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Autore: Estethell    30/10/2017    3 recensioni
Grazie a una promozione, il soldato nazista (non per scelta) Ludwig viene inviato nel campo di concentramento prussiano come co-amministratore di suo fratello, il feroce Gilbert.
Contemporaneamente nel campo arrivano dei prigionieri che vengono subito smistati nei vari blocchi dormitorio-fabbrica. Il blocco H3T4-L14, sopranominato hetalia, è amministrato direttamente da Gilbert ed è il luogo peggiore di tutto il campo. In poco tempo vi si ritroveranno prigionieri di vari paesi, tra cui un dissidente politico e filo-russo lituano, un polacco che aiutava gli ebrei a fuggire dai rastrellamenti tedeschi, un ex soldato volontario francese, una spia canadese e un partigiano italiano.
Ludwig cercherà in ogni modo di aiutare i poveri malcapitati del blocco H3T4-L14 a sfuggire dalla violenza del fratello, sviluppando sentimenti nuovi e complessi per il dolce e ingenuo italiano, mentre Gilbert scoprirà grazie a un timido canadese che l'amore vince su ogni cosa, anche sulla violenza.
Principalmente Gerita e Prucan, Fruk sullo sfondo, qualche accenno di Rusliet.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Decima stazione Bletchley Park, Inghilterra

 Arthur si svegliò lentamente e dolorosamente con la testa poggiata sulla scrivania come se la sua coscienza si stesse liberando da una grossa ragnatela che cercava di trattenerla con i suoi fili appiccicosi ed elastici. Lentamente si mise dritto a sedere cercando di abituare lo sguardo alla penombra della stanza, ma un mal di testa lancinante esplose nella sua testa doloroso come una pugnalata improvvisa. Gemendo e tenendosi la testa con una mano, con l’altra si asciugò la bava dalla bocca per poi scoprire che era rigurgito e che in buona parte si trovava anche sulla scrivania.
Fantastico, ecco spiegato perché aveva un sapore orribile in bocca.

Cercò di pulire alla meglio lo schifo che aveva combinato mentre dormiva e forse anche prima con il suo fazzoletto di stoffa ricamato, per poi gettarlo in un angolo della stanza nella speranza di lavarlo in un futuro non troppo remoto. Sulla scrivania oltre ai fogli macchiati di chissà quale porcheria (aveva avuto la brillante idea di addormentarsi sui documenti che stava compilando), c’erano una radio con cuffie e microfono, varie matite, un bicchiere vuoto rovesciato su un fianco e una bottiglia vuota di rum.
Ecco cos’era quella porcheria, rum.
Il buon vecchio rum.
Qualcuno che non ti avrebbe mai abbandonato nel momento del bisogno…

Scuotendo forte la testa, Arthur cercò di distrarsi per non ricominciare con quei pensieri, ma la sua mente proprio non voleva liberarsene.
Appena aveva un attimo di pace subito il suo pensiero andava a lui.

“Alcool, ci vuole l’alcool. Dov’è il rum?” Mormorò a denti stretti mentre prendeva la bottiglia di rum vuota per controllarla.
Come aveva intuito inizialmente, la bottiglia era stata scolata alla perfezione, perciò la gettò nel cestino che si trovava accanto alla scrivania e si mise a cercarne un’altra.

Aprì i diversi cassetti della scrivania sperando di scovare la piccola boccetta d’alcool che di solito teneva di scorta quando i suoi subalterni non lo rifornivano in tempo, ma da quanto poteva vedere la scrivania gli offriva solo documenti e scartoffie relative al lavoro.
Sempre più fantastico.

Infine senza accorgersene aprì l’ultimo cassetto all’angolo e la vide.
Il suo cuore iniziò a battere velocemente mentre il suo corpo iniziò a sudare freddo. Un fortissimo senso di nausea lo colse allo stomaco e chiudendo velocemente il cassetto fece in tempo a girarsi per poi vomitare nel cestino dove pochi istanti prima aveva gettato la bottiglia vuota.
Tossendo e cercando di riprendersi si accasciò sulla sedia e strinse gli occhi fino a farsi male.

Avrebbe dovuto gettare quella maledetta lettera il giorno in cui l’aveva ricevuta. O meglio avrebbe dovuto dargli fuoco e guardare come le fiamme mangiavano e sgretolavano in tanti fragilissimi frammenti la carta e soprattutto le parole che riportava. Ma era stato un debole, così come lo era ora, e aveva conservato la lettera rileggendola ogni volta che poteva, accartocciandola e lanciandola a terra o contro le pareti, tentando di stracciarla molte volte senza riuscirci, ma infine sempre riprendendola e riponendola nel cassetto della scrivania.
Ogni volta che la vedeva si sentiva male.

La lettera riportava con pochissime frasi battute a macchina della scomparsa sul campo di battaglia di Francis Bonnefoy, disperso in chissà quale vigneto devastato dai conflitti in Francia, oppure catturato dal nemico e deportato in un luogo sconosciuto. La lettera era indirizzata alla famiglia Kirkland in quanto Francis non aveva parenti prossimi a cui inviare il comunicato.

Fin dall’inizio Arthur si era aggrappato per disperazione alla seconda opzione, sperando con ogni fibra del suo corpo che il suo amato fosse stato catturato dal nemico e imprigionato da qualche parte, ma ancora vivo. Rifiutava a pelle l’idea che fosse morto da qualche parte e fosse stato lasciato lì come un rifiuto a marcire sotto il sole gentile della Francia.
La sua speranza alimentata dalla fortissima disperazione lo aveva spinto ad arruolarsi nell’esercito inglese e a intraprendere la carriera di crittoanalista, e dopo due anni di servizio era diventato uno dei migliori elementi dell’esercito britannico.
Ma il suo lavoro non era mosso da un sincero spirito patriottico ma dal forte desiderio di scoprire dove i tedeschi detenevano i prigionieri di guerra.

Arthur sentiva che nessuno all’infuori di lui poteva riuscire a trovare quelle informazioni, o meglio che nessuno si sarebbe interessato così tanto da dedicargli la sua vita come stava facendo lui. Perché in fondo la vita non gli aveva lasciato più nulla perciò poteva sacrificarla per questa giusta causa.

Riaprendo gli occhi, Arthur rimase qualche istante ad osservare la stanza girare e fluttuare su sé stessa finché gli occhi non si abituarono nuovamente alla penombra e allo sforzo.
Si accarezzò una guancia con la mano per cercare di riprendersi per poi scoprire che il guanto di pelle era imbrattato del rigurgito che poco tempo prima aveva ripulito.
Sospirando prese un altro fazzolettino di stoffa da un cassetto e ripulì la sua divisa militare come meglio poté.

Da quanto tempo viveva in questo stato pietoso? Da quanto tempo beveva come una spugna anche sul lavoro e vomitava sui suoi stessi vestiti? E da quanto tempo non curava la sua igiene e il suo aspetto fisico?
Arthur calcolò più o meno da quando aveva ricevuto quella fottuta lettera.
Il ricordo di quel giorno e dei mesi successivi era ancora così forte da fargli torcere lo stomaco per il dolore.
Lo sguardo del postino vitreo e quasi morto, il tipico sguardo di qualcuno che aveva dovuto vedere tanta sofferenza in poco tempo, la sofferenza di tutti i famigliari a cui consegnava quelle maledette lettere.
Mani tremanti, le sue, che aprivano la lettera e la accartocciavano pochi minuti dopo.
Le urla, le crisi di pianto, oggetti che venivano lanciati ovunque, e poi il silenzio, il digiuno, i giorni passati a letto nel buio della propria stanza, il non riuscire a distinguere più il giorno e la notte.

Arthur aveva provato a reagire, e soprattutto a dimenticare. Aveva provato ad assimilare il lutto e a rifarsi una nuova vita conoscendo nuove persone e cercando altra compagnia. Non poteva ostentare la propria sessualità in quanto in Inghilterra l’omosessualità era perseguitata, ma aveva provato a stringere legami con coetanei e altri esponenti dell’alta classe Londinese che facevano parte della sua cerchia. Tutto tempo sprecato.

Nonostante dopo due anni di lontananza i suoi ricordi si stavano irrimediabilmente affievolendo non riuscendo a ricordare più molti dettagli del volto del suo amato, il sentimento che Arthur provava per Francis era ancora forte e duro a morire. Non si sarebbe placato fin quando c’era la speranza di ritrovare Francis vivo.

Gettando il fazzoletto sporco nell’angolo vicino al primo, Arthur decise di aprire le finestre della stanza per far entrare la luce e per cambiare l’aria ristagnante. La luce del sole gli ferì gli occhi e penetrò nella stanza buia come una lama affilata, rivelando agli occhi la pessima condizione igienica in cui si trovava quel luogo. Arthur si sentì mortificato nel vedere ciò, lui che era sempre stato molto pignolo nelle pulizie.

“Se solo Francis fosse qui, mi sgriderebbe con il suo bel accento francese di essere un cavernicolo e mi costringerebbe a risistemare tutto, per poi premiarmi con qualche gesto affettuoso e qualche dolcetto appena cucinato” Pensò Arthur con tristezza mentre tornava a sedersi sulla sedia.

“Ma lui non è qui, se Dio vuole è imprigionato in chissà quale luogo nazista. Non devo perdere altro tempo, ogni secondo è prezioso! In questo momento potrebbe essere sotto tortura, oppure a patire la fame… non posso permetterlo, devo trovarlo a tutti i costi!”

Questo pensiero diede al giovane inglese la forza per riprendersi da una fortissima sbronza e per ricominciare a perseguire la propria missione.
Prendendo l’orologio da tasca notò con piacere che era mattino inoltrato e che non aveva dormito praticamente tutto il giorno come spesso accadeva. Probabilmente l’esercito non lo buttava fuori con disonore soltanto perché era particolarmente bravo nel suo lavoro, ed era anche per questo che aveva una stanza adibita ad ufficio tutta sua invece di trovarsi nello scantinato in una di quelle scrivanie ammassate l’una sull’altra insieme a tutti gli altri crittoanalisti.

Risistemando tutti i documenti sulla sua scrivania, stava per mettersi le cuffie e accendere la radio per captare qualche messaggio cifrato tedesco quando qualcuno bussò alla porta.
Il suo umore si guastò immediatamente.
Tutti in quel palazzo sapevano che non dovevano disturbare Arthur Kirkland quando si trovava nella sua stanza. Aveva dato chiaramente disposizioni che ogni ordine scritto, lettera o qualunque cosa fosse su carta doveva essere lasciata sotto la porta in modo tale che l’avrebbe presa e letta quando avrebbe avuto tempo. Per ogni altra comunicazione dovevano contattarlo via radio oppure raggiungerlo nei momenti in cui lasciava la stanza per il tè pomeridiano o altri motivi.
Nessuno doveva vedere com’era combinata la sua stanza, nessuno!

Ignorò il bussare insistente della porta facendo finta che la stanza fosse vuota, ma dopo il terzo toc toc la porta si aprì lentamente. I capelli di Arthur si rizzarono in testa.

“Chi ti ha dato il permesso di entrare? Esci immediatamente!” Urlò alla persona che stava cercando di entrare. Il soldato però non si fece intimidire e infilò la testa nella stanza con un certo timore.

“Sir ho una comunicazione urgentissima da consegnarle, ordini dei superiori”

“Sono io il tuo superiore, e se non esci immediatamente dalla stanza ti declasso a lava cessi o ti mando direttamente al fronte, idiota!”

Ma il soldato non demorse, anzi aprì ancor più la porta ed entrò completamente nella stanza. Arthur era fuori di sé per la rabbia. Quale impertinenza da parte di un semplice soldato di bassa classe sociale nei suoi confronti, nei confronti di Arthur Kirkland, unico discendente della famiglia nobile dei Kirkland e capo crittoanalista dell’esercito britannico di Sua Maestà. Aveva fegato quello sbarbatello, Arthur glielo riconobbe mentre chiudeva la porta e si piazzava davanti la sua scrivania tremante come una foglia ma imperterrito. Arthur lo fucilò con il suo sguardo di smeraldo.

“S-Sir, ho una comunicazione urgente da consegnarle!” Balbettò mentre sfilava dalla tasca della sua divisa un foglio ripiegato e glielo porgeva.

Arthur glie lo sfilò di mano con violenza e lo lesse velocemente. Era un codice crittografico non ancora decifrato trascritto da qualcuno in modo frettoloso. Sotto il testo vi era una nota in bella grafia di qualche ufficiale che ordinava ad Arthur di decriptare il testo che conteneva delle informazioni di importanza vitale e segrete derivanti dall’esercito russo sul fronte orientale.
Arthur ripiegò con cura il foglio e lo mise da parte sulla sua scrivania, poi guardò nuovamente il soldato con il suo sguardo perforante.

“Torniamo a noi, hai disobbedito a un ordine del tuo superiore introducendoti senza permesso nella mia stanza-“

“Ma Sir, stavo solo eseguendo gli ordini dei miei superiori!”

“… e hai anche il brutto vizio di interrompere i tuoi superiori quando parlano!” Prese casualmente un foglio bianco e una penna “Ora scriverò una lettera ai tuoi superiori lamentando la tua indisciplina e suggerendo un provvedimento adeguato. Qual è il tuo nome, soldato?”

“… Allistor Scott, Sir”

La penna che stava scrivendo sul foglio si bloccò all’istante nel sentire quel nome. Arthur alzò lo sguardo dal foglio al soldato lentamente.
Allistor Scott, il soldato scozzese che tutti conoscevano nel dipartimento, arruolatosi nell’esercito come volontario per combattere i tedeschi. Il soldato scozzese che aveva sposato una londinese diversi anni prima e che aveva perso la maggior parte dei suoi famigliari nei bombardamenti del ’40. Il soldato scozzese che aveva perso la moglie, suicidatasi a causa di un peggioramento della sua salute mentale dovuto agli orrori che aveva dovuto vivere a causa della guerra.
Allistor Scott, un uomo solo e disperato che aveva immolato la sua vita all’esercito in memoria della sua amata moglie.
Un uomo come lui.

I suoi occhi tornarono al foglio e velocemente scrisse qualche parola in bella grafia, poi lo ripiegò e lo porse al soldato.

“Sei pregato, una volta uscito di qui, di leggere questo foglio e di riflettere sui tuoi errori. È tutto!”

Lo congedò con un cenno della mano, poi riprese in mano il foglio con il testo criptato e non prestò più attenzione al soldato.
Il testo era criptato con una variante complessa di un codice che aveva inventato lui stesso con altri crittoanalisti per rendere sicura o almeno di difficile decriptazione lo scarsissimo scambio di informazioni che gli alleati tenevano con l’esercito russo che stava avanzando dall’oriente verso la Germania, furioso per l’aggressione improvvisa e traditrice di quest’ultima nei suoi territori. Avrebbe impiegato qualche ora a decriptarlo, ma non era qualcosa di così complicato. Ovviamente i suoi superiori avevano ragione, soltanto lui poteva decifrare un testo simile.

Velocemente lo scozzese si congedò e una volta uscito dalla stanza imprecò per la sua sfortuna e contro il suo superiore dal carattere impossibile.
Girato l’angolo prese il foglio e lo aprì.

Il foglio recava soltanto una frase:
Ottimo lavoro soldato.

 

Diverse ore dopo Arthur si trovava ancora nella sua stanza chino su diversi fogli impegnato a scrivere frettolosamente la traduzione del testo codificato che aveva ricevuto tempo prima. Per riuscire a decriptarlo il prima possibile aveva saltato il pranzo e ora stava saltando anche l’ora del tè, ma a lui non importava perché tutto poteva aspettare di fronte le notizie contenute da quel messaggio.

Era rimasto chino nella stessa posizione per così tanto tempo che la schiena, il collo e le spalle gli dolevano come l’inferno e aveva scritto così tanto che i tendini della mano si rifiutavano di lavorare ancora, ma lui non accennò a fermarsi. Continuò a leggere e confrontare i simboli con la sua legenda, ad appuntarne il significato, a costruire la frase in russo per poi tradurla con un apposito vocabolario cercando di darle un senso logico nella propria lingua. Spesso sbagliava l’impostazione della frase o le traduzioni delle parole costringendolo a riformulare la frase diverse volte, ma il gioco valeva la candela, valeva tutta quella benedetta candela.

Quando finalmente finì si alzò in piedi di scatto tenendo il foglio della traduzione tra me mani e leggendolo con impazienza.
Il governo russo comunicava che il suo esercito era penetrato nel territorio nemico e stava avanzando con l’obbiettivo di raggiungere Berlino, ma soprattutto comunicava che gli esploratori avevano effettivamente avvistato dei complessi di edifici recintati che ricordavano molto dei campi di prigionia nelle coordinate che l’Impero Britannico gli aveva fornito.

Le mani di Arthur tremavano in modo incontrollato mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.
Ce l’aveva fatta.
Dopo due anni di sforzi e di sofferenze atroci era riuscito a trovare quelle maledette prigioni dove rinchiudevano i prigionieri di guerra.
Arthur cominciò singhiozzare violentemente mentre piangeva come un bambino.
Non c’era alcuna certezza che Francis potesse essere in uno di quei luoghi mostruosi, ma Arthur sentiva di aver finalmente raggiunto il suo scopo e di essere a un passo da poter riabbracciare il suo amato. Non sapeva spiegarsi come ma sentiva nel profondo della sua anima che Francis era lì, rinchiuso insieme a molti altri malcapitati, vivo e soprattutto in attesa di essere salvato.

Arthur si sedette di peso sulla sedia e cominciò a gemere mentre cercava di pulirsi il volto e il naso con le maniche della sua divisa.
Quelle non erano lacrime di dolore, erano lacrime di felicità. Erano tutta la sua disperazione che scivolava via per lasciare posto alla speranza, ora più forte che mai.
 Doveva ricomporsi il prima possibile per poter consegnare il testo alla squadra di crittoanalisi che lo avrebbe poi riconvertito in un altro codice e inviato via piccione viaggiatore verso l’Italia dove gli alleati americani stavano riconquistando i territori occupati dai tedeschi. Ad Arthur gli americani non piacevano particolarmente, soprattutto quell’idiota di un aviatore che avevano assegnato come messaggero tra i due fronti a Bletchley Park.

Ricompostosi meglio che poteva, il ragazzo biondo ripiegò con cura il foglio e uscì quasi correndo dalla sua stanza imboccando i corridoi e le scale che portavano al seminterrato dove operava il resto della divisione di crittoanalisi britannica.

“Ti salverò Francis, ovunque tu sia. Lo so che non sei morto, resisti! Resisti stupido idiota di una rana, RESISTI!”

 

 

Linea Gotica (conosciuta anche come Linea Verde), Italia

Romano Vargas si aggirava inquieto e di pessimo umore tra le tende dell’accampamento militare americano cercando di evitare come meglio poteva i tiranti delle tende che si allungavano per almeno mezzo metro a terra.
Il partigiano italiano aveva fame e non riusciva a trovare la tenda cambusa dove ogni giorno andava a chiedere (gli americani dicevano elemosinare, ma lui si rifiutava di vederla così) un po’ di cibo per sé e per gli altri suoi compagni partigiani che erano costretti a restare nell’accampamento sotto sorveglianza. Beh, in realtà nessuno li costringeva, anzi spesso i soldati americani cercavano di convincerli a seguirli al fronte o a operare sabotaggi contro l’esercito tedesco, ma né lui né i suoi compagni volevano saperne della guerra. L’unica loro preoccupazione era recuperare cibo e sopravvivere.
Romano sapeva perfettamente che il suo gruppetto di codardi macchiava l’onore di tutta la resistenza partigiana italiana che in quel momento stava combattendo contro i tedeschi per liberare la propria patria dal regime fascista, ma lui non poteva farci nulla. Era debole e codardo, lo era stato fin da piccolo, e soprattutto lo era stato quella notte, a caro prezzo. Dopo quella notte non voleva sapere più niente né della resistenza né della guerra.

Il partigiano italiano girò intorno a una tenda e finalmente trovò la cambusa, una grossa tenda quadrata dal quale proveniva un profumino invitante. Romano sentì il proprio stomaco brontolare mentre si formava l’acquolina in bocca. Era quasi l’ora di pranzo e non toccava cibo dal pranzo del giorno prima.
Velocemente si avvicinò all’apertura della tenda e spiò al suo interno. Qualche volta, quando la tenda era incustodita, aveva rubato il cibo senza chiedere nulla a nessuno, riuscendo a recuperare anche quelle buonissime barrette di cioccolato di cui lui e i suoi compagni andavano molto ghiotti.

Oggi però la tenda era piuttosto affollata. Romano rimase sulla soglia della tenda indeciso se entrare e chiedere un po’ di cibo mostrando la miglior faccia pietosa che potesse sfoggiare oppure aspettare di trovare la tenda nuovamente incustodita per rubare tutto il cibo che voleva.
Mentre era assorto in quella decisione qualcuno lo affiancò.

“Hello dude, anche oggi a chiedere cibo non meritato?”

Romano saltò dalla paura nel sentire all’improvviso quella voce stridula e fastidiosissima che ben conosceva. Si girò piuttosto irritato e fissò l’americano con uno sguardo storto.
Alfred F. Jones lo sovrastava di quasi una testa piena ed era di costituzione molto più forte della sua nonostante fosse più piccolo d’età. Era diventato famoso nell’accampamento militare per essere invincibile nelle sfide di braccio di ferro e per essere uno dei più bravi e spericolati aviatori che l’esercito americano avesse mai avuto.
Il ragazzo però non era perfetto. Oltre ad avere un’incredibile quanto incontrollabile parlantina e una risata fastidiosissima, Alfred aveva il brutto vizio di dire tutto quello che pensava esattamente quando lo pensava, diventando piuttosto scomodo nella maggior parte dei casi.
Romano non sopportava molto quell’egocentrico ed esaltato americano ma aveva bisogno di più agganci possibili nell’accampamento a cui chiedere favori, inoltre aveva molta fifa di quel gigante d’oltreoceano.

 Alfred rise di gusto nel vedere la reazione contrita dell’italiano e gli diede diverse pacche sulla spalla. Romano sopportò quell’abuso del suo spazio personale con molto sforzo.

“Su su, piccolo italiano, I was joking! Stavo scherzando! Vieni con me, ieri sera hanno smistato gli ultimi rifornimenti che ci sono arrivati dall’America, ho qualche cosa di buono anche per te!”

Gli occhi di Romano si illuminarono nel sentire quelle parole! Alfred aveva qualcosa di buono da mangiare e lo voleva condividere con lui. Forse doveva rivalutare quel ragazzino dal fisico troppo cresciuto e dal cervello palesemente infantile. Si accodò docilmente al ragazzo che si era nel frattempo allontanato già pregustando le barrette di cioccolata americane, quando Alfred si fermò bruscamente e si girò verso di lui.

“In cambio, mi presteresti uno dei tuoi libri? I romanzi italiani sono i migliori. Credo di sapere l’italiano abbastanza per leggerne uno!” Sfoderò un sorriso abbagliante.

Romano divenne rosso in volto dall’imbarazzo e dalla rabbia. Come faceva quel bastardo a sapere dei suoi romanzi? Lo aveva per caso visto leggerne uno? Impossibile, era sempre molto attento a non farsi beccare. Oppure aveva frugato nella sua roba in quella tenda bucherellata che gli avevano concesso dopo tante suppliche?
Romano cercò di dire qualcosa ma il miscuglio di sentimenti glielo impedì. Alfred rise di gusto nel vedere il ragazzo in difficoltà, poi ricominciò a camminare dritto verso la sua tenda.
Romano rimase in silenzio per tutto il tragitto cercando di capire come quell’americano avesse scoperto dei suoi libri. In realtà aveva solo due romanzi che aveva letto così tante volte che ormai conosceva a memoria. Entrambi parlavano di una storia d’amore ambientata in Spagna in periodi storici diversi dove i protagonisti venivano divisi da molte avversità ma infine si ricongiungevano in un lieto fine. Romano aveva sognato molte volte di trovarsi al posto della donna e di vivere quelle splendide avventure con un affascinante cavaliere spagnolo, ma purtroppo gli unici uomini interessati a lui che aveva visto finora erano i tedeschi per fargli la pelle e gli americani che volevano mandarlo al fronte.

Dopo poco tempo Alfred si avvicinò a una tenda e si chinò per entrare, per poi uscirne poco dopo con in mano una borsa.

“Troviamo un buon posto per gustarci queste squisitezze!”

Il pensiero di Romano andò ai suoi compagni che stavano aspettando il suo ritorno con qualcosa da mangiare.
“Scusate ragazzi, oggi dovrete vedervela da soli!” Pensò mentre annuiva all’americano e lo seguiva fuori dall’accampamento.

Si avvicinarono a una piccola macchia boschiva non troppo distante dalle tende e si sistemarono su una grande roccia. Alfred svuotò la sua borsa sulla pietra rivelando barrette di cioccolata, pacchetti di gomme da masticare, pacchettini di biscotti, zollette di zucchero rotte, caffè e limonata solubile, scatolette di cibo varie e un pacchetto di sigarette.
Romano guardò inorridito le scatolette di qualche cibo non identificato. Quello doveva essere cibo? Un italiano non poteva mangiare quelle schifezze, lui conosceva la vera cucina e non poteva accettare di ingurgitare roba simile. Un brontolio dello stomaco però gli fece cambiare subito idea e afferrò senza tante parole una scatoletta di quella che sembrava carne e l’aprì tirando la linguetta.
Alfred rimase qualche secondo a scegliere cosa mangiare poi afferrò un’altra scatoletta di metallo e iniziò a pranzare.

Romano mangiava con una tale fame addosso da non masticare bene i bocconi pur di mangiarne il più possibile velocemente. Alfred lo guardò sconvolto mentre si gustava il suo pranzo.

“Ehi dude, calma, il tuo cibo non va da nessuna parte!”

“Sta… gnam… zitto bastardo… mhn… non mangio da ieri…!

“Lo vedo…”

Romano finì la sua scatoletta pulendone ogni briciola possibile con le dita. Sapeva perfettamente di aver sacrificato la sua dignità di buongustaio italiano da molto tempo perciò non fu turbato dalle parole dell’americano. Posata la scatoletta sulla pietra afferrò una barretta di cioccolata, scartandola velocemente e infilandola in bocca.

“Perché stai condividendo queste cose con me? Non sei idiota a dare via metà della tua razione così?” Chiese dopo un momento di silenzio.

Alfred rise di gusto a quelle parole perforando i timpani dell’italiano, poi si mise a masticare una cicca guardando il cielo.

“Non c’è un motivo preciso, mi stai simpatico. In realtà sei l’unico con cui posso parlare liberamente. Gli altri non mi sopportano molto, forse perché li ho battuti tutti a braccio di ferro. Comunque questa non è la mia razione, quella l’ho già mangiata stamattina, sono tutte cose che ho vinto nelle varie sfide!”

Romano lo guardò senza parole. Era incredibile come quel ragazzo riusciva ad essere serio e perspicace e contemporaneamente così stupido e ingenuo nello stesso momento. E comunque aveva ragione, nessuno lo sopportava, nemmeno lui, ma non lo dava a vedere. Guardò per qualche istante tutto il cibo accumulato accanto a loro.

“Ci credo che ti odiano, li hai lasciati a mani vuote!” Pensò finendo di mangiare la barretta di cioccolato.

Alfred fece due o tre palloncini con la gomma da masticare assorto in chissà quale pensiero, poi si girò nuovamente verso l’italiano con uno sguardo serio.

“Stamattina ho sentito dire dagli ufficiali con cui stavo gareggiando cosa è successo quella notte in cui il vostro accampamento è stato scoperto e attaccato dai tedeschi. È per questo che non vuoi tornare al fronte?”

“B-bastardo! Che cosa ne vuoi sapere tu di cosa è successo quella sera?”

“Dude, sono sbarcato in Sicilia e sono risalito fin qui, ne ho visti di scontri e di morti, so cosa si prova e cosa comporta la guerra. Solo che non sopporto proprio questi atti di codardia nei confronti della propria patria!”

Romano era incredulo. Cosa diavolo voleva da lui quel bastardo così all’improvviso? Lo accusava di codardia senza nemmeno sapere cos’era realmente successo quella sera e i giorni seguenti, di quello che tutti i partigiani del suo gruppo avevano dovuto patire e di quello che stavano soffrendo ancora. Ma soprattutto, che ne sapeva lui di guerre e sofferenze di vario genere? Era sicuramente un damerino dell’alta società americana che si era arruolato per gioco, che aveva svolazzato sull’Italia bombardando qua e là mentre mangiava le sue barrette di cioccolato americane e che piantava tende dove più gli conveniva facendosi bello di fronte alla popolazione italiana stremata dalla fame e dalla guerra.
Lui non sapeva proprio un cazzo di niente!

“Vaffanculo stronzo, tu non sai proprio niente!” Gridò furioso mentre si alzava e scendeva dalla roccia.
Ecco, quello stronzo era riuscito ad inimicarsi anche lui, l’unico imbecille del campo che gli dava ancora retta.

“È per via di tuo fratello, vero?”

Romano si fermò nel sentire quelle parole.
Questo era troppo.
Tornò indietro con grandi falcate, risalì la roccia velocemente e afferrò per il colletto lo stupido americano che ancora lo guardava con quello sguardo azzurro innocente dietro le lenti, iniziando a scuoterlo violentemente.

“Tu non sai proprio un cazzo di niente, brutto stronzo!!”

Era vero.
Da quella maledettissima notte in cui il loro accampamento era stato assaltato da una pattuglia tedesca Romano non era riuscito più a condurre una vita “normale” a causa dei rimorsi. Per colpa della sua codardia aveva abbandonato il campo ormai pullulante di tedeschi senza nemmeno guardarsi indietro, abbandonando tutto e tutti, perfino il suo adorato fratellino che ancora dormiva profondamente. Aveva assistito impotente alla cattura di Feliciano da sopra un albero su una collinetta. Le urla che disperate lo chiamavano e gemevano gli risuonavano ancora nelle orecchie nitide e impossibili da dimenticare. Non aveva fatto nulla per salvare lui e quei pochi malcapitati che non erano riusciti a fuggire, e quando era riuscito a riunirsi con i superstiti aveva giurato chiudere per sempre con la resistenza e con la guerra stessa. Voleva solo condurre una vita tranquilla cercando di mitigare il dolore per aver perso suo fratello per colpa sua.

Alfred sorrise e Romano s’infuriò ancora di più. Stava davvero prendendo in considerazione l’idea di iniziare una rissa con quel gigante con una bella testata, quando Alfred gli prese le mani e stringendole quasi da rompergliele se le staccò di dosso. Romano gemette dal dolore e cercò di liberarsi inutilmente.

“Invece capisco benissimo, yeah!” Rispose con uno sguardo serio “Ho un fratello anch’io sai?”

“È che cazzo dovrebbe fregarmi, sentiamo?”

“Anche lui è disperso in guerra”

A queste parole Romano si calmò improvvisamente. Vide come gli occhi brillanti e vivaci di Alfred iniziarono a colmarsi di dolore mentre lasciava lentamente le sue mani. Romano iniziò a sfregarsele per calmare il dolore mentre continuava a fissare il ragazzo con una curiosità sempre crescente.

“Fratellastro, in realtà!” Continuò Alfred rimettendosi a guardare il cielo.
Romano si sedette nuovamente affianco a lui e rimase in silenzio aspettando che l’americano continuasse, ma Alfred non accennava a parlare e continuava a gonfiare palloncini con la gomma che stava masticando.
Spazientito Romano decise di fare la prima mossa.

“Fratellastro?”

“Yeah, io e Matthew non siamo fratelli. Stesso padre ma madre diversa, per questo abbiamo anche dei cognomi diversi”

“In America non si usa portare il cognome del proprio padre?”

“O yeah, yeah, certo, se tuo padre ti riconosce! Il mio però non l’ha fatto nonostante mi abbia voluto molto bene perciò ho preso il cognome di mia madre. Sai, mio padre era un canadese che approfittando del proibizionismo americano di Roosevelt cominciò a contrabbandare alcool in America, dove ha conosciuto mia madre. Purtroppo però lui aveva già una famiglia in Canada… si esatto, Matthew è il fratello maggiore!”
Alfred si fermò per qualche istante per fare un altro palloncino con la gomma che scoppiò con un sonoro POP!
“La madre di Matthew non ha mai accettato l’esistenza di noi e ha costretto mio padre a non riconoscermi e Matthew a non avere nessun tipo di contatto con me. Nonostante tutto mio padre ha voluto bene ad entrambi i suoi figli e ha sostenuto anche economicamente mia madre. Quando avevo sette anni però nostro padre, insieme alla madre di Matthew, è morto a causa di un incidente ferroviario. Matthew non aveva parenti prossimi in Canada perciò mia madre lo adottò permettendoci finalmente di crescere insieme. Quando è scoppiata la guerra però Matthew è stato richiamato dal governo canadese per arruolarsi in guerra. Io ho sempre desiderato essere un eroe della patria perciò mi arruolai volontariamente”
Un’altra pausa, ma quando continuò a raccontare Romano si accorse che gli tremava la voce.
“Io divenni un aviatore dell’esercito americano, lui una spia del distaccamento canadese dell’esercito britannico di Sua Maestà. Era bravo in quello che faceva e i suoi sforzi venivano lodati dai suoi superiori, però… circa un anno fa ha intrapreso una missione di spionaggio nel territorio francese occupato dai tedeschi, e non è più tornato. Tutti i contatti con lui si sono interrotti bruscamente, nemmeno dopo la liberazione della Francia abbiamo saputo niente, non sappiamo che fine abbia fatto… se è morto o vivo…”

Alfred sputò la gomma e agguantò la prima cosa che gli capitò a tiro. Aprì frettolosamente il pacchettino di biscotti e si infilò tutto il contenuto in bocca in una sola volta.
Romano rimase in silenzio ad elaborare tutto quello che aveva ascoltato finora mentre osservava l’americano mangiare con nervosismo i biscotti.
Nonostante cercasse di trovare un senso a tutto quello che era successo da quando aveva seguito l’americano alla sua tenda, proprio non ci riusciva. Non capiva perché Alfred era stato così gentile ad offrirgli del cibo volendo in cambio una sciocchezza come un romanzo rosa, non capiva perché improvvisamente lo aveva provocato per poi raccontagli la sua vita. Davvero non riusciva a capire quel ragazzone infantile e spensierato che improvvisamente diventava serio e perspicace, per poi tornare poco tempo dopo di nuovo idiota come sempre.

Finiti i biscotti, l’americano si alzò e scese dalla roccia lanciando un sorriso contenuto al ragazzo bruno.

“Ieri pomeriggio è arrivata una comunicazione tramite piccione viaggiatore dall’Inghilterra. L’esercito di Sua Maestà ci informava che i russi stanno penetrando nel territorio degli stati satelliti tedeschi, ma soprattutto che stanno trovando in alcune coordinate fornitegli dagli inglesi degli agglomerati di edifici recintati e pesantemente sorvegliati. Sembrerebbero delle prigioni”

“Perché mi stai dicendo questo, stupido americano? Io non voglio avere niente a che fare con tutto ciò!”

“Pensaci bene, i nostri cari sono dispersi, catturati dai soldati tedeschi e mai più tornati. O sono morti, oppure sono…” Fece un gesto eloquente.

Romano sgranò gli occhi a quella rivelazione. Feliciano poteva essere ancora vivo. In realtà Romano dava ormai per scontato che il suo amato fratellino fosse stato fucilato da qualche parte tra le montagne italiane, e l’idea che fosse rinchiuso in qualche sporca prigione di quei crucchi bastardi lo sconvolse.
Scese anche lui dalla roccia e afferrò le spalle dell’americano stringendole disperato.

“È così? Non mi stai dicendo una cazzata, vero? Giura che è così! Giuramelo!!”

“Non posso dirtelo con precisione, non sappiamo se davvero quelle sono prigioni e se davvero loro sono finiti in una di quelle, ma il crittografo che ha scritto il comunicato era molto fiducioso” Fu il turno di Alfred di afferrare le spalle di Romano e stringerle “Romano! Noi dobbiamo vincere questa guerra e liberare i nostri fratelli dai tedeschi, come farebbero dei veri eroi! Io sto per partire per combattere i tedeschi oltre la linea Gotica, dovete combattere anche voi. Dobbiamo vincere, lo capisci? Tuo fratello e il mio possono essere ancora salvati!”

A Romano gli mancò l’aria. Alfred sorrise e lo lasciò andare incamminandosi verso le tende dell’accampamento. Dopo pochi passi si fermò e si voltò indietro.

“Il resto del nostro spuntino te lo regalo, dividilo con i tuoi compagni!”

Detto questo l’americano si allontanò velocemente per poi sparire tra le tende. Romano rimase a fissare un punto indefinito dell’accampamento per diverso tempo cercando di elaborare la notizia appena ricevuta. Dopo alcuni minuti che per lui sembrarono ore ritornò in sé e recuperando tutto il cibo sulla roccia si affrettò a raggiungere i suoi compagni.
Doveva assolutamente convincerli a ritornare ad operare nella resistenza, dovevano fare anche loro la loro parte per poter vincere quella guerra, lui doveva agire in prima linea, solo così avrebbe potuto salvare il suo fratellino ed eliminare una volta per tutte il suo dolore.

 

Quella stessa notte Alfred si avvicinò a passo svelto al suo amatissimo P-51 Mustang che riposava sulla pista di atterraggio che gli americani avevano costruito velocemente appena si erano stanziati in quel posto. Alfred poggiò un piede sul bordo di un’ala dell’aereo per allacciarsi per bene gli anfibi, poi si sistemò con cura il tipico cappello d’aviatore in testa. Indossava la divisa militare completa dell’aviazione statunitense, e con al fianco una tracolla contenente del cibo e altri accessori indispensabili per il volo era pronto ad affrontare quella nuova missione che gli avevano affidato. Un ufficiale si avvicinò a lui, scambiò alcune parole ricordandogli gli obbiettivi della missione, poi si allontanò. Alfred salì con agilità sul suo aereo e iniziò ad accendere il motore mentre un soldato si piazzava sulla pista di atterraggio con delle torce per guidarlo nella partenza.
Mentre il motore si riscaldava e l’elica girava sempre più velocemente Alfred accarezzò un piccolo orsetto di pezza bianco che aveva fissato vicino al cruscotto delle spie e manopole del motore con uno spago. Gli accarezzò la testa, poi gli premette il naso, infine girò una zampa rivelando il nome “Matthew” scritto a doppio filo colorato sul bordo della cucitura.

“Spero che quell’isterico nanerottolo della crittoanalisi britannica abbia davvero ragione”

Il soldato sulla pista diede il segnale agitando le torce freneticamente e Alfred premette sull’acceleratore.

 

 

Luogo non precisato, Polonia

La neve cadeva lentamente mentre il grosso dell’esercito si fermava in un campo incolto organizzandosi per allestire un accampamento in cui passare la notte. Non smetteva di nevicare da giorni, ma quell’esercito era abituato a ben di peggio.
I campi circostanti erano tutti incolti e coperti di quasi venti centimetri di neve. Le casupole che si ergevano ai confini dei campi semi diroccate sembravano abbandonate ormai da tempo.
Tutti fuggivano difronte all’avanzata dell’Armata Rossa.

Appena tutti i fanti arrivarono nel campo furono divisi dai superiori in più squadre di piccola dimensione. Una fu incaricata di perlustrare la zona nel caso in cui ci fosse la presenza del nemico nascosta, un’altra fu incaricata di controllare le casupole circostanti per cercare qualsiasi cosa potesse rivelarsi utile per l’avanzata dell’esercito russo in terra polacca (soprattutto cibo e vestiti), un’altra ancora fu mandata in un piccolo boschetto lì vicino a cercare della cacciagione. I restanti gruppi furono impiegati per montare le tende e allestire il campo.

Dopo poco tempo arrivarono anche i carri armati che in fila circondarono il campo in allestimento lasciando enormi solchi nella neve. Velocemente i portelloni dei vari carri si aprirono e gli equipaggi sciamarono fuori, tutti desiderosi di sgranchirsi le gambe e di prendere una boccata d’aria.
Ivan Braginsky fu l’ultimo dell’equipaggio ad uscire da quella gabbia di ferro. Appena mise la testa fuori dal portellone i fiocchi di neve si posarono sul suo colbacco mentre il freddo lo morse con prepotenza, ma non era forte e crudele come il freddo invernale russo, perciò Ivan prese una rigenerante boccata d’aria fresca e uscì atterrando con un suono ovattato sulla neve soffice.

Ivan era il quarto dell’equipaggio ed era il servente che aiutava il cannoniere a inserire i proiettili nella lunga canna della torretta centrale. Il suo ruolo era tanto importante quanto difficile e stancante e ogni volta che si accampavano per la notte si sentiva sempre esausto.
Affondando i lunghi stivali nella spessa coltre di neve, Ivan cercò di dileguarsi subito per non essere fermato da qualche ufficiale e messo ad allestire il campo insieme agli altri. Non era un fannullone, ma diavolo, ogni giorno condivideva pochi metri quadrati con altre tre persone, voleva qualche momento per sé ogni tanto.

A passo svelto raggiunse il piccolo boschetto accanto ai campi incolti e si accoccolò sotto un grosso albero sempreverde, dove la neve veniva intercettata dalla folta chioma e non toccava terra. Lì Ivan si sfilò dalla spalla il grosso fucile in dotazione e lo poggiò al tronco affianco a sé, poi si rilassò allungando le gambe.
Purtroppo era di costituzione molto robusta (non grassa come dicevano gli altri), perciò doveva rannicchiarsi parecchio per riuscire a stare bene nei pochi metri quadrati del suo carro.

Chiudendo gli occhi e appoggiando la testa al tronco, Ivan si rilassò. Finalmente aveva un po’ di tempo per sé in totale silenzio da godersi finché non veniva scoperto o richiamato da qualche suo compagno. Non che Ivan rifiutasse i rapporti sociali, anzi li apprezzava e cercava sempre di inserirsi nei gruppi che si formavano tra i vari commilitoni, ma i temi che spesso finivano a discutere non gli interessavano. L’argomento principale dei soldati che bivaccavano o degli equipaggi nei carri armati era le donne; donne belle, formose, provocanti, donne che avevano accontentato i vari soldati, fidanzate di cui si sentiva la mancanza, donne desiderate ma mai ottenute, ecc.
A Ivan non interessavano questi discorsi perciò si limitava a sorridere e ad ascoltare con finto interesse.

Più che i discorsi a Ivan non interessavano le donne. Si era accorto di questo “difetto” nell’età adolescenziale, quando gli altri ragazzini del villaggio cominciavano a provare interessi per le femmine, soprattutto le sue sorelle, ma Ivan non condivideva i loro gusti. Inspiegabilmente era attratto più da loro che dalle loro sorelle o cugine.
Crescendo cominciò a capire cos’era quell’inspiegabile tendenza e a nasconderla a tutti, perfino alle sue adorate sorelline.

Ivan sospirò pensando a loro. Aveva dovuto lasciare il suo villaggio natale per arruolarsi nell’esercito qualche anno prima quando il governo aveva ordinato a tutti i maschi in buona salute della sua regione di prestare servizio per la patria. Sua sorella maggiore aveva pianto per giorni mentre recuperava e metteva tutta la sua roba in una borsa da viaggio, mentre sua sorella minore era stata letteralmente incollata a lui finché non era partito.
Le aveva lasciate sotto la custodi del vicino, il vecchio Generale Inverno, chiamato così perché era stato un generale (così diceva lui) nella Prima Guerra Mondiale e perché era freddo e burbero proprio come l’inverno russo. Ivan non aveva mai conosciuto il suo vero nome, ma dopo la morte dei suoi genitori in tenera età era stato aiutato molto da quell’uomo, perciò si fidava ciecamente di lui.

Alcuni rumori provenienti dal boschetto lo misero in allerta. Velocemente afferrò il suo fucile e si buttò a terra pronto a sparare. I rumori continuarono ad avvicinarsi e Ivan iniziò a sudare per la tensione. Quella situazione gli riportò alla mente i spiacevoli ricordi di Stalingrado dove aveva dovuto combattere contro i tedeschi per fermare l’avanzata nazista nel territorio russo. In quella situazione aveva visto e fatto così tante atrocità e azioni immorali da segnarlo per sempre. Sentiva che dopo l’assedio e la battaglia di Stalingrado aveva perso una parte importante di sé, come se la sua sanità mentale fosse stata irrimediabilmente corrotta.
Sarebbe stato perseguitato a vita dai loro ricordi.

I rumori divennero ben presto passi ovattati nella neve accompagnati da risate e grida in russo. Ivan si rilassò sentendo un’ondata di sollievo e si rimise appoggiato al tronco cercando di calmare il battito incontrollato del suo cuore e il fiato corto. Dopo pochi istanti vide passare tra gli alberi un gruppo di soldati russi che parlottava allegro mentre alcuni di loro stringevano tra le mani guantate della cacciagione.
Ivan sentì lo stomaco brontolare e l’acquolina formarsi in bocca.
Non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato un pasto decente.

Ivan aveva sempre sofferto la fame, sia in gioventù quando essendo l’unico uomo di casa lavorava come bracciante nei campi altrui riuscendo a portare a casa quel poco e non più per far sopravvivere la famiglia, sia da adulto nell’esercito quando combatté a Stalingrado.
Ricordare ancora quel campo di battaglia gli fece torcere le viscere. Aveva visto in prima persona cosa la guerra poteva fare alla popolazione. Aveva visto persone così magre e smunte da essere quasi dei cadaveri ambulanti, morti in putrefazione ad ogni angolo della strada, donne che si prostituivano per cercare di dar da mangiare ai figli denutriti, soldati che requisivano il poco cibo che le famiglie affamate riuscivano a procurarsi, persone arrestate o fucilate per cannibalismo.

Sinceramente non sapeva se anche tra i soldati vi erano stati atti così disumani, e non sapeva davvero dire cos’era quello che a volte i loro superiori gli davano da mangiare. Aveva imparato da tempo a non fare domande, perciò anche in quella situazione non aveva domandato e a occhi chiusi aveva ingoiato tutto quello che gli avevano dato.
Ma il dubbio rimaneva e questo lo rendeva folle.

Il disgusto fu così forte che il ragazzo si strinse il ventre cercando di calmarsi. Nello stringere sentì scricchiolare un oggetto ripiegato nella tasca della sua divisa militare.

“Oh da, me ne ero dimenticato!”

Dalla tasca sfilò una foto dai bordi logorati e dal nero sbiadito che raffigurava un ragazzo dal sorriso timido e dai capelli lunghi che guardava dritto al suo osservatore. Ivan rimase a fissarlo a lungo osservando ogni singolo dettaglio del suo volto e del suo mezzo busto.
Erano stati due prigionieri che avevano liberato quando avevano cacciato i tedeschi dal territorio dei Paesi Baltici dargli questa foto. Piangendo il più piccolo dei due lo aveva pregato di prenderla e di cercare un certo Toris Laurinaitis tra i prigionieri tedeschi perché era un loro amico e compagno che era stato catturato molto tempo prima e deportato chissà dove dai tedeschi. Ivan aveva accettato senza dare molto importanza alla cosa perché probabilmente quel ragazzo era morto da tempo ormai, ma con la notizia da parte degli esploratori russi della scoperta di alcuni complessi di edifici recintati nel territorio tedesco forse c’era una possibilità di ritrovare quel tipo vivo.

Ivan continuò a osservare la foto a cui non aveva mai prestato molta attenzione. Convenne che quel Toris era davvero un bel ragazzo e che forse valeva la pena di cercarlo e salvarlo ovunque lui si trovasse. Ivan immaginò il ragazzo provato e in lacrime abbracciarlo con disperazione mentre lo ringraziava di averlo salvato, per poi dargli un bacio come premio.
Si, sembrava una di quelle fiabe europee che sua sorella maggiore gli raccontava sempre da piccolo prima di andare a dormire, dove un principe affrontava un’avventura pericolosa per poter salvare una bella principessa dalle grinfie di un drago cattivo, per poi sposarla e vivere felici e contenti.

Ivan sorrise alla sua fantasia strampalata. Ovviamente lui era gay ma questo non significava che anche gli altri lo fossero, soprattutto quel Toris, perciò la sua sarebbe rimasta una fantasia da uomo represso che sognava una vita romantica.
Eppure ora che guardava bene quella foto si sentiva incredibilmente attratto da quel ragazzo. Voleva trovarlo e salvarlo, non perché quei due prigionieri glielo avevano chiesto, ma perché sentiva di voler salvare quel ragazzo e vederlo felice.

Una voce lo distolse dai suoi pensieri romantici. Un suo compagno di carro lo chiamò a gran voce dicendogli che avevano montato la tenda e che stavano consegnando le razioni da mangiare. Ivan rispose di rimando, poi ripose con cura la foto nella tasca e recuperato il fucile, si avviò verso le tende.

Si sentiva come il principe che doveva salvare la sua bella principessa nel castello dalle grinfie del cattivo drago.

 

 

Ex proprietà della famiglia Lukasiewicz, periferia di Varsavia

I cavalli correvano spensierati nel grande recinto innevato della proprietà dei Lukasiewicz, ex proprietà dei Lukasiewicz.
Dopo la cattura di tutta la famiglia e la sua deportazione, la villa con tutti i terreni annessi alla proprietà, domestici, cavalli, ecc. furono concesse ad un ufficiale tedesco in pensione che vantava forti agganci con il governo tedesco.

Uno dei domestici che era rimasto al servizio del nuovo proprietario osservava con tristezza i cavalli che correvano e giocavano tra di loro. L’erede della famiglia Lukasiewicz, il rampollo Feliks, amava moltissimo i cavalli e aveva fatto costruire quel recinto e la stalla proprio per tenere tutti i cavalli che riusciva a comprare nelle varie fiere.
Il suo preferito era un pony castano dalla lunga criniera morbida che sgambettava dietro gli altri cercando di mantenere il passo nonostante le sue corte zampe non glielo permettessero.

Il domestico fu improvvisamente affiancato da un grasso uomo altezzoso con indosso una divisa militare pluridecorata con medaglie di vario tipo. Prendendo una boccata dalla sua pipa, l’uomo osservò per qualche istante i cavalli, poi si rivolse al domestico.

“Sono stati scelti i cavalli che devono essere venduti all’esercito tedesco?”

“Si signore. I tre stalloni e quel magnifico esemplare arabo. Passeranno in giornata a prenderli, l’offerta è molto buona, signore”

“Certo che è buona, ho parlato direttamente con le alte sfere tedesche, abbiamo trovato un accordo sul prezzo quasi subito”

L’uomo fece un cenno a degli altri domestici che si precipitarono nel recinto per recuperare i cavalli dalle briglie e portarli nelle stalle dove poi sarebbero stati presi dall’esercito. Il domestico guardò con dispiacere quelle povere bestie che sarebbero andate presto al fronte.
L’uomo grasso osservò ancora qualche istante i cavalli, poi fece per andarsene.

“Signore! Cosa ne facciamo degli altri cavalli?”

“Non sono abbastanza forti per l’esercito e a me non servono. Io odio i cavalli. Portali al macello e poi vendine le carni ai macellai della città. Ringrazieranno!”

Il domestico sentì i capelli rizzarsi sulla testa.

“S-signore, anche il pony? Il pony è in buonissima salute, potrebbe essere utile per-“

“Il pony?” Interruppe l’uomo girandosi e guardando sgomento il domestico “Quello non si può nemmeno definire un cavallo! Al macello anche lui. E muoviti! Stasera voglio cenare con carne di cavallo!”

Il domestico rimase senza parole. Seguì con lo sguardo l’uomo rientrare in casa, poi guardò il recinto dove il pony correva con i restanti cavalli agitando la criniera, cercando di liberarsi dai fiocchi di neve.

“Mi dispiace signorino Feliks…. Mi dispiace….”







Note dell'autore:
Salve, eccoci con un nuovo, corposissimo capitolo. 
Oggi c'è davvero molto da dire x'D
Innanzitutto questo capitolo è incredibilmente lungo per i miei standard. Inizialmente volevo dividerlo in due capitoli, ma così facendo avrebbe perso molto, perciò ho deciso di tenerlo unito. Spero che questo non vi crei disagio ><
Per questo capitolo mi sono documentata molto circa i fatti storici citati, e anche non citati ma che riguardano comunque quello che ho scritto. In realtà non ho trovato alcune notizie che mi avrebbero fatto molto comodo, perciò mi scuso se ci sono eventuali incongruenze di tipo storico o la ff non fila bene, ho cercato di mediare il più possibile.
Quando ho ideato tutta la trama di questa ff ho subito pensato a questo capitolo come uno dei capitoli più toccanti e belli, uno che avrei voluto davvero scrivere subito e riempirlo di feels allucinanti. Spero che almeno in parte ci sia riuscita, ho cercato di calarmi molto nelle loro menti (purtroppo non sono molto brava in questo x'D). Per scriverlo ho ascoltato tantissimo due canzoni, Castle of glass dei Linkin Park e Est ce que tu m'aimes? di Gims Maitre. Mi hanno aiutato molto a immaginare le condizioni psicologiche dei personaggi di questo capitolo.
Mi scuso per eventuali errori grammaticali ecc. Sono un po' nabba, si sa x'D
Se volete commentare il capitolo sono disponibilissima *-* Però non odiatemi per avervi fatto soffrire così tanto con questo capitolo (nel bene e nel male) x'D
Vi do un anticipo: il prossimo capitolo sarà importantissimo ai fini della storia, perciò spero di completarlo il prima possibile!
A presto!
   
 
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