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Autore: EmilyW14A    28/01/2017    3 recensioni
Succede spesso di convincerci che le persone ci guardano e critichino ogni singola cosa che facciamo, ma non è così. La verità è che gli esseri umani sono tutti perfettamente egoisti e non hanno tempo da dedicare agli altri, anche se si tratta di uno sconosciuto seduto nel sedile davanti sul treno. Noi ci convinciamo che gli altri passino il loro tempo a commentare i nostri abiti, i nostri capelli, i piercings, i tatuaggi, i nostri lineamenti, il nostro fisico; in realtà nessuno si sofferma veramente a giudicare cosa fanno gli altri. Nonostante ciò, in questo momento non riesco a togliermi di dosso la sensazione che tutti i passeggeri della metropolitana si siano accorti di quello che ho appena fatto e mi stiano fissando con sguardo indagatore. Cerco di darmi velocemente un contegno, sistemo la camicia e la giacca, e proseguo nel mio cammino. Controllo l'orologio e mi accorgo che tra meno di due ore devo iniziare il turno a lavoro. Decido di fermarmi qualche fermata prima per pranzare in un posto tranquillo. Ho bisogno di riflettere da solo su tutto quello che è appena successo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Reita, Ruki, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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( https://www.youtube.com/watch?v=YEH98_Ha2aA ascoltate questo durante tutto il capitolo, per favore) 




XXII.























Parcheggio il mio veicolo con una spinta sonora del freno a mano e mi assicuro che la macchina rispetti il mio comando. Controllo il terreno davanti a me e lo spazio rimasto tra il mio fuoristrada e il grande tronco di albero che guarda con aria di sfida il parabrezza. Mi assicuro di aver chiuso la radio e finalmente spengo la macchina.
“Siamo arrivati.” Sussurro al mio interlocutore.
Non risponde ma lo vedo socchiudere le labbra guardando un punto impreciso davanti a sé. Non mi capacito di come siamo giunti qui. In questa situazione, in questo luogo, in questo preciso istante.
Scendo dalla macchina e sbatto la portiera senza fare troppo chiasso. Mi imita raggiungendomi in pochi secondi. Preleva una sigaretta dalla tasca della sua felpa grigia e la porta alla bocca serrandola tra i suoi due petali di rosa. Il suo volto sembra stanco, nervoso, stressato. Forse è a causa della luce fioca del sole che spunta timidamente tra le nuvole, o forse è a causa dei miei occhi troppo offuscati dal passato, tuttavia riesco a scorgere due profondi solchi grigiastri sotto i suoi occhi. Due pozzanghere fangose in mezzo al suo viso niveo. Vorrei lavarle via, ricoprirle con la rugiada. I nostri occhi si incrociano per un istante. Fa freddo. Ho un urgente bisogno di chiudere le finestre del mio cuore il prima possibile.
“Molto bello qui” sussurra lui poco dopo. È così tanto che non sento la sua voce che per un secondo credo di essermela semplicemente immaginata. Per tutta al durata il viaggio l’ho sentito solamente sospirare o tossire. Nessuna parola, nessun suono emesso dalle sue corde vocali. C’è qualcosa di erotico nel silenzio che si era creato tra di noi. Come se in realtà le nostre anime si stessero toccando a nostra insaputa.
“Sì è molto bello. Mia zia adora passare qui le vacanze invernali e anche quelle estive. Abbiamo delle stufe molto grandi e utili per l’inverno e in estate fa molto fresco. È il luogo perfetto.” Concludo grattandomi la guancia sinistra. Leggo nei suoi occhi qualcosa di strano. Leggo progetti, sogni, lacrime. Stai pensando al futuro Takanori? Perché non ti soffermi a vivere il presente? Il passato è troppo crudele e il futuro fa paura. Lasciati proteggere dal presente.
Aspira profondamente la sua Marlboro fino a ridurla in un moncherino di fibre bianche bruciacchiate. Lascia cadere il piccolo relitto di sigaretta ai suoi piedi ponendo fine alla sua vita con il tacco dei suoi stivaletti.
“Ho sempre adorato la montagna. Amavo passare le giornate a passeggiare con mio padre e a raccogliere i fiori e le pigne. Tuttavia non nego di sentirmi un po’ malinconico. Forse è l’effetto di questi posti. Alberi alti, cime rocciose e strade in salita. È tutto così silenzioso che mi sento a disagio; come un fiore nascosto in una piccola insenatura di cui nessuno può ammirare la bellezza.”
Lo osservo parlare nascondendosi leggermente la bocca con il colletto della felpa extra large. Si vergogna al tal punto da precludermi ogni sua minima smorfia. Perché mi stai facendo questo? Non posso almeno avere il diritto di guardare in faccia il mio assassino?
“Anche io mi sento molto malinconico a causa del clima di montagna. Tuttavia ogni volta che sono venuto qui ho sempre avuto così tanto lavoro da fare che a fine giornata ero così stanco che non riuscivo a formulare nessun pensiero coerente. Anzi, a proposito di lavoro, conviene iniziare il prima possibile. Quelle nuvole laggiù non mi sembrano molto simpatiche.”  Affermo indicando un groviglio di sfumature di grigio che minaccia il cielo azzurro e limpido.
Affondo i miei anfibi nella ghiaia di cui il viottolo che separa la macchina dall’entrata ne è completamente ricoperto.  Arriviamo davanti al portone della casa di mia zia in pochi attimi. Apro la porta e immediatamente vengo accolto da quell’odore di legno e chiuso così familiare da farmi sentire immediatamente a casa. Mia madre era solita portare qui me e mia sorella in estate per passare alcune settimane in compagnia di nostra zia. Ricordo ancora l’impazienza durante tutta la durata del viaggio, la voglia di riabbracciare la zia, l’ansia di correre per le strade in salita insieme a mia sorella e respirare l’ossigeno puro e fresco. È bello possedere dei ricordi del genere. Mi rendono così spontaneo. La casa è come me la ricordavo. Sono ormai mesi che non torno qui. Ogni mobile è al suo posto. L’attaccapanni è posizionato sulla destra dell’entrata come un maggiordomo che ci saluta accogliendoci elegantemente. Un piccolo tappeto rosso e consumato dal tempo è disposto in terra davanti a noi e decora il piccolo corridoio che conduce alle stanze della casa. Percorro il corridoio invitando Takanori a seguirmi. Entriamo nel piccolo salotto la cui mobilia è composta solamente da un tavolo di legno e un divano color verde petrolio. Appoggio la borsa della spesa alimentare e la mia tracolla sul tavolo. Mia zia non ha mai brillato per essere una persona che ama i soprammobili o gli oggetti. Da quando è invecchiata ha portato via i pochi oggetti che arredavano questa casa lasciando solamente il necessario.
Sento qualcuno schiacciare l’interruttore della luce.
“Ah! No la luce qui non funziona. Siccome mia zia non viene più qui a causa dei suoi problemi di deambulazione ha pensato bene di togliere ogni tipo di corrente elettrica. In compenso abbiamo il gas a nostra disposizione, una caldaia per l’acqua e una generosa scorta di candele a portata di mano. Quando inizierà a fare buio ne accenderemo un bel po’. Spero che non faccia troppo freddo.” Dico grattandomi la testa.
Takanori sorride. Si guarda intorno focalizzando l’attenzione su ogni particolare.
“È bellissimo qui. Davvero bellissimo. Tu ci vieni spesso?”
“Quando posso. A volte non mi piace molto. Sei totalmente isolato dal mondo ed è tutto così silenzioso che ti sembra di impazzire. A volte invece penso di voler rimanere qui per il resto dei miei giorni.” Mentre parlo mi tolgo la giacca e la posiziono sul divano; lui fa lo stesso con la sua felpa grigia. Rimane solo con una camicia bianca molto attillata e a maniche corte e dei jeans neri. È così semplice da sembrare immacolato. Come un dipinto di un pittore preraffaelita. Distolgo lo sguardo.
“Iniziamo a darci da fare se sei d’accordo. Qua dietro c’è un piccolo boschetto dove poter raccogliere un po’ di rami o pezzi di corteccia. Mia zia vuole che raccolga la legna necessaria per accendere il fuoco in inverno. Lei ormai è davvero troppo anziana per poterlo fare e così mi sono offerto io. In cucina abbiamo un grosso caminetto che mia madre e sua sorella usano sempre quando passano le vacanze invernali qui. Tuttavia dobbiamo sbrigarci. Prima iniziamo e prima finiamo.”
Takanori risponde con un gesto affermativo del viso. Ci dirigiamo verso l’uscita e finalmente torniamo a respirare aria fresca e limpida. Aggiriamo la casa passando per una piccola scorciatoia scavata nella terra tra erbacce e piante secche e in lontananza individuo una massa di alberi verdi e rigogliosi disposti in maniera così ordinata da sembrare una schiera di soldati pronti a salutare solennemente una grande autorità politica. Osservo il cielo. Il sole non sembra proprio contento di voler fare il suo lavoro oggi; continua a nascondersi dietro qualche nuvola passeggera come se avesse un grosso timore delle nuvole grigie che lo minacciano da lontano. Passeggiamo l’uno vicino all’altro. Dopo pochi minuti è lui a rompere il ghiaccio.
“Posso chiederti una cosa? Se non vuoi rispondere sei libero di tirarmi un pugno in faccia” sorride guardandomi. Rispondo affermativamente.
“C-Come vi siete conosciuti tu e Jonathan?” sussurra con un filo di voce.
Ingoio un grumo di saliva.
“Frequentavamo la stessa palestra qualche mese fa. Lui è un modello; ha uno stile di vita particolare e così in un modo o nell’altro i nostri orari si incrociavano spesso e ci vedevamo quasi ogni giorno.  Così abbiamo iniziato a parlare e dopo poco mi ha proposto di poterci allenare insieme.”
“Un modello?” chiede con tono sorpreso. “Ora capisco perfettamente perché io non posso competere…” sorride amaramente guardando la punta delle sue scarpe. Quel sorriso falso e forzato mi provoca un forte dolore alla bocca dello stomaco. Preferirei essere schiacciato da una roccia franosa piuttosto che vederlo sorridere così. Non sa quanto io lo trovi bello, anche dopo tutto quello che è successo. Non ho mai conosciuto un ragazzo di tale bellezza. Prima di conoscere Takanori pensavo di non poter dare una definizione di bellezza. Ma ora, se mi venisse chiesto cosa sia la bellezza, risponderei senza nemmeno pensarci che lui è la bellezza. La bellezza interiore ed esteriore. Come uno scrigno dorato contenente una pietra preziosa.
La sua frase viene lasciata in sospeso. Spero che il vento la porti via con sé.
“E tu invece? Come va a lavoro?” chiedo cambiando discorso.
“Tutto bene. Mi hanno spostato all’ultimo piano della biblioteca. Ora lavoro nella sala studio degli universitari.” Esprime la frase evitando accuratamente di incrociare il mio sguardo. “Ah, per la cronaca. Ho tirato un pugno a Yutaka da parte tua.”
“Non occorreva” dico tastandomi involontariamente la ferita ormai rimarginata dentro la guancia.
“Non mi piace la violenza. Yutaka ha esagerato e così si è meritato quel pugno. Anzi, forse avrei dovuto darglielo più forte.”
Non rispondo e continuo a camminare. Dopo una decina di minuti di cammino ci inoltriamo nel piccolo bosco e lo percorriamo tutto. Arriviamo fino alle sponde di un piccole fiume che scorre sonoramente tra i grandi massi di pietra provocando un grazioso suono accogliente.
Guardo l’acqua scivolare delicata tra la roccia.
“Yutaka deve volerti molto bene.” Continuo.
“Non in quel senso. È un grande amico e sicuramente mi vuole bene. Ma so cosa pensi e, no. Non è innamorato di me. Non gli ho raccontato tutta la verità; non sa cosa c’è stato tra noi due. Mi ha solo visto piangere per molti giorni consecutivi e si è accorto che avevo smesso di mangiare. A quel punto lui ha fatto tutto di testa sua. Se lo avessi saputo avrei fatto di tutto per impedirglielo.” La sua voce è una cantilena fastidiosa per le mie orecchie.
“È inutile pensare al passato ormai, no? Quello che è successo, ormai è successo.” Concludo io.
Rimaniamo in silenzio per minuti interminabili. Mi sembra di essere morto. No, non sono in paradiso; non sono nemmeno all’inferno. Mi trovo in un pericoloso limbo da cui non c’è via di uscita. Vorrei essere risucchiato da questo fiume così accogliente ed essere trascinato via.
Mi guardo intorno in cerca di qualcosa. Cammino, aumento il passo, raggiungo il mio obbiettivo. È un ramo di albero portato alla sponda del fiume dalla corrente. Lo raccolgo e lo tasto con le mani. È leggermente umido ma sembra molto resistente.
“Quelle nuvole si stanno avvicinando.” Affermo alzando gli occhi al cielo. “Conviene iniziare la nostra raccolta. Vedi questo ramo? È abbastanza resistente e piuttosto secco. È perfetto per il accendere il fuoco.”
Mi ascolta attentamente guardando con concentrazione il pezzo di legno che tengo tra le mani.
“Perfetto. Allora io ti seguo e mi dici tu cosa raccogliere o cosa no” sussurra.
È imbarazzato, spaventato e forse…deluso. Mi dispiace averti deluso Takanori. Ho deluso tutti nella mia vita: le mie insegnanti, i miei amici, i miei colleghi, me stesso.
Mi avvio verso il sentiero di destra seguendo il corso del fiume e raccogliendo i rami che a prima vista appaiono robusti e sufficientemente secchi. Ne passo qualcuno a lui che ne prende una manciata tra le braccia come se stesse trasportando un neonato o qualcosa di molto prezioso.
“Suoni ancora il basso?”
“Qualche volta. Ormai ho disimparato e quindi suono solo quello che mi ricordo o che mi riesce meglio.”
“Capisco” annuisce arricciando il naso in una piccola smorfia.
“Tu vai ancora alle mostre? Ne hai trovata una particolarmente interessante?”
“Sì certo. Beh, ce ne sono tantissime. L’ultima che ho visto era una mostra installata da un’artista francese di arte contemporanea. Una cosa molto particolare”
Affrettiamo il passo e recuperiamo altri rami.
“Non me ne intendo molto di arte, ma ho tutto il diritto di dire che l’arte contemporanea mi fa schifo” Tossisco e nel frattempo prendo in mano un pezzo di legno decisamente troppo lungo e lo rompo in due parti aiutandomi con il piede sinistro.
“Ma no dai! Non è così male. Devi solamente lavorare di immaginazione e trovare uno scopo nel contesto. A volte non c’è ed è questo che mi affascina.” Controbatte sorridendo.
“Quindi mi stai dicendo che se io esibisco in una galleria d’arte il cesso di casa mia senza un motivo apparente posso essere considerato un artista?”
“Beh, perché no…anche se, personalmente, ti considererei solo un idiota” risponde lui ridendo.
Scoppio a ridere anche io. Il rumore delle nostre risate viene portato via dal vento. Qualche uccello vola da un albero all’altro. L’acqua del ruscello suona una musica dolce e tranquillizzante. 
“Sai che…ho imparato a fare il tiramisù verde?!” esclamo cogliendolo di sorpresa.
“Non ci credo.”
“Giuro” dico sorridendo. “Avresti dovuto vedere gli esperimenti fatti in cucina tra me e Yuu. Abbiamo speso circa tre mesi a trovare la ricetta perfetta e la consistenza giusta. Merito un premio nobel per la cucina!”
Afferro l’ultima manciata di rami avvolgendoli con entrambe le mani e cercando di sostenerli a mezz’aria. Sento una piccola goccia di sudore bagnare il contorno della mia mascella.
“Ma non esiste!” incalza lui ridendo. Nel farlo qualche rametto cade dalle sue braccia rotolando rovinosamente sul terreno erboso.
“Oh, attento” sussurro guardandolo negli occhi.
Mi inginocchio avendo cura di non far cadere quello che tengo in mano e afferro i rami porgendoglieli. Le nostre dita si sfiorano impercettibilmente. Mi ritraggo immediatamente girando lo sguardo verso qualcosa di poco interessante. Continuo a camminare aumentando il passo.
“Cosa hai fatto questa estate?” azzardo. Perché è così difficile parlare di fronte alle persone a cui vorresti raccontare mille cose? Sento il mio cervello funzionare ad intermittenza come una luce al neon mal ridotta.
“Mah, nulla di che. Sono andato a trovare i parenti di mio padre, soprattutto il mio caro cugino. Non so se ricordi…”
Takanori parla fissando spesso il sentiero o i propri piedi. Vorrei leggere il suo sguardo.  Perché non posso guardare i suoi occhi? Perché non posso toccare la sua anima?
“Certo! Il vestito! A proposito…ma lo indossi ancora?”
“Beh non vado mica ad un matrimonio ogni giorno! Devo ammettere che il vestito è piuttosto estroso e non è sempre consono da indossare. L’ho indossato una volta ad un’inaugurazione di una mostra di fotografia del maestro Araki e confesso di aver attirato lo sguardo di molti.”
“Beh forse, se ti hanno guardato tutti, il merito non era solo del vestito…” sussurro voltandomi nella sua direzione.
Arrossisce.
In un battito di ciglia l’atmosfera cambia totalmente. Le nuvole grigie si impadroniscono del  cielo interrompendo la nostra piacevole passeggiata. Sento qualcosa di umido e bagnato colpirmi il centro della testa. Un altro ticchettio. Poi una goccia bella grossa. Uno, due, tre, dieci, duecento, mille gocce di pioggia. Inizia a piovere nel giro di pochi secondi.
“Merda, sta piovendo!” esclamo abbassando il volto per non bagnarmi.
“E’ molto distante casa di tua zia?” chiede Takanori con una smorfia sul viso.
“Se corriamo ci impieghiamo solo qualche minuto” dico cercando di ripararmi sotto qualche frasca di un albero molto alto. Ci guardiamo.
“Al mio tre iniziamo a correre”
Risponde con un cenno del capo.
“Uno, due…tre!” al pronunciare di queste parole mi scaravento con violenza in una delle corse più pazze della mia vita. Tengo stretto il fascio di rami tra le braccia cercando contemporaneamente di fare attenzione al terreno che diventa piano piano sempre più scivoloso. Corro velocemente come se dovessi scappare da qualcosa di terribilmente mostruoso. Ricordo che quando io e mia sorella eravamo molto piccoli, quello che sarebbe dovuto essere mio padre, si soffermava a giocare con noi quelle poche volte che aveva del tempo a disposizione per stare con la sua famiglia, se così si può chiamarla. Rammento ancora spezzoni della sua voce. Frasi emanate in piccoli sussurri.
Correte bimbi o il lupo nero vi mangerà!
Io e mia sorella scappavamo come matti. Iniziavamo a correre per tutta la casa come se avessimo visto un fantasma.  Dopo una folle corsa – e dopo essere inciampati in ogni angolo possibile della casa – ci rendevamo conto che non c’era nessun lupo nero e che non c’era bisogno di correre. La delusione nelle nostre facce era palese. Chissà dove è ora mio padre.
Lui, il lupo nero.
Mi volto per assicurarmi che quel piccolo uomo sia ancora dietro di me. Con mia grande sorpresa noto che siamo quasi arrivati. Aumento il ritmo e finalmente poggio il piede su un pavimento di legno familiare. Mi fermo sotto il tetto sporgente che copre la pavimentazione dell’ingresso esterno dell’abitazione. Appoggio il mucchio di rami alla parete di legno della casa in posizione verticale. Mi volto e lo vedo. È completamente bagnato da capo a piedi.
Mi porge il mazzo di rami tremante. Li afferro saldamente e li sposto riunendoli ai loro simili.
Solo dopo aver lanciato uno sguardo alle mie scarpe mi accorgo di essere fradicio anche io. Come se mi fossi tuffato in piscina con i vestiti, scarpe e calzini. La mia maglietta è così bagnata da essersi attaccata al mio petto diventando una seconda pelle di colore blu scuro. I miei jeans sono umidi e dalle cuciture delle caviglie fuoriescono rivoli di acqua che sfociano nel pavimento del piccolo giardino. Per non parlare delle mie sneakers. Un ammasso di  cuciture e colori informi così inzuppati da sembrare due spugne vecchie e consunte.
Mi volto e lo osservo. La sua camicia bianca non è ridotta meglio dei miei vestiti. La stoffa di cotone è appicciata alla sua pelle come una guaina o uno strato di argilla fresca. Intravedo le curve del suo petto e del suo ventre. Noto due piccoli capezzoli sporgenti dalla stoffa dell’indumento. I suoi capelli sono così bagnati che dalle punte corvine gocciolano senza sosta rivoli di acqua piovana. Il suo volto pallido è contornato da piccole goccioline che sul suo viso sembrano perle rare e preziose. Vorrei raccoglierne una e conservarla gelosamente per il resto dei miei giorni. Ci guardiamo per pochi secondi; eppure sembra che siamo qui, sotto questo tetto di legno mangiato dai tarli, da un’eternità. Un’eternità spesa a guardarci. A sentirci vicino, ma non abbastanza da poterci veramente toccare.
Improvvisamente scoppiamo a ridere entrambi. Il suono profondo della sua risata mi fa pensare a qualche dolce prelibato. Caramello salato e pistacchio. Vorrei assaggiare la sua risata. Continuiamo a ridere di gusto per svariati minuti guardandoci negli occhi.
Mi asciugo la fronte bagnata.
“Tipico temporale estivo” sussurro infilando le mani nelle tasche dei miei pantaloni. Mi accorgo di essermi avvicinato a lui più del dovuto. O forse lui si è avvicinato a me? Devo aver perso qualche passaggio. Come quando si guarda un film e si abbandona la visione per qualche minuto perdendo totalmente il filo della storia. Osservo il paesaggio immacolato davanti a me. La pioggia continua a cadere inesorabile ma meno violentemente rispetto a prima. C’è una grande pace. Osservo qualche lumaca strisciare sulle foglie delle piante e due piccoli rospi saltare nel piccolo sentiero davanti a noi.
Una scossa di energia mi colpisce il cuore, il cervello e i nervi. Perdo totalmente il controllo su me stesso, sul tempo e sullo spazio. Mi volto capendo che la persona davanti a me sta provando la stessa cosa. Nel tempo di un battito di ciglia lo avvolgo tra le mie braccia tenendolo saldamente come se la pioggia potesse farlo scivolare via. Le nostre labbra si incollano, si incastonano, si incrociano, si incorniciano. Due cocci che vengono riuniti insieme. Due cigni bianchi che si incontrano sulla riva di un lago. Le sue labbra sono morbide e bagnate. Non ricordo di aver provato cosa fosse il paradiso. Eppure è qui davanti a me. Sono morto, morto, morto. Signora Morte, la prego mi porti con sé per l’eternità. Non c’è posto per me nel mondo degli uomini. Non voglio andare via da qui. Ma sento qualcosa che mi impedisce di condividere con lui la mia umanità. Io un povero stupido umano, lui un cherubino. Io sono solo un peccatore. Le sue mani si posano sul mio collo avvicinandomi al suo volto, al suo profumo di purezza e vaniglia. Il bacio diventa sempre più profondo. Finalmente capisco. Non sono in paradiso. Questo è l’inferno. È il fottuto Inferno. Sono condannato a vivere questo momento. Non c’è niente di paradisiaco in tutto ciò. È tutto dannatamente orripilante. Ho paura. Lo stringo forte.
Mi stacco da lui scrutando i suoi occhi color caffè latte. I nostri respiri sono affannati e disomogenei.
Continuiamo a farci del male, ti prego.
Afferro il suo polso tirandolo verso di me all’interno della casa. Apro la porta e la richiudo immediatamente alle mie spalle. Veniamo accolti da un piacevole tepore e da una gradevole penombra. Sfioro la sua guancia con le labbra. Lo sento tremare sotto il mio tocco.
“Hai freddo? Ho un asciugamano se vuoi”
Non risponde ma sbottona i primi bottoni della sua camicia. Lo freno. Devo fermarlo, e fermarmi,  prima di non riuscire a tornare indietro e così lo trascino con me in bagno. Recupero velocemente un telo da bagno molto grosso e asciugo delicatamente il suo volto e i suoi capelli. Lo faccio delicatamente, come una madre che si prende cura del figlio. I nostri occhi si incontrano, si toccano. Rimango fermo a fissarlo completamente distratto dal suo volto. Un quadro barocco.  Avrei voluto essere io l’artista. Avrei voluto dipingere io quei tratti così morbidi e dolci. La sua mano si posa sul mio petto. Non resisto. Lascio cadere il telo candido in terra e lo trascino in camera da letto. Lui mi guarda incerto.
“A-Aspetta” sussurra impacciato. Si allontana. Esce dalla stanza lasciandomi solo. Avvolto da niente se non la penombra. Una fioca luce entra dalle finestre. Mi volto e per non perdermi nelle troppe domande che mi affollano la mente stendo velocemente un futon singolo sul pavimento. Senza neanche rendermene conto sento la sua presenza accanto a me. Stringe tra le mani un piccolo vasetto di vasellina. Sorrido stringendolo a me. Come sei ingenuo Takanori. Non potrei mai farti del male. Solo tu puoi farlo; e lo hai già fatto.
Sento entrambe le sue mani tirare verso l’alto i lembi della mai maglietta. Le sue mani mi spogliano delicatamente. Le sue dita compiono una danza dolce e galante, come un delizioso invito. Lo bacio rubando tutta l’aria nei suoi polmoni. Sbottono la sua camicia. Lo vedo arrossire. Guarda fisso il pavimento.
“Non devi vergognarti.” Sussurro baciando il suo naso.
In poco tempo rimaniamo nudi entrambi. Ci vergogniamo; come Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre. Le nostre nudità appaiono così volgari e arroganti. Forse non sono solo i nostri corpi ad essere nudi. Lo sono anche le nostre anime. Appoggio le mie mani sui suoi fianchi scoprendoli morbidi e lisci. Takanori è così magro. Per un momento mi torna in mente un momento della mia infanzia. Io che rubavo la bambola preferita di mia sorella e la nascondevo per giocarci o farla roteare tra le mani. Appena mia sorella mi scopriva si arrabbiava moltissimo.
Smettila di giocarci in quel modo Akira! Non lo vedi come è minuta? Potresti romperla
Le parole di mia sorella rimbombano nella mia mente.
Takanori è minuto e gracile, potrei romperlo. Lo afferro saldamente e lo trascino sul futon bianco. Lo faccio distendere. La sua schiena sfiora la stoffa bianca. Un pezzo di porcellana che si posa in mezzo ad una distesa di neve.  Lo ammiro. È così bello da lasciarmi completamente inerme. Mi chino su di lui. Lo voglio. Finchè morte non ci separi. Perché la morte dovrebbe farlo? Ci ha già pensato la vita.
Assaporo le sue labbra e il suo corpo. Ci amiamo. Ci uniamo in una singola anima.
“È bellissimo averti dentro di me, Akira” sussurra lui senza fiato.
“Anche per me è bellissimo averti dentro di me…da tutto questo tempo.” Lo guardo negli occhi accarezzando i suoi capelli umidi. Io in lui, lui in me. È così che doveva essere fin dall’inizio. Cosa ci ha condotto qui? Perché proprio lui? Una folla di domande assalta il mio cervello come uno schieramento di soldati pronti alla guerra. Non ho risposte. Non so nulla. Chi sono io? Non c’è nessun Akira. Il mio corpo non termina dove inizia il suo. Siamo un’unica cosa. Non riesco a distinguere i contorni. È questo che si prova quando si trova quello che ci è sempre mancato? 
Si alza, si appoggia sulle mie gambe sovrastandomi. Rimaniamo seduti. Danziamo guardandoci negli occhi. Appoggio la mano sul suo petto. Il suo cuore batte forte. Non riesco a credere che ne abbia ancora uno. Lo avevo raccolto io, una volta. E mi ero assicurato di averlo ridotto in polvere. Perché ora è tornato al suo posto?
Intorno a noi il silenzio. Un pubblico muto e immobile. La pioggia è altro rispetto a qui. Il mondo sta andando avanti senza di noi. È giusto così. Ci rincontreremo in un’altra vita, in un’altra dimensione. Vorrei sentire il rumore dei pianeti che girano intorno al Sole. È possibile fermare il presente e cancellare il passato? Non voglio sapere nulla del futuro. Mi basta così. Domani non rimarrà niente. La pioggia laverà via tutto.
La pelle di Takanori è carta bianca su cui scrivo poesie e parole con i miei polpastrelli. Il suo corpo odora di amore, di temporale estivo e di colpevolezza. È sempre stato lui il colpevole in questa storia. Io sono solo una vittima. Il mio salvatore è anche il mio carnefice. Buffa la vita non è vero? Apro gli occhi e riesco a distinguere a malapena i contorni delle cose. La stanza è totalmente in ombra; eppure la sua pelle diafana risplende come una stella. Le gocce di pioggia picchiettano sui vetri delle finestre. È tutto così calmo. Un sussurro, due sussurri.  Sento un grande calore dentro di me come se qualcuno avesse acceso un fuoco. La fiamma si propaga in tutto il mio corpo. Lo sapevo, è arrivato il momento.
Sto bruciando all’Inferno. 





























Non credo che ci sia bisogno di aggiungere qualcosa 

Chiedo scusa per essere sparita, ma, come molti di voi sanno, questo è il periodo della sessione invernale e purtroppo non ho molto tempo libero per me. Passo le giornate a lavoro e sui libri. E' bellissimo lavorare come bibliotecaria; mi sento una piccola Takanori (ma molto meno affascinante :3). Tuttavia il lavoro mi porta via un po' di tempo e così il resto delle ore le passo a studiare. Mi mancano pochissimi esami alla laurea, quindi devo assolutamente impegnarmi. Prometto che cercherò di essere più presente. Ci vediamo al prossimo capitolo.
P.s.: spero tutti abbiate ascoltato le canzoni che vi ho linkato all'inizio, sennò siete delle cattive persone <: l'Exogenesis Symphony è uno dei capolavori di una delle mie band preferite e credo che sia perfetta per questo capitolo.  

 
   
 
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