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Autore: Cindy03    08/01/2020    0 recensioni
Larhette e Rock condividono gran parte della loro infanzia, ma ora sono 6 anni che non hanno notizie l'uno dell'altro. Inoltre da quando Larhette ha deciso di scappare dall'orfanotrofio in cui viveva non si sono più visti.
Per fortuna c'era Denny a smorzare le loro tensioni.
Ora la ragazza ha una vita stabile e piuttosto tranquilla che verrà scombussolata dal ritmo delle sue due più grandi passioni: la musica e la cioccolata.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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“MAMAAAAAA! MAMAAAAA!” continuavo a correre verso casa, con  il fiatone e i battiti accelerati che mi rimbombavano nelle orecchie. Non vedevo l’ora di rivedere mia madre al rientro dal lavoro. Ero una bambina di sei anni e avevo un ottimo rapporto con lei. La consideravo la donna più bella del mondo, con i suoi capelli lunghi dai riccioli definiti e i suoi occhioni neri.
Tutti i giorni si alzava all’alba e prendeva il primo autobus della mattina per andare a lavoro, nella casa di una vecchia signora bianca, in cui puliva, cucinava e badava ai suoi figli. Lo faceva per me, per farmi mangiare e andare a scuola, anche se guadagnava una miseria.
Nel frattempo io restavo a casa e, per quanto potevo, cercavo di farla contenta rassettando e cucinando a volte una minestra calda. Mio padre non c’era quasi mai, troppo impegnato a spendere i soldi che mamma guadagnava in alcol e sigarette. Tornava solo la sera tardi. Ubriaco.
Spesso la mia vicina di casa mi accudiva, insieme a sua figlia Lena.
Quando si avvicinavano le cinque del pomeriggio, tutti i giorni mi dirigevo verso la fermata del bus, a mezzo isolato di distanza, sicura che di li a poco avrei rivisto la mamma. Poi insieme tornavamo a casa e, dopo cena, ci stendevamo sul letto. Passavo ore ad ascoltare le sue storie! Mi parlava della sua infanzia e del nostro paese d’origine, L’Avana, di quando papà era un bel ragazzo gentile ed educato, di come invece era cambiato quando ci trasferimmo qui nel Bronx. Io avevo solo sei mesi e lui tanti problemi, da non riuscire più a controllarsi.
A volte vedevo qualche livido sulle forti braccia della mamma, a volte sul volto. Sapevo che la picchiava, lo avevo sentito, ma non ebbi mai il coraggio di parlarne. Quel giorno avevo fatto tardi per giocare con Lena ed ero corsa fino alla fermata dell’autobus, per poi rendermi conto di non potercela fare. Quindi rigirai e mi misi a correre verso casa.
 “Mama, lo siento, fui a casa Lena!” (Mamma, scusami ho accompagnato a casa Lena) dissi entrando, appoggiandomi alla porta per prendere aria. Non mi accorsi dei rumori che provenivano dall’interno della casa.
“LURIDA PUTTANA!” l’urlo di mio padre, proveniente dalla camera da letto mi gelò il sangue. Corsi fino alla stanza, poi sbirciai dentro. La scena che mi si presentò davanti mi lasciò sconvolta: mio padre, ubriaco come al solito stava picchiando la mamma, con il manico della scopa, quello di ferro. La donna era già priva di sensi, accasciata a terra con la faccia ricoperta di sangue e quell’uomo non voleva smettere di picchiarla!
“No! NO! Papà! BASTAAAAA!” urlai correndo tra loro, ma con uno spintone lui mi ricacciò indietro facendomi sbattere la testa sul montante della porta.
Ci misi qualche secondo a realizzare ciò che stava succedendo, ma quando lo feci mi alzai in punta dei piedi e iniziai a correre, ignorando il rivolo di sangue che scendeva dalla fronte. Corsi fino a quando i polmoni non iniziarono a bruciare, attraversando strade, parchi, negozi, fino a quando non lessi a fatica la parola “Police” in azzurro, sulla facciata di un edificio completamente bianco. Entrai sempre correndo fino ad arrivare agli uffici e, con tutta la voce che avevo in gola gridai “MIA MAMMA E’ MORTA PERCHE’ PAPA’ L’HA UCCISA!” prima di finire a terra svenuta.
 
Mi risvegliai qualche giorno dopo in una stanza d’ospedale. Un poliziotto stava parlando ai piedi del letto con una strana donna: aveva capelli dorati corti, un rossetto talmente rosso da risultare accecante, uguale allo smalto sulle unghie delle mani, che stringevano in grembo una cartellina bianca. Non era una dottoressa perché non aveva il camice, ma un sobrio tailleur grigio chiaro che risaltava sul suo fisico asciutto e sulla sua carnagione ambrata come la mia.
Qualche giorno dopo mi spiegarono che la mamma era morta come pensavo e che il papà era stato arrestato. Io sarei dovuta andare in un orfanotrofio, ma mio zio, che al momento si trovava nel mio paese natale dall’altra parte dell’oceano, aveva contattato una signora che si sarebbe presa cura di me fino al suo arrivo. Non voleva mandarmi in un orfanotrofio perché lui ci era cresciuto e sapeva bene cosa succedeva li dentro, come trattavano i bambini e come poi parecchi di loro finivano in mezzo ad una strada a spacciare droga.
Fu la stessa signora che quel giorno parlava con il poliziotto che mi venne a prendere e mi portò nella sua scuola di ballo, che mi insegnò la tradizione cubana e la salsa, che mi salvò la vita e nello stesso tempo mi condannò ad anni di doveri senza diritti: la signora Maria Conchita Castillo. Il suo era un enorme edificio a più piani in cui venivano ospitati bambini che in qualche modo erano rimasti soli. Veniva insegnato loro a studiare, lavorare e ballare, tutto ad un unico scopo, far guadagnare alla signora Castillo un bel gruzzoletto per i suoi bellissimi spettacoli, famosi e rinomati tra la gente. In cambio lei offriva buon cibo e un tetto sulla testa che, in certi casi, fa un bel po’ comodo, nonché una discreta istruzione.
Quando arrivai alla sua scuola mi affidò a un bambino di 8 anni che si atteggiava a capo e che per questo mi faceva un po’ sorridere, finalmente dopo giorni di pianto passati in una sorta di limbo. Aveva gli occhi più belli del mondo, pensai, e la pelle colorata come la cioccolata, quella che solleticava il palato e faceva ridere. E così feci. Dopo tutto quello che era successo, nonostante tutte le mie paure, appena rimasi sola con quel bambino scoppiai a ridere, piegandomi a metà sul pavimento.
“Te sei mezza matta!” mi disse scettico il bambino, guardandomi con due occhi spalancati. Poi si accucciò porgendomi una mano e sussurrandomi all’orecchio “Tanto lo so che hai paura piccola Larhette, ma non ti preoccupare, ci sono io adesso!” e poi a voce più alta “mi chiamo Rock! Vieni a vedere questo posto?”
Sorrisi di cuore e lo seguii per tutto il fabbricato, prestando attenzione a tutto ciò che diceva. C’erano delle camere e altri bambini come noi, circa una quindicina, una mensa per mangiare tutti insieme, delle sale per studiare ballo e delle altre per imparare a leggere, scrivere, contare...avevamo degli orari e dei compiti stabiliti che dovevamo rispettare e una sola ora il pomeriggio per giocare o riposarci. Niente uscite, nessuna lamentela, solo studio e lavoro come pulire, lavare, ordinare, cucinare ecc ecc. e se non si faceva tutto per bene erano guai: lavoro extra, niente pasto, e quando proprio andava male, bacchettate sulle mani!
 
Riuscii a sopravvivere a quella prigione solo grazie a Rock. Diventammo inseparabili fin dal primo giorno. Giocavamo insieme durante l’ora di svago, ci proteggevamo a vicenda, ci donavamo il sostegno e l’affetto che mancava ad entrambi, ma soprattutto parlavamo. Rock era uno dei più grandi e affidabili tra i bambini, così la signora Castillo gli aveva assegnato il compito di chiudere a chiave la porta principale prima di andare a dormire. Doveva dare due mandate, ma Rock anziché darle nello stesso verso per inchiavare le dava una in un verso e l’altra nel verso opposto così che la porta rimaneva aperta garantendo sempre una via di fuga che lo faceva sentire più al sicuro. Almeno questo era quello che mi raccontava lui.
Diceva di aver sentito di un bambino morto bruciato all’interno di una casa in cui era scoppiato un incendio, perché la porta era stata inchiavata e si era probabilmente incastrata. Inoltre era una sorta di ribellione a quella vita cui eravamo costretti.
E una via di fuga lo era davvero per noi perché tutte le notti sgattaiolavamo fuori in giardino e, nascosti dietro un grande cespuglio parlavamo per ore intere. Parlavamo di noi, delle nostre paure, della mia famiglia e di quella di Rock, i cui genitori erano stati costretti ad affidarlo alla signora Castillo per motivi economici e poi si erano dimenticati di lui. Parlavamo dei nostri sogni, del nostro futuro. Volevamo diventare entrambi ballerini famosi e con i soldi comprare delle pozioni magiche che facessero diventare tutti buoni. Solo dopo un paio di anni arrivarono anche Denny, Anthony e Jenna, anche loro con storie simili alle nostre, anche loro senza un domani certo, anche loro che di notte fuggivano con noi per garantirsi almeno la libertà di sognare.
A quattordici anni oramai avevo conosciuto mio zio, che mi veniva a trovare circa due volte l’anno portando con se un sacco di cose buone da mangiare, ma ancora non poteva portarmi via di li. A dir la verità nemmeno io me ne volevo andare perché oramai avevo degli amici che mi facevano anche da famiglia, ma soprattutto avevo Rock.
Rock, l’unico che mi capiva davvero, che mi curava emotivamente, che mi portava la cena in camera di nascosto quando combinavo qualcosa che non andava bene alla signora Castillo, o che mi fasciava mani e piedi quando si spaccavano durante un lavoro troppo intenso o una giornata intera di ballo. Rock, l’unico ragazzo di cui a quindici anni mi sono innamorata!
Glielo dissi una sera in cui eravamo soli perché gli altri stavano facendo del lavoro extra di punizione, glielo dissi che il mio modo di guardarlo era cambiato, inconsapevole del fatto che il giorno dopo per noi sarebbe cambiato anche tutto il resto. Lui mi abbracciò forte rispondendomi  che mi voleva bene e che non ci saremo persi mai, e io gli credetti.
Il giorno dopo la signora Castillo ci annunciò che da li a un mese avremmo dovuto fare uno spettacolo importantissimo, solo noi grandi, e che quindi ci dovevamo impegnare al massimo. Aumentò i periodi di prova e diminuì  quelli di lavoro, ma soprattutto ci separò: Anthony, Jenna e Rock avrebbero ballato insieme, io e Denny avremmo fatto una bachata per conto nostro. Dovevamo trovare sintonia secondo lei per cui faceva in modo che per la maggior parte del tempo ci trovassimo insieme ai nostri partner, ma lontani dagli altri. Anche le prove si sarebbero fatte separatamente. A me parve una notizia terribile. Non sapevo cosa avrebbe fatto Rock, ne cosa ne pensava. Incrociai i suoi occhi e vi lessi tristezza.
I primi giorni riuscivamo a vederci solo la sera nel nostro angolo di giardino e  raramente ci incontravamo durante il giorno, ma quando succedeva incontravo il suo sguardo rassicurante e mi sentivo meglio. Capitava di incontrarci nei corridoi ed  era spontaneo cercarci con gli occhi e sorriderci. Lo facevamo ogni volta.
Dopo qualche giorno però notai un enorme cambiamento in lui. Era più serio, duro e scostato con me. non mi cercava più, mi parlava a mala pena e d evitava il mio sguardo. Iniziò a scendere la sera solo per dirci che loro erano stanchi e non sarebbero venuti. Ed io restavo ore intere sola con Denny, che si rivelò un ottimo amico, abbracciati a dirci parole dolci e a confidarci i nostri segreti, tra cui quello per cui lui era fortemente attratto da Anthony. Successivamente Rock e gli altri non si fecero più vedere e iniziarono ad evitarci come la peste. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, il perché di quell’atteggiamento. Lacrime calde scendevano sulle mie guance tutte le volte che aspettavo Rock nel nostro solito posto in giardino per ore intere e non lo vedevo arrivare mai.
Rock, il mio migliore amico, la mia famiglia, la mia speranza, ed ora anche il mio amore, mi aveva abbandonato portandosi dietro tutto ciò che era per me. Mi ritrovai nuovamente sola come tanti anni prima, con un enorme senso di vuoto da colmare. Certo c’era Denny, e gli volevo un bene dell’anima, ma semplicemente, non era Rock!
Riuscii a sopportare tutto ciò fino alla sera della mia fuga, quando anche l’ultimo barlume di speranza scomparì.
Era notte fonda. Io e Denny stavamo tornando in camera dopo averli aspettati fino a mezzanotte e mezza. Per le scale sentimmo la risata di Jenna e altre due voci maschili. Ci affacciammo restando nascosti dietro il muro e ciò che vidi fece frantumare letteralmente il mio cuore. Jenna li abbracciava entrambi e tutti e tre ridevano. Poi lei iniziò a baciare Anthony sulle labbra, un bacio vero, ma Rock non la lasciava ancora. Jenna si staccò e baciò anche lui nello stesso modo. Poi prese le loro mani libere e se le mise sul seno. Iniziarono a toccarla in tutti i modi possibili e lei se lo faceva fare. Nello stupore, nemmeno mi accorsi di essere scivolata fuori dal nascondiglio, fin quando loro non si fermarono a guardarmi. Un sorriso maligno si dipinse sul volto di Jenna che poi disse: “Ragazzi questa sera ho voglia di divertirmi un po’… andiamo in camera mia!” prese la mano di entrambi e si diresse verso la sua stanza, Anthony la seguì eccitato, mentre Rock si fece scorrere le sue dita sul braccio e sulla mano, ma restò li a guardarmi. Per un attimo interminabile ci fissammo negli occhi. Il suo sguardo riluttante era colmo di un sentimento che non riuscivo a leggere, mentre il mio era già velato di lacrime. Si girò e la seguì.
Solo dopo mi venne in mente che forse lui mi guardava con pietà. Per la prima volta con lui, ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un estraneo. Forse fu questo a farmi maggiormente male.
In quel momento Denny mi abbracciò in silenzio e mi portò via di li, verso la mia di camera. Non piansi, non parlai, non mi staccai da lui per un tempo che mi parve interminabile. Non riuscivo a spiegarmi come avevano potuto fare una cosa del genere. Non riuscivo a capire dove avevo sbagliato. Mi incolpai perché non ero come Jenna, sbarazzina e ribelle, perché io non avrei mai permesso alle mani di due uomini di toccarmi in quel modo. Forse per questo Rock non mi voleva, forse ora che era cresciuto e aveva istinti carnali, da uomo, la sua piccola Larhette non sarebbe stata capace di gestirli.
Forse furono questi pensieri a far nascere in me l’idea peggiore che potessi mai partorire: dovevo provvedere per un domani, affinché nessun altro mi riservasse quello sguardo.
“ Sono un’egoista Denny, ma devo chiederti una cosa, sei l’unica persona che mi è rimasta: fa l’amore con me Denny!”chiesi con un fil di voce nascosta nel suo collo.
“Cosa?” mi rispose lui stranito
“Voglio sapere per quale motivo lui ha preferito tutto questo a me, voglio imparare a farlo per un futuro, per evitare che qualcun altro scappi da me. Mi fido di te, so che mi porterai rispetto e per questo  se puoi, se vuoi, ti chiedo di immaginare di stare con Anthony e fare l’amore con me, ti chiedo di mostrarmi cosa vuol dire farlo. Mi voglio donare a te.”
“Larhette, sei una persona straordinaria” mi disse lui serio dopo un attimo di silenzio “non voglio assolutamente che pensi che lui si sia allontanato per te, non è colpa tua, non lo pensare assolutamente! Comunque, se ti farà sentire meglio, verrò a letto con te Larhette, ma non penserò ad Anthony. Sarò con te in tutto e per tutto!” era riluttante, lo vedevo, ma in quel momento era ciò che sentivo di fare.
Le mie labbra tornarono a sorridere, ma con aria scettica dissi “ Davvero non penserai a lui?”
Anthony rise  “ Forse un pochino!” la risata uscì spontanea dalle mie labbra prima di abbracciarlo.
E fu così che in quel posto ci lasciai anche la mia verginità. Ma non me ne pentii. Mai.
Dopo aver fatto l’amore con Denny, riempii uno zainetto con le mie cose e mi diressi in punta dei piedi verso il portone. Lo aprii in silenzio e proprio come tanti anni prima, cominciai a correre, correre fino a finire il fiato, correre lontano fino a quando non crollai a terra in preda a dolori lancinanti.
 
“MAMAAAAAA! MAMAAAAA!” continuavo a correre verso casa, con  il fiatone e i battiti accelerati che mi rimbombavano nelle orecchie. Non vedevo l’ora di rivedere mia madre al rientro dal lavoro. Ero una bambina di sei anni e avevo un ottimo rapporto con lei. La consideravo la donna più bella del mondo, con i suoi capelli lunghi dai riccioli definiti e i suoi occhioni neri.
Tutti i giorni si alzava all’alba e prendeva il primo autobus della mattina per andare a lavoro, nella casa di una vecchia signora bianca, in cui puliva, cucinava e badava ai suoi figli. Lo faceva per me, per farmi mangiare e andare a scuola, anche se guadagnava una miseria.
Nel frattempo io restavo a casa e, per quanto potevo, cercavo di farla contenta rassettando e cucinando a volte una minestra calda. Mio padre non c’era quasi mai, troppo impegnato a spendere i soldi che mamma guadagnava in alcol e sigarette. Tornava solo la sera tardi. Ubriaco.
Spesso la mia vicina di casa mi accudiva, insieme a sua figlia Lena.
Quando si avvicinavano le cinque del pomeriggio, tutti i giorni mi dirigevo verso la fermata del bus, a mezzo isolato di distanza, sicura che di li a poco avrei rivisto la mamma. Poi insieme tornavamo a casa e, dopo cena, ci stendevamo sul letto. Passavo ore ad ascoltare le sue storie! Mi parlava della sua infanzia e del nostro paese d’origine, L’Avana, di quando papà era un bel ragazzo gentile ed educato, di come invece era cambiato quando ci trasferimmo qui nel Bronx. Io avevo solo sei mesi e lui tanti problemi, da non riuscire più a controllarsi.
A volte vedevo qualche livido sulle forti braccia della mamma, a volte sul volto. Sapevo che la picchiava, lo avevo sentito, ma non ebbi mai il coraggio di parlarne. Quel giorno avevo fatto tardi per giocare con Lena ed ero corsa fino alla fermata dell’autobus, per poi rendermi conto di non potercela fare. Quindi rigirai e mi misi a correre verso casa.
 “Mama, lo siento, fui a casa Lena!” (Mamma, scusami ho accompagnato a casa Lena) dissi entrando, appoggiandomi alla porta per prendere aria. Non mi accorsi dei rumori che provenivano dall’interno della casa.
“LURIDA PUTTANA!” l’urlo di mio padre, proveniente dalla camera da letto mi gelò il sangue. Corsi fino alla stanza, poi sbirciai dentro. La scena che mi si presentò davanti mi lasciò sconvolta: mio padre, ubriaco come al solito stava picchiando la mamma, con il manico della scopa, quello di ferro. La donna era già priva di sensi, accasciata a terra con la faccia ricoperta di sangue e quell’uomo non voleva smettere di picchiarla!
“No! NO! Papà! BASTAAAAA!” urlai correndo tra loro, ma con uno spintone lui mi ricacciò indietro facendomi sbattere la testa sul montante della porta.
Ci misi qualche secondo a realizzare ciò che stava succedendo, ma quando lo feci mi alzai in punta dei piedi e iniziai a correre, ignorando il rivolo di sangue che scendeva dalla fronte. Corsi fino a quando i polmoni non iniziarono a bruciare, attraversando strade, parchi, negozi, fino a quando non lessi a fatica la parola “Police” in azzurro, sulla facciata di un edificio completamente bianco. Entrai sempre correndo fino ad arrivare agli uffici e, con tutta la voce che avevo in gola gridai “MIA MAMMA E’ MORTA PERCHE’ PAPA’ L’HA UCCISA!” prima di finire a terra svenuta.
 
Mi risvegliai qualche giorno dopo in una stanza d’ospedale. Un poliziotto stava parlando ai piedi del letto con una strana donna: aveva capelli dorati corti, un rossetto talmente rosso da risultare accecante, uguale allo smalto sulle unghie delle mani, che stringevano in grembo una cartellina bianca. Non era una dottoressa perché non aveva il camice, ma un sobrio tailleur grigio chiaro che risaltava sul suo fisico asciutto e sulla sua carnagione ambrata come la mia.
Qualche giorno dopo mi spiegarono che la mamma era morta come pensavo e che il papà era stato arrestato. Io sarei dovuta andare in un orfanotrofio, ma mio zio, che al momento si trovava nel mio paese natale dall’altra parte dell’oceano, aveva contattato una signora che si sarebbe presa cura di me fino al suo arrivo. Non voleva mandarmi in un orfanotrofio perché lui ci era cresciuto e sapeva bene cosa succedeva li dentro, come trattavano i bambini e come poi parecchi di loro finivano in mezzo ad una strada a spacciare droga.
Fu la stessa signora che quel giorno parlava con il poliziotto che mi venne a prendere e mi portò nella sua scuola di ballo, che mi insegnò la tradizione cubana e la salsa, che mi salvò la vita e nello stesso tempo mi condannò ad anni di doveri senza diritti: la signora Maria Conchita Castillo. Il suo era un enorme edificio a più piani in cui venivano ospitati bambini che in qualche modo erano rimasti soli. Veniva insegnato loro a studiare, lavorare e ballare, tutto ad un unico scopo, far guadagnare alla signora Castillo un bel gruzzoletto per i suoi bellissimi spettacoli, famosi e rinomati tra la gente. In cambio lei offriva buon cibo e un tetto sulla testa che, in certi casi, fa un bel po’ comodo, nonché una discreta istruzione.
Quando arrivai alla sua scuola mi affidò a un bambino di 8 anni che si atteggiava a capo e che per questo mi faceva un po’ sorridere, finalmente dopo giorni di pianto passati in una sorta di limbo. Aveva gli occhi più belli del mondo, pensai, e la pelle colorata come la cioccolata, quella che solleticava il palato e faceva ridere. E così feci. Dopo tutto quello che era successo, nonostante tutte le mie paure, appena rimasi sola con quel bambino scoppiai a ridere, piegandomi a metà sul pavimento.
“Te sei mezza matta!” mi disse scettico il bambino, guardandomi con due occhi spalancati. Poi si accucciò porgendomi una mano e sussurrandomi all’orecchio “Tanto lo so che hai paura piccola Larhette, ma non ti preoccupare, ci sono io adesso!” e poi a voce più alta “mi chiamo Rock! Vieni a vedere questo posto?”
Sorrisi di cuore e lo seguii per tutto il fabbricato, prestando attenzione a tutto ciò che diceva. C’erano delle camere e altri bambini come noi, circa una quindicina, una mensa per mangiare tutti insieme, delle sale per studiare ballo e delle altre per imparare a leggere, scrivere, contare...avevamo degli orari e dei compiti stabiliti che dovevamo rispettare e una sola ora il pomeriggio per giocare o riposarci. Niente uscite, nessuna lamentela, solo studio e lavoro come pulire, lavare, ordinare, cucinare ecc ecc. e se non si faceva tutto per bene erano guai: lavoro extra, niente pasto, e quando proprio andava male, bacchettate sulle mani!
 
Riuscii a sopravvivere a quella prigione solo grazie a Rock. Diventammo inseparabili fin dal primo giorno. Giocavamo insieme durante l’ora di svago, ci proteggevamo a vicenda, ci donavamo il sostegno e l’affetto che mancava ad entrambi, ma soprattutto parlavamo. Rock era uno dei più grandi e affidabili tra i bambini, così la signora Castillo gli aveva assegnato il compito di chiudere a chiave la porta principale prima di andare a dormire. Doveva dare due mandate, ma Rock anziché darle nello stesso verso per inchiavare le dava una in un verso e l’altra nel verso opposto così che la porta rimaneva aperta garantendo sempre una via di fuga che lo faceva sentire più al sicuro. Almeno questo era quello che mi raccontava lui.
Diceva di aver sentito di un bambino morto bruciato all’interno di una casa in cui era scoppiato un incendio, perché la porta era stata inchiavata e si era probabilmente incastrata. Inoltre era una sorta di ribellione a quella vita cui eravamo costretti.
E una via di fuga lo era davvero per noi perché tutte le notti sgattaiolavamo fuori in giardino e, nascosti dietro un grande cespuglio parlavamo per ore intere. Parlavamo di noi, delle nostre paure, della mia famiglia e di quella di Rock, i cui genitori erano stati costretti ad affidarlo alla signora Castillo per motivi economici e poi si erano dimenticati di lui. Parlavamo dei nostri sogni, del nostro futuro. Volevamo diventare entrambi ballerini famosi e con i soldi comprare delle pozioni magiche che facessero diventare tutti buoni. Solo dopo un paio di anni arrivarono anche Denny, Anthony e Jenna, anche loro con storie simili alle nostre, anche loro senza un domani certo, anche loro che di notte fuggivano con noi per garantirsi almeno la libertà di sognare.
A quattordici anni oramai avevo conosciuto mio zio, che mi veniva a trovare circa due volte l’anno portando con se un sacco di cose buone da mangiare, ma ancora non poteva portarmi via di li. A dir la verità nemmeno io me ne volevo andare perché oramai avevo degli amici che mi facevano anche da famiglia, ma soprattutto avevo Rock.
Rock, l’unico che mi capiva davvero, che mi curava emotivamente, che mi portava la cena in camera di nascosto quando combinavo qualcosa che non andava bene alla signora Castillo, o che mi fasciava mani e piedi quando si spaccavano durante un lavoro troppo intenso o una giornata intera di ballo. Rock, l’unico ragazzo di cui a quindici anni mi sono innamorata!
Glielo dissi una sera in cui eravamo soli perché gli altri stavano facendo del lavoro extra di punizione, glielo dissi che il mio modo di guardarlo era cambiato, inconsapevole del fatto che il giorno dopo per noi sarebbe cambiato anche tutto il resto. Lui mi abbracciò forte rispondendomi  che mi voleva bene e che non ci saremo persi mai, e io gli credetti.
Il giorno dopo la signora Castillo ci annunciò che da li a un mese avremmo dovuto fare uno spettacolo importantissimo, solo noi grandi, e che quindi ci dovevamo impegnare al massimo. Aumentò i periodi di prova e diminuì  quelli di lavoro, ma soprattutto ci separò: Anthony, Jenna e Rock avrebbero ballato insieme, io e Denny avremmo fatto una bachata per conto nostro. Dovevamo trovare sintonia secondo lei per cui faceva in modo che per la maggior parte del tempo ci trovassimo insieme ai nostri partner, ma lontani dagli altri. Anche le prove si sarebbero fatte separatamente. A me parve una notizia terribile. Non sapevo cosa avrebbe fatto Rock, ne cosa ne pensava. Incrociai i suoi occhi e vi lessi tristezza.
I primi giorni riuscivamo a vederci solo la sera nel nostro angolo di giardino e  raramente ci incontravamo durante il giorno, ma quando succedeva incontravo il suo sguardo rassicurante e mi sentivo meglio. Capitava di incontrarci nei corridoi ed  era spontaneo cercarci con gli occhi e sorriderci. Lo facevamo ogni volta.
Dopo qualche giorno però notai un enorme cambiamento in lui. Era più serio, duro e scostato con me. non mi cercava più, mi parlava a mala pena e d evitava il mio sguardo. Iniziò a scendere la sera solo per dirci che loro erano stanchi e non sarebbero venuti. Ed io restavo ore intere sola con Denny, che si rivelò un ottimo amico, abbracciati a dirci parole dolci e a confidarci i nostri segreti, tra cui quello per cui lui era fortemente attratto da Anthony. Successivamente Rock e gli altri non si fecero più vedere e iniziarono ad evitarci come la peste. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, il perché di quell’atteggiamento. Lacrime calde scendevano sulle mie guance tutte le volte che aspettavo Rock nel nostro solito posto in giardino per ore intere e non lo vedevo arrivare mai.
Rock, il mio migliore amico, la mia famiglia, la mia speranza, ed ora anche il mio amore, mi aveva abbandonato portandosi dietro tutto ciò che era per me. Mi ritrovai nuovamente sola come tanti anni prima, con un enorme senso di vuoto da colmare. Certo c’era Denny, e gli volevo un bene dell’anima, ma semplicemente, non era Rock!
Riuscii a sopportare tutto ciò fino alla sera della mia fuga, quando anche l’ultimo barlume di speranza scomparì.
Era notte fonda. Io e Denny stavamo tornando in camera dopo averli aspettati fino a mezzanotte e mezza. Per le scale sentimmo la risata di Jenna e altre due voci maschili. Ci affacciammo restando nascosti dietro il muro e ciò che vidi fece frantumare letteralmente il mio cuore. Jenna li abbracciava entrambi e tutti e tre ridevano. Poi lei iniziò a baciare Anthony sulle labbra, un bacio vero, ma Rock non la lasciava ancora. Jenna si staccò e baciò anche lui nello stesso modo. Poi prese le loro mani libere e se le mise sul seno. Iniziarono a toccarla in tutti i modi possibili e lei se lo faceva fare. Nello stupore, nemmeno mi accorsi di essere scivolata fuori dal nascondiglio, fin quando loro non si fermarono a guardarmi. Un sorriso maligno si dipinse sul volto di Jenna che poi disse: “Ragazzi questa sera ho voglia di divertirmi un po’… andiamo in camera mia!” prese la mano di entrambi e si diresse verso la sua stanza, Anthony la seguì eccitato, mentre Rock si fece scorrere le sue dita sul braccio e sulla mano, ma restò li a guardarmi. Per un attimo interminabile ci fissammo negli occhi. Il suo sguardo riluttante era colmo di un sentimento che non riuscivo a leggere, mentre il mio era già velato di lacrime. Si girò e la seguì.
Solo dopo mi venne in mente che forse lui mi guardava con pietà. Per la prima volta con lui, ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un estraneo. Forse fu questo a farmi maggiormente male.
In quel momento Denny mi abbracciò in silenzio e mi portò via di li, verso la mia di camera. Non piansi, non parlai, non mi staccai da lui per un tempo che mi parve interminabile. Non riuscivo a spiegarmi come avevano potuto fare una cosa del genere. Non riuscivo a capire dove avevo sbagliato. Mi incolpai perché non ero come Jenna, sbarazzina e ribelle, perché io non avrei mai permesso alle mani di due uomini di toccarmi in quel modo. Forse per questo Rock non mi voleva, forse ora che era cresciuto e aveva istinti carnali, da uomo, la sua piccola Larhette non sarebbe stata capace di gestirli.
Forse furono questi pensieri a far nascere in me l’idea peggiore che potessi mai partorire: dovevo provvedere per un domani, affinché nessun altro mi riservasse quello sguardo.
“ Sono un’egoista Denny, ma devo chiederti una cosa, sei l’unica persona che mi è rimasta: fa l’amore con me Denny!”chiesi con un fil di voce nascosta nel suo collo.
“Cosa?” mi rispose lui stranito
“Voglio sapere per quale motivo lui ha preferito tutto questo a me, voglio imparare a farlo per un futuro, per evitare che qualcun altro scappi da me. Mi fido di te, so che mi porterai rispetto e per questo  se puoi, se vuoi, ti chiedo di immaginare di stare con Anthony e fare l’amore con me, ti chiedo di mostrarmi cosa vuol dire farlo. Mi voglio donare a te.”
“Larhette, sei una persona straordinaria” mi disse lui serio dopo un attimo di silenzio “non voglio assolutamente che pensi che lui si sia allontanato per te, non è colpa tua, non lo pensare assolutamente! Comunque, se ti farà sentire meglio, verrò a letto con te Larhette, ma non penserò ad Anthony. Sarò con te in tutto e per tutto!” era riluttante, lo vedevo, ma in quel momento era ciò che sentivo di fare.
Le mie labbra tornarono a sorridere, ma con aria scettica dissi “ Davvero non penserai a lui?”
Anthony rise  “ Forse un pochino!” la risata uscì spontanea dalle mie labbra prima di abbracciarlo.
E fu così che in quel posto ci lasciai anche la mia verginità. Ma non me ne pentii. Mai.
Dopo aver fatto l’amore con Denny, riempii uno zainetto con le mie cose e mi diressi in punta dei piedi verso il portone. Lo aprii in silenzio e proprio come tanti anni prima, cominciai a correre, correre fino a finire il fiato, correre lontano fino a quando non crollai a terra in preda a dolori lancinanti.
 
   
 
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