si affezionava sempre più a quel bambino, non sapendo nemmeno un motivo sensato.

“Ma che gentile! Si vede che tua madre è Simone. Beh, visto che si era decisa a fare qualcosa nella sua giovane vita, lascia portare a lei ormai quella valigia”, intervenì ancora sua madre.

Ancora una presa in giro verso Eva e lei che non riusciva a risponderle, sarà stato per il suo sorriso contento, sarà stata per la presenza dei gemelli, ma non ci riusciva.

“Ok, va bene. Dai Tom, dacci una mano pure tu, no? O vuoi fare la bella statuina?”, gli chiese Bill, sogghignando.

Altro punto in favore di Bill assegnato da Eva, che sorrise. Prese una valigia dal mucchio e la tirò su, portandola poi con sé in mezzo al corridoio, per poi tornare indietro.

“Scusa mamma, ma dove mi avevi detto che dormivano? Non me lo ricordo… Sai come sono, le cose che mi dici entrano da una parte ed escono dall’altra.” Le prime parole di Eva in presenza dei ragazzini.

“Che bella voce!”, urlò Bill, tappandosi la bocca con la mano, arrossendo, quando notò che tutti lo stavano guardando, compresa Eva, alla quale era rivolto il complimento.

“Grazie ragazzino!”, disse Eva, con un sorriso.

Stava per sfregargli la testa, Bill era già pronto con gli occhi chiusi e i denti stretti per non urlare bestemmie, ma lei si fermò.

“Ehi, non ti rovino i capelli, non ti preoccupare.”

“Per quello che possono essere ancora rovinati…”, aggiunse il fratello facendo un gesto con la mano e sorridendo.

La madre di Eva, intanto, era uscita dalla cucina, ma non aveva ancora risposto alla figlia.

“Allora mamma? Dove hai detto, a me, che li mettiamo?”, chiese, ancora insistendo sul verbo “dire”, cosa che sua madre non aveva fatto.

“Ehm… sì. Sul divano letto. Le valigie portatele in camera tua, ok?”

“Ok”, disse facendo il segno con la mano.

I tre portarono le valigie in camera di Eva. Bill, appena entrato, non risparmiò a nessuno la sua meraviglia e la rese pubblica senza problemi.

“Questa camera è stupenda!” aveva detto, entrando e guardandosi intorno senza fiato. “Wow!”

Le pareti erano colorate di un viola tenue e c’erano poster dei Green Day e dei Placebo attaccati su tutta una parete e sulla porta. Il letto a baldacchino era in mezzo alla stanza, ricoperto da stupende lenzuola e piumoni neri a scheletri bianchi. Il computer portatile sulla scrivania e sopra una mensola solo di cd e dvd. La televisione invece era alla parete, con sotto anche la play-station. In fondo alla stanza c’era una finestra, che dava direttamente sulla piscina del condominio, deserta in quanto faceva ancora freddo. Dall’altra parte c’era l’armadio a due ante, dipinte da Eva stessa di nero, con attaccato un appendino con un vestito nero, con un fiocco rosso scuro intorno alla vita.

Bill si avvicinò ad esso e accarezzò la stoffa morbida del vestito, con gli occhi brillanti.

“Ti piace?”, chiese Eva, mentre metteva la valigia vicina alla parete.

“Un sacco!”, disse Bill con un sorriso, guardando Eva e il piccolo sorriso che aveva sulle labbra.

“L’ho fatto io”, continuò felice la ragazza. Con Bill era un piacere sorridere, e le veniva anche piuttosto naturale.

“Davvero? È bellissimo.”

“Grazie.”

Anche Tom appoggiò le valigie che aveva in mano accanto alla parete, poi si mise dritto sulla schiena, con le mani sui fianchi, guardandosi intorno.

“Ma te lo metti anche?”, chiese malizioso, guardando dall’alto in basso il corpo della ragazza.

“Sì, qualche problema?”

“No, nessuno, anzi! Comunque non so cosa ci trovi in questa stanza, Bill. È buia!” disse, indicando intorno a lui con la mano.

Bill e Eva lo guardarono: il primo con la faccia seria e la seconda con un sorrisetto strafottente.

“Sì, è buia come l’interno del tuo cranio”, rispose Bill, sorridendo e chiudendo gli occhi al fratello.

Adoro questo moccioso!

Eva non poteva crederci. Non si sentiva così felice da un sacco di tempo, e il motivo della sua felicità era nell’aver trovato una persona, un ragazzino, che la capisse.

“Divertente, Bill.”

“Ragazzi! Venite, è pronta la cena!”, disse la mamma di Eva dalla cucina.

“Menomale, ho una fame!”, disse Tom, mettendosi una mano sullo stomaco.

“Tu pensi sempre a mangiare, è inutile”, Bill sorrise scuotendo il capo e raggiunse il fratello accanto alla porta.

Eva rimase a guardarli, mentre uscivano dalla sua camera, parlando tranquillamente. Bill tornò indietro, accortosi che Eva non era con loro. Sbirciò di nuovo in camera sua con la testa.

“Tu non vieni?”, le chiese, sorridendo.

Eva sorrise al piccolino e lo raggiunse.

 

***

 

Era ora di andare a dormire, i gemelli erano già sistemati sul divano letto, mentre Eva ancora vagava per la sua stanza, in preda a uno dei suoi ragionamenti confusi.

Si fece coraggio ed entrò nella camera della madre, che trovò in un pigiamone rosa. Le venne da ridere, ma la questione che voleva affrontare non era una delle più divertenti, perciò non era il caso.

“Eva, tesoro, che cosa c’è?”, le chiese dolcemente la madre.

La madre le indicò di sedersi accanto a lei, sul letto. Eva si avvicinò piano, come se avesse paura di un contatto brusco con la tenerezza. La spaventava moltissimo. Ci era passata da bambina, avendo tutta la tenerezza del mondo, per poi non avere niente. Non voleva sentire ancora quella sensazione addosso.

Si mise seduta sul letto, a gambe incrociate, di fronte alla madre.

“Volevo parlarti di una cosa.”

Parlavano effettivamente poco. Il dialogo non era sicuramente una “dote” di Eva, perché per lei era proprio una dote, e la madre non l’aveva mai aiutata a parlare con lei dei suoi problemi, su quell’aspetto era mancata. Era mancata in molto da quando nella sua infanzia si susseguivano problemi dopo problemi, e tutti all’improvviso.

“Perché non mi hai detto di Bill e Tom? Di… Simone?”

La madre si incupì, il suo sorriso rimase nascosto nell’ombra mentre parlavano.

“Perché… Eva, io… non sapevo come dirtelo.”

“Come?”

“Avevo paura che ti facesse male rivedere Simone, non la vedevi da tanto, credevo che ti avesse fatto ricordare quando…”

“Mamma…”, la abbracciò.

Si era preoccupata per lei, solo ed esclusivamente per lei. Eva non avrebbe avuto problemi a perdonarla, e non sarebbe nemmeno servita una nuova e frustante litigata.

Il loro rapporto era forte, erano molto unite, ma mancava quel qualcosa che Simone aveva cercato di farle capire: l’affetto. Da quando Simone non c’era più stata per entrambe, avevano perso quell’affetto che doveva venire naturale, da madre a figlia. Erano rare le volte che manifestavano apertamente all’altra il proprio affetto. E di sicuro quelle rare volte non era certo Eva a manifestarlo e a cercarlo. Sbagliava. Sbagliava, e di grosso. Così si allontanava ancora di più dalla madre.

Aveva capito tutto questo adesso, grazie all’arrivo di Simone, dei gemelli, di quello che era successo. Ringraziò il cielo perché Simone fosse di nuovo nella loro vita.

“Grazie, mamma”, sussurrò, lasciandosi cullare dalle braccia della madre, ritornando con la mente agli istanti felici della sua infanzia.

“Prego, cucciolotta.”

“Non mi chiamare così, ti prego.”

“Perché? Ti piaceva tanto quando eri bambina!”, la madre sorrise e le fece solletico in pancia, godendosi fino in fondo la gioia che le regalava la figlia.

“Sai che ti voglio bene, sì?”

“Sì, lo so mamma. Anch’io te ne voglio.”

“E comunque scusa se non te l’ho detto… è che…”

“Fa niente mamma, non ti preoccupare”, le stampò un bacio sulla guancia calda e sorrise.

“Quel coso… Ma non ti da fastidio?”, le chiese, prendendole il viso e accarezzandole il labbro inferiore, dove c’era un anellino argentato di metallo freddo, sull’angolo destro.

“No, lascia stare, dai!”, aveva gridato piano, ridendo e lasciandosi cadere accanto alla madre, sul morbido piumone rosa.

“Mamma…”

“Mmh?”

“Posso dormire qui?”, aveva chiesto Eva, sistemandosi meglio accanto alla mamma, sorridendo e accucciandosi al suo fianco.

La madre le accarezzò la guancia, le rimboccò le coperte, ritornando indietro nel tempo, quando ancora erano una famiglia. Ora erano lei e sua figlia, ma non rimpiangeva nulla, era contenta della sua famiglia: la sua unica figlia.

“Certo, certo che puoi.”

Eva stava già dormendo, il respiro regolare, serena. La mamma sorrise e spense la luce, dopo averle donato un morbido bacio sulla tempia, ricordando l’infanzia della sua bimba, rovinata, purtroppo, volata nel vento. Sogni distrutti, desideri infranti. Per colpa anche un po’ sua, forse.

C’è sempre tempo per rimediare.

 

***

 

“Tomi? Tomi, stai dormendo?”, chiese sussurrando Bill, avvicinandosi al corpo del fratello, nel letto.

“No, perché c’è qualcuno qui che non mi fa dormire”, rispose, mettendosi meglio le coperte fino al collo. Il fratello non aveva detto altro, così si girò verso di lui e sorrise.

“Che c’è Bill? Dai, dimmi tutto.”

Anche Bill sorrise. Si avvicinò di più al gemello e si mise con la testa sotto al suo mento, sentendo il calore del suo corpo, il suo cuore nel petto.

“Che ne pensi di Eva?”

“Eva?”

“Si, Eva.”

“Mmh… Beh… In che senso?”

“Come in che senso? Ti ho fatto una domanda. Che ne pensi?”

“Di sicuro non si può definire una che parla molto… A cena non ha spiccicato una parola.”

“Sì, vero.”

“Poi… che devo dire?”

“Io la trovo simpatica, è forte.”

“Dici questo solo perché ha la stanza buia?”

Bill gli puntò il dito sul petto, mentre le braccia del fratello lo abbracciavano teneramente.

“Primo, quella stanza non è buia. E secondo, no. Non lo dico per quello. Anche se non parla molto, penso che sia una ragazza diversa dalle altre, non so se capisci.”

“Si veste strana come te?”

“No. Ha un qualcosa in più… che ne so.”

“Poche idee e soprattutto confuse, vero fratellino?”

Erano completamente al buio nel salotto. Nella casa regnava il silenzio e sembrava che gli unici svegli nella notte fossero loro, insieme, come volevano essere. Loro e nessun altro.

“Forse.”

“Beh, sai che ti dico? Io la trovo… intrigante. Sì, è l’aggettivo giusto.”

“Dio, Tom, sei sempre il solito!”

“Aspetta. Insomma, non ti viene anche a te la voglia di scoprire com’è? Fa così tanto la silenziosa… la misteriosa, che… boh, che ne so… ti attira. A te no?”

“A te ti attirano tutte, Tom.”

“Perché mi piacciono le ragazze!”

“E che vuol dire?! Anche a me, ma non sono ossessionato come te. Vorrei vederti tra un po’ di anni.”

“E io vorrei vedere te. Secondo me ti fanno Santo. Il Santino Bill…”  

“Piantala Tomi!”

“Ok, ok. Allora sei soddisfatto? Possiamo finalmente dormire?”

“Va bene, ma solo se restiamo così.”

“E va bene…”

Tom mise meglio Bill fra le sue braccia, in modo tale che anche lui fosse comodo, si diedero la buona notte e si addormentarono, insieme, nella notte.


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Nota: Nuova ff (in verità vecchia perchè l'ho scritta un mucchio di tempo fa) solo per voi! Che ne pensate?
Grazie a tutti in anticipo... Vi voglio bene *__*    
 _Ary_
   
 
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