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Autore: cowslipkkoch_    10/06/2017    0 recensioni
How small the probability is to let me gain the ability to bravely love again? This is destiny's generosity, this is the heart's honesty.
 
destino ( = destiny, kismet ): /de·stì·no/, l'insieme imponderabile delle cause che si pensa abbiano determinato (o siano per determinare) gli eventi della vita; spesso inteso come personificazione di un essere o di una potenza superiore che regola la vita secondo leggi imperscrutabili e immutabili.
 
( raccolta di one shots SuChen )
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chen, Chen, Suho, Suho
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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{ intro: Joonmyun, in coma, sogna sempre la stessa scena: lui, in un letto in mezzo al bosco, che si sveglia e finisce per inseguire un ragazzo, il quale lo porta in una stanza piena di specchi. Dopo il suo risveglio, scopre due cose: ha perso la memoria e sotto il suo cuscino c’è un bracciale. Qualcosa, alla fine, non quadrerà mai. }

 

 


The Fuzzy Remembrance of You

Questa one-shot la dedico a Itsjdahere, che tanto ama l’angst; auguri vecchia. <3

 

 

 

Il bosco, come sempre, era freddo. Il vento soffiava leggero e spostava le foglie più resistenti che ancora stavano attaccate ai loro alberi, non ancora pronte per lasciare il ramo su cui erano cresciute e morire al suolo. Non vi era un punto verde, in quel bosco, dominava il marrone e il grigio.

Come ogni volta, Joonmyun si svegliava in quel bosco freddo, in quel letto posto misteriosamente al suo centro, dove gli alberi non erano fitti e il terreno era pianeggiante, e non curvo. Non sapeva il perché né sapeva cosa ci facesse lì, perché si trovasse lì, ma ogni giorno, ogni pomeriggio e ogni sera si risvegliava in quel posto misterioso e isolato, immerso nella natura.

Si mise seduto sul materasso, le molle scricchiolarono sotto lo spostamento del suo corpo e si guardò intorno, confuso e infreddolito. Un soffio di vento che proveniva da nord-ovest per finire a sud-est gli colpì il volto e i suoi lineamenti delicati, facendolo tremare appena, e lo costrinse a stringersi in quella giacca elegante. Il silenzio, di tanto in tanto, era spezzato dai piccoli respiri e sospiri che derivavano dalla bocca dell’uomo.

Scostò maggiormente le coperte, così da mettersi a lato del letto e poggiare i piedi a terra, guardandosi per l’ennesima volta intorno, come se stesse cercando di catturare qualcosa o qualcuno con lo sguardo; solo dopo pochi minuti, però, quel qualcuno si presentò. Sentì prima il rumore di passi svelti che schiacciavano e spezzavano le foglie e i rametti secchi, prima di potersi girare e captare con gli occhi i movimenti di una figura maschile, voltata di spalle rispetto a lui, il quale velocemente correva, allontanandosi sempre di più da lui.

Senza pensarci ulteriormente, si alzò e lo seguì, correndo a suo seguito. Nonostante le sue gambe sembrassero abituate a correre su quel tipo di terreno di montagna, il quale era pieno di salite e discese, perse quella figura e presto si ritrovò ad entrare in un tunnel, da cui provenivano delle luci artificiali. Ben presto, dal buio naturale passò a una luce giallognola, che proveniva da varie lampadine. Si girò, e intorno a sé non trovò altro che specchi, che ritraevano la sua figura e nient’altro.

La figura maschile? Sembrava essere scomparsa, e Joonmyun guardò il suo riflesso, di nuovo, nello stesso specchio di sempre, prima di poter guardare la sua stessa mano e non trovare niente, se non il buio che lo circondava.

 

“Joonmyun―”

 

 


 

 

I raggi del sole trapelavano dalle persiane e spezzavano il buio di quella stanza con varie strisce, che non raggiungevano, però, nemmeno la sua metà. La stanza era fresca, rispetto al caldo afoso che riscaldava la capitale in quella giornata di agosto e un leggero profumo di rose galleggiava nell’aria. Vari oggetti decoravano quella stanza: pacchi ancora chiusi e incartati, fiori finti e veri, cornici che contenevano foto sue, accompagnato da parenti o foto solo con volti a lui legati. Per qualche motivo a lui ignoto, poteva sentire in modo più chiaro i rumori provenienti dai corridoi, seppure la porta fosse chiusa, e riusciva a sentire l’odore chiaro delle rose – rose vere.

Le palpebre tremolarono.

 

La prima cosa che poté vedere fu una luce fastidiosa, artificiale. Per seconda cosa, apparì il sorriso largo e gentile di una persona, la quale indossava un camice bianco, una camicia ben stirata e una cravatta a strisce rosse e bianche, e intorno al collo teneva uno stetoscopio lucido e nero. Era un medico, non c’erano dubbi.

“Oh, buongiorno Joonmyun-ssi.”, lo salutò questa persona, e nella sua voce poté avvertire un misto di sorpresa e gioia, “È bello vederla sveglio!”.

Un forte mal di testa colpì il centro del suo capo e dovette chiudere con violenza gli occhi, così da reprimerne almeno un po’. Si sentiva così confuso, gli sembrava di essersi svegliato dopo un sonno durato anni e anni, e percepiva come se i suoi arti fossero pesanti, a malapena riusciva a muovere e piegare correttamente l’indice di una mano – quella priva di fili collegati ad essa. Si guardò intorno, e la sua confusione crebbe a dismisura quando notò tutti quei fiori, quelle foto che lo ritraevano con qualcuno e i regali, regali di cui non si ricordava; stava per proferire parola, quando sentì la gola secca e un improvviso schiocco lo distrasse dai suoi stessi pensieri, facendolo girare.

“È confuso, non è così?”, chiese l’uomo con un piccolo sorriso stampato in faccia, prima di giocherellare con un filo che sbucava dal camice, e quando Joonmyun annuì non riuscì a trattenere una piccola risata, “Immagino. Non è facile svegliarsi dopo nove mesi di coma.”, annuì egli, e non sembrò sorprendersi quando il paziente sembrò esterrefatto.

“N-nove mesi di― di coma?”, la voce uscì roca e secca, e il medico storse il naso udendo quella frase.

“Forse sono stato troppo diretto. Mi dispiace.”, si scusò, ma quel morbido sorriso non lasciò il suo volto dalla pelle ambrata, “Comunque io sono Kim Jongin, un medico che l’ha seguito per tutto questo tempo. Ora le lascerò del tempo per riposare, poi tornerò per ulteriori controlli.”, comunicò con tono sicuro, prima di potergli dare qualche pacca leggera sulla gamba e andarsene, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Kim Joonmyun, ventidue anni. Abitava in Sinchon-dong, Seodaemun-gu e frequentava la facoltà di psicologia all’università Yonsei ― era quello che ricordava. In realtà, Kim Joonmyun aveva ventisei anni, abitava in Daeheung-dong, Jung-gu e si era laureato da due anni nella facoltà di psicologia all’università Yonsei, e lavorava come psicologo in una scuola superiore.

A quanto pare, l’uomo aveva perso quattro anni della sua vita dopo un incidente che l’aveva portato in un coma di nove mesi. Il dottore forse era stato fin troppo diretto con una persona che si era svegliato da così poco tempo da un coma di quella durata, quindi non gli fu nemmeno detto che perse tutta questa memoria, decidendo solo di scrivere ciò che avevano scoperto e magari, riferire tutti ai parenti, che ancora speravano in un suo risveglio.

“Non è stato un incidente così grave”, dicevano sempre i dottori, quando loro venivano a trovare l’uomo e lui era ancora in quel letto, fermo e inerme, “C’è una percentuale che può garantire il suo risveglio”.

Il diretto interessato, comunque, sapeva che qualcosa in lui non andava. Guardando tutte quelle foto poste sui mobili della stanza, le quali lo ritraevano con alcune persone, certi volti potevano essere famigliari come altri potevano portare un gran punto interrogativo su di essi. Sentiva come se un suo pezzo mancasse, come se avesse perso un pezzo di puzzle importante e non poteva far altro che attendere, aspettare che quel pezzo tornasse indietro così che tutto potesse coincidere.

Nei primi giorni del suo risveglio non vide nessuno se non i dottori e le infermiere, che gli facevano visita per controlli o per portargli del cibo. I dottori non si fermavano dopo le visite, ma le infermiere sì, specialmente quelle che gli portavano il pranzo o la cena. Parlare con loro era un bene, non potevano restituirgli quella parte di vita che gli mancava, ma almeno lo aiutarono con la voce. Per tutto quel tempo non avevano fatto altro che farlo respirare grazie a macchine artificiali e il suo timbro ne risentì, difatti nei primi giorni aveva costantemente la voce roca e sottile, appena udibile. In pochi giorni però, riacquisì un tono “umano”, piacevole da ascoltare, e il paziente ricevette una piccola soddisfazione. Dopo quei primi giorni, poi, arrivarono pure le visite da parte di tutte quelle persone che dal suo risveglio aveva visto solo in foto. Prima vennero i genitori, e Joonmyun riuscì a riconoscerli appena varcarono la soglia della porta; erano due dei pochi volti che etichettò come “famigliari”. Se una quarta persona avesse visto la scena, avrebbe potuto dire che quello fosse un incontro piuttosto commovente: la madre iniziò a piangere appena incrociò lo sguardo con il figlio, mentre il padre si limitava soltanto a sorridere. Come i bambini piccoli, che capivano poco e niente, l’uomo sul lettino sembrò piuttosto confuso davanti alle lacrime della donna, e presto ne ebbe lui stesso negli angoli degli occhi – perché la madre stava piangendo, perché senza fatica era riuscito ad attribuire un nome a quei due volti che ora aveva davanti. Lo stesso giorno, nel frattempo che i genitori gli dicevano cosa non ricordava più della famiglia – senza dare troppe formazioni o andare nel dettaglio –, lo raggiunse pure il fratello maggiore. Assegnare un nome al suo volto fu più difficile, poiché era rimasto a un Siwon che come lui andava ancora all’università, non amava tenere la barba – nemmeno l’accenno –, vestiva ancora in abiti casual e non aveva così tanti muscoli come sembrava averne ora. Fu comunque piacevole, e ora sapeva che da quando si era laureato, non aveva sentito molto i genitori, a causa del suo lavoro, e aveva avuto occasione di vederli solo quando Siwon si sposò e in una delle tante cene di famiglia.

In seguito, vennero dei suoi amici e colleghi di lavoro. Fu difficile identificare alcuni, soprattutto i colleghi, che facevano parte della vita di cui non ricordava nulla, mentre metà degli amici riuscì a riconoscerli dopo qualche minuto. Tutti si presentavano con la stessa frase: ti ricordi di me? A quel punto Joonmyun sapeva che doveva ricordare qualcosa, e da come reagiva, gli altri potevano capire se ricordasse o no.

“Credo di poter ricordare qualcosa”, diceva, se si presentava un vecchio amico – come successe quando un certo Do Kyungsoo fece capolino dalla porta, un giorno. Era un suo vecchio compagno del liceo, e ricordava che erano soliti uscire spesso insieme, per andare al noraebang. Quando iniziarono l’università, però, non si videro più ogni sera come una volta.

“Uhm, no?”, invece, rispondeva così se un collega andava a fargli visita. Accadde svariati giorni, come quando due uomini che si presentarono come Park Chanyeol e Lu Han, e gli dissero che erano suoi colleghi. Da come imparò, poi, il primo era il professore di musica, mentre il secondo era il professore di educazione fisica. Con tono gentile gli raccontarono di come certe sere erano usciti insieme, o di come nel suo primo giorni di lavoro furono loro ad avvicinarlo; sfortunatamente lui non ricordava, ma loro gli dissero che era tutto okay.

“Hai tutto il tempo del mondo per ricordare!”, esclamò Chanyeol con un grande sorriso, prima di dargli delle leggere pacche sulla gamba destra.

Con sua sorpresa, si presentarono pure dei ragazzi sull’età dei sedici o diciassette anni, con delle divise scolastiche. All’inizio non seppe come reagire, davanti a quei volti giovani che lo guardavano con sorpresa e al contempo dispiacere, ma poi si ricordò del ruolo che ricopriva nella scuola in cui lavorava, di come Chanyeol e Lu Han gli dissero che era apprezzato nella sua scuola, poiché aiutava i ragazzi a superare il passaggio da scuole medie a superiori, e anche quelli che presto avrebbero dovuto scegliere un’università. Uno studente in particolare lo colpi: venne da solo, sembrava nervoso e notò come le sue mani tremolarono quando provò a salutarlo, o quando gli porse un piccolo pacchetto. Già dal primo sguardo capì che era uno che non parlava molto, difatti non aprì bocca finché non sistemò la cartella per terra e prese posto nella sedia di fianco al suo lettino, dove tutti si sedevano.

“Ciao, hyung”, lo salutò timidamente ma con voce piatta, guardandosi le mani. Aveva la divisa scolastica, eppure si era presentato a lui come un conoscente – di solito gli studenti si presentavano formalmente, rispettosi e chiamandolo Joonmyun-nim, psicologo-nim. Eppure quell’hyung gli lanciò un suggerimento, riportando cose confuse nella sua mente.

“Ciao”, ricambiò il saluto con un piccolo sorriso, prima di rigirarsi il piccolo pacchetto fra le mani.

“Non ti ricordi di me, non è vero?”, captò un po’ di delusione nel suo tono di voce, ma non sembrava triste. Anzi. Il volto del giovane era così serio che a malapena riusciva a dire se fosse lì di sua spontanea volontà o no.

“No”, a quella affermazione il ragazzo sorrise appena, ma non sembrò essere scoraggiato, “Ma dalla targhetta sulla tua divisa posso capire che ti chiami Oh Sehun. Questo è per me?”, quando lesse il suo nome, egli sembrò illuminarsi e subito alzò lo sguardo. Ora sì che vedeva la felicità nel suo volto, nel suo sguardo. Lo studente annuì, a riguardo del pacchetto, e si mise composto sulla sedia.

Quando Joonmyun lo aprì, al suo interno trovò una penna nera col tappo consumato. Tornò a guardare Sehun, che sembrava essere tornato nervoso, ed entrambi rimasero in silenzio per un po’.

“Sembra uno scherzo, non è così?”, ridacchiò appena il giovane, grattandosi il collo, “Ecco― ero uno dei tanti alunni che seguivi a scuola, per un problema o l’altro. Un giorno, molto stupidamente, ti chiesi se potessi prestarmi una penna, perché avevo un compito importante e non potevano farlo a matita, e non avevano avuto possibilità di comprarmene una da solo perché non avevo il coraggio di chiedere a mia madre dei soldi ― a quel tempo sapevi il perché, non pretendo che tu lo ricorda anche adesso. L’unica penna nera che avevi era questa, e me la desti. Non sono riuscito a dartela, perché non avevamo incontri quella settimana, e poi, beh, è successo quello che è successo e sono riuscito a portartela ora. Scusa se è ti ho illuso.”

Joonmyun non fece altro che ridere e ringraziò di cuore il giovane, anche se non ricordava nulla di tutto ciò. A quanto pare, da quello che l’altro gli raccontò, avevano un rapporto “speciale”. Sia per quell’hyung sia dal fatto che sembravano avere una certa confidenza, una volta. Diversamente dagli altri alunni, Sehun sembrò voler stare un po’ con il suo vecchio psicologo, e tra una parola e molti silenzi, il giovane tornò a raccontare la sua storia al più grande. Joonmyun non solo lo aveva aiutato dal passaggio fra la scuola media alla scuola superiore, ma anche in una fase di crisi, dove la famiglia del ragazzo aveva pochi soldi – come tutt’ora – e lui si sentiva colpevole, perché parte dei guadagni della madre andavano alle spese scolastiche. Per questo lo studente, quella volta, non ebbe il coraggio di chiedere alla donna quei pochi soldi che bastavano per comprare una penna. In quel momento era un po’ straziante non poter ricordare tutto ciò che Sehun gli aveva raccontato privatamente lungo il corso dell’anno scolastico, perché avrebbe voluto chiedergli se avesse altro da confessargli e se desiderava parlare di qualcosa in particolare, desiderava dargli altri consigli e chiedergli se quelli precedentemente dati fossero serviti almeno un minimo, ma nonostante ciò, comunque, in parte era felice. Perché? Perché con quel breve ripasso sulla propria storia personale, lo studente aveva permesso all’uomo di ricordare qualcosa che aveva perso, seppur non appartenesse a lui, e in quel modo aveva capito di essere stato importante nella vita di qualcuno. Lo aveva aiutato. Aveva raggiunto un obbiettivo che all’università si era segnato, prendendo quel corso di studi per diventare psicologo.

“Puoi tornare quando ti fa piacere, se vuoi”, gli disse Joonmyun, quando il ragazzo si preparò per tornare a casa.

“Davvero posso?”, fece sorpreso, e un piccolo sorriso apparve sul suo volto quando il primo annuì, “Allora tornerò, hyung!”.

Dopo quella frase il maggiore fu lasciato da solo, in quella stanza fresca e silenziosa. Abbassò lo sguardo sulla scatoletta, la quale conteneva al suo interno la penna vecchia, che ancora giaceva sulle sue gambe e sorrise. Non ricordava, ma comunque poteva ancora sentire che quel ragazzo, in qualche modo, era speciale nel suo piccolo.

 

 

 

Passarono vari mesi dal risveglio di Joonmyun, le cure e i controlli erano applicati giornalmente e con estrema attenzione e le visite proseguivano normalmente, con tranquillità. Di tanto in tanto si presentavano i genitori o Siwon, il quale un giorno portò pure i figli, un maschietto di tre anni e mezzo e una femminuccia di solo un anno, e la cara moglie, Liu Wen; i mercoledì e il sabato si presentavano Chanyeol e Lu Han, mentre gli studenti e specialmente Sehun si presentavano la domenica; i vecchi amici del liceo o i colleghi dell’università facevano una piccola visita quando più potevano, Kyungsoo era sempre il primo.

La memoria dello psicologo ora era aumentata del 70%, da come poterono notare tutti, e le sue condizioni sembravano migliorare particolarmente da settimana in settimana. Certo, c’erano episodi cui era più debole di certi giorni, ma non sembrava mai retrocedere per quanto riguardava la salute. Ora era in grado di muovere gli altri, di stare seduto e mangiare da solo, afferrando con sicurezza il bicchiere e le bacchette; di tanto in tanto lo aiutavano ad alzarsi e percorreva pochi metri in quella stanza, assistito dalle infermiere.

“Sei una forza della natura, Joonmyun!”, esclamò un giorno Jongin con un sorriso smagliante, mentre lo osservava camminare lentamente ma con una postura eretta lungo quel piccolo perimetro della stanza, reggendosi solo e grazie all’asta per la flebo.

Col passare dei mesi, inoltre, era migliorato notevolmente il rapporto col dottore che più lo visitava di frequente, Kim Jongin. Non che non avessero iniziato con un buon rapporto ma ora si potevano ritenere ... amici? Pure le infermiere potevano costatare che fra loro non vigeva il rapporto dottore-paziente, e ciò lo poterono verificare quando li beccarono a giocare a carte durante la pausa del medico o quando quest’ultimo si addormentò sulla sedia posta di fianco al letto del paziente, con la testa contro il materasso e la mano di egli fra i capelli, altrettanto addormentato.

 

 

 

Solo quando lo informarono che mancavano pochi giorni dal momento in cui lo avrebbero dimesso, Joonmyun si accorse che c’erano ancora dei pezzi di puzzle mancanti. Anzi. Dei punti interrogativi che richiedevano ancora delle risposte. Lo poté costatare quando si accorse che sotto il cuscino c’era qualcosa che premeva in modo fastidioso contro la sua schiena.

“Seungwan-ssi? Potrebbe alzare il cuscino e vedere se c’è qualcosa sotto?”, chiese gentilmente, appena una delle infermiere fece capolino dalla porta per dargli la solita dose di cibo.

Lei non rispose, sorrise semplicemente e annuì col capo, dopo aver sistemato il vassoio colmo di cibo caldo sul piccolo tavolino; le mani delicate afferrarono la stoffa candida del cuscino e poté sentire un leggero oh fuoriuscire dalle sue labbra, improvvisamente. Capì cosa provocò quel piccolo verso solo quando la donna si mise davanti a lui ed espose un bracciale di color argento, il quale vedeva delle piccole pietre gialle sopra di esso.

“Per caso e suo e l’aveva perso in questi giorni?”, chiese Seungwan con un’espressione curiosa, ma dal paziente non ricevette nessuna risposta positiva – o almeno, così sembrava date le sopracciglia corrugate, le quali esprimevano confusione.

Come se un fulmine si fosse appena scagliato sulla sua figura, prepotentemente, l’uomo avvertì una fitta al cranio e dovette tenere la testa fra le due mani, chinandosi di colpo e scatenando nervosismo nella figura davanti a sé. La donna, difatti, era già pronta a chiamare qualcuno per vedere se il paziente stesse bene, ma le bastò un piccolo cenno da parte dell’altro per tranquillizzarsi e lasciarlo solo col cibo, dopo vari “Stai bene?”.

In qualche modo, quel bracciale mai visto portava con sé un grande punto interrogativo, con tante domande legate a suo seguito che si collegavano tutte, insieme, in modo confuso; di chi era quel bracciale? Era suo? Chi l’aveva lasciato? Perché nessuno gli aveva mai nominato un bracciale? Da quanto tempo era lì, dapprima del suo risveglio? Era un oggetto importante o futile? Gli sarebbe servito a riportare alla mente qualche ricordo? – non trovò pace per molto tempo, dopo quella misteriosa scoperta. Lo studiò per tutto il tempo, durante il pasto e dopo, pure quando le infermiere vennero per ritirare il vassoio ormai vuoto. Lo nascose sotto il proprio corpo quando Sehun lo venne a trovare con un altro piccolo regalo – l’aveva comprato grazie a dei soldi che gli aveva dato una vicina, aveva detto, dopo averla aiutata nel suo negozio di fiori. Di cosa si trattava? Di una penna nuova, con sopra la figura di Ned sopra – il gattino blu di Kakaotalk. Era semplice, alquanto carino e gli sorrise ringraziandolo. Il ragazzino gli faceva sempre dei regali semplici ma che gli portavano sempre il sorriso sul volto.

“Quindi ti dimettono fra una settimana?”, chiese lo studente felicemente.

“Già”, rispose con altrettanta felicità lo psicologo, “Ma non tornerò a lavorare finché non mi sarò completamente ripreso”.

Dopo quella breve visita Joonmyun tornò a studiare il bracciale e non si accorse di un particolare finché non volle indossarlo. KJD, quelli erano i caratteri incisi al didietro e aggrottò la fronte. Che cosa volevano significare? Erano delle iniziali, per caso? Scosse leggermente il capo e lo ignorò, allacciando il bracciale e scuotendo leggermente il polso. Non era per nulla brutto e gli dava un senso di famigliarità, dopo di tutto.

Alzò il capo e tornò a studiare tutte quelle cornici piene di foto, ritraenti lui con i genitori, i colleghi e i vecchi amici. Riportò lo sguardo su una più piccola, che era anche la più appartata rispetto le altre. Notò come in quella foto portava i capelli biondo cenere e con un ciuffo che gli copriva tutta la fronte, era felice e al suo fianco c’era un ragazzo con un sorriso smagliante, i suoi capelli erano neri e corti, rasati ai lati.

Sgranò gli occhi quando si accorse di un piccolo ma importante dettaglio; quella persona non si era mai presentata in ospedale. Come quando vide per la prima volta il bracciale, una forte fitta sembrò aprirgli il cranio e dovette stringere gli occhi, portandosi una mano fra i capelli lunghi e neri.

“Joonmyun-hyung, ti piace?”, chiese una voce felicemente, e nell’ombra gli parve di scorgere un sorriso, grande e smagliante. Quella voce…

Riaprì di scatto gli occhi e tornò a guardare quell’ultima foto, osservò la figura e poi gli occhi scivolarono sulla cornice color ciano. Una semplice scritta in pennarello, frettolosa: kjd.

 

 

 

“Ben tornato a casa, tesoro!”, gioì la madre, portando le mani congiunte al petto mentre osservava il figlio minore varcare la soglia di casa. Be’, quella di certo non era la casa in cui aveva vissuto dopo aver conseguito la laurea, ma la madre temeva ancora per la salute del figlio e l’aveva convinto a passare dei mesi insieme con lei e il marito, così che potesse essere al sicuro in un ambiente che ben riconosceva.

Il diretto interessato fu coinvolto in un lungo abbraccio da parte della genitrice e poi da parte del padre, il quale – da come ricordava – era ancora piuttosto chiuso in sé e preferiva trasmettere le proprie emozioni attraverso abbracci o semplici sorrisi, piuttosto che parlare apertamente.

La casa era proprio come se la ricordava, nulla sembrava essere cambiato; abitavano ancora in una piccola casa in periferia, lontani dal chiasso che dominava nel centro della capitale. Il salotto era ordinato e spoglio, le uniche cose attaccate al muro erano il motto di famiglia – conosci te stesso – e un grande quadro dove all’interno vi era chiuso un grande foglio, ritraente il cognome Kim in caratteri Hanja, i colori dominante nell’arredamento erano il marrone chiaro e il bianco, così come nella piccola cucina. Quello a essere dominato di foto era il corridoio che portava alla lavanderia e il muro che affiancava la scala per salire al secondo piano. Foto che riportavano la famiglia felice al mare, in campagna e durante feste come il Natale, in alcune c’erano solo foto di Siwon e Joonmyun quand’erano piccoli o con il loro vecchio cane, in altre solo i genitori nei loro “tempi d’oro”.

Si sentiva a casa, e i ricordi erano così vividi e chiari. Era felice.

 

 

 

La tranquilla e ormai normale routine di Joonmyun, però, un giorno si spezzò. Anzi. Si spezzò una sera, quando si risvegliò e sentì gli occhi stanchi, gonfi e le guance secche. Si alzò goffamente dal suo vecchio letto, trascinò i piedi fino al bagno e gli bastò una semplice occhiata per riconoscere che aveva pianto – forse nel sonno, forse inconsciamente. Da quel giorno non passarono minuti in cui l’uomo non sentì il petto far male e ogni sera, quand’era solo e guardava il bracciale legato al polso, le lacrime tornavano a scorrere sulle guance lisce e candide. Era un dolore inspiegabile ma forte, molto forte; doleva quanto dieci pugnali infilzati nel petto, quanto lo schiaffo di una mano per niente leggera e un impatto provocato da una macchina.

L’impatto di una macchina…

Non sapeva nemmeno come, ma c’erano notti cui sognava sempre e solo la stessa cosa; lui che correva, questa volta per strada, sembrava inseguire qualcuno, con gli stessi abiti che indossava nei sogni durante il suo stato di coma, ma questa volta non finiva in alcun tunnel e non si trovava davanti nessuno specchio, in questi sogni finiva su delle strisce e l’ultima cosa che poteva vedere era un viso sfocato, nel frattempo che avvertiva un dolore lancinante – come se una macchina lo colpisse.

Dei sogni del genere, così sfortunati, non avrebbero mai dovuto sfiorare la mente di un essere umano, eppure perché Joonmyun continuava a produrli? E perché soffriva nel solo vedere quel bracciale misterioso?

“Tesoro, stai bene?”, chiese una volta la madre quando trovò il figlio ricurvo sul vecchio letto, mentre si stringeva il polso e guardava con tanta confusione l’oggetto. Quella fu la prima volta che lo vide in quello stato, la prima di tante.

I dottori avevano detto alla signora Kim che il risveglio non sarebbe stato facile, e che una perdita di memoria avrebbe reso le cose più difficili, soprattutto se Joonmyun assorbiva troppe informazioni in una volta o era avvicinato in posti che potevano fargli ricordare cose troppo pesanti da sopportare.

“Perché non trovo le risposte che mi servono?”, singhiozzò un’altra sera il figlio, sempre sul letto e, questa volta, col bracciale in mano.

“Le troverai, Joonmyun,”, lo rassicurò la madre, “Ti basta solo aspettare; arriveranno, ma lentamente”.

 

 

 

Non ancora del tutto pronto per tornare a lavorare, Joonmyun si prese altro tempo per riposare e provare a tornare “stabile”. Col tempo si calmò, lasciò da parte il bracciale e sembrò tornare quello di sempre – sorrideva e sembrava tranquillo. Come passatempo, giusto per riempire quelle giornate talmente monotone, decise di aiutare la madre nel piccolo giardino dietro casa e nei giorni di pioggia si metteva in salotto e leggeva qualche vecchio libro universitario.

Era un freddo pomeriggio di dicembre quando Joonmyun avvertì per la prima volta qualcosa di sospetto, come se la madre gli stesse effettivamente nascondendo qualcosa. Qualcosa che avrebbe dovuto sapere, in realtà. Stava scendendo le scale dopo aver riordinato tutti i libri nella sua piccola stanza, quando udì la voce della donna provenire dalla cucina e dal tono non sembrava alquanto allegra come suo solito.

“Per quanto altro tempo pensi di nasconderti? Di fingere di non esistere?”, quasi urlò e non gli bastò molto per capire che era al telefono, “Non giocare in questo modo con Joonmyun, che in qualche modo sa di te ma allo stesso tempo non sa di te; è complicato da spiegare, visto? Pensa come possa essere complicato per lui non ricordare qualcosa che sa esserci!”, corrugò le sopracciglia e senza nemmeno pensarci si presentò davanti la porta della cucina.

“Che cosa succede?”, chiese automaticamente quando la vide chiudere di fretta la chiamata, e dalla sua espressione non trapelava nessun sentimento positivo; rabbia, frustrazione, dispiacere.

“Sei qui da molto?”, chiese la madre, quasi ignorando la domanda del figlio, “Hai fame? Sete? Posso prepararti del thè se vuoi―”.

“Con chi stavi parlando e perché mi nominavi? È qualcuno che non conosco?”.

Quelle due domande non trovarono una risposta, e si aggiunsero a tutte quelle che, ormai, l’uomo aveva seppellito nella sua mente. Tutte quelle domande che riguardavano il bracciale e quel ragazzo che mai aveva visto, se non in foto, a quel kjd.

Non si rese conto che, però, le risposte le aveva tutte sotto il naso, a un centimetro di distanza.

 

 

 

Il 12 gennaio fu un giorno alquanto strano, e non seppe bene se definirlo pure un giorno importante o irrilevante.

Il 12 gennaio era il compleanno del suo vecchio compagno di liceo Do Kyungsoo e, come un buon amico che si rispetti e che non era più rinchiuso dentro un ospedale, Joonmyun decise fargli una visita, giusto per lasciargli il regalo e magari andare a fare delle commissioni per i genitori – continuava a non lavorare, doveva pur fare qualcosa per quei due anziani che si prendevano cura di lui come se avesse tre anni.

Perché fu, poi, un giorno alquanto strano? Semplice, quando fece la rampa di scale e si appostò davanti la porta dell’amico, con il regalo stretto in mano e dopo aver premuto il tasto per suonare il campanello, colui che non venne ad aprire non fu Kyungsoo né il fidanzato, il quale ebbe modo di conoscere un giorno, Kim Minseok, ma quel qualcuno. Lo riconobbe in un battito di ciglia, era il ragazzo della foto, quello che non si era mai presentato in ospedale.

Lo sconosciuto sembrò sorpreso nel vedere Joonmyun davanti la porta, ma non ebbero modo di parlare poiché Kyungsoo subito li raggiunse, con un’aria alquanto allarmata.

“Joonmyun-ah!”, lo richiamò con un caldo sorriso, facendogli segno di entrare.

Il diretto interessato, però, non si mosse di un centimetro finché non porse il regalo ed esclamò un “Buon compleanno, Kyungsoo-yah!”, accompagnato da un largo sorriso.

Seppur diede il massimo per non darlo a vedere, comunque, un’altra stranezza che compose quell’incontro fu che lo sconosciuto non fiatò per tutto il tempo, finché non arrivò il tempo di liberare la casa. Rimase tutto il tempo stretto in un angolo del divano, con gli occhi chini e le mani strette in due piccoli pugni, parve quasi una statuita piuttosto che un essere umano e non batté ciglio nemmeno quando il festeggiato di quel giorno provò a interpellarlo o comunque gli mandò delle occhiate. Joonmyun, dalla sua parte, avvertiva come se il disagio in quel momento lo stesse tenendo a braccetto, come se fossero migliori amici o qualcosa del genere. Non gli parve di poter avere una dolce tregue finché il terzo non decide di lasciarli soli, nonostante non si fosse intromesso in alcun tipo di conversazione.

Le lancette dell’orologio segnavano le 19:37 quando lo sconosciuto si alzò, recuperando la giacca, e porse un piccolo sorriso nella direzione di Kyungsoo.

“È ora di andare,”, annunciò in un filo di voce e Joonmyun poté sentire un brivido percorrergli tutta la schiena, “Ci vediamo presto, Kyungsoo”.

Alzò di scatto la testa, osservando bene la figura che si accingeva a raggiungere la porta d’ingresso, e il cuore perse un battito quando lo vide arrestarsi e girarsi, questa volta verso la propria parte.

“Ci vediamo presto, Joonmyun”.

Joonmyun…

 

 

 

Le risposte sembravano così vicine come lontane, la testa dell’uomo era carica di dubbi, di pensieri e di ricordi spezzati, i quali sembravano avere sempre un pezzo mancante che li rendeva incompleti, senza senso. Capì, poi, che quella persona misteriosa c’entrava, in qualche modo. Non poteva ricordarsi di quella voce per puro caso, giusto? Quelle iniziali e il suo volto non potevano provocargli un dolore così atroce. Era come se la mente, con quelle fitte che si presentavano puntualmente quando pensava a quelle due cose, volesse dirgli qualcosa; come se volesse lanciargli un segnale.

Ricorda… ricorda…

“Chi sei tu?”.

Fu una domanda improvvisa, nata nel vuoto e venuta alla luce in una semplice strada, fra il supermercato e un parco, dove i bambini stavano giocando ben coperti, con le madri o le nonne che li controllavano.

Joonmyun aveva rincontrato quella persona per pura casualità in quel modo, e la prima cosa che la mente gli disse di fare era afferrarlo per una spalla, fermarlo e porgergli quella domanda. Così fece e la seconda persona parve essere presa di sprovvista.

“Scusami?”, chiese confuso e gli occhi parevano due piatti per quanto erano stati allargati.

“Voglio sapere chi sei, il tuo nome”, rispose deciso il primo, stringendo appena la presa sul cappotto grigio dell’altro.

La bocca del diretto interessato tremò, si aprì ma si richiuse subito dopo, e un pesante sospiro prese posto delle parole. Non sembrava un sospiro di sollievo, ma un sospiro di rassegnazione… triste.

“Non ti ricordi di me, vero?”, domandò questa volta e gli occhi brillarono di una luce strana, sembrava quasi speranza.

“No,”, negò Joonmyun e sul volto dell’altro uomo poté scorgere un’ombra di delusione, “Però,”, iniziò e lì un’altra luce si accese, forse la stessa di prima, “Ricordo la tua voce, in qualche modo”.

Quell’affermazione bastò per far sorridere chi aveva fermato per strada e pochi minuti dopo si ritrovarono in un piccolo bar, vicino alla scuola media del posto. Davanti a Joonmyun c’era del thè caldo, fumante, mentre davanti allo sconosciuto c’era una tazza di caffè, il liquido era molto scuro e da quella distanza poteva sentire l’aroma.

“Kim Jongdae”, disse nel silenzio l’altro.

“Come scusa?”.

“Il mio nome è Kim Jongdae”, Kim Jong Dae?, era… lui?

“Ho visto la tua foto nella mia camera, in ospedale, e sotto il cuscino ho trovato questo,”, fiatò Joonmyun estraendo dal taschino della giacca il bracciale, “È tuo, vero? Kim JongDae”.

“Astuto come sempre, vedo”, ridacchiò Jongdae, prendendo poi un sorso del suo caffè e fece un verso soddisfatto, dopo aver sorseggiato il liquido scuro, “Sì, è mio”.

“Perché era sotto il mio cuscino?”.

A seguito di quella domanda seguì un sospiro e dovette aspettare vari minuti, prima di poter risentire la voce altrui. In qualche modo, sembrava in conflitto con sé, come se stesse decidendo se asserire la verità o nascondere tutto dietro una leggera, innocente menzogna. L’altro prese un altro sorso dalla sua tazza e incrociò le mani, puntando i suoi occhi felini sulla dolce espressione del più grande.

“L’ho messo io, ovviamente,”, ammise, e dal tono parve piuttosto ovvia come cosa, “Era un piccolo regalo che ti feci… quando? Penso al tuo ventiquattresimo compleanno, sì”.

“E― tu cosa saresti, esattamente, per me?”.

Parvero passare minuti infiniti dopo quella domanda, che uscì dalle labbra rosee di quest’ultimo quasi come un sussurro, come se avesse paura di fare una domanda simile.

“Un amico”, eppure non sembrava convinto.

 

“Chi hai incontrato tu?”, domandò stupita la signora Kim.

Joonmyun non nominò l’incontro fino al giorno seguente, quando tornato dalla spesa e mentre stava sistemando ogni busta sul tavolo, così da togliere una fatica in più alla madre, decise di intraprendere una semplice conversazione con lei. In qualche modo, aveva capito che parlare con i genitori degli incontri che compieva in giorno in giorno, poteva aiutarlo. Magari un dettaglio che non ricordava tornava oppure era per assicurarsi che ricordasse bene.

Nel nominare Kim Jongdae, eppure, sembrava aver commesso un grosso errore. Come se non avesse dovuto incontrarlo.

“Com’è andata, tesoro?”, improvvisamente la sua voce si fece più dolce, quasi preoccupata, e la vide mordersi distrattamente un’unghia mentre riponeva i guanti in una mensola.

“Be’, bene?”, intonò con tono piuttosto insicuro l’uomo, “È un amico in fondo, come doveva andare?”.

In qualche modo, la madre di Joonmyun sembrava possedere la capacità di cambiare espressione e umore in un battito di ciglia – anzi, nemmeno quello; in qualche modo, il figlio sembrava aver sbagliato nuovamente nel nominare Kim Jongdae. Da un’espressione preoccupata, insicura, la vide passare a un’espressione frustrata e gli occhi sembravano ardere di qualche sentimento negativo, come se nulla stesse andando nel verso giusto, come se ci fosse qualcosa che non stava prendendo la giusta piega e ciò non poteva far altro che farla arrabbiare. In un attimo l’anziana prese il piccolo telefono che costudiva sempre in tasca e, presto, in cucina non ci fu più quel viso carico di sentimenti negativi – c’era solo Joonmyun, confuso.

 

 

 

Venne Aprile e tutti, con felicità, poterono costatare che ora la memoria di Joonmyun era aumentata del 90%. In questo modo, con la venuta di quel mese lo psicologo poté riprendere il posto sul luogo di lavoro e l’accoglienza, il ben tornato, fu splendente. Tutti i colleghi erano felici di riaverlo fra loro, ma lo erano soprattutto gli studenti che per quei pochi anni aveva avuto modo di assistere e di aiutare. Sehun era quello che aveva mostrato più gioia, e il che fu sorprendente visto che il più delle volte era un ragazzo che sul viso teneva le labbra in una linea retta e gli occhi, spenti, coperti da una frangia che lo rendeva ancora più cupo – l’uomo se lo ricordava, nella sua memoria era impressa quell’immagine del giovane seppur ora avesse i capelli corti e gli occhi un po’ più sereni.

“Finalmente è tornato il mio collega preferito!”, cinguettò Lu Han, quando lo incrociò per i corridoi vuoti della struttura, e non perse tempo a circondargli le spalle con un braccio – lo psicologo poté notare come fra le labbra teneva il fischietto, senza però farlo suonare; qualcosa che aveva sempre fatto, lo ricordava.

“Fatti da parte, Han”, lo minacciò Chanyeol appena li raggiunse, e sul viso teneva sempre il solito sorriso smagliante, “Lo psicologo-nim è mio!”.

Affermare che qualcosa fosse sempre stato compiuto da altri, poter dire che certa persona aveva sempre tenuto una certa postura mentre l’altra s’era sempre comportato in un certo modo, era una grande soddisfazione per Joonmyun, che per mesi era stato privato di quella capacità per un brutto incidente.

Alla fine i genitori glielo spiegarono, gli raccontarono il motivo per cui finì in coma. Fu un pomeriggio di novembre, quando, per una grave distrazione, finì per strada e una macchina lo travolse in pieno, facendogli sbattere gravemente la testa contro il suolo. Si poteva dire che la sua era stata anche una grande fortuna, poiché un colpo del genere avrebbe potuto mandarlo dritto nelle braccia della morte.

Joonmyun, a quella spiegazione, si mostrò convinto e dispiaciuto anche per se stesso, senza lasciare nessuna ombra di dubbio. Eppure, però, dentro di sé, non era del tutto convinto. Sentiva come se qualcosa, alla fine, non quadrasse del tutto – come sempre. Un episodio del genere lo aveva visto sempre nei suoi sogni, come un flashback, ma c’era qualcosa che non si incastrava perfettamente. Qualcosa, nel racconto dei genitori, mancava e creava un grande vuoto.

Un viso sfocato… Joonmyun―

 

 

 

Joonmyun!

L’uomo si svegliò di colpo, sudaticcio e con la mente che vagava in ricordi sfocati; era da tempo che non aveva un sogno del genere, dove una voce lo chiamava per nome. Le altre volte era lontana, dolce, questa volta era vicina, forte.

In qualche modo, lo psicologo nella mente aveva un pensiero fisso: Kim Jongdae. Perché era fonte costante dei suoi pensieri, se lo aveva visto solo due volte e mai più?

Ormai consapevole che non avrebbe acquisito sonno facilmente e sicuro che la mattina stessa non sarebbe dovuto recarsi a scuola – il venerdì non lavorava –, Joonmyun si alzò e andò a recuperare il telefono, scoprendo che erano le quattro del mattino. Camminò lentamente verso la cucina e si fece un thè caldo, così da poter rilassare i muscoli e concedersi un momento per pensare, per decidere come risolvere quel vortice di pensieri che andava a concentrarsi unicamente su una persona così… anonima, si poteva dire? In fondo due incontri non gli erano serviti per recuperare ricordi sulla sua persona e la madre non sembrava poi così allegra, quando lo sentiva nominare. Le sue visite in ospedale, poi, erano sospette. Perché si era presentato quando lui era in coma, e non quando si era svegliato? Era pure lui un amico di Kyungsoo, e sicuramente quest’ultimo gli avrà detto qualcosa. Inoltre, perché nascondere in quel modo il bracciale, e perché era parso così afflitto nel dire che era suo amico? Proprio non riusciva a darsi una risposta.

Finito il thè e riposta la tazza nel lavabo, sicuro che l’avrebbe lavata una volta risvegliatosi, l’uomo tornò sui suoi passi e si diresse in camera, e non per dormire.

Si mise davanti alla scrivania e con lentezza aprì uno dei cassetti, lì, ci trovò il suo vecchio telefono. Gran parte dello schermo era rotto e la parte anteriore non era più applicabile, dando una bella vista alla batteria e alla vecchia Sim. Con sorpresa, scoprì che si poteva accendere seppur la carica fosse molto bassa – aveva il tempo di guardare qualche vecchia foto, e magari qualche vecchio messaggio.

Joonmyun si buttò sul letto e alzò il braccio, cosicché il telefono fosse ben sopra la sua testa; vide come non aveva nessun gioco e il promemoria era pieno di appunti.

Compleanno di Oh Sehun, compleanno di Park Sooyoung… cena di famiglia alle 20:30, e cose così, più qualche appunto su chissà quale lavoro; passò alla rubrica, e trovò tutti i numeri che aveva ora salvati sulla nuova sim― no, non tutti, poiché ce n’era uno che non ricordava di avere. Un numero salvato con un cuore. Schiacciò sull’icona dei messaggi e l’aria gli mancò, per ciò che scoprì dopo.

Hyung~

Sei sveglio?

 

Disturbi pure a quest’ora? kk

 

Scusa se voglio parlare con il mio ragazzo. >.<

 

Ragazzo?

 

Sei perdonato.

Grazie..

Quando ci vediamo?

Dobbiamo parlare, lo sai.

 

Me lo ricorderai a vita?

Lo so.

Domani, magari?

 

Sì sì sì sì!!!

Al solito bar, vicino la scuola media.

 

Il bar vicino la scuola media…

 

Oltre a doverti parlare, ho una sorpresa per te. ~

Spero per te che non sia nulla di grande.

Uff, sei sempre così rigido.

Ora vado hyung.

Ho sonno.

Buonanotte~

 

Buonanotte, Jongdae.

ily. <3

 

Ti amo pure io. >.<

 

Il cellulare cadde di colpo, sfiorando il viso di Joonmyun, mentre questo, senza nemmeno accorgersene, faceva uscire dagli occhi delle calde e salate lacrime, che andavano a rigargli le tempie, morendo poi sul cuscino azzurro. Se una volta quella a fargli più male era la testa, questa volta, il cuore doleva ancora di più e un peso quasi gli vietava di respirare. Nella mente mille ricordi, mille risposte per i suoi punti interrogativi ancora incompleti salirono a galla, dall’angolo più oscuro della sua mente, e il viso di Jongdae si fece più nitido, la sua voce che lo chiamava si ripeté mille e più volte. Improvvisamente, tutti i sogni che fece trovarono quel secondo volto sempre oscurato.

La figura che gli sfuggiva nel bosco si girò, mostrandosi di profilo, e riconobbe quegli occhi felini, gli zigomi definiti; era Jongdae.

Prima ancora che la macchina potesse colpirlo alzò lo sguardo, e in un secondo poté riconoscere l’espressione impaurita di Jongdae, che cercava di lanciarsi verso di lui, che urlava il suo nome.

“Joonmyun!”

Perché tutti lo avevano nascosto? Perché nessuno gli aveva detto niente ― perché Jongdae si era presentato come un suo amico. Era il suo ragazzo, non un suo amico.

Velocemente riprese il vecchio telefono e recuperò pure quello nuovo, sbloccò entrambi e velocemente salvo il numero.

 

Dobbiamo parlare.

 

 

 

Con passi decisi si diresse verso il bar scelto, quello vicino la scuola media, e già dalla grande vetrata poté vederlo, lì, seduto composto e già con una tazza di caffè stretta fra le mani. Non lo aspettava mai. Fece in modo che lo vedesse, tanto per fargli capire che avrebbe dovuto preparare molte risposte, complete e soddisfacenti, e si prese tutto il tempo per entrare, salutare cordialmente la ragazza alla cassa e raggiungerlo, senza staccargli gli occhi da dosso. Non si salutarono né fu Jongdae il primo a parlare.

“Perché?”, chiese immediatamente Joonmyun, appena prese posto davanti a lui, con un sopracciglio inarcato, “Perché non ti sei mai presentato? Perché mi hai mentito?”.

Il minore giocherellò distrattamente con la tazza e parve a disagio, e molto molto confuso.

“Avevo paura― ho ancora paura”, rispose con voce soffice, leggera, “È colpa mia se è successo tutto questo, forse tu non ricorderai tutto ma―”.

“Ricordo tutto”.

“Eh?”.

Ci fu un attimo di silenzio, nessuno dei due parlò, si guardarono semplicemente; per grande stupore di Jongdae, era vero, il primo ricordava tutto e ogni singolo dettaglio. La memoria era tornata, al 100%, mancava solo quella parte di vita che in quattro anni lo aveva reso felice come triste, togliendo quei ultimi mesi. Gli mancava semplicemente la loro relazione, per tornare il Kim Joonmyun che tutti conoscevano e avevano imparato ad apprezzare, a odiare.

“Se ricordi tutto perché non mi odi? Perché non mi vuoi vedere come vuole fare tua madre e tuo fratello? Perché sei qui con me, e vuoi parlarmi?”, era evidentemente scosso il secondo e il maggiore poteva scommettere che stava facendo di tutto, per non alzare la voce.

“Perché voglio darti un’altra chance”, fiatò con calma e sul suo viso apparve un piccolo sorriso, nel frattempo che alzava una mano, per mostrare lo stesso anello che l’altro possedeva ancora, legato al dito, “Come l’ultima volta”.

 

“Forse― è meglio se la chiudiamo qui, no?”, chiese debolmente Jongdae, stringendo la tazza e guardando il legno liscio del tavolino, gli occhi ormai non riuscivano più a reggere la vista di Joonmyun.

“No,”, affermò con sicurezza l’altro, perché nonostante tutti i casini che il ragazzo compieva, nonostante gli alti e bassi che dava alla loro relazione, lui era sempre pronto a perdonare.

“No? Perché―”.

“Perché voglio darti un’altra chance”.

 

Lo psicologo sorrise tristemente al ricordo, ma quel sorriso poi tramutò in uno felice, appena vide quello sul viso altrui e incrociò quegli occhi che brillavano di gratitudine, di riconoscenza. Il sorriso si allargò, poi, quando due labbra toccarono velocemente le sue.

“Sono felice che tu abbia riacquisito tutta la memoria”, affermò Jongdae in seguito, quando raggiunsero un luogo più appartato dove potevano essere loro stessi, come una volta.

“Sono felice di non avere più un ricordo sfocato di te”.

 

 

 

 

riuscirò mai a scrivere una one shot dove Joonmyun e Jongdae vivono felici e contenti? Lo scopriremo solo col tempo.

ps. probabilmente aggiornerò con più lentezza questa raccolta di one shot perché *rullo di tamburi* sto iniziando a lavorare a qualcosa di più grosso, a una vera fanfic con due o più capitoli. So... stay tunned. <3

  
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