Decima stazione Bletchley Park,
Inghilterra
Arthur
si svegliò
lentamente e dolorosamente con la testa poggiata sulla scrivania come
se la sua
coscienza si stesse liberando da una grossa ragnatela che cercava di
trattenerla con i suoi fili appiccicosi ed elastici. Lentamente si mise
dritto
a sedere cercando di abituare lo sguardo alla penombra della stanza, ma
un mal
di testa lancinante esplose nella sua testa doloroso come una pugnalata
improvvisa. Gemendo e tenendosi la testa con una mano, con
l’altra si asciugò
la bava dalla bocca per poi scoprire che era rigurgito e che in buona
parte si
trovava anche sulla scrivania.
Fantastico, ecco spiegato perché aveva un sapore orribile in
bocca.
Cercò di pulire alla
meglio lo schifo che aveva combinato
mentre dormiva e forse anche prima con il suo fazzoletto di stoffa
ricamato,
per poi gettarlo in un angolo della stanza nella speranza di lavarlo in
un
futuro non troppo remoto. Sulla scrivania oltre ai fogli macchiati di
chissà
quale porcheria (aveva avuto la brillante idea di addormentarsi sui
documenti
che stava compilando), c’erano una radio con cuffie e
microfono, varie matite,
un bicchiere vuoto rovesciato su un fianco e una bottiglia vuota di rum.
Ecco cos’era quella porcheria, rum.
Il buon vecchio rum.
Qualcuno che non ti avrebbe mai abbandonato nel momento del
bisogno…
Scuotendo forte la testa, Arthur
cercò di distrarsi per non
ricominciare con quei pensieri, ma la sua mente proprio non voleva
liberarsene.
Appena aveva un attimo di pace subito il suo pensiero andava a lui.
“Alcool, ci vuole
l’alcool. Dov’è il rum?”
Mormorò a denti
stretti mentre prendeva la bottiglia di rum vuota per controllarla.
Come aveva intuito inizialmente, la bottiglia era stata scolata alla
perfezione, perciò la gettò nel cestino che si
trovava accanto alla scrivania e
si mise a cercarne un’altra.
Aprì i diversi cassetti
della scrivania sperando di scovare
la piccola boccetta d’alcool che di solito teneva di scorta
quando i suoi
subalterni non lo rifornivano in tempo, ma da quanto poteva vedere la
scrivania
gli offriva solo documenti e scartoffie relative al lavoro.
Sempre più fantastico.
Infine senza accorgersene
aprì l’ultimo cassetto all’angolo
e la vide.
Il suo cuore iniziò a battere velocemente mentre il suo
corpo iniziò a sudare
freddo. Un fortissimo senso di nausea lo colse allo stomaco e chiudendo
velocemente il cassetto fece in tempo a girarsi per poi vomitare nel
cestino
dove pochi istanti prima aveva gettato la bottiglia vuota.
Tossendo e cercando di riprendersi si accasciò sulla sedia e
strinse gli occhi
fino a farsi male.
Avrebbe dovuto gettare quella
maledetta lettera il giorno in
cui l’aveva ricevuta. O meglio avrebbe dovuto dargli fuoco e
guardare come le
fiamme mangiavano e sgretolavano in tanti fragilissimi frammenti la
carta e
soprattutto le parole che riportava. Ma era stato un debole,
così come lo era
ora, e aveva conservato la lettera rileggendola ogni volta che poteva,
accartocciandola
e lanciandola a terra o contro le pareti, tentando di stracciarla molte
volte
senza riuscirci, ma infine sempre riprendendola e riponendola nel
cassetto
della scrivania.
Ogni volta che la vedeva si sentiva male.
La lettera riportava con pochissime
frasi battute a macchina
della scomparsa sul campo di battaglia di Francis Bonnefoy, disperso in
chissà
quale vigneto devastato dai conflitti in Francia, oppure catturato dal
nemico e
deportato in un luogo sconosciuto. La lettera era indirizzata alla
famiglia
Kirkland in quanto Francis non aveva parenti prossimi a cui inviare il
comunicato.
Fin dall’inizio Arthur si
era aggrappato per disperazione
alla seconda opzione, sperando con ogni fibra del suo corpo che il suo
amato
fosse stato catturato dal nemico e imprigionato da qualche parte, ma
ancora
vivo. Rifiutava a pelle l’idea che fosse morto da qualche
parte e fosse stato
lasciato lì come un rifiuto a marcire sotto il sole gentile
della Francia.
La sua speranza alimentata dalla fortissima disperazione lo aveva
spinto ad
arruolarsi nell’esercito inglese e a intraprendere la
carriera di
crittoanalista, e dopo due anni di servizio era diventato uno dei
migliori
elementi dell’esercito britannico.
Ma il suo lavoro non era mosso da un sincero spirito patriottico ma dal
forte
desiderio di scoprire dove i tedeschi detenevano i prigionieri di
guerra.
Arthur sentiva che nessuno
all’infuori di lui poteva
riuscire a trovare quelle informazioni, o meglio che nessuno si sarebbe
interessato così tanto da dedicargli la sua vita come stava
facendo lui. Perché
in fondo la vita non gli aveva lasciato più nulla
perciò poteva sacrificarla
per questa giusta causa.
Riaprendo gli occhi, Arthur rimase
qualche istante ad osservare
la stanza girare e fluttuare su sé stessa finché
gli occhi non si abituarono
nuovamente alla penombra e allo sforzo.
Si accarezzò una guancia con la mano per cercare di
riprendersi per poi
scoprire che il guanto di pelle era imbrattato del rigurgito che poco
tempo
prima aveva ripulito.
Sospirando prese un altro fazzolettino di stoffa da un cassetto e
ripulì la sua
divisa militare come meglio poté.
Da quanto tempo viveva in questo
stato pietoso? Da quanto
tempo beveva come una spugna anche sul lavoro e vomitava sui suoi
stessi
vestiti? E da quanto tempo non curava la sua igiene e il suo aspetto
fisico?
Arthur calcolò più o meno da quando aveva
ricevuto quella fottuta lettera.
Il ricordo di quel giorno e dei mesi successivi era ancora
così forte da fargli
torcere lo stomaco per il dolore.
Lo sguardo del postino vitreo e quasi morto, il tipico sguardo di
qualcuno che
aveva dovuto vedere tanta sofferenza in poco tempo, la sofferenza di
tutti i
famigliari a cui consegnava quelle maledette lettere.
Mani tremanti, le sue, che aprivano la lettera e la accartocciavano
pochi
minuti dopo.
Le urla, le crisi di pianto, oggetti che venivano lanciati ovunque, e
poi il
silenzio, il digiuno, i giorni passati a letto nel buio della propria
stanza,
il non riuscire a distinguere più il giorno e la notte.
Arthur aveva provato a reagire, e
soprattutto a dimenticare.
Aveva provato ad assimilare il lutto e a rifarsi una nuova vita
conoscendo
nuove persone e cercando altra compagnia. Non poteva ostentare la
propria
sessualità in quanto in Inghilterra
l’omosessualità era perseguitata, ma aveva
provato a stringere legami con coetanei e altri esponenti
dell’alta classe
Londinese che facevano parte della sua cerchia. Tutto tempo sprecato.
Nonostante dopo due anni di
lontananza i suoi ricordi si
stavano irrimediabilmente affievolendo non riuscendo a ricordare
più molti
dettagli del volto del suo amato, il sentimento che Arthur provava per
Francis
era ancora forte e duro a morire. Non si sarebbe placato fin quando
c’era la
speranza di ritrovare Francis vivo.
Gettando il fazzoletto sporco
nell’angolo vicino al primo,
Arthur decise di aprire le finestre della stanza per far entrare la
luce e per
cambiare l’aria ristagnante. La luce del sole gli
ferì gli occhi e penetrò
nella stanza buia come una lama affilata, rivelando agli occhi la
pessima
condizione igienica in cui si trovava quel luogo. Arthur si
sentì mortificato
nel vedere ciò, lui che era sempre stato molto pignolo nelle
pulizie.
“Se solo Francis fosse qui,
mi sgriderebbe con il suo bel
accento francese di essere un cavernicolo e mi costringerebbe a
risistemare
tutto, per poi premiarmi con qualche gesto affettuoso e qualche
dolcetto appena
cucinato” Pensò Arthur con tristezza mentre
tornava a sedersi sulla sedia.
“Ma lui non è
qui, se Dio vuole è imprigionato in chissà
quale luogo nazista. Non devo perdere altro tempo, ogni secondo
è prezioso! In
questo momento potrebbe essere sotto tortura, oppure a patire la
fame… non
posso permetterlo, devo trovarlo a tutti i costi!”
Questo pensiero diede al giovane
inglese la forza per
riprendersi da una fortissima sbronza e per ricominciare a perseguire
la
propria missione.
Prendendo l’orologio da tasca notò con piacere che
era mattino inoltrato e che
non aveva dormito praticamente tutto il giorno come spesso accadeva.
Probabilmente l’esercito non lo buttava fuori con disonore
soltanto perché era
particolarmente bravo nel suo lavoro, ed era anche per questo che aveva
una
stanza adibita ad ufficio tutta sua invece di trovarsi nello scantinato
in una
di quelle scrivanie ammassate l’una sull’altra
insieme a tutti gli altri
crittoanalisti.
Risistemando tutti i documenti sulla
sua scrivania, stava
per mettersi le cuffie e accendere la radio per captare qualche
messaggio
cifrato tedesco quando qualcuno bussò alla porta.
Il suo umore si guastò immediatamente.
Tutti in quel palazzo sapevano che non dovevano disturbare Arthur
Kirkland
quando si trovava nella sua stanza. Aveva dato chiaramente disposizioni
che
ogni ordine scritto, lettera o qualunque cosa fosse su carta doveva
essere
lasciata sotto la porta in modo tale che l’avrebbe presa e
letta quando avrebbe
avuto tempo. Per ogni altra comunicazione dovevano contattarlo via
radio oppure
raggiungerlo nei momenti in cui lasciava la stanza per il tè
pomeridiano o
altri motivi.
Nessuno doveva vedere com’era combinata la sua stanza,
nessuno!
Ignorò il bussare
insistente della porta facendo finta che
la stanza fosse vuota, ma dopo il terzo toc toc la porta si
aprì lentamente. I
capelli di Arthur si rizzarono in testa.
“Chi ti ha dato il permesso
di entrare? Esci
immediatamente!” Urlò alla persona che stava
cercando di entrare. Il soldato
però non si fece intimidire e infilò la testa
nella stanza con un certo timore.
“Sir ho una comunicazione
urgentissima da consegnarle,
ordini dei superiori”
“Sono io il tuo superiore,
e se non esci immediatamente
dalla stanza ti declasso a lava cessi o ti mando direttamente al
fronte, idiota!”
Ma il soldato non demorse, anzi
aprì ancor più la porta ed
entrò completamente nella stanza. Arthur era fuori di
sé per la rabbia. Quale
impertinenza da parte di un semplice soldato di bassa classe sociale
nei suoi
confronti, nei confronti di Arthur Kirkland, unico discendente della
famiglia
nobile dei Kirkland e capo crittoanalista dell’esercito
britannico di Sua
Maestà. Aveva fegato quello sbarbatello, Arthur glielo
riconobbe mentre
chiudeva la porta e si piazzava davanti la sua scrivania tremante come
una
foglia ma imperterrito. Arthur lo fucilò con il suo sguardo
di smeraldo.
“S-Sir, ho una
comunicazione urgente da consegnarle!”
Balbettò mentre sfilava dalla tasca della sua divisa un
foglio ripiegato e
glielo porgeva.
Arthur glie lo sfilò di
mano con violenza e lo lesse
velocemente. Era un codice crittografico non ancora decifrato
trascritto da
qualcuno in modo frettoloso. Sotto il testo vi era una nota in bella
grafia di
qualche ufficiale che ordinava ad Arthur di decriptare il testo che
conteneva
delle informazioni di importanza vitale e segrete derivanti
dall’esercito russo
sul fronte orientale.
Arthur ripiegò con cura il foglio e lo mise da parte sulla
sua scrivania, poi
guardò nuovamente il soldato con il suo sguardo perforante.
“Torniamo a noi, hai
disobbedito a un ordine del tuo
superiore introducendoti senza permesso nella mia stanza-“
“Ma Sir, stavo solo
eseguendo gli ordini dei miei
superiori!”
“… e hai anche
il brutto vizio di interrompere i tuoi
superiori quando parlano!” Prese casualmente un foglio bianco
e una penna “Ora
scriverò una lettera ai tuoi superiori lamentando la tua
indisciplina e
suggerendo un provvedimento adeguato. Qual è il tuo nome,
soldato?”
“… Allistor
Scott, Sir”
La penna che stava scrivendo sul
foglio si bloccò
all’istante nel sentire quel nome. Arthur alzò lo
sguardo dal foglio al soldato
lentamente.
Allistor Scott, il soldato scozzese che tutti conoscevano nel
dipartimento, arruolatosi
nell’esercito come volontario per combattere i tedeschi. Il
soldato scozzese
che aveva sposato una londinese diversi anni prima e che aveva perso la
maggior
parte dei suoi famigliari nei bombardamenti del ’40. Il
soldato scozzese che
aveva perso la moglie, suicidatasi a causa di un peggioramento della
sua salute
mentale dovuto agli orrori che aveva dovuto vivere a causa della guerra.
Allistor Scott, un uomo solo e disperato che aveva immolato la sua vita
all’esercito in memoria della sua amata moglie.
Un uomo come lui.
I suoi occhi tornarono al foglio e
velocemente scrisse
qualche parola in bella grafia, poi lo ripiegò e lo porse al
soldato.
“Sei pregato, una volta
uscito di qui, di leggere questo
foglio e di riflettere sui tuoi errori. È tutto!”
Lo congedò con un cenno
della mano, poi riprese in mano il
foglio con il testo criptato e non prestò più
attenzione al soldato.
Il testo era criptato con una variante complessa di un codice che aveva
inventato lui stesso con altri crittoanalisti per rendere sicura o
almeno di
difficile decriptazione lo scarsissimo scambio di informazioni che gli
alleati
tenevano con l’esercito russo che stava avanzando
dall’oriente verso la
Germania, furioso per l’aggressione improvvisa e traditrice
di quest’ultima nei
suoi territori. Avrebbe impiegato qualche ora a decriptarlo, ma non era
qualcosa di così complicato. Ovviamente i suoi superiori
avevano ragione,
soltanto lui poteva decifrare un testo simile.
Velocemente lo scozzese si
congedò e una volta uscito dalla
stanza imprecò per la sua sfortuna e contro il suo superiore
dal carattere
impossibile.
Girato l’angolo prese il foglio e lo aprì.
Il foglio recava soltanto una frase:
Ottimo lavoro soldato.
Diverse ore dopo Arthur si trovava
ancora nella sua stanza
chino su diversi fogli impegnato a scrivere frettolosamente la
traduzione del
testo codificato che aveva ricevuto tempo prima. Per riuscire a
decriptarlo il
prima possibile aveva saltato il pranzo e ora stava saltando anche
l’ora del
tè, ma a lui non importava perché tutto poteva
aspettare di fronte le notizie
contenute da quel messaggio.
Era rimasto chino nella stessa
posizione per così tanto
tempo che la schiena, il collo e le spalle gli dolevano come
l’inferno e aveva
scritto così tanto che i tendini della mano si rifiutavano
di lavorare ancora,
ma lui non accennò a fermarsi. Continuò a leggere
e confrontare i simboli con
la sua legenda, ad appuntarne il significato, a costruire la frase in
russo per
poi tradurla con un apposito vocabolario cercando di darle un senso
logico
nella propria lingua. Spesso sbagliava l’impostazione della
frase o le
traduzioni delle parole costringendolo a riformulare la frase diverse
volte, ma
il gioco valeva la candela, valeva tutta quella benedetta candela.
Quando finalmente finì si
alzò in piedi di scatto tenendo il
foglio della traduzione tra me mani e leggendolo con impazienza.
Il governo russo comunicava che il suo esercito era penetrato nel
territorio
nemico e stava avanzando con l’obbiettivo di raggiungere
Berlino, ma
soprattutto comunicava che gli esploratori avevano effettivamente
avvistato dei
complessi di edifici recintati che ricordavano molto dei campi di
prigionia
nelle coordinate che l’Impero Britannico gli aveva fornito.
Le mani di Arthur tremavano in modo
incontrollato mentre i
suoi occhi si riempivano di lacrime.
Ce l’aveva fatta.
Dopo due anni di sforzi e di sofferenze atroci era riuscito a trovare
quelle
maledette prigioni dove rinchiudevano i prigionieri di guerra.
Arthur cominciò singhiozzare violentemente mentre piangeva
come un bambino.
Non c’era alcuna certezza che Francis potesse essere in uno
di quei luoghi
mostruosi, ma Arthur sentiva di aver finalmente raggiunto il suo scopo
e di
essere a un passo da poter riabbracciare il suo amato. Non sapeva
spiegarsi
come ma sentiva nel profondo della sua anima che Francis era
lì, rinchiuso
insieme a molti altri malcapitati, vivo e soprattutto in attesa di
essere
salvato.
Arthur si sedette di peso sulla sedia
e cominciò a gemere
mentre cercava di pulirsi il volto e il naso con le maniche della sua
divisa.
Quelle non erano lacrime di dolore, erano lacrime di
felicità. Erano tutta la
sua disperazione che scivolava via per lasciare posto alla speranza,
ora più
forte che mai.
Doveva ricomporsi il
prima possibile per
poter consegnare il testo alla squadra di crittoanalisi che lo avrebbe
poi
riconvertito in un altro codice e inviato via piccione viaggiatore
verso
l’Italia dove gli alleati americani stavano riconquistando i
territori occupati
dai tedeschi. Ad Arthur gli americani non piacevano particolarmente,
soprattutto quell’idiota di un aviatore che avevano assegnato
come messaggero
tra i due fronti a Bletchley Park.
Ricompostosi meglio che poteva, il
ragazzo biondo ripiegò
con cura il foglio e uscì quasi correndo dalla sua stanza
imboccando i corridoi
e le scale che portavano al seminterrato dove operava il resto della
divisione
di crittoanalisi britannica.
“Ti salverò
Francis, ovunque tu sia. Lo so che non sei
morto, resisti! Resisti stupido idiota di una rana, RESISTI!”
Linea Gotica (conosciuta anche come
Linea Verde), Italia
Romano Vargas si aggirava inquieto e
di pessimo umore tra le
tende dell’accampamento militare americano cercando di
evitare come meglio
poteva i tiranti delle tende che si allungavano per almeno mezzo metro
a terra.
Il partigiano italiano aveva fame e non riusciva a trovare la tenda
cambusa
dove ogni giorno andava a chiedere (gli americani dicevano elemosinare,
ma lui
si rifiutava di vederla così) un po’ di cibo per
sé e per gli altri suoi
compagni partigiani che erano costretti a restare
nell’accampamento sotto
sorveglianza. Beh, in realtà nessuno li costringeva, anzi
spesso i soldati
americani cercavano di convincerli a seguirli al fronte o a operare
sabotaggi
contro l’esercito tedesco, ma né lui né
i suoi compagni volevano saperne della
guerra. L’unica loro preoccupazione era recuperare cibo e
sopravvivere.
Romano sapeva perfettamente che il suo gruppetto di codardi macchiava
l’onore
di tutta la resistenza partigiana italiana che in quel momento stava
combattendo contro i tedeschi per liberare la propria patria dal regime
fascista, ma lui non poteva farci nulla. Era debole e codardo, lo era
stato fin
da piccolo, e soprattutto lo era stato quella notte, a caro prezzo.
Dopo quella
notte non voleva sapere più niente né della
resistenza né della guerra.
Il partigiano italiano
girò intorno a una tenda e finalmente
trovò la cambusa, una grossa tenda quadrata dal quale
proveniva un profumino
invitante. Romano sentì il proprio stomaco brontolare mentre
si formava
l’acquolina in bocca. Era quasi l’ora di pranzo e
non toccava cibo dal pranzo
del giorno prima.
Velocemente si avvicinò all’apertura della tenda e
spiò al suo interno. Qualche
volta, quando la tenda era incustodita, aveva rubato il cibo senza
chiedere
nulla a nessuno, riuscendo a recuperare anche quelle buonissime
barrette di
cioccolato di cui lui e i suoi compagni andavano molto ghiotti.
Oggi però la tenda era
piuttosto affollata. Romano rimase
sulla soglia della tenda indeciso se entrare e chiedere un
po’ di cibo
mostrando la miglior faccia pietosa che potesse sfoggiare oppure
aspettare di
trovare la tenda nuovamente incustodita per rubare tutto il cibo che
voleva.
Mentre era assorto in quella decisione qualcuno lo affiancò.
“Hello dude, anche oggi a
chiedere cibo non meritato?”
Romano saltò dalla paura
nel sentire all’improvviso quella
voce stridula e fastidiosissima che ben conosceva. Si girò
piuttosto irritato e
fissò l’americano con uno sguardo storto.
Alfred F. Jones lo sovrastava di quasi una testa piena ed era di
costituzione
molto più forte della sua nonostante fosse più
piccolo d’età. Era diventato
famoso nell’accampamento militare per essere invincibile
nelle sfide di braccio
di ferro e per essere uno dei più bravi e spericolati
aviatori che l’esercito
americano avesse mai avuto.
Il ragazzo però non era perfetto. Oltre ad avere
un’incredibile quanto
incontrollabile parlantina e una risata fastidiosissima, Alfred aveva
il brutto
vizio di dire tutto quello che pensava esattamente quando lo pensava,
diventando piuttosto scomodo nella maggior parte dei casi.
Romano non sopportava molto quell’egocentrico ed esaltato
americano ma aveva
bisogno di più agganci possibili nell’accampamento
a cui chiedere favori,
inoltre aveva molta fifa di quel gigante d’oltreoceano.
Alfred
rise di gusto
nel vedere la reazione contrita dell’italiano e gli diede
diverse pacche sulla
spalla. Romano sopportò quell’abuso del suo spazio
personale con molto sforzo.
“Su su, piccolo italiano, I
was joking! Stavo scherzando!
Vieni con me, ieri sera hanno smistato gli ultimi rifornimenti che ci
sono
arrivati dall’America, ho qualche cosa di buono anche per
te!”
Gli occhi di Romano si illuminarono
nel sentire quelle
parole! Alfred aveva qualcosa di buono da mangiare e lo voleva
condividere con
lui. Forse doveva rivalutare quel ragazzino dal fisico troppo cresciuto
e dal
cervello palesemente infantile. Si accodò docilmente al
ragazzo che si era nel
frattempo allontanato già pregustando le barrette di
cioccolata americane,
quando Alfred si fermò bruscamente e si girò
verso di lui.
“In cambio, mi presteresti
uno dei tuoi libri? I romanzi
italiani sono i migliori. Credo di sapere l’italiano
abbastanza per leggerne
uno!” Sfoderò un sorriso abbagliante.
Romano divenne rosso in volto
dall’imbarazzo e dalla rabbia.
Come faceva quel bastardo a sapere dei suoi romanzi? Lo aveva per caso
visto
leggerne uno? Impossibile, era sempre molto attento a non farsi
beccare. Oppure
aveva frugato nella sua roba in quella tenda bucherellata che gli
avevano
concesso dopo tante suppliche?
Romano cercò di dire qualcosa ma il miscuglio di sentimenti
glielo impedì.
Alfred rise di gusto nel vedere il ragazzo in difficoltà,
poi ricominciò a camminare
dritto verso la sua tenda.
Romano rimase in silenzio per tutto il tragitto cercando di capire come
quell’americano avesse scoperto dei suoi libri. In
realtà aveva solo due
romanzi che aveva letto così tante volte che ormai conosceva
a memoria. Entrambi
parlavano di una storia d’amore ambientata in Spagna in
periodi storici diversi
dove i protagonisti venivano divisi da molte avversità ma
infine si
ricongiungevano in un lieto fine. Romano aveva sognato molte volte di
trovarsi
al posto della donna e di vivere quelle splendide avventure con un
affascinante
cavaliere spagnolo, ma purtroppo gli unici uomini interessati a lui che
aveva
visto finora erano i tedeschi per fargli la pelle e gli americani che
volevano
mandarlo al fronte.
Dopo poco tempo Alfred si
avvicinò a una tenda e si chinò
per entrare, per poi uscirne poco dopo con in mano una borsa.
“Troviamo un buon posto per
gustarci queste squisitezze!”
Il pensiero di Romano andò
ai suoi compagni che stavano
aspettando il suo ritorno con qualcosa da mangiare.
“Scusate ragazzi, oggi dovrete vedervela da soli!”
Pensò mentre annuiva
all’americano e lo seguiva fuori dall’accampamento.
Si avvicinarono a una piccola macchia
boschiva non troppo
distante dalle tende e si sistemarono su una grande roccia. Alfred
svuotò la
sua borsa sulla pietra rivelando barrette di cioccolata, pacchetti di
gomme da
masticare, pacchettini di biscotti, zollette di zucchero rotte,
caffè e
limonata solubile, scatolette di cibo varie e un pacchetto di sigarette.
Romano guardò inorridito le scatolette di qualche cibo non
identificato. Quello
doveva essere cibo? Un italiano non poteva mangiare quelle schifezze,
lui
conosceva la vera cucina e non poteva accettare di ingurgitare roba
simile. Un
brontolio dello stomaco però gli fece cambiare subito idea e
afferrò senza
tante parole una scatoletta di quella che sembrava carne e
l’aprì tirando la
linguetta.
Alfred rimase qualche secondo a scegliere cosa mangiare poi
afferrò un’altra
scatoletta di metallo e iniziò a pranzare.
Romano mangiava con una tale fame
addosso da non masticare
bene i bocconi pur di mangiarne il più possibile
velocemente. Alfred lo guardò
sconvolto mentre si gustava il suo pranzo.
“Ehi dude, calma, il tuo
cibo non va da nessuna parte!”
“Sta…
gnam… zitto bastardo… mhn… non mangio
da ieri…!
“Lo
vedo…”
Romano finì la sua
scatoletta pulendone ogni briciola
possibile con le dita. Sapeva perfettamente di aver sacrificato la sua
dignità
di buongustaio italiano da molto tempo perciò non fu turbato
dalle parole
dell’americano. Posata la scatoletta sulla pietra
afferrò una barretta di
cioccolata, scartandola velocemente e infilandola in bocca.
“Perché stai
condividendo queste cose con me? Non sei idiota
a dare via metà della tua razione
così?” Chiese dopo un momento di silenzio.
Alfred rise di gusto a quelle parole
perforando i timpani
dell’italiano, poi si mise a masticare una cicca guardando il
cielo.
“Non
c’è un motivo preciso, mi stai simpatico. In
realtà sei
l’unico con cui posso parlare liberamente. Gli altri non mi
sopportano molto,
forse perché li ho battuti tutti a braccio di ferro.
Comunque questa non è la
mia razione, quella l’ho già mangiata stamattina,
sono tutte cose che ho vinto nelle
varie sfide!”
Romano lo guardò senza
parole. Era incredibile come quel
ragazzo riusciva ad essere serio e perspicace e contemporaneamente
così stupido
e ingenuo nello stesso momento. E comunque aveva ragione, nessuno lo
sopportava, nemmeno lui, ma non lo dava a vedere. Guardò per
qualche istante
tutto il cibo accumulato accanto a loro.
“Ci credo che ti odiano, li
hai lasciati a mani vuote!”
Pensò finendo di mangiare la barretta di cioccolato.
Alfred fece due o tre palloncini con
la gomma da masticare
assorto in chissà quale pensiero, poi si girò
nuovamente verso l’italiano con
uno sguardo serio.
“Stamattina ho sentito dire
dagli ufficiali con cui stavo
gareggiando cosa è successo quella notte in cui il vostro
accampamento è stato
scoperto e attaccato dai tedeschi. È per questo che non vuoi
tornare al
fronte?”
“B-bastardo! Che cosa ne
vuoi sapere tu di cosa è successo
quella sera?”
“Dude, sono sbarcato in
Sicilia e sono risalito fin qui, ne
ho visti di scontri e di morti, so cosa si prova e cosa comporta la
guerra.
Solo che non sopporto proprio questi atti di codardia nei confronti
della
propria patria!”
Romano era incredulo. Cosa diavolo
voleva da lui quel
bastardo così all’improvviso? Lo accusava di
codardia senza nemmeno sapere
cos’era realmente successo quella sera e i giorni seguenti,
di quello che tutti
i partigiani del suo gruppo avevano dovuto patire e di quello che
stavano
soffrendo ancora. Ma soprattutto, che ne sapeva lui di guerre e
sofferenze di
vario genere? Era sicuramente un damerino dell’alta
società americana che si
era arruolato per gioco, che aveva svolazzato sull’Italia
bombardando qua e là
mentre mangiava le sue barrette di cioccolato americane e che piantava
tende
dove più gli conveniva facendosi bello di fronte alla
popolazione italiana
stremata dalla fame e dalla guerra.
Lui non sapeva proprio un cazzo di niente!
“Vaffanculo stronzo, tu non
sai proprio niente!” Gridò
furioso mentre si alzava e scendeva dalla roccia.
Ecco, quello stronzo era riuscito ad inimicarsi anche lui,
l’unico imbecille
del campo che gli dava ancora retta.
“È per via di
tuo fratello, vero?”
Romano si fermò nel
sentire quelle parole.
Questo era troppo.
Tornò indietro con grandi falcate, risalì la
roccia velocemente e afferrò per
il colletto lo stupido americano che ancora lo guardava con quello
sguardo
azzurro innocente dietro le lenti, iniziando a scuoterlo violentemente.
“Tu non sai proprio un
cazzo di niente, brutto stronzo!!”
Era vero.
Da quella maledettissima notte in cui il loro accampamento era stato
assaltato
da una pattuglia tedesca Romano non era riuscito più a
condurre una vita
“normale” a causa dei rimorsi. Per colpa della sua
codardia aveva abbandonato
il campo ormai pullulante di tedeschi senza nemmeno guardarsi indietro,
abbandonando tutto e tutti, perfino il suo adorato fratellino che
ancora
dormiva profondamente. Aveva assistito impotente alla cattura di
Feliciano da
sopra un albero su una collinetta. Le urla che disperate lo chiamavano
e
gemevano gli risuonavano ancora nelle orecchie nitide e impossibili da
dimenticare. Non aveva fatto nulla per salvare lui e quei pochi
malcapitati che
non erano riusciti a fuggire, e quando era riuscito a riunirsi con i
superstiti
aveva giurato chiudere per sempre con la resistenza e con la guerra
stessa.
Voleva solo condurre una vita tranquilla cercando di mitigare il dolore
per
aver perso suo fratello per colpa sua.
Alfred sorrise e Romano
s’infuriò ancora di più. Stava
davvero prendendo in considerazione l’idea di iniziare una
rissa con quel
gigante con una bella testata, quando Alfred gli prese le mani e
stringendole
quasi da rompergliele se le staccò di dosso. Romano gemette
dal dolore e cercò
di liberarsi inutilmente.
“Invece capisco benissimo,
yeah!” Rispose con uno sguardo
serio “Ho un fratello anch’io sai?”
“È che cazzo
dovrebbe fregarmi, sentiamo?”
“Anche lui è
disperso in guerra”
A queste parole Romano si
calmò improvvisamente. Vide come
gli occhi brillanti e vivaci di Alfred iniziarono a colmarsi di dolore
mentre
lasciava lentamente le sue mani. Romano iniziò a sfregarsele
per calmare il
dolore mentre continuava a fissare il ragazzo con una
curiosità sempre
crescente.
“Fratellastro, in
realtà!” Continuò Alfred rimettendosi a
guardare il cielo.
Romano si sedette nuovamente affianco a lui e rimase in silenzio
aspettando che
l’americano continuasse, ma Alfred non accennava a parlare e
continuava a gonfiare
palloncini con la gomma che stava masticando.
Spazientito Romano decise di fare la prima mossa.
“Fratellastro?”
“Yeah, io e Matthew non
siamo fratelli. Stesso padre ma
madre diversa, per questo abbiamo anche dei cognomi diversi”
“In America non si usa
portare il cognome del proprio
padre?”
“O yeah, yeah, certo, se
tuo padre ti riconosce! Il mio però
non l’ha fatto nonostante mi abbia voluto molto bene
perciò ho preso il cognome
di mia madre. Sai, mio padre era un canadese che approfittando del
proibizionismo
americano di Roosevelt cominciò a contrabbandare alcool in
America, dove ha
conosciuto mia madre. Purtroppo però lui aveva
già una famiglia in Canada… si
esatto, Matthew è il fratello maggiore!”
Alfred si fermò per qualche istante per fare un altro
palloncino con la gomma
che scoppiò con un sonoro POP!
“La madre di Matthew non ha mai accettato
l’esistenza di noi e ha costretto mio
padre a non riconoscermi e Matthew a non avere nessun tipo di contatto
con me.
Nonostante tutto mio padre ha voluto bene ad entrambi i suoi figli e ha
sostenuto anche economicamente mia madre. Quando avevo sette anni
però nostro
padre, insieme alla madre di Matthew, è morto a causa di un
incidente
ferroviario. Matthew non aveva parenti prossimi in Canada
perciò mia madre lo
adottò permettendoci finalmente di crescere insieme. Quando
è scoppiata la
guerra però Matthew è stato richiamato dal
governo canadese per arruolarsi in
guerra. Io ho sempre desiderato essere un eroe della patria
perciò mi arruolai
volontariamente”
Un’altra pausa, ma quando continuò a raccontare
Romano si accorse che gli
tremava la voce.
“Io divenni un aviatore dell’esercito americano,
lui una spia del distaccamento
canadese dell’esercito britannico di Sua Maestà.
Era bravo in quello che faceva
e i suoi sforzi venivano lodati dai suoi superiori,
però… circa un anno fa ha
intrapreso una missione di spionaggio nel territorio francese occupato
dai
tedeschi, e non è più tornato. Tutti i contatti
con lui si sono interrotti
bruscamente, nemmeno dopo la liberazione della Francia abbiamo saputo
niente,
non sappiamo che fine abbia fatto… se è morto o
vivo…”
Alfred sputò la gomma e
agguantò la prima cosa che gli
capitò a tiro. Aprì frettolosamente il
pacchettino di biscotti e si infilò
tutto il contenuto in bocca in una sola volta.
Romano rimase in silenzio ad elaborare tutto quello che aveva ascoltato
finora
mentre osservava l’americano mangiare con nervosismo i
biscotti.
Nonostante cercasse di trovare un senso a tutto quello che era successo
da
quando aveva seguito l’americano alla sua tenda, proprio non
ci riusciva. Non
capiva perché Alfred era stato così gentile ad
offrirgli del cibo volendo in
cambio una sciocchezza come un romanzo rosa, non capiva
perché improvvisamente
lo aveva provocato per poi raccontagli la sua vita. Davvero non
riusciva a
capire quel ragazzone infantile e spensierato che improvvisamente
diventava
serio e perspicace, per poi tornare poco tempo dopo di nuovo idiota
come
sempre.
Finiti i biscotti,
l’americano si alzò e scese dalla roccia
lanciando un sorriso contenuto al ragazzo bruno.
“Ieri pomeriggio
è arrivata una comunicazione tramite
piccione viaggiatore dall’Inghilterra. L’esercito
di Sua Maestà ci informava
che i russi stanno penetrando nel territorio degli stati satelliti
tedeschi, ma
soprattutto che stanno trovando in alcune coordinate fornitegli dagli
inglesi
degli agglomerati di edifici recintati e pesantemente sorvegliati.
Sembrerebbero delle prigioni”
“Perché mi stai
dicendo questo, stupido americano? Io non
voglio avere niente a che fare con tutto ciò!”
“Pensaci bene, i nostri
cari sono dispersi, catturati dai
soldati tedeschi e mai più tornati. O sono morti, oppure
sono…” Fece un gesto
eloquente.
Romano sgranò gli occhi a
quella rivelazione. Feliciano
poteva essere ancora vivo. In realtà Romano dava ormai per
scontato che il suo
amato fratellino fosse stato fucilato da qualche parte tra le montagne
italiane, e l’idea che fosse rinchiuso in qualche sporca
prigione di quei
crucchi bastardi lo sconvolse.
Scese anche lui dalla roccia e afferrò le spalle
dell’americano stringendole
disperato.
“È
così? Non mi stai dicendo una cazzata, vero? Giura che
è
così! Giuramelo!!”
“Non posso dirtelo con
precisione, non sappiamo se davvero
quelle sono prigioni e se davvero loro sono finiti in una di quelle, ma
il
crittografo che ha scritto il comunicato era molto fiducioso”
Fu il turno di
Alfred di afferrare le spalle di Romano e stringerle “Romano!
Noi dobbiamo
vincere questa guerra e liberare i nostri fratelli dai tedeschi, come
farebbero
dei veri eroi! Io sto per partire per combattere i tedeschi oltre la
linea Gotica,
dovete combattere anche voi. Dobbiamo vincere, lo capisci? Tuo fratello
e il
mio possono essere ancora salvati!”
A Romano gli mancò
l’aria. Alfred sorrise e lo lasciò andare
incamminandosi verso le tende dell’accampamento. Dopo pochi
passi si fermò e si
voltò indietro.
“Il resto del nostro
spuntino te lo regalo, dividilo con i
tuoi compagni!”
Detto questo l’americano si
allontanò velocemente per poi
sparire tra le tende. Romano rimase a fissare un punto indefinito
dell’accampamento per diverso tempo cercando di elaborare la
notizia appena
ricevuta. Dopo alcuni minuti che per lui sembrarono ore
ritornò in sé e
recuperando tutto il cibo sulla roccia si affrettò a
raggiungere i suoi compagni.
Doveva assolutamente convincerli a ritornare ad operare nella
resistenza,
dovevano fare anche loro la loro parte per poter vincere quella guerra,
lui
doveva agire in prima linea, solo così avrebbe potuto
salvare il suo fratellino
ed eliminare una volta per tutte il suo dolore.
Quella stessa notte Alfred si
avvicinò a passo svelto al suo
amatissimo P-51 Mustang che riposava sulla pista di atterraggio che gli
americani avevano costruito velocemente appena si erano stanziati in
quel
posto. Alfred poggiò un piede sul bordo di un’ala
dell’aereo per allacciarsi
per bene gli anfibi, poi si sistemò con cura il tipico
cappello d’aviatore in
testa. Indossava la divisa militare completa dell’aviazione
statunitense, e con
al fianco una tracolla contenente del cibo e altri accessori
indispensabili per
il volo era pronto ad affrontare quella nuova missione che gli avevano
affidato. Un ufficiale si avvicinò a lui, scambiò
alcune parole ricordandogli
gli obbiettivi della missione, poi si allontanò. Alfred
salì con agilità sul
suo aereo e iniziò ad accendere il motore mentre un soldato
si piazzava sulla
pista di atterraggio con delle torce per guidarlo nella partenza.
Mentre il motore si riscaldava e l’elica girava sempre
più velocemente Alfred
accarezzò un piccolo orsetto di pezza bianco che aveva
fissato vicino al
cruscotto delle spie e manopole del motore con uno spago. Gli
accarezzò la
testa, poi gli premette il naso, infine girò una zampa
rivelando il nome
“Matthew” scritto a doppio filo colorato sul bordo
della cucitura.
“Spero che
quell’isterico nanerottolo della crittoanalisi
britannica abbia davvero ragione”
Il soldato sulla pista diede il
segnale agitando le torce
freneticamente e Alfred premette sull’acceleratore.
Luogo non precisato, Polonia
La neve cadeva lentamente mentre il
grosso dell’esercito si
fermava in un campo incolto organizzandosi per allestire un
accampamento in cui
passare la notte. Non smetteva di nevicare da giorni, ma
quell’esercito era
abituato a ben di peggio.
I campi circostanti erano tutti incolti e coperti di quasi venti
centimetri di
neve. Le casupole che si ergevano ai confini dei campi semi diroccate
sembravano
abbandonate ormai da tempo.
Tutti fuggivano difronte all’avanzata dell’Armata
Rossa.
Appena tutti i fanti arrivarono nel
campo furono divisi dai
superiori in più squadre di piccola dimensione. Una fu
incaricata di
perlustrare la zona nel caso in cui ci fosse la presenza del nemico
nascosta,
un’altra fu incaricata di controllare le casupole circostanti
per cercare
qualsiasi cosa potesse rivelarsi utile per l’avanzata
dell’esercito russo in
terra polacca (soprattutto cibo e vestiti), un’altra ancora
fu mandata in un
piccolo boschetto lì vicino a cercare della cacciagione. I
restanti gruppi
furono impiegati per montare le tende e allestire il campo.
Dopo poco tempo arrivarono anche i
carri armati che in fila
circondarono il campo in allestimento lasciando enormi solchi nella
neve.
Velocemente i portelloni dei vari carri si aprirono e gli equipaggi
sciamarono
fuori, tutti desiderosi di sgranchirsi le gambe e di prendere una
boccata
d’aria.
Ivan Braginsky fu l’ultimo dell’equipaggio ad
uscire da quella gabbia di ferro.
Appena mise la testa fuori dal portellone i fiocchi di neve si posarono
sul suo
colbacco mentre il freddo lo morse con prepotenza, ma non era forte e
crudele
come il freddo invernale russo, perciò Ivan prese una
rigenerante boccata
d’aria fresca e uscì atterrando con un suono
ovattato sulla neve soffice.
Ivan era il quarto
dell’equipaggio ed era il servente che
aiutava il cannoniere a inserire i proiettili nella lunga canna della
torretta
centrale. Il suo ruolo era tanto importante quanto difficile e
stancante e ogni
volta che si accampavano per la notte si sentiva sempre esausto.
Affondando i lunghi stivali nella spessa coltre di neve, Ivan
cercò di
dileguarsi subito per non essere fermato da qualche ufficiale e messo
ad
allestire il campo insieme agli altri. Non era un fannullone, ma
diavolo, ogni
giorno condivideva pochi metri quadrati con altre tre persone, voleva
qualche
momento per sé ogni tanto.
A passo svelto raggiunse il piccolo
boschetto accanto ai
campi incolti e si accoccolò sotto un grosso albero
sempreverde, dove la neve
veniva intercettata dalla folta chioma e non toccava terra.
Lì Ivan si sfilò
dalla spalla il grosso fucile in dotazione e lo poggiò al
tronco affianco a sé,
poi si rilassò allungando le gambe.
Purtroppo era di costituzione molto robusta (non grassa come dicevano
gli altri),
perciò doveva rannicchiarsi parecchio per riuscire a stare
bene nei pochi metri
quadrati del suo carro.
Chiudendo gli occhi e appoggiando la
testa al tronco, Ivan
si rilassò. Finalmente aveva un po’ di tempo per
sé in totale silenzio da
godersi finché non veniva scoperto o richiamato da qualche
suo compagno. Non
che Ivan rifiutasse i rapporti sociali, anzi li apprezzava e cercava
sempre di
inserirsi nei gruppi che si formavano tra i vari commilitoni, ma i temi
che
spesso finivano a discutere non gli interessavano.
L’argomento principale dei
soldati che bivaccavano o degli equipaggi nei carri armati era le
donne; donne
belle, formose, provocanti, donne che avevano accontentato i vari
soldati, fidanzate
di cui si sentiva la mancanza, donne desiderate ma mai ottenute, ecc.
A Ivan non interessavano questi discorsi perciò si limitava
a sorridere e ad
ascoltare con finto interesse.
Più che i discorsi a Ivan
non interessavano le donne. Si era
accorto di questo “difetto”
nell’età adolescenziale, quando gli altri
ragazzini
del villaggio cominciavano a provare interessi per le femmine,
soprattutto le
sue sorelle, ma Ivan non condivideva i loro gusti. Inspiegabilmente era
attratto più da loro che dalle loro sorelle o cugine.
Crescendo cominciò a capire cos’era
quell’inspiegabile tendenza e a nasconderla
a tutti, perfino alle sue adorate sorelline.
Ivan sospirò pensando a
loro. Aveva dovuto lasciare il suo
villaggio natale per arruolarsi nell’esercito qualche anno
prima quando il
governo aveva ordinato a tutti i maschi in buona salute della sua
regione di
prestare servizio per la patria. Sua sorella maggiore aveva pianto per
giorni
mentre recuperava e metteva tutta la sua roba in una borsa da viaggio,
mentre
sua sorella minore era stata letteralmente incollata a lui
finché non era
partito.
Le aveva lasciate sotto la custodi del vicino, il vecchio Generale
Inverno,
chiamato così perché era stato un generale
(così diceva lui) nella Prima Guerra
Mondiale e perché era freddo e burbero proprio come
l’inverno russo. Ivan non
aveva mai conosciuto il suo vero nome, ma dopo la morte dei suoi
genitori in
tenera età era stato aiutato molto da quell’uomo,
perciò si fidava ciecamente
di lui.
Alcuni rumori provenienti dal
boschetto lo misero in
allerta. Velocemente afferrò il suo fucile e si
buttò a terra pronto a sparare.
I rumori continuarono ad avvicinarsi e Ivan iniziò a sudare
per la tensione. Quella
situazione gli riportò alla mente i spiacevoli ricordi di
Stalingrado dove
aveva dovuto combattere contro i tedeschi per fermare
l’avanzata nazista nel
territorio russo. In quella situazione aveva visto e fatto
così tante atrocità
e azioni immorali da segnarlo per sempre. Sentiva che dopo
l’assedio e la
battaglia di Stalingrado aveva perso una parte importante di
sé, come se la sua
sanità mentale fosse stata irrimediabilmente corrotta.
Sarebbe stato perseguitato a vita dai loro ricordi.
I rumori divennero ben presto passi
ovattati nella neve
accompagnati da risate e grida in russo. Ivan si rilassò
sentendo un’ondata di
sollievo e si rimise appoggiato al tronco cercando di calmare il
battito
incontrollato del suo cuore e il fiato corto. Dopo pochi istanti vide
passare
tra gli alberi un gruppo di soldati russi che parlottava allegro mentre
alcuni
di loro stringevano tra le mani guantate della cacciagione.
Ivan sentì lo stomaco brontolare e l’acquolina
formarsi in bocca.
Non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato un pasto
decente.
Ivan aveva sempre sofferto la fame,
sia in gioventù quando
essendo l’unico uomo di casa lavorava come bracciante nei
campi altrui
riuscendo a portare a casa quel poco e non più per far
sopravvivere la
famiglia, sia da adulto nell’esercito quando
combatté a Stalingrado.
Ricordare ancora quel campo di battaglia gli fece torcere le viscere.
Aveva
visto in prima persona cosa la guerra poteva fare alla popolazione.
Aveva visto
persone così magre e smunte da essere quasi dei cadaveri
ambulanti, morti in
putrefazione ad ogni angolo della strada, donne che si prostituivano
per
cercare di dar da mangiare ai figli denutriti, soldati che requisivano
il poco
cibo che le famiglie affamate riuscivano a procurarsi, persone
arrestate o
fucilate per cannibalismo.
Sinceramente non sapeva se anche tra
i soldati vi erano
stati atti così disumani, e non sapeva davvero dire
cos’era quello che a volte
i loro superiori gli davano da mangiare. Aveva imparato da tempo a non
fare
domande, perciò anche in quella situazione non aveva
domandato e a occhi chiusi
aveva ingoiato tutto quello che gli avevano dato.
Ma il dubbio rimaneva e questo lo rendeva folle.
Il disgusto fu così forte
che il ragazzo si strinse il
ventre cercando di calmarsi. Nello stringere sentì
scricchiolare un oggetto
ripiegato nella tasca della sua divisa militare.
“Oh da, me ne ero
dimenticato!”
Dalla tasca sfilò una foto
dai bordi logorati e dal nero
sbiadito che raffigurava un ragazzo dal sorriso timido e dai capelli
lunghi che
guardava dritto al suo osservatore. Ivan rimase a fissarlo a lungo
osservando
ogni singolo dettaglio del suo volto e del suo mezzo busto.
Erano stati due prigionieri che avevano liberato quando avevano
cacciato i
tedeschi dal territorio dei Paesi Baltici dargli questa foto. Piangendo
il più
piccolo dei due lo aveva pregato di prenderla e di cercare un certo
Toris
Laurinaitis tra i prigionieri tedeschi perché era un loro
amico e compagno che
era stato catturato molto tempo prima e deportato chissà
dove dai tedeschi.
Ivan aveva accettato senza dare molto importanza alla cosa
perché probabilmente
quel ragazzo era morto da tempo ormai, ma con la notizia da parte degli
esploratori russi della scoperta di alcuni complessi di edifici
recintati nel
territorio tedesco forse c’era una possibilità di
ritrovare quel tipo vivo.
Ivan continuò a osservare
la foto a cui non aveva mai
prestato molta attenzione. Convenne che quel Toris era davvero un bel
ragazzo e
che forse valeva la pena di cercarlo e salvarlo ovunque lui si
trovasse. Ivan
immaginò il ragazzo provato e in lacrime abbracciarlo con
disperazione mentre
lo ringraziava di averlo salvato, per poi dargli un bacio come premio.
Si, sembrava una di quelle fiabe europee che sua sorella maggiore gli
raccontava sempre da piccolo prima di andare a dormire, dove un
principe
affrontava un’avventura pericolosa per poter salvare una
bella principessa dalle
grinfie di un drago cattivo, per poi sposarla e vivere felici e
contenti.
Ivan sorrise alla sua fantasia
strampalata. Ovviamente lui
era gay ma questo non significava che anche gli altri lo fossero,
soprattutto
quel Toris, perciò la sua sarebbe rimasta una fantasia da
uomo represso che
sognava una vita romantica.
Eppure ora che guardava bene quella foto si sentiva incredibilmente
attratto da
quel ragazzo. Voleva trovarlo e salvarlo, non perché quei
due prigionieri
glielo avevano chiesto, ma perché sentiva di voler salvare
quel ragazzo e
vederlo felice.
Una voce lo distolse dai suoi
pensieri romantici. Un suo
compagno di carro lo chiamò a gran voce dicendogli che
avevano montato la tenda
e che stavano consegnando le razioni da mangiare. Ivan rispose di
rimando, poi
ripose con cura la foto nella tasca e recuperato il fucile, si
avviò verso le
tende.
Si sentiva come il principe che
doveva salvare la sua bella
principessa nel castello dalle grinfie del cattivo drago.
Ex proprietà della
famiglia Lukasiewicz, periferia di
Varsavia
I cavalli correvano spensierati nel
grande recinto innevato
della proprietà dei Lukasiewicz, ex proprietà dei
Lukasiewicz.
Dopo la cattura di tutta la famiglia e la sua deportazione, la villa
con tutti
i terreni annessi alla proprietà, domestici, cavalli, ecc.
furono concesse ad
un ufficiale tedesco in pensione che vantava forti agganci con il
governo tedesco.
Uno dei domestici che era rimasto al
servizio del nuovo
proprietario osservava con tristezza i cavalli che correvano e
giocavano tra di
loro. L’erede della famiglia Lukasiewicz, il rampollo Feliks,
amava moltissimo
i cavalli e aveva fatto costruire quel recinto e la stalla proprio per
tenere
tutti i cavalli che riusciva a comprare nelle varie fiere.
Il suo preferito era un pony castano dalla lunga criniera morbida che
sgambettava dietro gli altri cercando di mantenere il passo nonostante
le sue
corte zampe non glielo permettessero.
Il domestico fu improvvisamente
affiancato da un grasso uomo
altezzoso con indosso una divisa militare pluridecorata con medaglie di
vario
tipo. Prendendo una boccata dalla sua pipa, l’uomo
osservò per qualche istante
i cavalli, poi si rivolse al domestico.
“Sono stati scelti i
cavalli che devono essere venduti all’esercito
tedesco?”
“Si signore. I tre stalloni
e quel magnifico esemplare
arabo. Passeranno in giornata a prenderli, l’offerta
è molto buona, signore”
“Certo che è
buona, ho parlato direttamente con le alte
sfere tedesche, abbiamo trovato un accordo sul prezzo quasi
subito”
L’uomo fece un cenno a
degli altri domestici che si
precipitarono nel recinto per recuperare i cavalli dalle briglie e
portarli
nelle stalle dove poi sarebbero stati presi dall’esercito. Il
domestico guardò
con dispiacere quelle povere bestie che sarebbero andate presto al
fronte.
L’uomo grasso osservò ancora qualche istante i
cavalli, poi fece per andarsene.
“Signore! Cosa ne facciamo
degli altri cavalli?”
“Non sono abbastanza forti
per l’esercito e a me non
servono. Io odio i cavalli. Portali al macello e poi vendine le carni
ai
macellai della città. Ringrazieranno!”
Il domestico sentì i
capelli rizzarsi sulla testa.
“S-signore, anche il pony?
Il pony è in buonissima salute,
potrebbe essere utile per-“
“Il pony?”
Interruppe l’uomo girandosi e guardando sgomento
il domestico “Quello non si può nemmeno definire
un cavallo! Al macello anche
lui. E muoviti! Stasera voglio cenare con carne di cavallo!”
Il domestico rimase senza parole.
Seguì con lo sguardo l’uomo
rientrare in casa, poi guardò il recinto dove il pony
correva con i restanti
cavalli agitando la criniera, cercando di liberarsi dai fiocchi di neve.
“Mi dispiace signorino
Feliks…. Mi dispiace….”
Note dell'autore:
Salve, eccoci con un nuovo, corposissimo capitolo.
Oggi c'è davvero molto da dire x'D
Innanzitutto questo capitolo è incredibilmente lungo per i miei standard. Inizialmente volevo dividerlo in due capitoli, ma così facendo avrebbe perso molto, perciò ho deciso di tenerlo unito. Spero che questo non vi crei disagio ><
Per questo capitolo mi sono documentata molto circa i fatti storici citati, e anche non citati ma che riguardano comunque quello che ho scritto. In realtà non ho trovato alcune notizie che mi avrebbero fatto molto comodo, perciò mi scuso se ci sono eventuali incongruenze di tipo storico o la ff non fila bene, ho cercato di mediare il più possibile.
Quando ho ideato tutta la trama di questa ff ho subito pensato a questo capitolo come uno dei capitoli più toccanti e belli, uno che avrei voluto davvero scrivere subito e riempirlo di feels allucinanti. Spero che almeno in parte ci sia riuscita, ho cercato di calarmi molto nelle loro menti (purtroppo non sono molto brava in questo x'D). Per scriverlo ho ascoltato tantissimo due canzoni, Castle of glass dei Linkin Park e Est ce que tu m'aimes? di Gims Maitre. Mi hanno aiutato molto a immaginare le condizioni psicologiche dei personaggi di questo capitolo.
Mi scuso per eventuali errori grammaticali ecc. Sono un po' nabba, si sa x'D
Se volete commentare il capitolo sono disponibilissima *-* Però non odiatemi per avervi fatto soffrire così tanto con questo capitolo (nel bene e nel male) x'D
Vi do un anticipo: il prossimo capitolo sarà importantissimo ai fini della storia, perciò spero di completarlo il prima possibile!
A presto!