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Autore: Sugakookie    20/08/2018    2 recensioni
Il tempo non funziona più come dovrebbe, e Tessa sembra essere l'unica ad accorgersi della misteriosa anomalia. Almeno finché non incontra un ragazzo della sua scuola, confuso quanto lei dalla situazione. I due cercheranno di riportare la linea temporale alla normalità, ma il loro compito si rivelerà più arduo del previsto...
Genere: Introspettivo, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Prima di iniziare, vorrei precisare una cosa:
ho già scritto tutti i capitoli di questa storia.
Quindi, se vi dovesse piacere,
potete stare tranquilli che non rimarrà inconclusa!
In più, avendo già scritto tutto,
dovrei riuscire ad aggiornare abbastanza in fretta ;)
Detto questo, vi lascio leggere in pace.
Ci vediamo (spero) nelle note a fine capitolo ^.^








Just one day






1.
 
 
 
 
Era il 26 settembre.
 
Se avessi prestato attenzione alla data di quel giorno, avrei notato molto prima che c’era qualcosa che non andava. Invece, me ne accorsi solo una volta arrivata a scuola, quando mi sedetti al mio posto.
 
Avevo appena appoggiato il quaderno sul banco verde pallido, imbrattato di scritte a matita ormai sbiadite, quando mi cadde l’occhio sul quaderno aperto accanto al mio. La mia vicina di banco, Lia, stava scrivendo la data in cima al foglio. I suoi lunghi capelli scuri scivolarono sulla pagina bianca, coprendo la visuale, ma non appena sollevò la testa dal foglio, distinsi chiaramente la scritta. Il nostro banco era proprio accanto alla finestra, e le lettere nere e sottili, colpite dalla luce del sole mattutino, si stagliavano nitide sulla carta bianca.
 
26 settembre.
 
«Oggi è il 26?» chiesi, aggrottando le sopracciglia, nello sforzo di ricordare.
 
Lia si girò verso di me e annuì, guardandomi con i suoi caldi occhi castani.
 
«Sei sicura?» dissi, non troppo convinta. «Avrei giurato che ieri fosse il 26…».
 
«No, è oggi» confermò Lia. «Sarà il sonno che ti confonde» aggiunse, ridendo.
 
Quello fu il primo segno, ma non gli diedi molto peso. Del resto, mi era già capitato altre volte di sbagliare data, convinta che fosse un altro giorno. E poi, la sera prima, c’era stato un temporale molto forte e avevo faticato ad addormentarmi, quindi forse ero davvero intontita dal sonno.
 
Fu quando il professore di matematica iniziò a spiegare, che iniziai a dubitare seriamente della mia salute mentale. Innanzitutto, non avrei dovuto avere matematica alla prima ora di quel giorno. In più, il professore stava spiegando lo stesso argomento che aveva già spiegato il giorno prima, e stava usando le stesse identiche parole. Era proprio come un déjà-vu, quando ti sembra di riuscire quasi a prevedere ciò che verrà detto. Solo che i déjà-vu durano in genere qualche secondo, non di più.
 
Dopo circa dieci minuti di spiegazione, mi girai per guardarmi attorno, gettando occhiate furtive sui volti dei miei compagni di classe. Quelli al primo banco prendevano appunti lentamente, coprendosi la bocca di tanto in tanto per soffocare uno sbadiglio. Alcuni ascoltavano immobili con il mento appoggiato al palmo della mano, altri stavano al cellulare. Lia stava disegnando tranquillamente sul quaderno, completando una serie di schizzi di un gatto in varie pose. Nessuno sembrava turbato dalla lezione, e la prima ora passò senza che trovassi il coraggio di dire niente.
 
Prima che iniziasse l’ora successiva, decisi di fare un controllo nel modo più ovvio. Con una certa ansia, presi il telefono e fissai la data sullo schermo. Era proprio il 26 settembre. Cercai di non allarmarmi troppo; c’era comunque la possibilità che mi ricordassi male, e che il giorno prima fosse il 25.
 
Se ieri era il 25, oggi è il 26, mi ripetei mentalmente, tutto normale.
 
Proprio in quel momento, il professore d’inglese iniziò a spiegare, ed ebbi la conferma che la situazione non era normale per niente. Non avrei dovuto avere inglese a quell’ora, e in più il professore stava dicendo le stesse identiche cose del giorno prima. Stesse parole, persino stesse pause tra una frase e l’altra. Non riuscivo a crederci. Cercai di ragionare, ma non c’era una spiegazione logica. O stavo avendo il déjà-vu più lungo della storia, o l’intera scuola aveva deciso di farmi un simpatico scherzo.

Oppure… stava davvero succedendo qualcosa di assurdo. Qualcosa che non avrei mai creduto possibile. Forse il tempo era tornato indietro e quel giorno si stava ripetendo, identico a come lo avevo già vissuto.
 
La cosa più strana, in quella situazione assurda, era che nessuno sembrava essere cosciente del fatto che il tempo fosse tornato indietro. Nessuno, a parte me. Quasi come se fossi io il fattore scatenante. Eppure non ero stata io a far riavvolgere il tempo, perlomeno non in modo volontario né consapevole.
 
 
*
 
 
Non volevo passare per pazza, perciò provai ad indagare con cautela, facendo domande molto vaghe.
 
«Non notate niente di strano, oggi?» chiesi più volte, a diversi dei miei compagni.
 
«No…?» risposero alcuni di loro, incerti. «Cosa intendi dire?».
 
«”Strano” in che senso?» chiesero altri, con aria interrogativa. Sembravano tutti genuinamente sorpresi, e abbastanza perplessi dalle mie domande. Non stavano fingendo.
 
 
*
 
 
Durante l’intervallo, mi allontanai dai miei amici e andai fuori in cortile, per riflettere. Scelsi una panchina, lungo il viale costeggiato dagli alberi, e mi sedetti. Tutte le altre panchine erano vuote.
 
C’era uno spiazzo davanti alla scuola, che in teoria era anche un campo da calcetto, con tanto di linee bianche ridipinte da poco. Durante l’intervallo, molti studenti si radunavano lì a gruppetti, a chiacchierare, mentre gli altri rimanevano dentro la scuola, sparsi tra le aule e i corridoi. Quasi nessuno veniva a sedersi su quelle panchine, lungo il viale alberato che portava dal cancello d’ingresso all’edificio scolastico. Soprattutto in quel periodo, quando la strada non asfaltata del viale era spesso costellata di pozzanghere, e gli alberi che lo costeggiavano iniziavano a spargere foglie ovunque.
A me, invece, piaceva molto quel viale in autunno, ricoperto da strati di foglie tra il rosso rame e il giallo acceso, e persino le pozzanghere, con quel tripudio di colori riflessi sulla superficie d’acqua, avevano un certo fascino. In quel periodo tuttavia, le foglie cadute, di un giallo pallido, erano ancora poche. Del resto, era solo il 26 settembre, l’autunno era appena iniziato.
 
Mi rigirai fra le mani la mela che mi ero portata da casa, di un bel verde pallido, e mi godetti la sensazione della buccia liscia sotto i polpastrelli. Poi diedi un morso, e mentre addentavo la mela croccante, un pensiero mi colpì.
Tutti replicavano le stesse azioni, le stesse parole, proprio perché non erano coscienti del fatto che la giornata si stesse ripetendo. Avevo notato che, se ero io ad innescare un cambiamento, allora anche gli altri compivano azioni diverse di conseguenza. Ma se non intervenivo io, si ripeteva tutto in modo identico; era come se tutti stessero seguendo inconsapevolmente un copione già scritto, non avevano scelta. Io, invece, mi ricordavo cosa avevo fatto il giorno prima. Sapevo già cosa sarebbe successo, e potevo scegliere. Potevo decidere di non fare esattamente le stesse cose che avevo già fatto. Anche solo il fatto che fossi uscita dalla scuola, allontanandomi dai miei amici, era un piccolo cambiamento rispetto a ciò che avevo fatto il giorno prima.
Ma quali sarebbero state le conseguenze di questi cambiamenti? Nelle storie di fantascienza non era mai una buona idea tornare indietro nel tempo, né tantomeno cambiare il passato. Avrei potuto causare un danno irreparabile alla storia futura, senza rendermene conto. Mi si strinse lo stomaco solo a pensarci.
E subito dopo, un altro pensiero terribile mi attraversò il cervello, facendomi raggelare sul posto. Domani… sarà di nuovo il 26 settembre?
 
 
*
 
 
Ero lì a mordere la mia mela, nervosamente, rimuginando sui dilemmi dei viaggi nel tempo, quando all’improvviso mi accorsi che era comparso qualcun altro nel viale. Era un ragazzo che non avevo mai visto, chiaramente asiatico. Dimostrava diciotto o diciannove anni, perciò doveva essere all’ultimo anno, come me. Mi gettò una breve occhiata, poi si sedette sulla panchina di fronte alla mia e infilò gli auricolari nelle orecchie.
 
Sembrava fragile. Come se la tristezza lo avesse consumato a lungo, fino a prosciugarlo, lasciandolo con quell’aria vulnerabile e stanca. Come se potesse rompersi da un momento all’altro.
 
Lo avevo visto in piedi per pochi secondi, prima che si sedesse, ma ad occhio avrei detto che fosse poco più alto di me. Aveva le spalle abbastanza larghe, ma per il resto era piccolino, le gambe fasciate dai jeans erano magre, e dalle maniche della felpa nera spuntavano due polsi sottili. Era seduto come se volesse rimpicciolirsi ulteriormente, con le gambe accostate l’una all’altra e le mani infilate tra le cosce.
Osservai il suo volto. Nonostante le occhiaie scure e l’aspetto stanco, aveva dei bei lineamenti. Pelle lattea e liscissima, labbra morbide, di un rosa pallido, capelli neri e folti. E sotto la frangia, gli occhi a mandorla, nerissimi e dal taglio felino, allungato, adombrati da lunghe ciglia scure. In quel momento, pensai che fosse davvero bello. Non nel modo in cui lo si pensa di solito, con tutte le implicazioni romantiche o sessuali. Lo pensai come si pensa che è bella un’opera d’arte. Era quel tipo di bellezza che devi guardare a lungo, per assorbire ogni dettaglio, e per poterla comprendere appieno. E a volte non la comprendi affatto, ma per qualche motivo che non sai spiegare, ti affascina lo stesso. Era così che mi faceva sentire quel ragazzo.
 
Mentre lo osservavo, improvvisamente fui scossa dal suono della campanella in lontananza, ed ebbi un sussulto. Il ragazzo si sfilò le cuffiette dalle orecchie con calma, poi si alzò lentamente. Io, invece, scattai in piedi e lo superai per tornare in classe il prima possibile. Non si poteva mai sapere, un lieve ritardo poteva causare chissà quale altra anomalia temporale, e io ne avevo già abbastanza.
 
 
*
 
 
Il giorno dopo, quando mi svegliai, mi stiracchiai con calma per qualche secondo, dimentica delle mie disavventure temporali. Poi, all’improvviso, mi ricordai. Mentre il battito accelerato cominciava a pulsarmi nelle orecchie, presi il telefono dal comodino. Strizzai gli occhi con una smorfia, colpita dalla luce improvvisa dello schermo, e dopo essermi abituata, misi finalmente a fuoco.
 
26 settembre.
 
Cazzo. Era di nuovo lo stesso giorno. Iniziai a sudare freddo. Non riuscivo proprio a spiegarmelo, ma non andava per niente bene. Se davvero non potevo cambiare il passato… voleva dire che dovevo rivivere quella giornata ancora e ancora, stando attenta a compiere le stesse identiche azioni, senza cambiare niente, finché il tempo non si fosse sbloccato? E se non si fosse mai sbloccato? Scossi la testa, come per cancellare quell’ipotesi. Il solo pensiero di rivivere lo stesso giorno all’infinito, facendo le stesse identiche cose, mi dava la nausea.
 
 
*
 
 
Mentre camminavo per andare a scuola, d’un tratto mi venne un’idea. Forse ero bloccata nel tempo proprio perché dovevo cambiare qualcosa. Il giorno prima, ero stata attenta a non modificare quasi niente nel mio comportamento – se non qualche piccolo dettaglio – convinta che altrimenti avrei causato qualche danno. Ma adesso era di nuovo il 26 settembre, e doveva esserci un motivo. Forse il tempo era bloccato perché c’era qualcosa che andava cambiato, e lo stesso giorno si sarebbe ripetuto ancora e ancora finché non avessi capito che cosa c’era da aggiustare.
Mi sembrava un’ipotesi sensata. Almeno mi dava la speranza che ci fosse un modo per sbloccare il tempo, per farlo scorrere di nuovo normalmente. Tuttavia, pur ammettendo che la mia teoria fosse giusta, il mio compito era comunque arduo. Dovevo capire che cosa c’era di sbagliato e poi aggiustarlo, ma non sapevo proprio da dove iniziare.
 
 
*
 
 
Quella mattina, non ascoltai nemmeno una parola a lezione. La prima frase pronunciata dal professore di matematica mi diede la conferma che la giornata si stava effettivamente ripetendo, e da lì in poi mi rifiutai di ascoltare oltre. Ne avevo abbastanza di quella lezione, l’avevo già sentita due volte. Cercai invece di studiare ancora i miei compagni. Mi guardai intorno, analizzando ogni dettaglio, nella speranza di cogliere qualche indizio, o di notare anche solo un minimo cambiamento. Fu inutile. Era tutto identico al giorno prima.
 
Durante l’intervallo, rimasi in classe a chiacchierare con un paio di amici, ma dopo un po’ decisi di uscire. Per quanto cercassi di cambiare discorso, i miei compagni finivano per raccontarmi sempre le stesse cose, e per quanto gli volessi bene, ero già stufa di stare con loro. E poi, per qualche motivo che non sapevo spiegarmi, volevo controllare se c’era ancora il ragazzo del viale. L’asiatico bello come un’opera d’arte, ma dall’aria triste.
 
Uscii dalla scuola, e mi ritrovai nello spazio antistante l’edificio, che era pieno di gente come al solito. Iniziai ad infilarmi fra i vari gruppetti di studenti, per passare, e dopo un po’ sbucai in fondo al viale alberato. Per qualche secondo, mi fermai a guardare la strada sterrata con le due file di alberi ai lati, carichi di foglie gialle pronte a cadere. Il viale era lungo, e la panchina dove mi ero seduta il giorno prima era più vicina al cancello d’ingresso che all’edificio scolastico. Ne avevo scelta apposta una che fosse circa a metà del viale, in modo che fosse lontana dal caos e dal brusio degli studenti. Nonostante la distanza, riuscii a scorgere una figura seduta proprio su una di quelle panchine, più o meno nel punto in cui mi ero seduta io il giorno prima.
Mi incamminai lungo la strada, evitando di tanto in tanto le pozze quasi asciutte, e arrivata circa a metà del viale, lo vidi. Capelli neri, pelle pallida, occhi felini e labbra rosee, seduto su quella che probabilmente era la stessa panchina del giorno prima. Per un attimo, ebbi un moto di delusione nel vederlo seduto nella stessa posizione, con le mani infilate tra le gambe, e le cuffie nelle orecchie. Voleva dire che anche lui era come tutti gli altri, replicante ignaro delle stesse azioni. Avevo seguito l’impulso di venire lì, convinta che il mio intuito mi stesse suggerendo qualcosa su quel ragazzo, ma dovevo essermi sbagliata.
 
Poi, però, notai una cosa importante. Mi ero appena seduta sulla panchina di fronte a lui, quando mi accorsi che c’era qualcosa di diverso. Non era vestito in quel modo il giorno prima. Ricordavo chiaramente che aveva un paio di jeans chiari e una felpa nera col cappuccio. Stavolta era sempre in jeans ma indossava una maglietta bianca, con sopra una camicia a quadri verde scuro.
Forse non voleva dire niente, era solo un dettaglio insignificante. Eppure mi ero sforzata di notare anche questi particolari, e non avevo visto niente di diverso nell’abbigliamento degli altri. Ovviamente, non ricordavo esattamente come fosse vestito ciascuno dei miei compagni, ma avevo fatto caso a quelli che ricordavo. La mia vicina di banco, Lia, indossava gli stessi pantaloni beige del giorno prima, la stessa camicetta bianca, e persino lo stesso braccialetto di pelle marrone al polso. Il professore di matematica aveva la stessa camicia bianca con una giacca grigia sopra, e anche gli altri professori erano vestiti in modo identico al giorno precedente.
L’abbigliamento del ragazzo asiatico era l’unica cosa diversa che avevo notato, e doveva pur significare qualcosa. Stavo per parlargli, quando fui scossa dal suono della campanella. Di nuovo. Con un profondo sospiro, mi alzai dalla panchina e mi diressi controvoglia verso l’edificio scolastico.
 
 
*
 
 
Pensavo di aver perso la mia occasione, e di dover aspettare il giorno successivo per parlargli (ammesso che l’indomani non si fosse degnato di diventare il 27 settembre, in quel caso problema risolto). Invece, dopo la fine delle lezioni lo vidi di nuovo.
 
Per tornare a casa da scuola, passavo sempre per la stessa strada. Uscita dal cancello della scuola, percorrevo il marciapiede andando sempre dritto per un po’. Era un quartiere tranquillo, in cui passavano poche macchine, e c’erano per lo più appartamenti o case singole, con piccoli giardini sul davanti. Poi, a un certo punto, svoltavo a sinistra e proseguivo, superando un paio di edifici dall’intonaco scrostato, pieni di graffiti e scritte incomprensibili. Poi oltrepassavo un campo da basket, delimitato da una rete metallica, e poco dopo c’era un ampio spazio dove la pavimentazione grigia era incavata a formare una pista da skateboard di medie dimensioni.
La pista consisteva in un unico grande buco, una cavità nel cemento, il cui perimetro era ondulato e le pareti erano grigie, lisce e ricurve. Mi faceva pensare ad un cratere formatosi dall’impatto di un meteorite, o alla vasca vuota di una piscina dal design moderno.
 
Fu proprio lì che lo vidi. In lontananza, scorsi una figura seduta sul bordo della pista, con le gambe sospese nel vuoto del cratere. Man mano che mi avvicinavo, riconobbi la camicia verde a quadri, con sotto la t-shirt bianca, e la massa di capelli neri riversi sul viso pallido.
Il giorno precedente avevo fatto la stessa strada, e non c’era nessuno seduto sul bordo della pista. Quello era il secondo cambiamento che notavo, e guarda caso c’entrava sempre quel ragazzo. Dovevo assolutamente scoprire qualcosa di più. Perciò mi avvicinai fino ad arrivare a bordo pista, ad un paio di metri da lui.
Il ragazzo era chino sul cellulare, intento a guardare alcune foto. Mi schiarii la gola, per attirare la sua attenzione, e poi parlai.
 
«Scusa, posso sedermi?» esordii, gentilmente.
 
Il ragazzo alzò lo sguardo dal telefono, girando la testa per guardarmi. Mi fissò per qualche istante, con una parvenza di sorpresa negli occhi neri e allungati, poi fece spallucce.
Mi avvicinai ancora e mi sedetti sul bordo della pista, a circa mezzo metro da lui, lasciando penzolare le gambe nel vuoto. A inizio autunno faceva ancora abbastanza caldo, e attraverso il sottile vestitino a fiori che indossavo, sentii che il cemento grigio era tiepido sotto le mie cosce.
 
«Sono due giorni che ti vedo nel viale» dissi al ragazzo. «Eppure non ti avevo mai visto a scuola prima».
 
Gli occhi neri del ragazzo si posarono su di me, fissandomi intensamente da sotto le ciglia scure. Poi chinò di nuovo la testa sullo schermo del telefono ed iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. Lo fissai, perplessa. Ma che stava facendo? Mi stava ignorando?
 
Stavo per parlare di nuovo, quando il ragazzo smise di scrivere e girò il telefono verso di me, indicandomi di guardare lo schermo. Gettai un’occhiata e vidi che aveva aperto la schermata del blocco note, dove aveva scritto qualcosa. Lessi le due frasi, stupita.
 
Sono nuovo, per questo non mi avevi mai visto.
Ho cambiato scuola e farò l’ultimo anno nel tuo liceo.
 
Alzai lo sguardo dallo schermo, e fissai confusa il volto pallido del ragazzo.
 
«Perché hai risposto scrivendo?».
 
Lui chinò la testa e digitò qualcos’altro sul telefono, poi me lo mostrò.
 
Non parlo.
 
Fissai quelle due parole, sempre più perplessa. Che diamine voleva dire, “non parlo? Non poteva essere sordomuto. Non appena gli avevo rivolto la parola si era girato a guardarmi, era chiaro che ci sentiva.
 
«Come sarebbe, non parli?» chiesi, inclinando leggermente la testa di lato. «È per tua scelta?».
 
Non proprio. Però diciamo di sì.
 
Decisi di non insistere. Se non parlava doveva avere le sue buone ragioni.
 
«Come ti chiami?» chiesi invece, cambiando argomento.
 
Yoongi.
 
«E come diamine si pronuncia?» sbottai, dopo aver provato a leggerlo mentalmente un paio di volte. «Sicuro che non puoi parlare neanche per dirmi il tuo nome? Guarda che poi ti chiamerò per sempre nel modo sbagliato».
 
Sul suo volto stanco e segnato dalle occhiaie, mi parve di cogliere l’accenno di un sorriso. Fu solo un attimo, ma per quel breve istante gli angoli delle sue labbra rosa pallido si incurvarono verso l’alto, e il suo volto perse momentaneamente l’espressione triste che gli avevo sempre visto.
 
Prova a pronunciarlo.
 
«Vuoi proprio farmi fare la figura dell’ignorante?» chiesi, ridendo. «Che palle, non lo so… la doppia “o” si legge “u”?» tirai a indovinare.
 
Il ragazzo mi guardò di nuovo con quel sorriso impercettibile, e annuì.
 
«Davvero? Ho indovinato subito!» esultai, trionfante. «E la “g” si legge come “g” di girasole?».
 
Lui mi guardò con espressione seria, e scosse la testa.
 
«Ah» feci delusa. «Allora come “g” di gatto?» chiesi ancora, e poi provai a pronunciare il nome per intero.
 
Lui mi mostrò il pollice alzato, annuendo. Bene, era stato più faticoso del previsto, ma ora sapevo come si chiamava.
 
«Senti, Yoongi, devo chiederti una cosa importante» dissi, seria. «Ah, comunque io mi chiamo Tessa».
 
Yoongi annuì e mi porse la mano pallida, dalle dita lunghe e sottili. Gliela strinsi, e poi aspettai che digitasse sul blocco note del telefono.
 
Cosa devi chiedermi?
 
«Hai notato qualcosa di strano negli ultimi due giorni?».
 
Yoongi continuò a guardarmi negli occhi, mentre si mordicchiava leggermente le labbra rosee, come se stesse riflettendo sulla risposta. All’improvviso, sembrava nervoso.
 
Intendi da quando ci siamo visti nel viale la prima volta?
 
«Sì» annuii. «Da ieri».
 
Yoongi cominciò a scrivere in modo quasi frenetico, poi si fermò e cancellò un paio di volte, per poi ricominciare a scrivere.
 
Ho notato una cosa molto strana, ma... pensavo di
essere l’unico.
Gli altri si comportavano come se fosse tutto normale.
Pensavo di essere diventato pazzo.

 
Sentii il battito accelerare nel petto, e la bocca improvvisamente asciutta. Quella era la conferma che volevo, eppure stentavo a crederci. Con un certo timore, mi azzardai a formulare ciò che nessuno di noi due osava dire.
 
«Che giorno era ieri, per te?» chiesi, con voce leggermente tremante.
 
Il 26 settembre.
 
Annuii lentamente. «Oggi è di nuovo il 26» dissi, piano, come se non volessi ammettere quel fatto assurdo.
 
Yoongi annuì, e i suoi occhi sottili si fecero più grandi, in un’espressione preoccupata. Poi si chinò di nuovo a scrivere.
 
Hai idea di come sia successo?
 
«Non lo so» ammisi, tristemente. «Nessuno di noi due l’ha fatto apposta, a quanto pare. Eppure sembra che siamo gli unici ad essere consapevoli della situazione».
 
Gli spiegai la mia teoria, sul fatto che forse dovevamo cambiare qualcosa per sbloccare il tempo. E gli dissi di come questo contraddiceva la mia prima idea, quella di non cambiare niente per non provocare danni alla linea temporale.
 
Yoongi mi ascoltò attentamente, annuendo di tanto in tanto, e mordicchiandosi un’unghia. Quando ebbi finito di parlare, rifletté per un po’, poi iniziò a scrivere.
 
Credo che la tua seconda teoria abbia senso.
Abbiamo già cambiato alcune cose in questi due giorni, se ci pensi.
Erano piccole cose, ma anche dei dettagli insignificanti bastano a
creare dei casini. Come la questione delle farfalle e degli uragani,
hai presente? Solo che gli effetti si dovrebbero vedere poi in futuro,
e al momento siamo bloccati nel tempo, quindi non possiamo
sapere se ci saranno conseguenze negative. Piuttosto che non
fare niente, forse dovremmo provare a cambiare qualcosa e vedere
se il tempo si sblocca.

 
Lessi attentamente tutto il messaggio, poi annuii.
 
«Okay» concordai, decisa. «Allora ci proviamo».







 
Siete arrivati alla fine del primo capitolo, congratulazioni! ^.^
Se mai c'è stato qualcuno che mi ha seguito fin dall'inizio,
e che aspettava con ansia una mia storia,
vorrei porgere le mie umili scuse *cade in ginocchio*
perchè sì, mi rendo conto che è passata una vita
dall'ultima volta che ho pubblicato qualcosa.
Comunque sono viva, e questo era il primo capitolo della mia nuova fanfic... spero che valga l'attesa!
Se vi piace la storia almeno un pochino, e voleste lasciarmi una recensione sarebbe molto molto bello ;)
anche una recensione piccola piccola va bene, basta poco per rendermi felice ahaha
Detto questo, spero di rivedervi nel prossimo capitolo!
Sugakookie
   
 
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