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Autore: Sibyl__V    24/05/2018    1 recensioni
Dal Prologo:
“Vuoi sapere se ti ucciderei…” dice in risposta, con la voce interrotta dai sospiri pesanti che accarezzano seducenti la pelle della Saiyan “Sì. Se fuggissi ti ucciderei e non avrei neanche bisogno degli ordini di Freezer per farlo.”
[ … ]
Per lei quelle parole sono tentatrici maledette che assumono il dolce e irresistibile retrogusto della sfida.
Sono due guerrieri; non sono stati progettati per amare, ma sono stati progettati per distruggere. Si appartengono e si apparterranno per sempre, in vita come in morte. In cuor suo Tebe sa che né Freezer e né nessun altro nell’intero universo potrà mai avere l’onore di ucciderla. Perché solo lui può essere all’altezza di prenderle la vita.
E questa è la dichiarazione d’amore più aberrante e seducente mai esistita.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Freezer, Nappa, Nuovo personaggio, Vegeta, Zarbon
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Note dell’autrice: Buongiorno a tutti!
Questa volta il mio spazietto lo inserisco come prima cosa perché devo assolutamente scusarmi per il colossale ritardo nella pubblicazione di questo capitolo :’(
Non so come sia potuto succedere, ma dopo aver fatto la prima pubblicazione ho avuto una sorta di “blackout dello scrittore” (perché chiamarlo blocco sarebbe riduttivo!) che mi ha portato a scartare ogni pezzo che scrivevo e quindi a riscrivere il capitolo da capo moltissime volte. In compenso, però, vi ho scritto un capitolo mooooolto lungo che comunque ancora non mi soddisfa, ma dovevo pubblicare o arrivava seriamente Zarbon e mi ammazz…
Diciamo che il capitolo doveva essere diviso, ma data la mia prolungata assenza ho pensato di metterlo tutto insieme… spero non vi spaventi troppo, ecco O.o
Del capitolo in sé posso solo dire che potrebbe sembrare… “ambiguo”! Sono stata crudele e ho inserito piccoli accenni riguardo a quelli che diventeranno punti fondamentali all’interno della storia ma che verranno approfonditi successivamente in modo più preciso.
Ok, scusatemi, ora la smetto di chiacchierare e vi lascio alla lettura. Ci tengo a ringraziare principalmente chi ha lasciato una recensione al prologo e anche chi ha inserito la mia storia tra una delle tre categorie, ringrazio poi in anticipo chi leggerà e deciderà di dedicarmi un po’ del suo tempo lasciando anche solo un piccolo commento!
Un bacione,
Sibyl

 
*   *
 
Capitolo 1 – Ossessione
 
 
«I want to break the spell you’ve created
You are something beautiful, a contradiction.»

«Voglio rompere l’incantesimo che mi hai fatto
 Tu sei qualcosa di stupendo, una contraddizione»
[Muse – Time is running out]


 
La stanza è buia, quasi immensa e senza confini. Un sottile fascio di luce argenteo trapassa una minuscola apertura tra le tende di velluto e bacia la sua pelle. C’è solo il suono del suo respiro a spezzare il silenzio, ansimi profondi, nervosi, a colmare un sonno inquieto e cupo.
Quando apre gli occhi è come se si trovasse in una nuova dimensione, un posto estraneo in cui si sente leggero e ogni cosa sa di lei. Riesce a sentire il suo profumo selvatico impresso tra le lenzuola, un odore che impregna l’aria e gli stritola le vie respiratorie, come in una sublime tortura.
Affonda la faccia nel cuscino umido di sudore per ricercare ancora una briciola di ciò che per lui è diventato peggio di una droga.
Per l’ennesima notte l’ha sognata. Gli basta chiudere le palpebre per vederla materializzarsi nuovamente di fronte a lui. Si perde per milioni di volte in quelle fessure nere e profonde che sono i suoi occhi, due cosmi privi di stelle, due strapiombi oscuri in grado di risucchiarti l’anima.
Vede il suo sorriso, le ciglia che si abbassano, le guance che diventano rosse. Poi inizia a ridere. E quando ride sembra una bambina. Prende a mordicchiarsi le labbra sussurrandogli qualcosa che non riesce a cogliere. Le prende il volto fra le dita e la bacia senza lasciarle nemmeno il tempo per finire di parlare. Tuttavia, quando lei sfugge dalle sue braccia, rivolgendogli un’ultima occhiata raggiante, è come una pugnalata. Le volte in cui la vede sorridere sono così maledettamente poche che quando succede sente che potrebbe morire in quel frangente.
È solo quando lei scompare dalla sua vista, travolta da un’oscurità penetrante, che riemerge dalle profondità di quei sogni. Inizia, d’un tratto, ad avvertire una strana presenza accanto a lui, la percepisce come fosse un fantasma. Eppure, questa volta è qualcosa di reale: sente il calore di un corpo che si avvicina, pericolosamente, uno sguardo bruciante scorrere sulla sua pelle.
Non vuole evadere da quel paradiso, vuole solamente tornare da lei.
Si ritrova a combattere contro il suo stesso istinto che gli impone di aprire gli occhi e di non abbassare la guardia. Riesce a vincerlo, e, lentamente, le sue difese iniziano ad abbassarsi di nuovo.
E quando la sua mente, cullata da quella dolce tempesta di sensazioni, si assopisce, un respiro pacato si allontana facendosi sempre più lieve, fino a scomparire nel nulla. Passi appena percettibili muovono le mattonelle del pavimento e si dissolvono nel rumore della navicella che procede a velocità supersonica.
 
Non ha idea di quanto tempo sia rimasto sopito - potrebbe trattarsi di pochi secondi, o di ore, o di giorni interi -, un fascio di luce esplode come un fulmine sopra di lui. Un getto d’acqua fredda gli schiaffeggia la faccia.
Con gli occhi ancora circondati da una nube fitta e bianca, rotola nelle coperte cercando di mettersi in piedi e divincolarsi dal groviglio di lenzuola alle sue gambe. Non appena si libera schizza al lato del letto. L’istinto al combattimento lo sovrasta anche se i suoi sensi rimangono assopiti ancora per qualche attimo.
Si innalza un lamento quando inizia a stringere tra le mani un intrico di vene che pulsano. Facendo poi leva sul collo atterra l’avversario sul materasso, l’impatto è talmente forte che riesce a sentire le ossa della sua schiena che cigolano. Allunga il braccio e una tonda sfera di luce inizia a caricarsi sotto al suo palmo illuminando il viso del soldato che si trova poco più sotto di lui.
«Fallo e ti ammazzo questa volta» mormora.
Zarbon libera l’aria trattenuta nei polmoni fino a quel momento e rilassa il braccio: «Cazzo Reye, ti uccido prima io se ci provi di nuovo.»
Il ragazzo alza le spalle, si passa le dita sul collo arrossato cercando comunque di non mostrare troppi segni di dolore.
Asciugandosi la fronte con il braccio, Zarbon prende fiato per poi sgranchirsi il collo. Velocemente si slega i capelli ed inizia ad ispezionarli, prendendoli una ciocca alla volta, prima di riprendere a parlare con un certo distacco: «Perché sei qui?»
«Controllavo che stessi bene.»
«Ma certo che sto bene, per chi mi hai preso?» ringhia.
«Non eri in gran forma fino a qualche ora fa. Guarda solo cos’hai combinato qui dentro» riprende Reye, reclinando la testa e invitando il Generale a fare lo stesso.
La prima cosa a saltargli all’occhio sono i piccoli schizzi di sangue che cospargono ogni parte della stanza: sono impressi sui muri, sulla porta, macchiano le lenzuola candide sulle quali ha appena dormito. La vetrata che da sull’esterno della navicella è crepata. Un tavolo di metallo è incrinato al centro, scassato più volte dalla forza dei suoi stessi pugni. Una sedia sta riversa di fronte ad una cornice bianca, su cui sono incastonati solo un paio dei rimasugli di un enorme specchio.
«Che è successo qui?»
«Non ti ricordi?»
Sensazioni. Qualcosa ricorda, ma sono solo sensazioni.
Un pianeta di nome Tähis, quello che Freezer desiderava da anni per via delle perle e dei i minerali preziosi incastonati sulla sua superficie. Una ragazza dai lunghi capelli argentei e gli occhi grandi, cerulei, che gli sputa in faccia. E poi l’odore di sangue. Tanto odore di sangue.
Di sfuggita, intravede una bottiglia di liquore mezza piena, una vuota e ancora un’altra vuota. Si è scolato due bottiglie, quasi tre, e questo lo ricorda bene.
«Non credo di averti mai visto perdere la testa in quel modo.»
La voce di Reye lo manda ancora più in confusione. Abbassa lo sguardo su di lui. Nota un livido, tondo e violaceo, che partendo dallo zigomo si estende fin sopra l’occhio e stona terribilmente con la sua pelle diafana.
«Fammi indovinare: sono stato io» sussurra.
Reye risponde con un microscopico movimento del capo. Diventa rigido, si trasforma in un fascio di nervi sotto lo sguardo del suo maestro che sembra scavargli un varco nella fronte. Lo vede avvicinarsi piano, con gli occhi che corrono lungo il suo corpo, probabilmente alla ricerca di altre ferite visibili per innalzare ulteriormente il suo ego.
Zarbon gli passa una mano tra i capelli biondi, ne afferra una ciocca e lo tira verso di sé. Quel contatto ha un sapore dolce e rabbioso allo stesso tempo.
Ora Reye lo guarda, ancorato a quelle magnetiche fessure fatte d’infinite scaglie dorate. Si tratta ormai solo di pochi millimetri tra di loro, il suo respiro bollente gli arriva dritto sul naso insieme ad una consistente puzza di alcool. Inizia ad avvertire uno strano tumulto nello stomaco. Lo ignora, pensando solo ai suoi occhi e al modo in cui lo trafiggono arrivandogli fin nelle viscere. Quando si rende conto della distanza che lentamente si fa sempre più corta cerca di allontanarlo premendo un braccio contro il suo collo. Nota i lineamenti del suo viso deformarsi per un secondo, irritati da quel movimento inaspettato. Vorrebbe saperlo respingere, ma la sua forza di volontà ancora non basta.
C’è quella sensazione, quel brivido che nasce dentro di lui. C’è il desiderio ardente di baciarlo che gli brucia il cervello. Sarebbe semplice in questo momento, basterebbe un piccolo movimento della testa in avanti, un breve contatto delle labbra e dopo di ché sarebbe tutto automatico, impulsivo. Zarbon non lo rifiuterebbe, ne è abbastanza sicuro. Eppure, si limita a mordersi le labbra, ricacciando indietro quei pensieri decisamente poco adatti a due soldati del loro rango. Perché, in ogni caso, sa che non riuscirebbe mai a trovare il coraggio per spingersi oltre.
«Reye. Reye. Reye» ripete, canticchiando il suo nome «La prossima volta impara a difenderti meglio o sarà peggio per te.»
Pronunciata quella sentenza, Zarbon si alza di scatto scagliando un piccolo pugno sulla spalla del compagno. Prende in bocca l’elastico, che si era infilato temporaneamente sul polso, e si lega di nuovo i capelli in attesa di poterli sistemare a dovere.
Quando apre lentamente la porta del bagno lo scenario che si rivela di fronte a lui è più disgustoso di quanto potesse immaginare. Spalanca gli occhi osservando le mattonelle bianche e lucide intrise di sangue rosso scuro, appassito, che cola lungo le fughe e si disperde in un’unica chiazza sul pavimento. Impiega qualche secondo per focalizzare la vasca in marmo, colma di un lago d’acqua in cui sfumano leggere venature rossicce.
Ricorda il sangue. Sangue caldo e vivo sulla faccia. Sangue che scivola lungo le sue mani, che si insinua nell’incavo delle unghie. Sangue seccato tra i capelli e tra le pieghe dei vestiti.
Le immagini gli invadono la testa una alla volta, come dolorose scariche elettriche. Gli danno la nausea: ha sempre odiato la sensazione di sangue addosso.
La risposta ai suoi quesiti giunge in un attimo: si era trasformato in quella cosa.
Inizia a ricordare. Le sue mani rugose, la pelle tagliata e deforme, quel folle bisogno di nutrirsi, quell’inebriante odore di linfa vitale talmente seducente e irresistibile.
Ricorda anche la scossa di piacere, l’adrenalina allo stato primordiale esplodere in lui mentre con i canini affilati riduceva in brandelli la carne rovente di un’inutile aliena. Mentre prendeva tra le mani il suo premio pulsante, energico, e lo divorava. Mentre ogni singola cellula dentro il suo corpo si riempiva di nuova vita.
Si era nutrito, dopo ormai anni che non si concedeva il lusso di un pasto degno della creatura che è in realtà, un pasto che riuscisse a tenere unito quel corpo che lentamente stava cadendo a pezzi. Ma tutto ciò che riesce a provare è solo un profondo disgusto per quel suo lato oscuro, che nonostante i suoi sforzi ancora fatica a tenere sotto controllo.
Abbassa lo sguardo e si china prendendo tra le dita un triangolo di specchio rotto. Pensa che la sola cosa positiva in tutto questo è che la sua bellezza è tornata a splendere. Con una mano si accarezza la pelle liscia, che pare quasi impalpabile. La ammira, rimanendo poi ipnotizzato dai suoi occhi che brillano di un oro incandescente e accecante. Socchiude le palpebre e arriccia appena le labbra, come se sentisse il bisogno fisico di baciare quella superficie lucida, illuminata da un riflesso perfetto da cui riesce a mala pena a staccare lo sguardo.
La confusione, così come la perdita temporanea della ragione, sono solo un piccolo prezzo da pagare per l’immortalità della bellezza.
Lascia rimbalzare a terra il pezzo di vetro, si dirige verso il tavolo e fa scattare il lucchetto di un piccolo contenitore rettangolare. Le pietre preziose incastrate nel legno scintillano sotto la luce soffusa della stanza, emanando un complesso e affascinante gioco di colori.
Sbuffa e alza gli occhi al cielo mentre prende tra le dita un paio di orecchini di perla nuovi e se li infila con calma. I suoi preferiti, realizzati con degli unici esemplari di diamanti viola provenienti dall’estrema Galassia del Nord, li ha persi su Tähis. O forse, li ha buttati lui stesso perché troppo sporchi di sangue, non lo ricorda con esattezza.
Quando si volta, Reye è ancora sdraiato con la testa a penzoloni che cade dal materasso, le braccia aperte e i capelli biondi che ondeggiano sfiorando appena il pavimento. Fissa dal basso la Stazione Spaziale dell’Imperatore dell’Universo che gravita appena più sotto di loro. È colossale, infinita, l’emblema perfetto dell’onnipotenza di Freezer.
«Siamo arrivati» sibila Reye, lasciandosi sbadatamente sfuggire una leggera sfumatura di malinconia.
 
*
 
Immersa nel cuore pulsante di quell’enorme macchina - la Stazione Spaziale Freezer 3 -, studiata per librare incessantemente nel vuoto, Tebe con gli occhi persi osserva il movimento di un raggio laser rosso che percorre il metallo lucido del soffitto e si riflette altre centinaia di volte lungo il pavimento e le pareti.
Sono le 5.45 del mattino, o le 4.45, ora in più e ora in meno non conta niente in quel posto. È solo una delle mille, inutili, convenzioni per scandire il tempo su quell’isola fatta di ferraglia prendendo come base il ciclo lunare del Pianeta Vegeta.
Un unico robot, basso e tozzo, è rimasto intatto al termine del suo breve allenamento, la cerca facendo roteare l’occhio che lampeggia compulsivo.
Tebe reclina la testa dietro di lei, appoggiandola al muro, ma senza staccare gli occhi dal macchinario. L’avrebbe visto scoppiare nel giro di pochi minuti, surriscaldato da quel movimento continuo che si sarebbe fatto man mano sempre più veloce.
Inizia a contare i secondi nella sua testa, giusto per non pensare ad altro.
Poi accade quanto previsto. Esplode di fronte a lei, i pezzi minuscoli si sparpagliano per la battle room andando a sbattere contro il muro e generando una moltitudine di fastidiosi ticchettii. Non c’è nessun fuoco, solo una nuvola di fumo grigio che lentamente si dirada lasciando intravedere un groviglio di fili elettrici spezzati e un corpo carbonizzato. Tebe già immagina la faccia di chi per primo scoprirà quel disastro, al solo pensiero inizia a ridere, bloccandosi all’istante quando la assale una fitta alla spalla. Quasi nemmeno ricordava di essersi ferita.
Le capita spesso quando la notte si cimenta in uno dei suoi allenamenti segreti. Gli piace definirli tali anche se non si tratta di reali sessioni d’allenamento, ma solo di una sorta di valvola di sfogo, qualcosa che la libera da un senso di pesantezza dentro di lei. Un peso che nella sua testa prende la forma di una bomba all’altezza del cuore, di un timer che si avvicina sempre di più al suo tempo limite e il cui conteggio viene stranamente riavviato una volta liberata la sua forza distruttiva. Non può farne a meno o imploderebbe, esattamente come quel robot striminzito che ora crolla di fronte ai suoi occhi.
Eppure, le sembra una sorte così inevitabile.
Pensa che farebbe meglio ad andarsene perché ogni secondo che passa diventa sempre più pericoloso.
Accoglie una grande quantità d’aria dentro di sé e chiude gli occhi. Non può lasciare segni del suo passaggio. Eliminare l’apparecchio di sorveglianza prima ancora di entrare nella battle room è un buon modo per scomparire dai radar, ma non servirebbe a niente se qualcuno la trovasse in quelle condizioni.
Sente che mentire e nascondersi sta diventando un mestiere estenuante. Lei lo sa, arriva sempre il momento fatale, quello in cui il castello di carta crolla scosso da una ventata d’aria più forte del normale.
È il rombo del decollo di una navicella a strapparla da quel flusso di pensieri confusi. Ferro che sfrega contro il ferro, la fa sobbalzare e la costringe a tapparsi le orecchie con le mani. Durerà solo un paio di minuti, ma quel frastuono rischia ogni volta di spaccarle i timpani. Sente che fa tremare le pareti e come ogni volta che accade, solo per un secondo, pensa che la stazione spaziale stia per soccombere, in rotta di collisione con qualche stella o meteorite.
È veloce e, in fin dei conti, neanche troppo doloroso. Non appena la situazione torna alla normalità, ne approfitta e si alza, arrampicandosi sul muro per dare il tempo alle sue gambe di ritrovare la forza che sembra esserle stata risucchiata.
Si lega i capelli in una coda che avvolge più vote su sé stessa.
Esce in fretta dalla battle room lasciando la porta spalancata.
Mentre cammina i suoi occhi sono impassibili, ciechi di fronte a tutto. Tiene lo sguardo basso cercando di ignorare quei dettagli che la fanno rabbrividire. Come la forma circolare dei corridoi. O la mancanza di vetri che dipingano uno spaccato perfetto dell’universo. Oppure le luci rosse che illuminano il bordo del pavimento, milioni di stelle di sangue che luccicano come a delineare una passerella macabra che conduce dritta all’inferno. Tutto questo la fa sentire in una trappola asfissiante.
Nel girare l’angolo urta la spalla di un soldato, uno di quelli importanti perché ha notato che porta lo scouter dal vetro color blu elettrico. Si rialza come una scheggia, riesce solo a intercettare un ghigno su quella faccia ripugnante prima di riprendere il suo cammino.
«Troia! La prossima volta ti fai perdonare in ginocchio.»
Non ribatte alla provocazione. Stringe i denti e continua a camminare portandosi una mano sul viso per coprirlo. Inizia a sudare freddo. Tutta la rabbia che vorrebbe sputare dalla bocca le sta evaporando dagli occhi, ma col tempo ha imparato che è molto meglio così: il fondamentale principio dell’universo recita che ad ogni azione corrisponde una reazione, e le reazioni, alla corte di Lord Freezer, possono talvolta divenire fatali.
Da quel punto in poi la Stazione si trasforma in una prigione di specchi. I passaggi sono tutti gemelli, talmente identici da riuscire a far perdere a chiunque il senso dello spazio e del tempo. Non ci presta più molta attenzione, le gambe iniziano a muoversi seguendo una traiettoria che ormai conosce a memoria mentre la testa vaga in ben altri luoghi.
Zarbon. È tornato.
Nella sua mente quelle tre parole occupano più spazio di quanto dovrebbero.
Il suo cuore aveva saltato un battito – o, forse, anche tre o quattro – quando Negi, la sera prima, le aveva comunicato il suo imminente rientro. Da allora era scoppiata una folle guerra dentro di lei, combattuta tra la voglia di sentirsi stringere di nuovo tra le sue braccia e la voglia di prenderlo a schiaffi.
Era partito, circa otto mesi prima, scomparendo nella notte senza lasciare nessun segno, abbandonandola nella propria camera privata ancora immersa nel sonno. Quando la mattina seguente Tebe si era svegliata aveva sondato il letto con la mano per cercarlo trovando al suo posto solo un cumulo di coperte e lenzuola fredde. Si era infuriata e accecata da quell’ira tutto ciò che si era lasciata alle spalle era una camera da letto distrutta che non poteva nemmeno più essere definita tale.
Cerca di allontanare quei pensieri in fretta e apparire serena prima che la porta dell’infermeria inizi a scorrere facendola trovare faccia a faccia con Negi, immerso nello studio di un congegno luminoso. Non appena la nota alza gli occhi, quasi seccato da quell’incontro, si toglie gli occhiali e li infila nel bordo del camice.
«Oh, bene, sei arrivata.»
«Avevo da fare.»
La interrompe senza nemmeno guardarla, scuotendo la mano davanti a lei «Si, si, non mi interessa. Ti ho lasciato alcune cose da trascrivere per conto di Freezer, passerà a ritirare tutto Zarbon ma è appena tornato e non credo si farà vivo troppo in fretta.»
Il cuore di Tebe sobbalza, di nuovo, al solo sentir nominare quel nome. Si porta una mano davanti alla bocca e si schiarisce la voce cercando di controllarsi «Sarà fatto.»
Negi la sorpassa, scomparendo alle sue spalle, mentre guarda l’ora segnata sull’orologio da polso. Esce dal suo campo visivo in un unico attimo, Tebe nemmeno se ne accorge. D’un tratto si ricorda della ferita alla spalla, cammina fino all’armadietto dei medicinali e ruba qualche fasciatura. Rivolge solo una rapida occhiata a tutta la mole di lavoro che Negi le ha assegnato prima di abbandonarsi sulla poltrona sbuffando e iniziare a medicarsi il braccio.
 
*
 
Si era dileguato in fretta dopo il decollo della navicella, utilizzando una stupida scusa per incantare Reye e Dodoria. Tutte le mansioni di cui si sarebbe dovuto occupare lui stesso al termine della spedizione le aveva accollate ai due compagni, compreso l’onorevole compito di riferire a Freezer il vittorioso esito della missione.
«Sei sicuro di stare bene?» era stata l’unica domanda che Reye aveva avuto il coraggio di porgli, convinto che qualcosa nell’atteggiamento del Generale non quadrasse. Finse di convincersi di fronte alla sua risposta affermativa, ma continuò a seguire con lo sguardo il suo passo pesante, che ai suoi occhi si rivelava colmo di nervosismo represso.
Lasciare che soldati si occupino dei suoi affari non è mai stato da lui, ma diverse cose sono cambiate nel corso del tempo, soprattutto da quando quella Sayian si è intromessa nella sua vita.
Lungo i corridoi sembra seguire come un cacciatore il suo profumo, un sottile filo indissolubile che lo guida e lo lega a lei senza via di scampo.
Ignora, come di consueto, la presenza di centinaia di insipidi dipendenti alla mercé di Freezer che si trascinano per i corridoi come un esercito di automi, vuoti, senza nome, fermi nell’eternità di un tempo che non scorre. Si rilassa solo dopo essersi chiuso nell’ascensore di vetro che nel giro di una decina di secondi lo fa salire di quarantatré piani.
Quando giunge dinnanzi alla sua meta è quasi nervoso. Esita qualche secondo osservando la scritta sulla porta che a caratteri cubitali recita “Infermeria”.
Tutto d’un tratto sente il bisogno di tornare indietro, la sua mano rimane sospesa a pochi millimetri dal tasto illuminato di verde. Si sente uno stupido. Lui è uno dei grandi, perché abbassarsi a quel livello? È lei a dover cercare lui e non il contrario.
Chiude gli occhi per un breve attimo, appoggia un pugno sulla porta cercando di ragionare razionalmente. Gli sembra quasi di sentire la sua voce trapassare il metallo, ma probabilmente è solo nella sua testa.
Chissà se è cambiata. Chissà se mi ha aspettato, se nel frattempo ha fatto la brava. Chissà cosa pensa: mi odierà? Probabile.
Oppresso da quello scoppio di domande e dalla voglia di sapere, infine, preme il pulsante di apertura.
Entra nell’ambulatorio con passi leggeri, come se non volesse far notare la sua presenza. Ad un primo impatto la stanza sembra essere vuota, ma gli basta far correre gli occhi intorno a sé per vederla.
I suoi capelli sono solo una macchia scura distesa sulla scrivania color avorio. Si avvicina di qualche passo, tenendosi però alla larga perché gli dispiacerebbe rapirla dal sonno. Dorme sul tavolo, con le braccia che le sorreggono la testa dolcemente e sembrano essere sul punto di cedere da un momento all’altro.
Le sue spalle si muovono, riflettendo il movimento del suo respiro, mentre il camice bianco le scivola lentamente sul braccio. Sotto di lei è incastrata una pila disordinata di fogli scritti a mano che probabilmente era intenta a leggere prima di addormentarsi.
Zarbon si inginocchia piano al suo fianco, poggiandole delicatamente le labbra sulla fronte. Le sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, li porta stranamente sciolti, le ricadono come una cascata in piena lungo la schiena. È convinto di non aver mai visto, in vita sua, una creatura così piccola infondergli tanto calore nel petto. Non è abituato a vederla dormire in quel modo, mentre le luci al neon le riflettono addosso, risaltando le sue labbra carnose, leggermente dischiuse e il naso minuto e all’insù. Osserva i suoi occhi inaccessibili, le sue ciglia che tremano leggermente. Si chiede se abbia sempre avuto quel delizioso, piccolo neo appena più sotto dell’occhio, se abbia sempre avuto quell’espressione così serena mentre dorme.
Gli sfugge un sorriso, solo appena accennato, mentre le lascia una leggera carezza sulla guancia prima di alzarsi. I fogli che avrebbe dovuto farle avere li poggia sulla scrivania, a poca distanza da lei per fare in modo che li trovi una volta sveglia.
«Zarb…»
Sentire la sua voce lo fa trasalire, per un attimo pensa si tratti dell’ennesima illusione. Ma poi la vede schiudere le palpebre, sbatterle più volte prima di riuscire ad inquadrarlo. La osserva mentre si muove, mentre si stira le braccia e la schiena con delicatezza e si regge sui gomiti per rimettersi composta.
«Zarbon!» è la prima cosa che urla dopo aver spalancato gli occhi.
«Buongiorno anche a te.»
«Quando sei arrivato?» sussurra, a tratti spaventata, mentre si affretta a trovare un elastico con cui raccogliersi i capelli. Si alza fulminea, lasciando che la poltrona ondeggi all’indietro, per andare a specchiarsi nel vetro della finestra. Ogni suo movimento sembra essere accompagnato da un perenne stato di agitazione.
«Sei un disastro» la schernisce Zarbon, soffocando una risata.
Tebe non è mai stata bella, o almeno, agli occhi di Zarbon, non è la ragazza più bella che abbia mai posseduto. Eppure, in lei c’è qualcosa che lo attrae come una calamita e che la fa sembrare stupenda in ogni sua piccola imperfezione.
«Sei tornato per rovinarmi la giornata?»
«In realtà, speravo di migliorartela in qualche modo» risponde malizioso, arricciando il naso per farle una smorfia.
Tebe si volta rivolgendogli le spalle, appena in tempo per nascondere un sorriso nato spontaneamente sulle sue labbra «Allora dovresti impegnarti di più.»
Zarbon non risponde. Continua a seguire i suoi movimenti mentre si dirige verso di lui, li scruta minuziosamente come se stesse studiando il nemico più pericoloso dell’intero universo. Ha un’aria baldanzosa mentre lo guarda e gli occhi che splendono di una luce strana, indecifrabile. Si concentra su di loro sperando di riuscire a cogliere quella scintilla, è felice di vederlo? Non ne è sicuro, ma se così fosse non esiterebbe ad accorciare le distanze e prenderla d’istinto su quel tavolo, che ora rimane l’unico ostacolo concreto che si pone tra di loro.
«Quindi, come mai sei qui?» chiede Tebe, già avvolta nel nervosismo e con lo sguardo puntato sul plico di fogli che Zarbon tamburella con le unghie.
A fatica riesce a staccare gli occhi da lei, concentrandosi sul suo lavoro invece che su quelle futili fantasie che gli hanno già rubato troppo tempo. Si schiarisce la voce prima di iniziare a parlare: «Dovevo consegnare questi e...»
«Sì, Negi mi aveva detto che saresti passato» balbetta Tebe, prima di coprire uno sbadiglio con la mano e sfregarsi gli occhi «Avrei dovuto farti avere quei fogli, ma non ho ancora finito di sistemarli.»
«Passerò più tardi.»
«Sì, è meglio. Però non dire a Negi che stavo dormendo, ok?»
Zarbon alza le braccia in segno di resa, sembra divertito e sul punto di scoppiare a ridere, ma allo stesso tempo Tebe è sicura che manterrà il segreto.
Senza insistere ulteriormente si allunga sul tavolo per raggiungere il fascicolo con la mano. Lo afferra impaziente, inizia a sfogliarlo e a leggere velocemente «Cosa sono?»
«Abbiamo trovato alcune cose interessanti su Tähis, cose che potrebbero interessare a Negi» la sua voce prende a farsi meccanica e atona. «Quelli sono solo appunti scritti da alcuni tecnici di bordo, dovreste darci un’occhiata e dirmi cosa ne pensate. Lui dove si trova?»
Tebe alza gli occhi, osservandolo come qualcuno che non ha ascoltato una parola di ciò che gli è stato riferito «Ne-Negi? Dev’essere di sotto a controllare i prigionieri.»
Zarbon annuisce, mantenendo gli occhi puntanti nel vuoto.
Passano interi minuti in silenzio, finché Tebe non sbatte i fogli sul tavolo. Inizia ad abbottonarsi il camice, il suo viso assume una tinta seria, cupa, come se cercasse di incutere timore «Bene, andrò a consegnarli personalmente.»
«Ti accompagno.»
Tebe stringe i pugni, i suoi occhi si colmano di fuoco davanti a quella che avrebbe voluto essere un’offerta gentile, ma detta da Zarbon assume l’aspetto di un vero e proprio ordine: «Non ho bisogno della scorta.»
«A me sembra di sì. Sei sicura di stare bene?» inizia ad avvicinarsi a passo svelto, le prende il mento tra le mani per iniziare ad analizzare il suo volto «Sei pallida. Sembra che tu non dorma da giorni.»
«Dormo invece.»
«E allora quale è il problema? Sembri un fantasma.»
Tebe alza gli occhi, si porta le mani sui fianchi e inizia a camminare nervosamente senza una meta. Il problema lo conosce bene: è che lui l’ha abbandonata per l’ennesima volta, da sola. Ci ha messo molto tempo a focalizzare la situazione; ci ha messo ancora più tempo a perdonarlo perché lui è fatto così, perché è il suo lavoro e perché quando Freezer chiama bisogna correre. La verità però è solo che il tempo non è bastato e nemmeno le scuse sono servite a farla stare meglio.  Sente il respiro che si fa pesante, inizia a mangiarsi le unghie e neanche se ne accorge. Poi, d’un tratto, si blocca incontrando per la prima volta da quando si è svegliata gli occhi di Zarbon: le sembrano più belli del solito, più dorati, più profondi, ardono in un modo che le fa bruciare la retina. Ci annegherebbe dentro volentieri.
Alza le spalle, le sente pesanti, come se portasse un’incudine legata alle braccia. Il petto le esplode, ma deve mentire per non sembrare così debole «Non c’è nessun problema.»
Scandisce le parole lentamente, la sua voce si trasforma in una sorta di nastro registrato che parte in automatico.
Aveva in mente di fare qualcosa, ma non ricorda più cosa. La presenza di Zarbon gli fa esplodere i nervi del cervello, è come se non funzionassero più. Con pochi passi raggiunge il lavandino, fa scrosciare l’acqua al massimo e inizia a sfregarsi le mani giusto per dare l’idea di sapere cosa diavolo stia facendo. Sente l’agitazione crescere e i battiti del suo cuore aumentare vorticosamente.
Non capisce, si sentiva a suo agio prima. Tutto è scoppiato in un attimo solo, nel momento in cui Zarbon si è materializzato in quella stanza insieme al dolore che lei ha cercato di sopprimere per tutto quel tempo.
Quando si volta, trova di nuovo i suoi occhi abbassati su di lei. Sente che la consumano, la fanno sparire lentamente.
Quanto avverte le sue mani sfiorarle i fianchi, giusto un attimo prima di cadere nel baratro, scappa. Ma è un tentativo di fuga mal riuscito perché Zarbon non ci mette che un secondo ad afferrarla, facendola scontrare pesantemente con l’armatura che gli copre il petto.
A causa della presa, forse troppo repentina, la spalla inizia a bruciare sotto le fasciature nuove. Zarbon deve averlo notato perché prende a squadrarla dalla testa ai piedi come se avesse paura di averla rotta in qualche punto.
Le bruciano gli occhi, cerca di non guardarlo e trattenere il respiro mentre percepisce il camice scivolare lungo la sua schiena.
La mano di Zarbon inizia a soffocarle il braccio. Si sta trattenendo, lo capisce dal modo in cui sente le sue dita tremare, scosse da quella forza che vorrebbe solo esplodere. Pensa che gli basterebbe un’ulteriore, leggera, pressione per frantumarle le ossa.
«Hai usato ancora la battle room» ringhia.
Si tratta un’affermazione, non di una domanda. Tebe rimane in silenzio sapendo che Zarbon non ha bisogno di conferme.
Sente la presa allentarsi lentamente. In un attimo, le sue dita le percorrono il collo, poi salgono a prenderle il mento con una delicatezza che le fa saltare i nervi. Le sue unghie le accarezzano la pelle, come lame le sente affondare dentro, insinuarsi sotto la pelle, trafiggerla e lasciare su di lei solo una scia bollente di sangue.
Il suo tocco non è dolce, eppure sente che quel contatto la fa stare bene e non le importa di nient’altro. Lui stringe la presa, fa male, la costringe a guardarlo.
«Vuoi forse farti uccidere da Freezer?»
Per qualche secondo non si sentono altro che i loro respiri spezzati che si intrecciano.
«Non riesco a farne a meno.»
«Certo che non riesci a farne a meno, sei…» la lingua di Zarbon sembra frenarsi da sola, consapevole che per lei sarebbe stato troppo doloroso continuare.
«Sei una Saiyan.»
Per Tebe è come se l’avesse detto, pensa che se le avesse tirato un pugno nello stomaco avrebbe provato meno dolore. Pronunciata dalle sue labbra quella parola ha sempre assunto una sfumatura di disprezzo, come fosse una colpa. Qualcosa che la rende insignificante, niente più che un insetto, inciampato per caso dentro quella gabbia dorata fatta di perfezione ed eccellenza.
E lui è quasi perfetto. È solo lei, la sua unica macchia scura.
Cerca di sorridere, provando a ribellarsi a quel dolore che le pulsa nel petto «È solo sangue, niente di più.»
Zarbon stringe le palpebre, cercando di leggere tra il suono delle sue parole. Ha ragione: è solo sangue impuro quello che scorre tra le sue vene, la sola cosa che la lega ancora a loro, indissolubilmente.
Perché Tebe non è una Saiyan. Tebe è superiore a quelle scimmie, è come lui, come Freezer. Se solo lui riuscisse a sradicare i suoi impulsi distruttivi, quell’unico gene rimasto in lei del lurido popolo che l’ha generata, sarebbe perfetta.
Quando la bacia sente che oppone una debole resistenza, i suoi muscoli sono tesi. La avvolge, stringendola ancora a sé con la forza, come se riuscisse a sentire il suo desiderio di fuggire e ne fosse terrorizzato.
Tebe dischiude le labbra, quel tanto che basta per accogliere le sue, ancora in preda a quella danza di emozioni che esplode nel suo stomaco. Si lascia sfuggire un leggero lamento quanto sente le sue mani stringerle la vita e affondare nella sua pelle sotto i vestiti.
«Mi sei mancata» sussurra Zarbon mentre le accarezza le labbra.
È tutto ciò che voleva sentire.
Infila le dita tra i suoi capelli. Zarbon avverte un piacere perverso mentre lei lo bacia con i denti e fa scorrere le unghie lungo il suo collo. Sente i loro corpi combinarsi in modo perfetto, come fossero costruiti esattamente per incastrarsi tra di loro.
Tra tutte le donne dell’universo, proprio una Saiyan. È quello che pensa ogni volta che si sente dannatamente bene mentre la prende e la fa sua. E tra tutte le Saiyan, proprio lei.
«Zarbon» la voce di Tebe sembra una supplica soffocata dagli ansimi.
La guarda, mentre la sorregge trascinandola sul bordo della scrivania: «Dimmi.»
«Ti prego…»
Sono deboli, quelle parole, a tal punto che il brusio dello scouter di Zarbon le sovrasta lasciando che il loro eco inudibile ondeggi per la stanza.
«Ti prego non andartene di nuovo.»
Tebe le sente urlare nella sua testa, talmente forte che forse anche Zarbon riesce a sentirle, ma è come se decidesse di ignorarle.
Non appena il brusio si trasforma in una serie continua di suoni atoni e meccanici, lui inizia a cercare un modo per lasciarla.
«Devo rispondere» dice tutto d’un fiato, fingendo un sorriso sincero e rassicurante.
«No, non devi» Tebe ringhia pronunciando quelle parole mentre avvolge con prepotenza le cosce attorno al corpo del suo uomo. Lo attira a sé e lo bacia di nuovo. Con la lingua percorre le sue labbra, scende sul collo, risale lungo il suo profilo fino ad arrivare all’orecchio. Le perle degli orecchini tintinnano a contatto con la sua bocca: «Io sono più importante di lui, non è vero?»
Gli passa una mano sotto l’armatura, scoprendo i suoi addominali che non ricordava essere così possenti.  
Mentre lei si strapperebbe i capelli per avere le sue attenzioni, Zarbon è rigido come una statua di marmo. I suoi lineamenti non si scalfiscono nemmeno quando la mano di Tebe sfiora il suo punto più sensibile.
«Basta così» la sua voce è gelida mentre le afferra una mano e se la sfila dal collo.
Lei lo lascia fare, scegliendo di conservare ancora la sua dignità. Solo una domanda le sorge spontanea: «Perché?»
«Non ho tempo.»
«Il tempo lo trovi quando fa comodo a te.»
Se solo ne fossero in grado gli occhi di Zarbon scaglierebbero lampi dorati. Serra la mandibola, sta per riprendere a parlare quando viene interrotto di nuovo dal suono dello scouter, questa volta ancora più insistente.
Espira un coagulo di furia repressa e si scrolla le mani di Tebe dalle spalle.
«Sei solo una ragazzina viziata» dice, prima di portarsi il macchinario all’orecchio e attivarlo.
Esattamente in quell’istante, qualcosa nel cervello di Tebe si spezza e la immerge nel buio.
«Freezer. Perdonami, ho auto un imprevisto.»
Quelle sono le ultime parole che sente prima di tagliare fuori dalla sua testa la voce di Zarbon.
Chiude gli occhi e ascolta quel doloroso timer che marcia all’indietro dentro di lei. Chissà se è quello, il momento in cui esplode, il momento in cui arriva il blackout.
Di nuovo, niente di più che un passatempo. Un’amante squallida.
Stronzo. Stronzo. Stronzo.
Il suo cuore pulsa sempre più veloce, non sta per esplodere, ma pompa lava ardente dritta nelle vene. Si china a raccogliere il camice, se lo abbottona cercando di apparire naturale nonostante il tremore delle mani che le impedisce di indossarlo a dovere.
Nel frattempo, Zarbon ha smesso di parlare e si volta verso di lei con un sorriso bastardo disegnato in faccia.
«Sai che è lavoro.»
Non gli rivolge nemmeno l’ombra di uno sguardo. Rimane qualche secondo a fissare il vuoto che ha di fronte, la sua ombra sfumata e scura che si riflette sul metallo lucidato. Ascolta il silenzio funereo che si è creata intorno. Zarbon probabilmente ancora sta parlando, ma le viene terribilmente complicato comprendere le sue parole. Non ha voglia di stare ad ascoltare di nuovo le sue scuse, come non ha voglia di fare finta che vada tutto per il verso giusto.
Senza esitare oltre, sblocca la porta e, impassibile, attende che si apra.
«Tebe!» un nuovo ordine, sussurrato tra i denti.
Un passo nel baratro oscuro.
«Fottiti.»

 
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