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Autore: Marty The Phantomess    17/05/2020    2 recensioni
Quando il dolore ci colpisce, tutto ciò che vorremmo fare è dimenticare.
Soprattutto quando, a ferirci, è la persona che amiamo di più.
Ran, però, non ha tempo per lasciarsi tutto alle spalle, perché l'unica cosa che può fare per salvare chi ama è chiedere aiuto proprio a lui, Shinichi.
Riusciranno a risolvere il mistero o sarà il conflitto tra loro a vincere?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eri Kisaki, Kogoro Mori, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Sonoko Suzuki | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Finalmente, ce l'ho fatta! Dopo non so nemmeno quanto tempo, sono riuscita a terminare questo mastodontico capitolo, in cui, sinceramente, non credevo avrei avuto molto da dire. E invece... basta ciance ora, però. Vi lascio al capitolo ed alla sua canzone, con l'unica richiesta di leggere il messaggio che sarà alla fine del testo. Buona lettura!
 
Canzone: Hold on to what you believe - Mumford and Sons 
 
Capitolo due: Testa a testa
_____________________
But hold on to what you believe
In the light
When the darkness has robbed you of all your sight
(Ma rimani attaccato a quel che credi
Nella luce
Quando l’oscurità ti ha privato della vista)
_____________________
Mancavano esattamente diciassette minuti e quarantasei secondi all’ora di pranzo dell’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive.
Non era per l’eccessiva fame che stava fissando le lancette blu dell’orologio appeso sopra la lavagna interattiva, però.
No, il vero motivo era assai meno superficiale di un bisogno dettato dall’istinto di sopravvivenza.
I suoi occhi calarono nuovamente sul professore di matematica, intento a sbracciare davanti ad un’equazione che stava bloccando la sua classe da un buon quarto d’ora, durante il quale aveva ripetuto più e più volte lo stesso infelice concetto fino ad alterarsi, sudando visibilmente per effetto delle temperature infernali, che vincevano persino la lieve brezza fornita dalle finestre in parte aperte alla sua destra.
L’insegnante cominciava a farle seriamente pena, poiché doveva prendere una pausa ogni minuto per resistere alla tentazione di attaccarsi alla bottiglietta d’acqua fresca conservata nella sua borsa.
Non era una cattiva persona, il signor Yasushi.
Al contrario, era uno dei membri più apprezzabili del corpo docente, vista la sua generosa disponibilità e la sua pazienza.
Era proprio per questo, forse, che i suoi allievi si divertivano a stuzzicarlo fino a fargli perdere la calma, come stava accadendo in quel momento.
Perché, a voler essere onesti, l’operazione che dovevano svolgere era semplicemente ridicola.
Anche lei, che con i numeri non brillava troppo, era stata capace di finirla in cinque minuti, perciò era palese che lo stessero prendendo in giro.
E dire che gli sarebbero bastati una decina di centimetri d’altezza in più per poter beccare gli alunni sghignazzanti in fondo all’aula.
Lei, che era seduta al centro, poteva udirli chiaramente, ma era ovvio che il poverino fosse troppo agitato ed accaldato per accorgersene, tant’è che iniziò a sventolarsi il volto scarno madido di sudore con la mano sinistra.
Se non avesse avuto altre cose per la testa, non ci avrebbe pensato su un istante di più e si sarebbe proposta per spiegarlo lei al posto suo.
Ma, quel lunedì, lei aveva ben altre faccende di cui occuparsi.
Ce n’era una in particolare che la stava martellando da quando erano cominciate le lezioni quella mattina.
Il suo capo ruotò leggermente verso destra, così che lei potesse tornare ad osservare il ragazzo che aveva incontrato il giorno precedente.
Shinichi occupava un posto accanto alle vetrate situato due banchi dietro di lei.
I raggi solari gli baciavano il profilo destro e, sebbene fossero scottanti come le fiamme dell’Inferno, lui non dava alcun segno di disagio né, d’altro canto, mostrava la stessa euforia della maggior parte dei presenti per la pausa imminente.
No, lui non faceva altro che leggere e scrivere forsennatamente da un quaderno ciano ad un taccuino nero con la schiena ed il collo piegati verso di essi.
Da quel che poteva scorgere attraverso i ciuffi mori che lambivano le pagine, la sua fronte era corrucciata, chiaro segnale che fosse perso in qualunque cosa stesse facendo.
Ad un occhio meno attento, sarebbe potuto sembrare che lui stesse diligentemente prendendo appunti.
Tuttavia, lei era sicura che così non fosse, soprattutto considerando che gli aveva visto fare e rifare le stesse cose per, oramai, cinque ore di fila, senza mai distrarsi.
Non che lo avesse fissato per tutto quel tempo per esserne certa, ovviamente, ma gli aveva rivolto un numero incalcolabile di occhiate, seriamente incuriosita (ed un po’ spaventata, se doveva ammetterlo) dal suo atteggiamento.
L’unica occasione in cui si era dedicato ad altro era stata quella in cui si era alzato per consegnare trionfalmente la sua ricerca di biologia, di una decina di pagine se non più, ad una stupitissima professoressa, la quale aveva ricevuto il compito di calcare un po’ la mano con lui, che non aveva mai ceduto, seppure avesse il doppio degli incarichi.
Aveva seguito l’intera scena con vivo interesse, sopprimendo quanto più potesse la soddisfazione per i suoi traguardi e per la sua rivincita.
Era la prima volta in cui era tornata a curarsi delle sue vicende scolastiche, avendo passato tre mesi a sentirsi solamente raccontare tutte le prove che aveva dovuto affrontare da alcune ragazze, tra quelle lì presenti, che gli andavano palesemente dietro e da cui si era spesso e volentieri allontanata.
Non per gelosia, sia chiaro, ma perché non voleva saperne più nulla di lui.
E, poi, era arrivata quella tragedia e suo padre era stato arrestato, come se la vita avesse deciso d’intervenire sulle sue scelte ed ecco che, volente o nolente, lei avrebbe dovuto per forza ricominciare a rapportarsi con lui.
Lui che, in quel momento, era impegnato ad annotare cose a lei ignote, sebbene, ne era certa, inerenti all’indagine.
Quest’ultima pareva averlo catturato abbastanza da averlo fatto svegliare trenta minuti prima, in modo che potesse giungere al liceo in un lasso di tempo di totale silenzio per proseguire con il suo lavoro.
Ran, che usualmente era la prima ad arrivare, aveva varcato la soglia e l’aveva trovato là, con il pugno sotto il mento, assorto e, apparentemente, in un’altra dimensione.
Era stata una situazione piuttosto imbarazzante per lei, quella.
Che avrebbe dovuto fare, salutarlo? Perché non se la sentiva affatto di farlo.
E non per incoerenza, no.
La vera ragione era che, per l’ennesima volta, al suo risveglio aveva percepito tutta la pesantezza del conflitto tra i suoi due più grandi desideri: averlo vicino e tenerlo alla larga.
Com’era possibile che convivessero due sentimenti tanto discordanti in un’unica entità, lei non ne aveva idea.
Le era capitato, di recente, di guardare una nuova serie tv abbastanza controversa, in cui Lucifero viveva sulla Terra e risolveva misteri assieme ad una graziosa ispettrice, di cui, com’era immaginabile, finiva per innamorarsi.
La donna, ovviamente, nonostante la verità fosse sotto il suo naso, si rifiutava di pensare che il suo amato collega potesse essere sul serio il Diavolo, fino a quando non lo sorprese con il suo vero volto.
La faccia di Ran a quella rivelazione era stata assolutamente unica, riconoscendo in Chloe, la poliziotta, se stessa, viste anche le somiglianze nel modo in cui entrambe erano venute a conoscenza della realtà.
Una realtà che, doveva riconoscerlo, avevano rinnegato, in fondo, per loro scelta, probabilmente perché troppo dolorosa da poter digerire.
Ebbene sì, anche lei aveva sempre avuto la verità in pugno, ma l’aveva nascosta in un remoto angolino della sua anima, facendosi comprare dagli escamotage del furbo ragazzo.
E pensare che, per un bel pezzo, li aveva smontati uno ad uno, improvvisandosi investigatrice e ricostruendo ogni sua singola mossa, senza mai tralasciare le ragguardevoli capacità di cui il suo sospettato era dotato e che gli avrebbero senz’altro permesso di escogitare chissà quali piani per convincerla della sua innocenza.
Per mesi e mesi, si era buttata in qualsiasi sorta di soluzione per provare che quello sveglissimo bambino che aveva in casa sua fosse realmente il suo amico d’infanzia.
Gli aveva persino rubato il telefono, andando contro ogni suo principio, quando quella, che sarebbe potuta passare per una stupida coincidenza, le aveva fatto scattare un nuovo campanello d’allarme.
Quella volta, adesso ne era sicura, era arrivata ad un passo dall’incastrarlo, ma ai tempi lui era stato assai più sveglio e pronto, tranquillizzandola con la banale condivisione del proprio numero di cellulare, a cui lei aveva abboccato felicemente.
Felicemente, perché nessuno vorrebbe mai capire di essere stato preso in giro da qualcuno per cui sarebbe letteralmente morto, specie quando quest’ultimo decide di farti il regalo che tanto agogni e ti dona il suo cuore, come aveva fatto lui a Londra.
Quello di cui lei non era al corrente allora, però, era che il suo dono non era affatto completo.
Al contrario, gli mancavano molti frammenti.
Così tanti che, ogni volta che si concedeva un secondo per studiarlo, si accorgeva più vividamente di aver ottenuto una scadente imitazione di quello che sarebbe voluto sembrare un cuore.
Per carità, il gesto era stato bellissimo e lei poteva sforzarsi di apprezzarlo per quello che voleva simboleggiare, ma non era la stessa cosa.
Come avrebbe potuto esserlo, quando lei gliene aveva dato uno vero ed intero, sforzandosi di ignorare le sue paure ed insicurezze, delle quali, tra l’altro, lui era consapevole al cento per cento?
Come avrebbe dovuto reagire lei, dunque, una volta scoperto quanto lui se ne fosse fregato, se non con il più vivo disappunto?
Era stata lucidità di quel ragionamento che l’aveva accompagnata fedelmente da quando tutto era crollato e, secondo essa, aveva agito, trattandolo duramente ogni singolo giorno, a partire dalle otto del mattino.
Ogni giorno, tranne quello.
Cosa l’aveva costretta a cambiare così repentinamente il suo punto di vista? Facile: lui.
Lui che, più di ventiquattro ore prima, l’aveva accolta e non le aveva negato il suo aiuto, avendo iniziato ad assimilare, magari, il suo gravissimo errore.
E, che a lei piacesse o meno, doveva ammettere che era stato terribile vederlo così ferito dalle sue parole.
Talmente terribile, che avrebbe voluto cancellare quelle brutte parole dalla scia dei suoi ricordi.
Se non l’aveva fatto, era stato esclusivamente grazie all’intervento del suo raziocinio che, dall’altro capo della corda, la stava tirando verso il modo di fare che aveva mantenuto fino a quel momento, rinfrescandole la memoria con alcune delle innumerevoli frottole che le aveva somministrato.
Ed eccolo lì, quel tira e molla che la stordiva e la metteva a disagio pure nell’atto comune di pronunciare un “Ciao”, cosa che non era assolutamente riuscita fare, alla fine.
E il fato era stato generoso abbastanza da fare in modo che Shinichi nemmeno si accorgesse della sua presenza, neanche quando i suoi passi avevano riecheggiato sul pavimento lucido a pochi metri lui.
Avrà scoperto qualcosa di interessante?, si chiese a quel proposito, mordicchiando distrattamente il tappo nero della sua penna.
Si era girata nuovamente verso la cattedra, ma era oramai distaccata da qualsiasi progresso i suoi compagni avessero compiuto verso la risoluzione dell’operazione matematica che non aveva smesso di far arrabbiare il povero uomo calvo davanti a lei, adesso concentrato nel reggersi allo schienale di legno della sua sedia per farsi forza.
Restavano due minuti al suono della campanella e lei si accorse di aver rimuginato per un quindici minuti, quasi certamente fissando quello che tutti consideravano il suo ragazzo.
Maledettamente fantastico!
Se qualcuno l’avesse colta sul fatto, ci sarebbe stato da ridere per evitare di far circolare inutili pettegolezzi.
Grazie al Cielo, la sua migliore amica non era con loro o sarebbe stato ancor più divertente tentare di spiegarlo a lei cosa stesse facendo, che aveva l’abilità incredibile di incendiarsi non appena Shinichi osava anche solo entrare per sbaglio nel suo campo visivo.
Ran aveva taciuto sul suo repentino cambio d’atteggiamento riguardo quel liceale che tanto aveva atteso, un po’ per salvaguardarsi dall’ondata di commiserazione che l’avrebbe sommersa ed un po’ per rispetto nei confronti dello stesso, che avrebbe comunque avuto il diritto di parlarne o meno, a seconda di come desiderasse.
Le uniche persone con cui aveva inevitabilmente dovuto condividere l’accaduto erano stati i suoi genitori e Sonoko, che era la sua confidente.
L’ereditiera, dopo aver appreso cosa fosse accaduto, aveva iniziato una specie di battaglia personale al diciassettenne che aveva avuto l’ardire di ferire la sua cara amica e non ci sarebbe stato niente che l’avrebbe fatta desistere dal pensar male di lui, a meno che Ran stessa non avesse ristabilito la pace per prima.
Siccome quell’opzione pareva alquanto lontana ancora, Sonoko si era avvalsa del diritto di rimanere in silenzio al suo cospetto, senza rinunciare a lanciargli qualche occhiataccia tanto per mostrargli chiaramente da quale lato pendesse il suo ago della bilancia, anche considerando che, nella loro cerchia, lui non era stato l’unico a tradire.
Per un attimo, nella sua testa apparve l’immagine di una loro coetanea dai capelli corti ed il fisico asciutto e la malinconia l’avvolse.
La figlia del detective amava quanto la sua adorata amica sapesse diventare protettiva, soprattutto con lei… ma possibile che provasse soltanto rancore?
Non sentiva anche lei la mancanza, se non di Shinichi con cui non faceva che battibeccare, almeno della loro compagna americana?
Lei ci rifletteva spesso, domandandosi se stesse bene, ovunque fosse.
Si erano dette addio freddamente con l’arrivo della Primavera e riconosceva di aver esagerato con lei, che si era scusata mille volte per aver taciuto su tutta la faccenda.
Il suo errore non poteva essere paragonato a quello del suo collega, perché, per quanto fossero entrate in confidenza, non aveva trascorso con loro lo stesso tempo ed era plausibile che preferisse tenere per sé una catena di avvenimenti tanto nefasti.
Ran sospirò, sentendo l’avvicinarsi di un’emicrania.
Aveva così tante cose nella mente che gestirle tutte era divenuto come tentare di addomesticare una tigre inferocita dalla fame.
La campanella, finalmente, trillò e lei se ne accorse soprattutto grazie agli scatti olimpici degli adolescenti attorno a lei, che, essendosi preparati chissà quando, si fiondarono verso l’uscita come falchi, lasciando lei ed il docente interdetti.
Si voltò per vedere se anche Shinichi se ne fosse già andato e trovò il suo posto inaspettatamente vuoto, a parte per il suo astuccio e la sua giacca blu rimasti lì senza il loro proprietario.
Cautamente, si alzò in piedi, stando attenta a sollevarsi senza far rumore e si concesse una boccata d’ossigeno per scacciare l’irremovibile pulsazione nelle sue tempie.
Yasushi, rassegnato di fronte a lei, si stava dedicando al riordinare i propri oggetti nella sua borsa di pelle rovinata dagli anni, sistemando la postazione per il collega dell’ora successiva.
Era una cortesia che non molti si prendevano la briga di fare e Ran abbozzò un sorrisetto, ruotando impercettibilmente le spalle per scioglierne i muscoli rigidi.
Diede anche lei una sistemata alle poche cose sparse sotto i suoi occhi e si avviò a seguire gli altri, trascurando completamente il suo pranzo, conservato accuratamente nella tasca più grande della sua cartella, per altre priorità.
Accennò un arrivederci al suo insegnante e si precipitò fuori ad ampie falcate, desiderando quanto più in fretta potesse il cortile del liceo, dove era certa si fosse recato l’incaricato di occuparsi delle indagini di suo padre.
Fuori, la giornata era ben più che adatta, per chi se lo fosse potuto permettere, per andare al mare: il sole irradiava ogni minuscolo pezzo dello spazio, riscaldando eccessivamente gli studenti sparsi qua e là nelle minuscole zone d’ombra, in cui la sofferenza, causata perlopiù dall’uniforme scolastica, non diminuiva poi molto.
Il venticello leggero, che ultimamente aveva fatto loro la grazia di manifestarsi di tanto in tanto, doveva essere anch’egli partito per luoghi più favorevoli, poiché le fronde degli alberi che decoravano il terreno recintato erano soffocantemente ferme.
L’arsura regnava sovrana, facendo scricchiolare la terra coperta qui e lì di spaccature sotto i suoi piedi, stretti dalle scarpe di tela per nulla adatte alla stagione.
Il suo breve viaggio proseguì, incurante dell’affascinante richiamo delle più fresche aule comuni all’interno delle mura bianche che ora stava costeggiando in certa di un posticino di sua conoscenza.
Il tragitto, che lei sapeva a memoria per tutte le volte che lo aveva ripetuto, la condusse oltre l’angolo sud dell’edificio, in uno spazietto sconosciuto ricavato in dodici metri quadrati, a voler essere ottimisti, il cui passaggio era troppo stretto per essere notato, se non dai più avventurosi o da coloro che non lo avevano mai frequentato in inverno, quando avrebbe potuto fungere da congelatore esterno.
L’atleta strisciò contro le pareti di questo, sbucando in quello che sarebbe potuto essere definito un piccolo paradiso terrestre in quel momento della giornata, composto semplicemente da una panchina (soprannominata “Delle deduzioni”) e da una giovane quercia che vegliava su di essa, difendendola da quelle snervanti temperature.
E fu proprio lì che lo trovò, come si era immaginata, abbarbicato sullo schienale di metallo della panchetta, con le gambe allungate che finivano sulla seduta di legno chiaro, su cui era poggiato anche uno dei quaderni che gli aveva visto utilizzare.
Il secondo era posato sulle sue cosce ed i suoi occhi blu stavano mangiando quello al posto di una vaschetta di riso e la sua mano destra, invece di stringere una forchetta, avviluppava una stilografica argentata, mentre l’altra gli massaggiava il collo rivolto scomodamente verso il basso.
Nonostante la frescura fornita dalla chioma verde dell’albero, il calore non cessava di essere elevato ed il sudore gli incollava la camicia bianca alla pelle delle braccia allenate e del petto, così come stava facendo con lei.
Gli si avvicinò lentamente con il favore dei ciuffi d’erba che spuntavano a chiazze ed attutivano il suono dei suoi movimenti, non volendo coglierlo di sorpresa.
Aveva come l’impressione che, sobbalzando, si sarebbe potuto ribaltare, tanto occupato appariva.
Si mise a circa un metro da lui, incrociando le braccia, sollevandosi sulle punte per provare a scorgere le sue annotazioni che riempivano una manciata di pagine.
“Hai finito di spiarmi?”
La sua voce di rimprovero la fece sussultare e lei s’interruppe fulmineamente, arrossendo e rivolgendo il proprio sguardo su di lui che continuava imperterrito la sua attività.
“Non ti stavo spiando.”
Una risposta scontata e quantomeno sciocca, visto che lei stessa aveva temuto di aver inspirato in altri lo stesso dubbio.
A quel punto, lui s’interruppe momentaneamente e si raddrizzò, rivolgendole un’occhiata scettica coronata da sopracciglia arcuate.
“Buffo, perché è tutta la giornata che mi fissi.” ribatté, intrecciando le proprie dita sulla superficie del foglio a righe parzialmente intonso.
Lei parve incredula.
“Mi hai vista?” lo interrogò con un tono che tradiva tutto il suo sbigottimento.
“Quindi lo ammetti?” la sfidò, sfoggiando un ghigno stranamente irritato.
Lei gli rivolse un’occhiataccia, capendo di essere stata ingannata e si strinse gli arti superiori contro il petto con maggiore forza.
“Non dirmi che ti sei ridotto a sparare a casaccio, adesso.” lo rimproverò, alzando la voce per sovrastare alcuni schiamazzi provenienti da altri studenti, che, da quanto si riusciva a sentire, stavano litigando per un voto ingiusto, disturbando la quiete religiosa di quell’anfratto.
Era decisamente meglio tenergli testa stando al suo stesso livello, rifletté.
L’azione disperata ed eccessivamente drammatica in cui si era lanciata le aveva lasciato il segno in molti sensi, primo fra tutti con i graffi molto superficiali sulle ginocchia, che erano guariti già dopo poche ore.
Era stato sgradevole, doversi prostrare davanti a qualcuno con cui aveva condiviso praticamente tutta la vita e con cui non si era mai fatta problemi a discutere apertamente.
Ma le cose erano cambiate. Radicalmente.
E, sebbene avesse avvertito il disagio del suo compagno come se fosse stato il suo nel vederla in ginocchio, aveva provato un altrettanto potente bisogno di accertarsi che lui non potesse negarle la sua assistenza.
Era stato uno scendere a compromessi con il suo orgoglio, dopotutto ed era durato un soffio, perché non si sarebbe pentita tanto presto di circa tre quarti degli aggettivi che gli aveva affibbiato.
“Non potrei mai. In verità, ti ho colta con le mani nel sacco in un paio di occasioni, senza contare poco fa. Da qui ho dedotto, azzardando un po’ magari, che l’avessi fatto più volte.” chiarì, sostenendo il suo sguardo severo con uno frustrato.
Fu allora che la ragazza notò la rigidità della sua muscolatura, con i bicipiti sottolineati dalla stoffa umida e la mandibola contratta.
Perfino le sue mani rivelavano qualcosa di profondamente sbagliato, con le ossa fini in risalto assieme alle venature bluastre.
“Effettivamente, eri così indaffarato con qualsiasi cosa tu stessi appuntando, che mi è venuto il dubbio che potessi aver scoperto qualcosa sul caso. È così?”
Alle sue parole, l’investigatore sbuffò come un toro pronto alla carica, iniziando a tamburellare le lunghe dita sulla carta.
L’energia negativa che trasudava la costrinse a muoversi sul posto con fare nervoso.
“Vuoi sapere se ho scoperto qualcosa? Ebbene, sì. Ho scoperto che Niigata è piena d’incompetenti!” esclamò nella sua direzione, assicurandosi che nessuno potesse ascoltarli e sbattendo il pugno sinistro contro la lamiera su cui era appollaiato.
Lei spalancò le palpebre a quell’atteggiamento velenoso ed il suo muscolo cardiaco prese a pompare sangue più velocemente.
“C-che significa?” balbettò, preoccupata.
“Significa, Ran, che ho passato circa tredici ore della mia vita a spulciare fra giornali e telegiornali per avere quantomeno un’idea generale di che accidenti fosse capitato, ottenendo, invece, a fatica i nomi degli altri sette presenti quella sera.” le rivelò, arrestandosi giusto per riprendere fiato e per sfogliare con foga il quadernetto dalla copertina nera, di cui le mostrò per una decina di secondi una sezione coperta di dati anagrafici leggermente distinguibili, allungandogliela verso il viso per quanto potesse con il braccio, prima di ritirarla per poterla consultare.
“Ho iniziato ieri, partendo dai notiziari nazionali, che, solitamente, degli omicidi di minore portata non s’interessano molto. Be’, mi fa piacere poter comunicare di essere stato ottimista, visto che non ho trovato pressoché nulla, se non le solite maledette generalità. Chiaramente, non mi sono scoraggiato e mi sono buttato suoi quotidiani locali, aspettandomi colonne su colonne, perché, ammettiamolo, è la cosa più interessante che sia capitata a quella città negli ultimi dieci anni…” borbottò furioso, respirando affannosamente.
“… e scommetto che sei stato deluso anche da quelli.” concluse lei, raddrizzando l’avambraccio sinistro per poter fare pressione con indice e medio lì dove le pulsazioni si erano fatte più aggressive.
Il movimento non sfuggì a Shinichi, il quale, dopo averlo interpretato, inspirò ed espirò profondamente per darsi una calmata, tappandosi la bocca con le mani giunte, sorrette dai gomiti ancorati alle sue ginocchia.
Si metteva in quella maniera spesso quando doveva ragionare, ma non l’aveva mai fatto con quel furore addosso.
“Esatto. A questo punto, non comprendo se i giornalisti di Niigata siano tutti degli idioti o se gli sia stato impedito di fare il loro lavoro con cura, perché, te lo assicuro, quello che ho trovato tra quelle righe è semplicemente inaccettabile. Leggerli o meno non avrebbe fatto alcuna differenza.” si sfogò lui a voce bassa per non peggiorare il suo mal di testa.
La karateka arretrò, andando a finire con le spalle al muro per sorreggersi, rabbrividendo a contatto con il cemento freddo.
Le sue affermazioni non volevano dire niente di buono e lei sarebbe stata pronta a scommetterci.
Era il suo sesto senso a suggerirglielo e, disgraziatamente, raramente sbagliava.
“Devo parlare con tuo padre, Ran.” le spiegò con molta calma, sebbene sapesse che la richiesta fosse piuttosto scellerata e da potenziali suicidi.
Difatti, la castana a pochi metri da lui non si mise a ridere giusto per fargli un favore,.
Ci aveva azzeccato, come volevasi dimostrare.
L’ex calciatore avrebbe rischiato grosso, tentando quell’impresa per veri impavidi.
Kogoro Mouri non era un uomo violento e su questo non ci pioveva, altrimenti non sarebbero neppure stati lì a scervellarsi per convincere la polizia della sua innocenza.
Nonostante la sua vastissima esperienza con il judo e le armi da fuoco, infatti, ripugnava qualsiasi forma di violenza e, in quei pochi casi in cui se ne era avvalso, era stato per fare del bene.
Tuttavia, Shinichi rasentava la sola eccezione ai suoi sani principi e Dio solo sapeva che cosa sarebbe stato in grado di fargli, se gli fosse capitato tra le mani.
Il motivo di quell’astio così pericoloso era il suo cuore spezzato, anche se si sarebbe fatto ammazzare prima di ammetterlo.
Lui, che restava pur sempre un padre prima di ogni cosa, aveva nutrito l’affetto più puro per quel bambino che si era involontariamente trovato ad accogliere e, per un istante, si era illuso che fosse stimato a sua volta da lui.
Ma anche quella era stata una menzogna, probabilmente, almeno dal suo punto di vista.
Un’offesa imperdonabile, aveva sibilato con un bicchiere colmo di birra pronto a consolarlo.
Non era una novità che affogasse i suoi dispiacere nell’alcool, ma, in una tale situazione, quell’abitudine doveva avere un gusto decisamente diverso, più spiacevole.
Un sapore molto simile a quello delle settimane successive alla sua separazione, il periodo più buio della sua esistenza.
Non doveva essere piacevole risentirlo, specie quando il colpevole di quell’infelicità era un estraneo.
Dunque, Shinichi avrebbe fatto meglio a prepararsi di un qualche scudo, figurativo o meno, parecchio resistente, se davvero avesse avuto l’audacia di affrontarlo.
“Papà ha letteralmente bandito il tuo nome da casa nostra e tu credi seriamente che accetterà di ascoltarti ed addirittura avere una conversazione con te?! Devi essere impazzito.” dichiarò, in parte risentita per i danni che aveva fatto ed in parte abbattuta dal contesto pesante, che andava ad ingarbugliare una matassa già fittamente intricata.
Lui sbuffò, mentre un brivido gli scorse lungo la colonna vertebrale per un minimo di comprensibile apprensione.
“Non sono così presuntuoso da fare la parte del salvatore del pianeta Terra, che deve essere accolto a braccia aperte dall’umile gentiluomo in pericolo! Se mi darai il permesso, gli comunicherò che sono stato scelto da te e, presumo, dalla signora Kisaki per risolvere il mistero. Di voi si fiderà, mi auguro.”
Il piano che le aveva illustrato sul filo di un esaurimento nervoso, provocatogli più dalla scandalosa condotta degli enti d’informazione che dagli ostacoli che avrebbe incontrato, le parve sufficientemente convincente, sebbene la testardaggine e l’impulsività di suo padre la facessero rimanere scettica.
Con il dorso della mano destra si asciugò una gocciolina di sudore che si era posata sul suo zigomo, valutando tra sé e sé ogni possibile colpo di testa del genitore e regalandosi del tempo per placare il dolore dentro il suo cranio.
Com’è divertente vederlo tanto modesto, lui che in passato si riteneva non meno abile di un supereroe!, ridacchiò lei, senza, però, emettere alcun suono.
Forse, non era del tutto senza speranza, sia come stratega sia come essere umano.
Si ricompose quel tanto che bastò a farla scostare dal suo appoggio per ritrovare un proprio equilibrio.
“Me lo auguro anch’io. Se dovesse rifiutarsi d’incontrarti, puoi provare a farmi uno squillo e mi precipiterò là, ma non ti garantisco nulla.” gli propose, spolverando la sua gonna blu su cui si era depositata della polvere grigiastra.
Lui seguì ogni sua azione con dolcezza, trovandola parecchio carina con l'usuale camicetta bianca e la cravatta verde.
Anche la sua nobiltà d’animo era adorabile, con il suo offrirsi in qualità di rinforzo, pur con un’emicrania che le sarebbe durata almeno fino a sera, come succedeva regolarmente.
“Stai tranquilla. Ora telefonerò all’ispettore Megure e gli domanderò di prenotarmi un colloquio, senza specificare a tuo padre con chi dovrà averlo.” la rinfrancò, tirando fuori da una delle tasche il suo cellulare dal retro color corallo.
“Perché dovresti telefonargli?”
“Perché sono minorenne e non potrei visitare il centro di detenzione da solo.” rispose, passandosi il telefono da un lato all’altro per girare la maniche corte della camicia ancora più in alto con il fine di rinfrescarsi un po’ i bicipiti inumiditi.
“Ah, giusto…” bisbigliò lei, rabbuiandosi e stringendosi il polso sinistro con la mano.
In tutto il turbinio di accadimenti, aveva volutamente rimosso il trasferimento di Kogoro dalla centrale, in cui erano riusciti a trattenerlo per più delle settantadue ore previste con vari stratagemmi, al carcere della città.
Non riusciva a sopportare che lo stessero trattando come un criminale, quando era lui che aveva salvato la polizia in più di un’occasione, anche se solo apparentemente.
Con quale crudeltà, poi, avevano potuto rinchiuderlo in un luogo dove sarebbe stato circondato da persone pronte a vendicarsi?
Com’era permissibile gettare un uomo in pasto a quella fetta di detenuti che erano finita lì dentro grazie a lui?
Lei e sua madre, dal giorno precedente, vivevano in una specie di ansia costante che potessero comunicare loro qualche tragedia, soprattutto contando che stava frequentando gli stessi posti degli altri prigionieri ed alle stesse ore, anche se controllato costantemente per far calare il rischio che potesse accadergli qualcosa.
Inizialmente, si era sfogata su Shinichi anche per quello, incolpandolo dei pericoli che suo padre avrebbe potuto correre per degli assassini che aveva, in realtà, fatto catturare lui.
Fortunatamente, si era tenuta per sé quel letale mix di terrore e furore, riuscendo a processarlo con qualche ora di razionale meditazione, che l’avevano fatta tornare con i piedi per terra.
Era giusto che certa gente stesse là per gli atti indicibili che avevano commesso.
Era Kogoro che non sarebbe dovuto capitare con loro, ma con questo Shinichi c’entrava relativamente.
All’improvviso, il calpestio della ghiaia sparsa irregolarmente attorno a loro spezzò la sua smorfia e gli occhi dei due conversatori scattarono verso l’angusto spazio da cui erano arrivati.
Una ragazza dai capelli corti e biondi li stava fissando confusa, squadrando prima lui e successivamente lei.
Aveva il fiato corto e il viso rossastro per l’afa ed aveva evidentemente voglia di tornare a rifugiarsi al fresco il più presto possibile.
“Ran, sei qui. Ti ho cercata ovunque.” si sforzò di dichiarare, escludendo volutamente l’altro dalle sue considerazioni.
“Hai ragione, Sonoko. Perdonami, avrei dovuto avvisarti.” si scusò la sua amica, sorridendole in preda ai sensi di colpa, andando a toccarle una spalla per imprimere significato alle sue parole.
Parzialmente coperta da lei, la giovane fulminò con un’occhiata la loro vecchia conoscenza, che esaminava incuriosito la scena.
“Che vuole da te, quello?” le sussurrò in un orecchio, occultando le proprie labbra con il palmo della sua mano.
“Ciao anche a te, Suzuki!” s’intromise lui, rivolgendole un’espressione di scherno che la fece sussultare.
Lei ne fece una molto simile, competendo con lui per chi sembrasse più ostile tra i due.
Era qualcosa che facevano spessissimo da quando si erano conosciuti, facendo scintille con la contrapposizione delle loro personalità incompatibili, che li facevano battibeccare ad ogni minima sciocchezza.
Solo che stavolta lui era l’unico che stesse agendo in onore di quell’antico spirito, perché l’antipatia della sua compagna nei suoi riguardi era più concreta che mai, come mostrava anche la posa autoritaria con le mani sui fianchi che aveva assunto.
La karateka le afferrò delicatamente l’incavo del gomito, bloccandola prima che potesse avanzare ulteriormente contro di lui.
Sonoko rispettò i confini imposti, ma non rimase zitta, usando il tono più aggressivo che le riuscisse.
“Qualcuno ti ha interpellato, idiota?!”
La bruna di fronte a lei strinse leggermente la presa, incitandola a smetterla.
“Sonoko…” la richiamò a voce bassa, scuotendo il capo una volta ottenuta la sua attenzione.
Shinichi parve colpito dall’odio che quella persona, in qualche modo a lui cara, gli stava gettando addosso ed istintivamente stritolò il suo Samsung tra le dita, mentre faticava a reggere il contatto visivo con l’inviperita ereditiera, che si era rimessa a fissarlo.
“Andiamo via, così ti spiego. Ti prego…” ritentò, supplicandola di avere fiducia in lei con voce stanca.
La sua coetanea, per fare la sua volontà, mollò l’osso a quel punto, sciogliendosi quel tanto che fu sufficiente a farle calare le braccia, continuando, tuttavia, a guardare lui per qualche altro secondo, volendo proteggere la sua migliore amica in qualche maniera da lui, che assisteva impotente a quel comportamento.
“Ti aspetterò davanti all’ingresso.” sussurrò amichevolmente la bionda, facendole l’occhiolino prima di abbandonarli senza pensarci due volte, allentando febbrilmente la cravatta annodata troppo strettamente attorno al suo colletto.
La videro sparire nella fessura con la stessa facilità con cui ne era scappata, anche se con un fastidio più acuto disegnato sul volto per chi aveva incontrato.
Ran si carezzò la fronte, tesa e lievemente imbarazzata dalla scenata.
Ah, che cosa magnifica!
Ci sarebbe mancato solo che Shinichi arrivasse a credere che era stata lei a fare il lavaggio del cervello a Sonoko contro di lui.
La loro collaborazione, già appesa ad un filo, non abbisognava certamente di pesi aggiuntivi che avrebbe potuto comprometterla del tutto.
Eppure, non avrebbe rimproverato la ragazza per niente al mondo, poiché, oltre ad essere stata assai premurosa nei suoi confronti, era anche legittimo che facesse valere i suoi di diritti, dato che gli sbagli del diciassettenne avevano colpito direttamente anche lei, seppure con risonanza minore.
“Credo sia il caso che la raggiunga.” asserì lei, senza neppure voltarsi per non compiere decisioni di cui si sarebbe senz’altro pentita, in una maniera od in un’altra.
Shinichi assentì, distraendosi con la ricerca di un numero nella sua sparuta rubrica, ignorando per quanto potesse la sgradevole sensazione che gli aveva provocato la discussione.
Il lavoro.
Doveva focalizzarsi sul lavoro e non autocommiserarsi.
Lo aveva fatto per molto tempo ed era il momento d’invertire rotta, se voleva ricostruire la sua vita, un mattoncino alla volta.
La priorità doveva restare sul suo fondamentale incarico, tanto per cominciare.
Sarebbe stato il dannatissimo usuraio di se stesso, riscuotendo i propri debiti con tanto d’interessi, spremendosi come un limone e sputando sangue, se necessario, pur di mostrare che sarebbe stato grato in eterno per ciò che era stato fatto per lui.
Se, anche da agonizzante, fosse stato respinto, allora avrebbe potuto rintanarsi per piangersi addosso di nuovo.
“Fammi sapere, per favore, Shinichi. Ci vediamo in classe.” proferì frettolosamente, girandosi verso di lui con il pollice alzato, a cui lui rispose annuendo brevemente, eccessivamente concentrato sui suoi obbiettivi per badare a quel che stava facendo.
Prima che lei si fosse dileguata del tutto, lui aveva già condotto il proprio telefono all’orecchio, attendendo pazientemente che qualcuno gli rispondesse.
Risuonarono quattro o cinque squilli, durante i quali prese qualche rinvigorente respiro profondo, annusando il profumo emanato dal muschio sparso sul tronco a pochi centimetri da lui, tipico ingrediente di svariate fragranze, sia maschili che femminili.
Allo stato naturale, isolato da tutti gli agenti chimici di cui le industrie lo coprivano, risultava persino più gradevole, anche se più pungente.
“Pronto?” gracchiò qualcuno all’altro capo della chiamata al sesto trillo.
Shinichi raccolse la sua biro, utilizzandola per tenersi attivo, picchiettando ritmicamente la chiusura al centro della terza riga del quadernetto.
“Ispettore Megure? Sono Shinichi Kudo, scusi il disturbo.” si presentò con tono gioviale, apprezzando quel lento ritorno ad una delle sue vecchie abitudini preferite, seppure con la reticenza di chi sognerebbe un caso molto meno personale.
Sentì delle voci di sottofondo ed il rumore metallico di quella che dedusse essere una forchetta, considerando l’orario alquanto scomodo con cui l’aveva contattato, che doveva corrispondere pressappoco alla sua pausa pranzo.
“Kudo? Sono lieto di risentirti, ragazzo! Non disturbi mai, tu.” replicò gioiosamente il poliziotto, sollevato di poter discorrere con lui dopo la sua lunga e travagliata convalescenza.
Era stato uno dei primi ad accorrere in ospedale per verificare il risultato dell’intervento di rimozione del proiettile che gli aveva perforato il polmone e gli aveva fatto molto pena, quando l’aveva visto sedato e pallido sul lettino della sua camera stranamente isolata e custodita da un energumeno in borghese dall’aria truce su cui gli era stato indicato di non fare domande.
Il detective curvò le labbra verso l’altro.
“Anch’io sono contento di poter conversare ancora con lei, ispettore. Temo di averla importunata, mentre stava mangiando.”
L’omone rise, tranquillizzando il suo fidato consulente.
“Sta’ tranquillo, ragazzo. Posso fare qualcosa per te?” gli chiese, bevendo un goccio d’acqua da una bottiglietta fatta di plastica finissima, che si accartocciava ad ogni insignificante movimento.
Shinichi sospese il passatempo con la penna per sgranchirsi un po’ il collo indolenzito, che mosse su e giù un paio di volte.
“A voler essere onesto, sì, ispettore. Vorrei incontrare il signor Mouri.” confessò, allungando le gambe stanche, che emisero uno schiocco sinistro con la massima estensione.
Il cortile poco lontano da lui si era fatto più quieto, come se avesse voluto donare un po’ di pace al giovane investigatore, quando, in verità, alcuni alunni avevano solamente optato per rientrare in vista delle imminenti lezioni, lasciando altri a rosolarsi in solitudine sotto i raggi cocenti.
Megure non si azzardò a fiatare per un po’, turbato.
“Oggi?” si limitò a domandare a voce bassa.
“Sì. Verso le sedici, se fosse possibile.”
Ci fu un’altra pausa, più lunga e quasi snervante.
“Va bene, ragazzo. Possiamo incontrarci direttamente al centro, se vuoi.” gli propose, bevendo un altro sorso d’acqua per la gola improvvisamente arida.
Shinichi appuntò ora e posto dell’appuntamento con la sua tipica calligrafia frettolosa ma leggibile nella prima pagina.
“Perfetto, ispettore. La ringrazio.”
Era commovente come avesse accolto la sua richiesta senza battere ciglio, vedendo accendersi un barlume di speranza per quel collega che stava affrontando una prova tanto dura.
Benché disapprovasse talvolta la condotta di Mouri, il quale aveva una capacità fuori dal comune nell’alternare genialità e superficialità, provava per lui una stima incrollabile.
Se solo gli fosse stato concesso, avrebbe indagato egli stesso per scagionarlo, ma gli era stato ordinato di non intervenire nell’usualmente abile lavoro degli agenti della prefettura di Niigata, in cui il tasso d’insuccessi era inferiore alla media nazionale.
Se la sarebbero cavata egregiamente, gli avevano assicurato con una pacca sulla spalla e lui si era piegato all’altrui desiderio con muto disappunto.
“Ti è stata affidata l’indagine, quindi?” volle fugare ogni dubbio, benedicendo tutti i santi per l’indipendenza dai piani alti dei detective privati.
“Sì. Ho avuto l’autorizzazione da Ran e dall’avvocato Kisaki proprio ieri. A proposito di questo, ispettore, potrebbe farmi il favore di organizzare la visita, senza accennare il mio nome?”
Il moro si grattò il mento, riflettendo sul piano che aveva concordato con colei che era diventata sua cliente.
Avrebbe funzionato, ne era sicuro.
Se gliel’avessero comunicato in anticipo, avrebbe certamente dato di mente e avrebbe rifiutato.
Al contrario, tenendolo all’oscuro e presentandosi direttamente lì, avrebbe avuto l’opportunità di farlo capitolare e ragionare.
“Come vuoi, ragazzo.”
Accolse la sua istanza con qualche perplessità, non comprendo la natura di tutta quella segretezza, ma si astené dal fare pressioni per soddisfare la sua curiosità.
“Ottimo! Grazie mille! Ora la lascerò tornare al suo pranzo.” espresse con entusiasmo la sua riconoscenza, sentendosi in un limbo tra ansia, per quell’incontro che avrebbe dovuto volgere in suo favore, e serenità per il supporto di Megure.
Questi ridacchiò sommessamente dalla sua seduta nella mensa della centrale, apprezzando sinceramente l’educazione dell’aspirante allievo di Sherlock Holmes.
“A più tardi, Kudo. Mi raccomando, porta con te un documento d’identità.”
“E grazie!” aggiunse subito dopo, soddisfatto di sapere che qualcuno tanto in gamba stesse procedendo nella direzione in cui non poteva avventurarsi.
Shinichi contraccambiò con energia, pregando che i presagi nefasti con cui era sceso in campo fossero sopravvalutati.
Nella quasi totale taciturnità del mondo circostante, saltò giù dal suo trespolo e si stiracchiò, estendendo le proprie braccia sopra i suoi capelli mori.
Riordinò i propri averi in pochi secondi, impilando i propri quaderni uno sull’altro con precisione ed infilando la penna, adesso dotata di cappuccio, nel mezzo di uno dei due.
Infilò il tutto tra l’avambraccio destro nudo ed il suo fianco fasciato dal tessuto bianco e, con i neuroni in fermento, impegnati già nel confronto tra lui e Kogoro, si incamminò risolutamente verso l’aula.
 
 
Quando, finalmente, il ragazzo giunse di fronte all’espostissimo ingresso del centro di detenzione bruciato dal sole, lo fece ringraziando tutti gli dèi da lui conosciuti per aver un fisico in grado di reggere trentacinque gradi, sudando in maniera accettabile.
Complici anche la giacca rigorosamente appesa al suo braccio, la camicia sbottonata fino alle clavicole e la cravatta allentata, se l’era cavata con l’asciugarsi qualche volta il collo e la fronte con un fazzoletto, seppure il quarto d’ora in metropolitana l’avesse fatto soffrire come un cane, schiacciato tra chi stava staccando dal lavoro e chi, invece, stava per iniziare il proprio turno.
C’erano stati cinque minuti particolarmente critici, quando si era trovato costretto a sostare in una zona in cui i raggi solari si erano concentrati impietosamente ed in quell’attimo si era domandato se tutto l’universo ce l’avesse con lui.
Ah, i vantaggi dell’essere cordiali e di cedere i posti all’ombra a chi ne aveva bisogno!
Se l’era detto tanto per scherzare, perché, in realtà, non aveva rasentato un peso per lui, dato che la gratitudine che gli era stata mostrata lo aveva ripagato completamente.
Persino la sua cassa toracica era stata clemente con lui, quel pomeriggio, subendo la sfacchinata senza dolori frustranti.
Il suo programma di riabilitazione, sia fisico che emotivo, si stava rivelando azzeccato ed aveva fatto passi da giganti rispetto ad Aprile, quando dieci minuti di corsa lo sfiancavano tanto da fargli rischiare un infarto.
Lui, un diciassettenne che si era sempre tenuto lontano da fumo e raramente si era avvicinato ad un alcolico, aveva vissuto nel terrore di fare un secondo di jogging in più, sentendo dolori al petto così forti da far tremare il più resistente ed impavido degli esseri umani.
Non aveva idea di cosa accidenti la sua amica scienziata avesse messo in quell’antidoto, ma poteva affermare con tutta la tranquillità del mondo che la sua salvezza non era stata più clemente del pericolo per cui era stata generata, vista la crudeltà con cui l’aveva abbattuto.
Paradossalmente, era stato il dottor Agasa a doverlo seguire nei suoi allenamenti i primi tempi, per assicurarsi che non si sarebbe fatto prendere dalla rabbia, la quale lo avrebbe solo spinto oltre i propri limiti, con il rischio che, se fosse stramazzato al suolo, sarebbe stato per l’ultima volta.
Saggia decisione, in verità.
Ficcarsi in quella sua zucca dura che non avrebbe potuto interpretare la parte dell’atleta per un tempo indefinito, era stata una dei compiti più ardui che avesse mai affrontato.
Non per il gusto di vantarsi della sua prestanza fisica, perché oramai la sua presunzione l’aveva gettata a calci fuori dal suo carattere, salvo poi fare capolino qui e lì da qualche finestrella nei momenti giusti.
No, la ragione era assolutamente un’altra e lo mandava in bestia.
Era come se gli stessero portando via la sua vita pian piano e, se riusciva ad avanzare di un metro nella sua direzione, quella era trascinata indietro di altri tre.
Aveva superato gli scontri di uno scontro finale (almeno sulla carta) quasi mortale e di un’età che non gli apparteneva più e, ora, il suo corpo si stava ribellando a tutta quella positività, incatenandolo ancora ad una vicenda che non vedeva l’ora di confinare nelle sue memorie.
Per un mese e mezzo, ogni giornata passata a guardare i suoi compagni di squadra giocare a calcio era stata un’agonia, con lui che poteva condividere il loro stesso campo per venti minuti, mezz’ora quando era particolarmente in forma, dovendo limitarsi a fare riscaldamento e brevi scatti.
La cosa peggiore era quando i suoi vecchi amici lo chiamavano per invitarlo a raggiungerli durante le partite, aggiungendo ogni volta che avevano bisogno di lui per vincere.
In quelle occasioni, non poteva far altro che rifiutare, promettendo una prossima volta che non c’era stata e non ci sarebbe stata ancora per chissà quanto.
Tuttavia, la sua buona condizione in quel momento lo rincuorò, comprendendo che stava ottenendo qualcosa con tutta quella fatica e fece nascere in lui la speranza che, prima o poi, sarebbe stato in grado di unirsi nuovamente ai suoi coetanei, gli unici che non si fossero messi a torturarlo su cosa ci facesse lì dopo più di un anno.
Dopo un paio di secondi di pausa, impiegati per rassettarsi, il moro intravide l’uomo con cui aveva appuntamento attraverso il vetro rinforzato dell’entrata, occupato in una conversazione con una poliziotta in uniforme estiva, che, a giudicare dal viso, aveva poco più di trent’anni.
Le porte si spalancarono automaticamente con il suo avvicinarsi ai sensori e trovò, ad accoglierlo, un climatizzatore acceso alla massima potenza, le cui ventole stridevano ogni quattro o cinque giri con effetto cupo, rigettando aria quasi gelida che lo rese grato di essersi rivestito completamente.
L’ambiente in cui si era introdotto era piuttosto sterile e triste, con mura vuote dipinte di celeste e blu per richiamare le divise degli agenti che ivi lavoravano con rigidissimi turni di otto ore.
Alla sua sinistra, una scarna sala d’attesa composta da due divanetti neri ed un tavolinetto ornato da dépliant andavano a completare, assieme al gabbiotto impenetrabile sulla destra, il quadro più asettico che fosse mai stato creato.
Era un luogo talmente sgradevole ed inospitale, che avrebbe fatto il bravo anche solo per non obbligare qualcuno dei suoi cari a starsene lì ad attendere, come, al contrario, stavano facendo una manciata di individui che, prevedibilmente, avevano i musi lunghi, estremamente pallidi alla luce del neon bianchissimo sopra di loro e bluastri, se posti accanto alle macchinette per snack e caffè che occupavano un’intera parete.
Megure si accorse di lui pressoché immediatamente, facendogli cenno di raggiungere lui e la signora vagamente in carne con cui l’aveva visto parlare.
Le sue scarpe nere produssero tonfi secchi sulla pavimentazione azzurrina ed opaca, rendendolo conscio del silenzio che gravava sul carcere in maniera inquietante e surreale.
L’ispettore gli porse subito la mano con un sorrisone e lui gliela strinse energicamente, sebbene si sentisse vagamente a disagio, come un pesce fuor d’acqua.
La situazione non migliorò, quando la donna ripeté le stesse azioni del suo superiore con un’occhiata scettica nei suoi confronti, che lui sostenne senza battere ciglio.
“Shinichi, lascia che ti presenti l’agente Benio Shitara. Signorina, lui è Shinichi Kudo, il giovane detective di cui le avevo accennato e per cui l’ho contattata.” lo introdusse l’amico con una punta di orgoglio nella voce, mollandogli una sonora pacca sulla spalla, prontamente irrigidita per attutire il colpo come da rito.
Benio lo analizzò minuziosamente, come se avesse avuto uno scanner incorporato e, dal modo in cui aveva arcuato le sopracciglia, non pareva soddisfatta di quel che stava constatando.
L’investigatore notò la cura con cui i suoi abiti erano stati stirati, i suoi capelli lisci raccolti in una coda ordinata e la posa dritta e fiera della sconosciuta e capì istantaneamente quanto fosse ligia al dovere, motivo per il quale doveva essere tanto disturbata dalla sua età.
Con quale autorità osava quel poppante farsi chiamare detective?
“Con tutto il rispetto, signore, ma mi sembra, forse, troppo giovane.” tossicchiò lei, tentando di mostrare tutto il suo disappunto con delicatezza.
Il liceale mascherò la sua soddisfazione per aver decifrato i suoi pensieri con una smorfia enigmatica, implorando con lo sguardo l’ispettore per portare avanti lui la discussione, visto che sembrava esercitare un tale ascendente sulla severissima guardia, le cui pupille verdi, risaltate dall’illuminazione potente, lo trafiggevano come fossero pugnali.
Megure si aggiustò strategicamente l’amato cappello, facendosi serio ed assumendo quanto possibile tutto il peso della sua carica sulle spalle.
“Me ne rendo perfettamente conto, agente. Sono lieto che voi stiate facendo il vostro lavorando con questo zelo e che, giustamente, vogliate impedire a chiunque non sia collegato al sospettato di passare, specialmente se si tratta di un minorenne…” s’interruppe, incrociando le braccia con l’aria di qualcuno stanco di doversi ripetere per l’ennesima volta.
“… mi permetta, però, di ribadirle che non si tratta di un minorenne qualsiasi. Il signor Kudo ha spesso collaborato con le istituzioni per agevolare tutti, me e lei compresi.” concluse, fissando la sottoposta intenta, a sua volta, a fissare il soggetto della sua frase, ignorando i movimenti febbrili dietro le loro spalle di un signore di mezz’età, che si era alzato da uno dei divani per poter comunicare con un suo collega nella guardiola, armato di taccuino e buona volontà.
Shinichi s’interessò all’omone immediatamente, trovando familiari il suo naso aquilino ed il suo mento pronunciato nascosto da un pizzetto trascurato.
“Sono felice di sapere che abbiamo un così valido aiutante, ma non posso farlo parlare con il signor Mouri, poiché non è un congiunto e, ufficialmente, non può essere considerato nella funzione di un qualche servizio.” ribadì testardamente l’altra, maledicendosi per non aver insistito nell’approfondire la questione in chiamata, così da evitarsi tutte quelle ciance.
Il giovane l’ascoltò appena, osservando attentamente la cavalcata trionfale verso le celle del tizio dai capelli grigi, scortato da un altro agente, che appariva ridicolmente piccolo rispetto al gigante al suo fianco.
“Io non posso entrare, ma un giornalista sì?” sbottò a bassa voce Shinichi, indicando con il proprio indice in mezzo ai due interlocutori, i quali, colti alla sprovvista, si voltarono per seguire la sua indicazione, assistendo anche loro alla scena.
“Quello è Toichi Dejima, non è così?” rincarò la dose, rivelando persino l’identità già parecchio nota di quell’intruso.
La poliziotta sbiancò dapprima, sdegnata dalla concessione fatta e poi arrossì per la vergogna, tornando a rivolgersi al diciassettenne con più tranquillità ed umiltà, seppure avesse posto difensivamente le mani sui propri fianchi.
“Be’, a volte si fanno delle eccezioni…” bofonchiò, con le goti rosate, stavolta per il nervosismo di essere stata contraddetta.
Megure ci mise un po’ a rientrare nell’argomento iniziale, divertendosi a concentrarsi sull’energumeno che aveva appena placato i bollenti spiriti della Shitara.
Rise sotto i baffi, benedicendo per la millesima volta l’abilità del suo beniamino di non lasciarsi sfuggire nulla.
Erano ore che le trattative tra lui e la coordinatrice delle guardie carcerarie si stava protraendo, soprattutto a causa della vaghezza delle sue informazioni circa chi si sarebbe portato appresso ed era riuscito a strapparle una visita con molta difficoltà, poiché la diligentissima Benio era stata assunta proprio per tenere a bada quel genere di richieste, spesso concesse con troppa leggerezza.
Quella gaffe con loro due pareva averla irritata oltremodo, dato il modo con cui le dita parevano accarezzare minacciosamente il manganello appeso alla cintola.
Quando il reporter si eclissò dietro l’angolo in fondo alla stanza, si voltò verso di lei con un ghigno sornione, quasi a volerla sfidare a resistere ancora, mentre, serenamente, portava le braccia dietro la schiena, dando l’impressione di essere un critico d’arte davanti al suo quadro preferito.
Era tanto brutto deridere un semplice errore umano, che egli stesso poteva aver compiuto? Forse.
Ma, d’altro canto, che avrebbe dovuto fare per far capire che non aveva tempo da perdere in chiacchiere, attaccarsi un cartello sul petto con scritto “Il mio amico è in galera da quasi una settimana ed è innocente!” ?
Shinichi emulò la sua postura, piegandosi, anche se intralciato dalla cartella scolastica, verso la signorina per metterle fretta nella maniera più gentile che gli fosse stata insegnata dall’esperienza e lei, accerchiata da questi condor umani, dovette sospirare rassegnata, sebbene il suo cervello stesse andando al massimo per cercare un’altra scappatoia, evidentemente inesistente.
“Considerando che ho già fatto trasferire il signor Mouri nella sala interrogatori, credo sarebbe accettabile rendere proficuo questo spostamento.” asserì la castana, senza rinunciare all’ormai consona occhiataccia al detective.
Quest’ultimo annuì, dandole corda, finalmente soddisfatto della piega che stava prendendo il dialogo.
“Ma avrà solo quaranta minuti, signor Kudo.” terminò, caustica e pronta a saltargli al collo se solo avesse deciso di opporsi al suo volere, dato che la sua posizione era già piuttosto precaria come conseguenza dell’incompetenza del suo predecessore, che aveva fatto scorrazzare per la struttura cani e porci.
Inoltre, lei era una donna.
Un suo sbaglio sarebbe valso come cinque di un responsabile del genere opposto e avrebbe disobbedito persino al suo superiore, se fosse servito a farle mantenere il posto.
Lui annuì di nuovo, compiaciuto e permettendosi un inchino di ringraziamento per la sua generosità, un po’ obbligata ma fondamentale.
“Sarà un tempo sufficiente, agente. La ringrazio.”
“Bene. Se vuole farmi la cortesia di seguirmi, la condurrò io dal sospettato.” borbottò lei, calandosi il berretto sugli occhi, determinata a tagliare corto per poter andare a dare una lavata di capo al subordinato che si era fatto comprare dalle solite promesse delle testate giornalistiche.
Se fossero state tutte mantenute, ora avrebbe avuto vere e proprie celebrità da coordinare, invece di agenti!
L’ispettore si allontanò di qualche centimetro dalla sua persona, soddisfatto della piccola vittoria e pronto a consegnare il testimone al suo pupillo, che, purtroppo, non avrebbe potuto accompagnare per rientrare nei limiti posti dalle alte sfere.
Shinichi allungò verso di lui l’oggetto di cuoio nero che si era trascinato dietro dal liceo, domandandogli la cortesia di custodirglielo e lui non esitò minimamente, pensando che quello fosse uno sforzo nullo, se comparato al compito arduo che stava per intraprendere il giovane, che non era mai rientrato nelle grazie di un Kogoro cocciuto e assai protettivo nei confronti della figlia, con cui, a quanto aveva capito negli anni, il detective dell’est aveva più di una semplice amicizia.
Lui e la sua guida partirono subito dopo averlo salutato senza troppi convenevoli, addentrandosi nel labirinto di corridoi e stanze che componevano l’edificio.
Erano oramai un paio d’anni che risolveva seriamente casi ed era stato dappertutto per essi, persino in case di sindaci e di mafiosi.
I suoi migliori interrogatori lo avevano condotto in varie centrali di polizia.
Eppure, in quel postaccio inospitale quanto moderno non aveva mai messo piede.
Lo stesso pattern di colori presenti all’ingresso era stato utilizzato ovunque, creando un effetto disorientante e claustrofobico, che gli fece dubitare del proprio senso d’orientamento, che, se paragonato a quello sviluppato dalla donna che procedeva a passo di marcia dinanzi a lui, ne sarebbe uscito sicuramente sconfitto.
Lei, infatti, non mostrava alcun problema nel gestire tutte quelle strade che si prospettavano da un lato o dall’altro, avanzando nella massima lucidità e compostezza, anche quando incrociavano dei suoi colleghi con dei detenuti accanto.
Molti di questi non tradivano alcuna emozione se non disgusto, quando incrociavano i loro percorsi con quelli dei diversi carcerieri, mentre altri erano troppo afflitti per accorgersi della loro esistenza, guardandosi i polsi incatenati con profondo dolore.
Ogni secondo lì dentro aggiungeva un brivido al precedente e non più per il condizionatore, ma per lo stato d’allerta in cui quei criminali, che gli sfioravano di tanto in tanto la spalla passando, lo avevano gettato.
Se c’era qualcosa che aveva imparato dall’avventura più spaventosa della sua vita, era che, calare la guardia in situazioni di pericolo, potenziale o evidente che fosse, era da imbecilli.
Non andava mai sottovalutato un rischio come aveva erroneamente fatto lui. Mai.
Si era creduto un dio, con la sua fotocamera ed i suoi riflessi perfetti ed era stato contraddetto nel giro di un attimo, perciò era normale che si tenesse pronto a qualsiasi possibilità, pure con i prigionieri strettamente controllati, no?
Dopotutto, anche con una pistola in mano, gli era stato fatto assaggiare quanto vulnerabile fosse.
Non era timore il suo, ovviamente.
Era la volontà di non commettere più sciocchezze che avrebbero potuto rodergli il fegato, come stava accadendo in quel momento.
Ah, quanto avrebbe voluto che Gin e Vodka potessero detestare per il resto delle loro inutili vite quel posto quanto lo stava detestando lui!
Quanto sarebbe stato bello, se avessero dovuto convivere per un’altra cinquantina di anni guardandosi attorno, tesi come lo era lui!
E, invece, loro non avrebbero mai camminato lì né si sarebbero mai sentiti strangolare da quelle quattro mura, perché lui e la sua dannata fretta li avevano fatti ammazzare.
Non gli importava che poi si sarebbe considerato disumano, poiché davvero non riusciva a convincersi che non avessero sofferto troppo poco.
Era stata una morte troppo rapida, la quale, se avesse dovuto vederne l’aspetto positivo, li aveva resi incapaci di tornare a fare del male. Definitivamente.
Ecco, stava succedendo un’altra volta. Stava perdendo il filo.
Scosse la testa energicamente, apparentemente insensatamente, in mezzo a quel corridoio stretto ed angosciosamente silenzioso dentro cui le sue gambe si stavano muovendo autonomamente, affidandosi ciecamente all’unico essere umano che avrebbe potuto raccapezzarci qualcosa là.
Benio lo guidò verso sinistra, al di là di una doppia porta color ciano che spalancò con una spallata senza troppe cerimonie, facendo emettere ai cardini uno stridio talmente fastidioso da far coprire preventivamente i timpani di chiunque ivi passasse.
Al loro sguardo, si aprì insperatamente una zona tinteggiata diversamente dalle altre, di un beige molto tenue, che assorbiva l’illuminazione da ospedale trasformandola in qualcosa di più rilassante, se non addirittura rasserenante.
Lo studente comprese immediatamente di essere quasi giunto al capolinea, collegando l’atmosfera più gioviale ad un punto neutrale, bazzicato sì dai reclusi, ma anche dagli impiegati del palazzone e dai membri della polizia,
Al termine di quel vicolo cieco erano, tra l’altro, posizionati due macchinette tali e quali a quelle viste in precedenza e un distributore per l’acqua, che si riflettevano sulle mattonelle crema, infinitamente più apprezzabili dell’orrore su cui si era mosso finora.
Lo spazio, grande senza essere enorme, ospitava, come leggibile dalle varie targhette appese, alcuni uffici a mancina e non più di tre sale interrogatori sulla destra, riconoscibilissime dalle porte con rinforzo in metallo nero spesse una decina di centimetri, accanto cui stavano le smeraldine piante decorative nei loro vasi bianchi tondeggianti.
Due donne in abiti civili parlottavano con fare complice con un caffè in mano, lanciando occhiatine ambigue all’agente robusto e barbuto di guardia ad una delle sale, presumibilmente quella in cui lo attendeva inconsapevole il suo cliente.
Shinichi camminò appresso la responsabile, che si arrestò precisamente innanzi al poliziotto dai muscoli tesi, il quale, alla sua vista, si portò una mano alla fronte abbronzata per eseguire un saluto formale.
“Signor Kudo, questo è l’agente Kazuma. Lui si preoccuperà di assicurarsi, come prima cosa, che lei non stia portando con sé oggetti vietati. Non sto qui ad elencarglieli, siccome ho l’impressione che lei conosca le procedure. A controllo ultimato, l’agente Kazuma si assicurerà, inoltre, che la visita proceda nella massima sicurezza. Tutto chiaro?” inquisì, tornando a rivolgersi a lui con la stessa acidità di poco prima, acuita dalla consueta occhiataccia.
Il giovane, quasi abituato all’antipatia della donna nei suoi confronti, si limitò ad assentire in attesa di ulteriori disposizioni, mentre, a pochi passi da loro, i tacchi delle dipendenti si dispersero nei rispettivi studi.
“Perfetto! Se ha con sé cose in metallo, è pregato di tirarle fuori e di consegnarle a me.” procedé, solo per tornare alla posa indispettita con le mani sui fianchi, quando lui scosse la testa in risposta alla sua richiesta.
Lo stranì sinceramente quella repulsione tanto naturale nei suoi confronti e gli venne il dubbio di averle fatto qualche torto in passato e di averlo scordato assieme alla sua intera figura, che era sicuro di non aver mai visto prima di quel giorno.
“A questo punto, le chiedo di allargare braccia e gambe, così potremo utilizzare il metal detector manuale, se non le spiace.”
Lui eseguì diligentemente, ritrovandosi ad interpretare un moderno uomo vitruviano.
La serietà di quel luogo ameno e del suo personale lo abbracciò con tutto il suo vigore, quando Kazuma fece tintinnare le manette appese alla cintura con il dispositivo nominato dalla coordinatrice.
Non era certo la prima volta che veniva sottoposto a controlli del genere ed anche il nervosismo che spesso accompagnava persino chi realmente non aveva nulla da nascondere, lo aveva abbandonato da un pezzo.
Tuttavia, non gli era mai capitato di dover sottostare a questa quantità di accortezze nei minuti antecedenti un interrogatorio, soprattutto perché gli bastava presentarsi in una qualsiasi centrale per essere accolto ben volentieri.
Lì, però, si poteva quasi palpare la pesantezza degli incarichi di ogni componente della sicurezza con ogni regolare bip del modernissimo apparecchio, che stava scorrendo adesso lungo il suo polpaccio.
Essendo un centro di massima sicurezza, al suo interno vivevano ceffi della peggior specie, stipati in celle sempre meno confortevoli in base alla gravità del reato commesso.
Se quello che i suoi collaboratori dell’FBI gli avevano riferito si fosse rivelato veritiero, allora qualche pesce piccolo dell’organizzazione l’avrebbe potuto trovare da qualche parte ai piani superiori, dedicati agli individui più pericolosi.
Non erano restati che gli scarti degli uomini in nero al Giappone e, onestamente, la cosa lo faceva stare molto più tranquillo, perché il peggio della feccia era stato rispedito al mittente in America, lì dove i capi d’accusa sarebbero stati di un numero talmente elevato da garantire a chiunque di loro un ergastolo privo di vie di scampo.
Sarebbe stato sufficiente raccontare ad una qualsiasi giuria di quanti membri delle forze dell’ordine avessero eliminato, affinché potessero concludere la loro esistenza nelle stesse condizioni in cui avevano obbligato una cifra indefinita di persone, innocenti o meno.
Lui credeva fermamente nella possibilità di rieducare un soggetto pericoloso, ma per loro voleva che la redenzione arrivasse troppo tardi per potergli dare una seconda possibilità.
Naturalmente, questo augurio era rivolto alle facce più spietate dell’intera banda e non a chi si era ritrovato invischiato nei loro loschi affari suo malgrado.
Da questo punto di vista, non aveva di che lamentarsi, visto che la sua amica scienziata era stata risparmiata, mentre molti come lei si erano beccati una pena equa ed in grado di lasciare spazio ad una vita nuova una volta scontata.
C’era da dire che, dopo la delusione cocente su cui si era soffermato durante il tragitto sin là, se ci fossero stati altri casini, lui non sarebbe arrivato a reggere psicologicamente, in particolare se gli anni di galera, disgraziatamente mai dati ai suoi nemici giurati, fossero stati riversati su uno dei ragazzini finiti in quella faccenda per sbaglio o, peggio ancora, per colpa di altri, come era stato per Ai.
Kazuma ripassò lo strumento dalla scocca giallastra sulla sua schiena, avendolo circumnavigato già una volta in maniera non soddisfacente.
La perquisizione finì da lì a poco e Shinichi si rassettò i vestiti, lisciandoseli con cura su petto ed addome, mentre Benio era visibilmente seccata per non avere qualcosa da rimproverargli e pareva aver messo il broncio.
“Molto bene. Come ultima cosa, mi fornisca gentilmente la sua carta d’identità, così vedrò di lasciare una qualche traccia ufficiale del suo passaggio.” lo invitò, esibendo prontamente il palmo su cui mettere il documento, dando per scontato che Mister Perfezione, come l’aveva soprannominato, l’avesse con sé e lui, puntualmente, lo estrasse dalla tasca dei pantaloni, tuttavia senza cederglielo.
Pressandolo su un angolo tra pollice, indice e medio destri, glielo sbandierò davanti, scrutandola con l’atteggiamento di chi volesse prima sapere qualcosa, sostenuto da un altrettanto antipatico angolo sollevato della bocca con la presunzione di corromperla.
“Il signor Mouri sa che sta aspettando me?”
La donna lo fissò come se avesse parlato una lingua aliena e le sue sopracciglia si alzarono esageratamente, fino a ritornare alla solita posizione incattivita.
Questo ragazzino ci tiene proprio ad irritarmi, pensò, già facendo i conti di quante regole stesse infrangendo anche solo con l’averlo accompagnato in un’area strettamente riservata a parenti, avvocati e personale del centro.
“Certo che no! L’ispettore mi ha ordinato di non fare nomi ed io ho eseguito.” ringhiò, iniziando a picchiettare la punta delle scarpe sul pavimento.
Shinichi le consegnò la scheda bianca con i suoi dati anagrafici senza indugiare ulteriormente, inchinandosi umilmente per placare il furore dell’esasperata trentenne, la quale afferrò l’oggetto con una velocità da far invidia alle migliori macchine industriali.
In mezzo a loro, la guardia assisteva alla scenetta con genuino divertimento, ridotto, per quanto possibile, ad un ghigno parato dalla visiera scura del berretto calato all’impossibile sul suo viso squadrato.
“La ringrazio, agente.” fu il commento pacificatore dell’investigatore, comprendendo che accettare la sua ostilità sarebbe stato più facile che provare a convertirla in simpatia.
D’altronde, la poveretta era stata pure ridicolizzata ed era più che ovvio che fosse irritata.
“Sì, sì. Prego. Ma tra quaranta minuti la voglio fuori da lì.” ripeté, scambiandosi un’occhiata d’intesa con il poliziotto accanto a lei che pareva dire: “Se non esce da lì entro questo tempo, buttalo fuori a calci.”.
Tsuneo, questo era il nome di Kazuma che si poteva evincere dal badge appeso al taschino della sua camicia, non si azzardò a contrastarla ed annuì mestamente, poco prima di vederla rintanarsi nella stanza dove i visitatori venivano registrati senza degnarli del più misero degli arrivederci.
Non era strano che agisse in questo modo, per lui.
Il suo capo era stata trasferita lì da una cittadina sperduta del Kansai circa sette mesi prima, quando la sua meticolosità ed il suo rigore l’avevano fatta spiccare tra i candidati per richiamare all’ordine la marmaglia indisciplinata, che aveva amministrato il carcere per anni secondo il proprio volere.
L’inetto precedente, che lei aveva surclassato nettamente, aveva concesso ai suoi colleghi di saltare turni e far passare, talvolta per una mancia, chiunque lo desiderasse.
Per lui, che proveniva da quattro anni di servizio militare, quella flessibilità era stata inaccettabile ed aveva pregato perché una persona come Benio Shitara potesse assumere il comando, cosicché facesse piazza pulita di nullafacenti e corrotti vari ed era tutto secondo i suoi piani, salvo poi riscoprirsi intimidito dalla rispettabilissima leader.
Per questa ragione, l’esperienza lo portò a rivolgere uno sguardo compassionevole all’alquanto interdetto giovanotto rimasto lì con lui, incredulo per l’ennesima scortesia ingiustificata.
“Non se la prenda. Fa sempre così. Quando uscirà da qui, potrebbe degnarla anche di un sorriso, dopo aver rispettato le sue regole.” lo tranquillizzò, dandogli le spalle per infilare la chiave della sala interrogatori nella serratura argentata di marca tedesca, estremamente affidabile ed economica.
Il diciassettenne fece una smorfia, per nulla persuaso da quella sua convinzione decisamente surreale.
Poi, ebbe un’illuminazione e tossicchiò per fermarlo, prima che scoprisse il vaso di Pandora.
Kazuma ruotò solamente il collo, sospeso tra uno scatto e l’altro e con due ancora da provocare per sbloccare quel gigantesco lastrone d’acciaio parzialmente riflettente.
“Dovesse sentirmi discutere, pure animatamente, con il signor Mouri, la prego di non intervenire. Non andiamo molto d’accordo, ma non mi farà alcun male.” lo avvisò, più che altro per salvaguardare i suoi timpani dal trambusto che si stava prospettando.
Lui era, però, più calmo di quel che ci si sarebbe mai potuto aspettare da qualcuno in procinto di vedersi con un uomo, che genuinamente lo detestava.
Il tragitto colmo di riflessioni gli aveva fatto acquisire piena coscienza dei rischi dell’operazione e, sinceramente, non c’era niente che avrebbe potuto farlo desistere.
Non credeva nemmeno sarebbe ricorso alla violenza, ma se anche avesse ricevuto un pugno, che avrebbe dovuto fare? Piangere, facendo finta che non se lo fosse meritato almeno un po’?
Suvvia, non era tanto idiota!
O, magari, lo era, ma non in quel genere di faccende.
Sarebbe potuto risultare incoerente che un tipo come lui, paladino della diplomazia, fosse sì disposto ad un’aggressione, ma aveva le sue buone ragioni.
D'altro canto , le ferite da lui inferte non sarebbero dovute essere meno dolorose solo perché non visibili, no?
Lui aveva colpito più forte di quanto Kogoro o Ran avrebbero potuto in tutta la loro esistenza, dunque qualsiasi eventuale vendetta sarebbe stata trascurabile, specie in una situazione critica quanto quella in cui erano precipitati.
L’ex soldato con il compito di preservare la sua salute, tuttavia, essendo all’oscuro di quali intricati schemi muovessero quel giovanotto tanto pacato, non parve condividere la sua visione filosofica e parve come congelato tra il proseguire, a rischio e pericolo del civile di cui aveva la piena responsabilità, ed il rimandarlo da ovunque fosse venuto.
Per quel che ne sapeva lui, Kogoro Mouri era un assassino che aveva brutalmente fracassato il cranio di un gentiluomo a seguito di una lite.
Chi gli assicurava che l’acredine non l’avrebbe spinto a ricommettere quella follia?
Be’, la risposta al suo dubbio non risiedeva poi chissà quanto lontano, perché l’impassibilità del signor Kudo, che pazientemente gli lasciava fare il suo lavoro, era un indizio piuttosto fondamentale per la soluzione del quesito.
Evidentemente, era cosciente di quel che il futuro avrebbe potuto prospettargli e gli andava incomprensibilmente a genio.
“È sicuro, signore?” fu la sua prova del nove quella, operata con il tono di un modesto soldato che teme e contemporaneamente ammira le scelte di un capitano esperto ed impavido.
Il cenno del suo interlocutore fu affermativo e rapido e Tsuneo ammutolì, cominciando a prepararsi, come era da routine, alla potenziale minaccia con quella totale immersione in un ambiente tipica dei combattenti.
Il suo udito avrebbe rilevato ogni respiro, se ce ne fosse stato bisogno e le sue gambe avrebbero eseguito uno scatto degno di Usain Bolt per intervenire al minimo problema.
Fece fare gli ultimi due giri alla chiave nella toppa ed essi rimbombarono nell’androne vuoto, in cui riecheggiava di tanto in tanto pure il rumore delle suole rigide dei suoi colleghi che facevano la ronda nelle aree dedicate ai nuovi carcerati, che erano costretti là fino al processo, come in un campo neutrale tra la gioia di una libertà ancora palpabile e la disperazione di una punizione incombente a mo’ di corvo su una carcassa fresca quanto l’aria, che mitigava in primavera ed in estate le temperature roventi.
Non spalancò subito la porta, dando a Shinichi l’opportunità di accostarsi a lui per sgusciare dentro la stanza con semplicità, una volta datale una leggera spinta.
Tutto accadde come previsto e lui s’infilò senza intoppi nel varco in un paio di secondi.
Fu come accedere ad un’altra dimensione.
Il primo elemento che lo sconvolse fu l’escursione termica di almeno sette gradi, la quale lo investì con la stessa potenza di un camion.
Era passato da un frigorifero ad un forno in cui cuocere lentamente la carne, come aveva visto fare negli Stati Uniti, e la mancanza di finestre contribuì a rendere l’immagine persino più vivida, se ciò fosse stato possibile, con un livello di ossigeno che toccava per puro miracolo il sessanta percento.
Lì dentro si annaspava.
E se il parallelismo fosse parso inserito a forza nel contesto, avrebbe invitato i miscredenti a capitare da là quantomeno per ammirare il grigiore delle pareti da monumentale Bosch, non troppo dissimile da quello che sua madre adoperava per riscaldare i piatti quando era di fretta.
Persino i neon erano diventati gialli, come se gli individui all’interno fossero stati pagnotte da guardar lievitare.
L’unica nota positiva, stranamente, erano il tavolo e le due sedie sistemati al centro, tutti e tre tinti del color del latte e valutabili come parecchio infelici, se collocati altrove.
Kogoro sedeva alla sua sinistra, con la schiena curvata per poter piantare sull’unica superficie disponibile i gomiti coperti dalla tenuta da carcerato del colore della sabbia.
Faceva una gran pena, con il volto e alcune ciocche dei suoi capelli neri erano infossati nelle sue mani libere dalle manette, in una posa che trasmetteva stanchezza ed abbattimento, come se fosse stato in procinto di rompersi in mille pezzi come un piatto antico e segnato dal tempo.
Non si rese conto immediatamente di lui, ma il boato contenuto generato dal portone chiuso lo destò dalla nuvola di pensieri che gli affollavano la mente ogni volta che aveva un po’ di tempo per sé, visto che divideva quella sottospecie gabbia con un omino dalla parlantina inarrestabile, che pareva perseguitarlo giorno e notte.
In un attimo, i suoi occhi si spostarono su di lui e mai nella sua vita fu più incredulo di chi trovò in piedi ad osservarlo come una cavia da laboratorio.
La silhouette atletica di qualcuno che, per sua sfortuna, conosceva ottimamente risaltava in quel cubo per claustrofobici, con la familiare divisa blu reale incorniciata dai bordi antracite della barriera che li separava dall’esterno.
I lineamenti del suo volto erano distesi, ma le labbra messe in mostra dalla barbetta, fatta crescere, a parer suo, per darsi arie da adulto, erano serrate in una linea retta.
Con un balzo si alzò, come se l’orrore per chi era con lui fosse stato convertito in vera e propria energia in grado di spostare il suo corpo senza un briciolo di difficoltà, dando vita ad una performance da gazzella.
Shinichi non si perse un singolo cambiamento di sfumatura della sua pelle, che dapprima si fece pallida, per colpa dell’emozione che lui stesso aveva scatenato e che, poi, si tramutò in un rosso vivo, come se tutto il sangue gli si stesse accumulando nella testa.
La prevedibile furia gli distorse i tratti, rendendo palese all’inverosimile il suo stato d’animo, il quale scosse impercettibilmente lo stoico ragazzo, che esitò a sostenere lo sguardo dell’altro, ora somigliante ad un braciere ardente nella penombra dell’angolo opposto al suo in cui si era rifugiato, possibilmente in attesa del tempismo favorevole per saltargli addosso ed abbatterlo, come il suo lato bestiale gli stava suggerendo di fare.
“Tu!” gridò con voce un ottavo più alta del solito, bastevole a mettere il suo avversario sulla difensiva, sebbene non accennasse ad arretrare.
Fu lui, quindi, a farsi avanti, attraversando un metro con un solo passo, avanzando con la stessa risolutezza di una pantera davanti ad una preda inerme.
Il detective non si agitò ulteriormente, trattando quel confronto con la medesima cura e razionalità di una partita a scacchi, complicata dall’afa e dalla pressione psicologica operata dall’istinto di autoconservazione.
“Proprio io, signor Mouri.” confermò cautamente, regolando la propria respirazione con la maestria di un qualsiasi sportivo.
“Che ci fai tu qui?!” abbaiò avvelenato, facendo ringraziare a Shinichi il proprio cervello che gli aveva fatto avvertire Kazuma, il quale, altrimenti, sarebbe già intervenuto, dato il volume preoccupante della sua voce.
Il padre della sua migliore amica bruciò un’altra quarantina di centimetri, combattendo la voglia di dargliele con tutto il raziocinio che gli fosse avanzato.
Non era la prima volta che gli gridava quella domanda, ma all’incirca la terza, se, naturalmente, si fossero volute contare solamente le occasioni da quando aveva saputo la verità.
Precedentemente alla giornata nuvolosa in Aprile, in cui l’aveva scacciato da casa sua senza neanche uscire sul pianerottolo, quelle cinque parole avevano simboleggiato il semplice fastidio, in parte scherzoso, di un padre che vede la sua amata figliola frequentare un ragazzo.
Com’era amara la nuova sfaccettatura che avevano assunto e quanto lo faceva infuriare!
Era arrivato a trattarlo come un figlio, quel piccolo truffatore.
Lo aveva sfamato e gli aveva offerto un tetto e qual era stato il ringraziamento? Un bel pacco di bugie per lui e, ancora peggio, per sua figlia, che aveva sofferto indicibilmente per la sua assenza, quando in realtà lo aveva sempre avuto appiccicato come una cozza allo scoglio, il vigliacco.
“Sono qui per aiutarla, detective.” affermò il giovinastro, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.
La sghignazzata ironica fuggì spontanea dalla cassa toracica ampia, dentro la quale il cuore pompava sangue come impazzito per effetto della rabbia, tanto da far cessare il suo incedere.
“A me servirebbe tutto meno che la tua assistenza, moccioso!” rise, sentendo la bile bruciargli la gola come acido, agevolata dal calore che si era sorbito per un quarto d’ora abbondante, rinchiuso nella sala interrogatori più sgradevole che avesse mai frequentato, così isolata da non far passare nemmeno l’aria condizionata che infestava ogni altro millimetro del palazzo, in compagnia di una bibita non più fresca.
Non poteva digerire che avesse patito tanto per dover sopportare lui, tra tutti gli esseri umani del pianeta.
Il liceale piegò il capo da un lato, come un cucciolo che stesse provando a comprendere i comandi del padrone.
“La signora Kisaki e sua figlia non sono del suo stesso parere.” obbiettò, vedendolo esterrefatto per la seconda volta in meno di cinque minuti, con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati, scintillanti per il riflesso della luce.
“Potrei capire Eri, che ci tiene a darmi noia, ma Ran sa benissimo che non voglio avere nulla a che fare con un tipo come te.” sibilò, sognando che dal nulla potesse comparire un pacchetto di sigarette che avrebbero sicuramente temperato i suoi bollenti spiriti, che fremevano per ricordargli che non avrebbe dovuto azzardarsi a nominare la sua piccolina.
Si tenne a distanza come forma di prevenzione da un qualche gesto avventato, puntando i talloni stretti nelle calzature della prigione a terra, affinché potesse sorreggersi con le spalle al muro di cemento armato verso cui era arretrato.
Shinichi sospirò, la pesantezza di quel che stava per dirgli tutta su di lui, che aveva poco tempo e tanti quesiti.
“Immagino non intrighi neppure lei, la prospettiva dell’ergastolo o della pena di morte. La prima volta che ha rischiato una delle due dovrebbe esserle bastata.” osservò, elencandogli le pene più severe a cui sarebbe andato incontro, se qualcheduno non l’avesse scagionato al più presto.
Kogoro deglutì quella poca saliva che gli era rimasta, odiando dover dare quel punticino a suo favore.
L’avevano già arrestato per un assassinio, la sera antecedente all’anniversario di matrimonio con colei che gli stava facendo da avvocato a titolo gratuito, ma all’epoca non si era sentito in una morsa.
Le circostanze anche erano totalmente differenti e, se l’altra volta avevano trovato addormentato ad un soffio dal cadavere, sei giorni prima lo avevano sorpreso a torreggiare letteralmente su un corpo senza vita, con l’arma del delitto insanguinata stretta dalle sue dita ed i suoi vestiti colmi di macchie rosse.
Per quel che ne sapeva, quell’uomo l’aveva veramente ammazzato lui, tant’era l’evidenza delle cose.
A voler esser sinceri, nemmeno lui avrebbe saputo come cavarsi fuori dall’impiccio.
“Non deve collaborare per me, sa? Pretenderei troppo. Tuttavia, credo che Ran e sua moglie abbiano il diritto di richiederle uno sforzo.” fu onesto e conciso l’Holmes dell’est, utilizzando l’arte della persuasione che aveva affinato con abilità macinando indagini.
Finalmente, gli stava fornendo delle realtà, nel bene e nel male.
Probabilmente non erano quelle che si sarebbe aspettato, ma erano le sole che gli avrebbe fornito fino al termine dell’investigazione, il cui esito sarebbe stato tragicamente negativo se non si fossero dati una mossa, lui in primis.
Quel che il moro non poteva ancora comprendere, era quanto davvero dolente fosse il tasto che aveva appena toccato.
Già.
Colpevole o non, lui si era tuffato a pesce in quel guaio e l’aveva fatto tutto da solo, a discapito della sua bambina, che aveva assistito impotente alla forgiatura, di suo pugno, dell’anello primario da cui poi era derivata quella catena di disastri, la quale, poco a poco, lo aveva trainato sino a quell’esatto istante.
Come non sentirsi in colpa, quando aveva nutrito la bestia dell’inquietudine della sua brillante karateka, che, al contrario, avrebbe dovuto eliminare, da papà qual era?
Se qualcuno avesse voluto offenderlo seriamente, avrebbe dovuto paragonarlo all’unica possibile salvezza che era là con lui, alla quale, invece, non aveva fatto altro che conformarsi.
Ma quel che più gli rodeva, era che, mentre di quel ragazzino non conosceva la storia (non che gli interessasse, eh), la sua l’avrebbe potuta recitare a memoria e non sarebbe stato necessario nessuno per spiegargli quanto fosse patetica.
Ah, dannato fosse il senso di colpa che lo metteva alle strette e quel detective da quattro soldi che l’aveva ritirato in ballo!
Quest’ultimo, guardandolo tentennare incurante della clessidra capovolta da un pezzo, sentì l’impazienza pervaderlo ed iniziò a dondolare dal piede destro al sinistro, decidendo di buttare sul tappeto verde la sua terza carta, ovvero quella della cortesia.
“Signor Mouri, ho più o meno trenta minuti per farmi riferire da lei come sono andati i fatti, perché nessuno pare averne idea e mi è stato fatto chiaramente capire che non mi saranno concesse altre occasioni per chiederglielo. Per favore, lo faccia per Ran, se non per se stesso” lo pregò, fissandolo intensamente negli occhi velati dall’ansia.
E così quel supereroe mancato voleva togliersi dalla parte del torto, eh?
Kogoro non vacillò nel reggere l’occhiata cristallina di quel giovane avversario, disposto a far leva sulla sua debolezza più grande per farlo capitolare.
Era stata proprio Ran, con l’appoggio di sua madre, a designare quel Kudo per scongiurare che il suo destino fosse compiuto, dunque?
Be’, doveva aver fatto un grosso sacrificio, lei così giovane, per compiere quell’azione e poteva lui, suo genitore, non essere altrettanto maturo? Poteva sprecare quell’opportunità che lei, così magnanimamente, aveva creato per lui, perché gli voleva bene?
Sospirò la sua resa, piegando indietro la testa per poggiarla alla parete e chiuse le palpebre.
“Sediamoci.” fu tutto ciò che bofonchiò, volendo dar l’impressione di essere ancora furibondo, ma finendo per sembrare un gattino stremato dal freddo, che debolmente lotta contro l’umano di turno che prova a fargli un bagno per riscaldarlo.
Strisciò i piedi sul pavimento fino alla seduta che aveva lasciato prima, senza la benché minima volontà di darla vinta al moccioso, seppur incline a farlo per accontentare gli unici affetti che continuassero a possedere una valenza per lui.
Shinichi seguì inizialmente le sue mosse, non riuscendo a credere di aver superato quello scoglio apparentemente inavvicinabile e, dopo, non appena lo vide accomodarsi, lo copiò, accomodandosi davanti a lui senza neppure togliersi la giacca che lo stava cuocendo.
Faccia a faccia sotto la lampada cubica, Mouri a braccia conserte e Shinichi con gli avambracci sul metallo imbiancato ed ammaccato del tavolo, i due parevano aver firmato una tregua retta da un filo sottilissimo soprannominato “Necessità”.
Il cliente scrutava torvo l’investigatore, che aveva unito le falangi delle sue dita lunghe e sottili in un modo a lui consono.
“Come pretendi di poter ricordare quel che ti racconto, se non hai dove prendere appunti?” lo stuzzicò provocatorio il baffuto, desiderando che al posto delle sue mani ci fosse un taccuino di fronte a sé.
“La mia memoria sarà abbastanza, non tema. Cominci dal principio, ovvero da quando ha conosciuto la vittima, se non le spiace.” tagliò corto pacatamente, decretando che non fosse il caso di sprecare tempo prezioso per narrargli le sue disavventure con la signorina Shitara, la quale gli avrebbe quasi certamente tritato i quaderni, se avesse avuto il folle impulso di portarne uno.
Kogoro sbuffò, sebbene il suo volto fosse contratto in un’espressione crucciata.
“Il principio, eh?” ripeté, correndo con la mente alla mattinata soleggiata in questione e rivivendola brevemente, come se non fossero passate che ventiquattro ore da allora.
Tutto gli tornò vividamente: Ran impegnata a rassettare il suo studio, lui abbacchiato dalla sbronza della serata precedente ed infine il trillo del campanello, che l’aveva risvegliato dal torpore dopo settimane di sventurata penuria di clientela.
“Ho incontrato il dottor Iwao Hara venerdì tre luglio. Era assieme a sua moglie, Naeko e a suo figlio, che, se non ricordo male, si chiama Ichiro. Erano a Tokyo per il weekend e lui aveva un caso da risolvere, quindi ne ha approfittato per venire da me.” cominciò, visualizzando le tre figure appena nominate con i loro abiti: il medico con la sua camicia bianca ed i suoi calzoni color topo, la donna ed il suo vestito rosa ed il figlio con la sua maglia ed i suoi pantaloncini, entrambi neri come la pece.
Shinichi annuì, incoraggiandolo a procedere.
“Ho passato settimane… complicate, perciò la sua richiesta, per quanto assurda mi sia apparsa lì per lì, l’ho accolta ben più che volentieri.”
“Che desiderava da lei?” inquisì il diciassettenne, giudicando peculiare l’aggettivo adoperato dal trentottenne, che ghignò misteriosamente piegandosi sul tavolo per guadagnare un supporto per le membra indebolite dallo stress.
“Mi ha offerto cinquecentomila yen per venire a capo di chi avesse tentato di scassinargli, mi pare due giorni prima, un cassetto della scrivania nello studio della sua clinica a Niigata.” gli spiegò, sentendo la testa girargli ancora alla prospettiva di quella somma, che gli sarebbe servita come il pane.
Il ragazzo dalle iridi blu restò a bocca aperta per la cifra notevolmente superiore al problema, pur avendo intuito, attraverso le ricerche, il livello di agiatezza in cui il medico pareva sguazzare gioiosamente.
La clinica privata Seishu, il cui titolo aveva l’onore di discendere dal primo chirurgo giapponese ad aver adottato un’anestesia generale nel diciottesimo secolo, era specializzata in cardiologia, curata proprio dall’assassinato e dalla sua équipe, e pneumologia, supervisionata da Nao Taniguchi, braccio destro di Hara.
A Niigata e dintorni, i due specialisti, oltre ad essere famosi grazie ad alcuni interventi particolarmente riusciti, erano assai apprezzati, benché le loro tariffe fossero fuori dalla portata di molti comuni mortali, come facilmente riscontrabile sul sito web ufficiale da cui Shinichi aveva estrapolato gran parte delle informazioni su chi fosse la cara salma.
“Non le sono sembrati troppi soldi per un cassetto quasi forzato? Soprattutto considerando che avrebbe potuto denunciare il tentativo di scasso alla polizia.” obiettò, poggiandosi due dita della mano destra sul pizzetto.
L’ex agente fece una smorfia, scuotendo debolmente il capo.
“Onestamente, non me ne sarebbe potuto importare di meno. Ero conciato così male, che lui ha raddoppiato la sua offerta. È stato in quel momento che mi ha fregato.” borbottò con un tono grave ed una risatina aspra e svilita, che gli fece tremare la schiena.
Il figlio dello scrittore inarcò un sopracciglio, brancolando nel buio.
“Che intende?”
“Intendo che, per un milione, non ho osato oppormi, quando mi ha detto che, in cambio, non avrebbe dovuto firmare alcun contratto e che io non mi sarei dovuto presentare lassù. Avevo troppo bisogno di denaro per fare storie e mi sono fatto raggirare dalla sua parola d’onore che me li avrebbe pagati in ogni caso.” ammise a malincuore, insultandosi da solo per aver toccato il fondo in quella maniera.
E quel che più l’infastidiva, era che non avrebbe potuto nascondere la sua rinnovata ossessione per le scommesse dietro l’abbandono di quel so-tutto-io, che, a sua insaputa, aveva dato un bell’impulso alle sue finanze con quella sua irritante mente geniale.
Sì, effettivamente avrebbe potuto riconoscere lo smacco per la sua autostima ed attribuire a quello il bisogno di gettarsi a capofitto nelle corse dei cavalli per garantirsi di che vivere, visto che, a quanto pareva, era un vero incapace nel suo mestiere.
Tuttavia, sarebbe stata una scusa e lui doveva essere uomo abbastanza da riconoscerla in quanto tale.
In passato, prima di Conan, aveva già vissuto una situazione molto simile e si era comunque arrangiato per mandare avanti con dignità se stesso e Ran.
In questa occasione, avrebbe potuto fare altrettanto, se non avesse puntato sul fantino errato un paio di volte di troppo e non si fosse visto immerso nei debiti in centoventi ore.
Il giovane investigatore diede l’impressione d’esser sempre più sorpreso e la mano risalì dal mento alla tempia.
Cosa poteva esserci di tanto prezioso in un cassetto da valere l’equivalente di poco più di novemila dollari, ma non abbastanza da essere rinchiuso al sicuro in una cassaforte?
La vicenda aveva del bizzarro.
“Le hanno comunicato cosa avevano provato a rubare?” tentò la sorte.
“No. Ma qualsiasi cosa fosse, era la ragione per la quale non mi è stato permesso di recarmi lì. Quando gli ho posto la tua stessa domanda, ha fatto una faccia!” esclamò, rievocando quella maschera di indignazione ben mostrata dalle rughe del quarantenne paffuto.
Interessante!, pensò Shinichi, apprezzando l’illazione di Kogoro non del tutto campata per aria.
“E come pretendeva che sarebbe riuscito ad individuare il colpevole da qui?” lo interrogò, sbottonandosi la giacca per l’afa, che, aiutata dal fervore per l’enigma, aveva preso a schiacciargli i polmoni ingabbiati dalle costole.
“Mi ha detto che avrei ricevuto delle foto della scena del crimine ed un elenco di oggetti portati solitamente da coloro che aveva marchiato come possibili colpevoli.”
“In base a quali criteri?”
“Di preciso, non lo so. Ha accennato al fatto che fossero gli unici ad averne l’opportunità. Erano tre persone, ne sono certo: la sua assistente, il suo migliore amico ed il suo collaboratore.”
L’alunno del liceo Teitan sapeva di chi stesse parlando, avendo trovato la prima e l’ultimo nella lista dello staff che la struttura messa su dal defunto vantava.
Quanto all’amico, aveva scovato il suo nome in uno dei quotidiani e Google lo aveva condotto ad un social network, in cui le immagini di lui con Iwao Hara fioccavano come neve in inverno.
Che combinazione singolare di sospettati!
Per quale motivo un signore tanto stimato avrebbe dovuto diffidare delle sue persone di fiducia?
Perché, in fin dei conti, quello erano.
Un chirurgo non concederebbe assolutamente la carica di assistente a qualcuno di cui non si fida, nonostante questi abbia un ruolo minore in un’operazione.
Lo stesso vale per un socio in affari, figuriamoci in un settore delicato come quello.
E l’amicizia non si fonda, forse, nel potersi affidare ciecamente ad un altro essere umano?
Avrebbe dovuto approfondire.
“Cos’è successo dopo?” indagò, frenandosi a stento dal fargli le altre mille domande che gli ronzavano da un neurone all’altro come api, deducendo che avesse solo più o meno un altro quarto d’ora, usufruibile per i dati indispensabili.
Rimpianse di non aver indossato un orologio quel giorno, ma il costante contatto con uno di essi per più di un anno aveva fatto nascere nella sua anima una specie di repulsione, che stava annichilendo pian piano con l’amore innato per quei medesimi aggeggi.
Mouri acchiappò l’involucro in alluminio dall’economica bevanda che gli avevano lasciato ed iniziò a farlo pattinare da un palmo all’altro, facendosi cullare dal passatempo semplice ma calmante.
“Ho accettato la sua proposta, anche se era una pazzia. Prima che potessi rendermene conto, avevo già trascorso una settimana a cercare di formulare un’accusa sensata su una serratura piena di graffi, bombardandolo di telefonate ed email per ottenere indizi più utili di forcine per capelli e graffette. Mi servivano più dettagli, ma Hara non ha mai fatto trapelare niente che potesse essere rilevante.”
Studiò la lattina che oscillava, Kogoro, piazzando nelle sue memorie se stesso al suo posto, mentre si spostava, in preda alla fretta, da un punto al successivo nella sua dimora alla ricerca irrazionale di un’illuminazione.
Chissà, magari, se fosse stato più furbo e disonesto, avrebbe potuto indicare uno dei tre a caso per accaparrarsi l’ambito salario.
E invece…
“La sera del quattordici mi ha chiamato, rivelandomi che aveva capito da solo chi avesse provato a derubarlo. Non mi ha svelato la verità né fatto una piega e mi ha assicurato che nel giro di quarantotto ore avrei ricevuto il mio compenso. Per la mia dedizione, mi spiegò.” narrò, accartocciando un po’ il cilindro con una presa ferrea ma ben misurata per non deformarla completamente.
Come era stato fattibile truffare uno come lui, che di truffe ne aveva scoperte di tutti i generi?
Era veramente un investigatore di così infima categoria o era stato il sogno di poter evitare alla sua famiglia un tracollo finanziario ad accecarlo?
Sinceramente, era arrivato in un punto tale della sua esistenza, che non avrebbe saputo che accidenti rispondere.
Se un bambino poteva nascondere in sé un moccioso con dieci anni in più, cosa altamente improbabile sulla carta, come avrebbe potuto lui dare per concreto qualcosa?
C’era da ribadire che lui, una spiegazione logica per quel che era accaduto a Shinichi, non l’aveva acquisita ancora e, forse, avrebbe avuto un suo senso, se non fosse stato così adirato da rifiutarsi di ascoltarlo.
Infantile come atteggiamento, ovvio, ma un tradimento non era da perdonare con leggerezza.
Non era da perdonare, punto.
Difatti, con quale fegato la sua piccolina si fosse accordata con quel mascalzone, lui non se ne capacitava.
Se non altro, il malandrino aveva l’aria di aver preso seriamente quella faccenda.
“Deduco che lei non abbia ricevuto nulla, però.”
La frase gli sfuggì con un tono più compassionevole di quanto potesse sopportare l’orgoglio di Kogoro ed intrappolò il pugno destro nel sinistro per poggiarvi sopra il mento, coprendosi brevemente le labbra nel tentativo di mascherare quella gaffe.
Il prigioniero gli lanciò un’occhiataccia fugace quanto malvagia ed annuì con la rigidezza di un robot per confermare.
“Ho atteso quanto mi aveva indicato, ma per nulla. Allora, ho cercato nuovamente di ricontattarlo, immaginando che ci fossero stati problemi per il trasferimento di una quantità così ingente di soldi. Nessuno ha mai risposto.”
“Ed in quel momento, ha preso la decisione di andare a Niigata, vero? Mi sfugge per quale motivo lei abbia scelto proprio la riunione annuale per parlare con il dottor Hara, però.”
L’uomo dai capelli neri rise senza entusiasmo, meditando su quanto il suo piano, teoricamente privo di difetti, lo avesse incastrato.
“Lui mi aveva dato il diciotto come scadenza, proprio perché potesse inchiodare l’aspirante scassinatore di fronte agli altri suoi amici il giorno dopo, quando si sarebbero recati alla pensione per trascorrere il weekend lungo. Ho pensato che, raggiungendolo lì, sarei stato tutelato dall’essere raggirato per la seconda volta, visto che a nessuno piace fare una pessima figura davanti a chi tiene.”
Povero Kogoro.
Quel ragionamento filava, seppur fondato su una reazione soggettiva, che, in qualcuno sufficientemente sfrontato da rompere un patto, sarebbe stata alquanto differente.
Ma, tuttalpiù, si sarebbe potuto mettere in conto d’esser menati per il naso da un tizio del genere, prima di doversene tornare a casa con un pugno di mosche.
Chi avrebbe potuto prevedere un omicidio?
“Mi racconterebbe come si sono svolti i fatti martedì, ora?” domandò cortesemente, consapevole che riportare alla luce il giorno del proprio arresto non dovesse essere uno scherzo. 
“Ho scelta?” fece del sarcasmo il detective, mostrando i denti bianchi in un sorriso forzato ed asciugandosi con l’indice la goccia solitaria di sudore sulla guancia.
Si squagliava in quella stufa disumanamente non climatizzata ed evitò un complimento per lo stoicismo all’altro solo per non dargli soddisfazione, sebbene fosse apprezzabile la serenità con cui stava mantenendo quel completo infernale.
“Martedì sono andato in stazione verso le dieci, portandomi dietro giusto l’indispensabile a passare la notte fuori, perché, qualsiasi fosse stato l’esito del mio tentativo, non sarei rincasato immediatamente. Avevo prenotato la camera rimanente alla stessa pensione del signor Hara la sera precedente e, quando sono arrivato alle una passate, lui e la sua compagnia non erano ancora lì, perciò mi sono messo l’anima in pace. Ho riposato dopo una passeggiata e mi sono svegliato verso l’ora di cena. Ho trovato chi stavo cercando a banchettare allegramente con suo figlio ed i tre su cui avevo indagato al tavolo della sala da pranzo. L’altra ragazza presente non ho idea di chi fosse. Ho mangiato senza disturbarli e li ho seguiti, quando sono andati a giocare a biliardo. Una volta in quella saletta, ho avvicinato apertamente Hara.”
Oh, lo stupore scolpito sul suo volto che senso di appagamento gli aveva dato!
L’aveva sconvolto tanto da farlo diventare pallido, non riuscendo a credere che quel pollo, che si era fatto ingannare tanto facilmente, potesse aver avuto l’ardimento di presentargli il conto in un contesto tanto delicato, in cui i suoi colleghi ed il suo erede avrebbero potuto assistere al palesamento non autorizzato della sua disonestà.
Lui, l’integerrimo cardiochirurgo vezzeggiato da mezza città, avrebbe visto incrinarsi quella facciata immacolata che aveva illuso Kogoro.
A volte, è proprio vero: quel che luccica, anche se è oro, può finire per accecarti.
Shinichi si raddrizzò, allungando la colonna vertebrale dolorante per la posizione mantenuta.
“Non deve averla presa bene.” commentò.
“Affatto. Mi ha portato in corridoio ed abbiamo discusso dei sospettati e della paga, che mi è stata rifiutata a gran voce. Dobbiamo aver fatto parecchio baccano, perché l’assistente ed il braccio destro si sono distaccati dal gruppo. Li ho incrociati, mentre mi recavo al bar. Lui l’ho intravisto tornarsene in camera, ma con lei ho scambiato quattro chiacchiere, dato che sembrava molto giù, certamente per essere finita sotto indagine. Una brava ragazza, sinceramente. Mi è anche venuta a fare compagnia, mentre bevevo, perché stavolta ero io quello abbattuto.” sorrise genuinamente il carcerato, con gli occhi puntati sull’alluminio riflettente nella sua mano, rimembrando la conversazione leggera e piacevole con quella giovane dal mirabile portamento.
Avevano disquisito su quei pochi casi che lui aveva chiuso da solo e sul lavoro alla clinica di lei ed entrambi avevano ignorato l’argomento che l’aveva obbligato a guastar loro la festa.
“Cosa ha bevuto e quando?” volle sapere, ricostruendo gli articoli di quei giornali indegni che avevano indirizzato i riflettori ad ogni paragrafo su quel che loro avevano rinominato ‘evidente stato di ubriachezza’.
“Ho ordinato una birra media alle nove e dieci circa. Lo so, perché il barista aveva acceso la televisione per guardare un programma che sarebbe cominciato a quell’ora. Con l’assistente, di cui al momento mi sfugge il nome, non dovrei esserci stato per più di dieci minuti.” constatò, chiedendosi se la propria percezione del tempo fosse giusta.
Il suo viso si fece più vecchio all’improvviso, man mano che la confusione prendeva proporzioni mastodontiche nella sua mente, come una nebbia fitta incontrastata in una valle.
E se fossero stati più di dieci minuti? O meno?
Non lo sapeva ed ora era intimorito dalla prospettiva del prossimo quesito.
Shinichi non notò subito la sua inquietudine, occupato a fare due conti sulle tempistiche.
Se Kogoro avesse tracannato il primo alcolico alle nove e venti circa, poi avrebbe avuto un’altra quarantina di minuti prima del delitto.
Era un lasso di tempo bello grosso e spaventoso, da un certo punto di vista, perché, nei momenti di sconforto, il detective non era uno da arrestarsi ad una birra.
Che potesse seriamente aver perso il controllo?
No, non poteva essere… o sì?
«Quando hai eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità. »
Il motto del suo mito non avrebbe potuto stonargli di più in quell’istante e lo represse con tutta la sua energia, sentendo il petto stringersi al pensiero che quell’uomo, figura fondamentale per la donna a cui tanto teneva, potesse aver compiuto quell’atto atroce che avrebbe potuto condannarlo a qualcosa di infinitamente peggiore della morte.
Si passò la mano destra sul viso in preda a cupi presagi, fermandosi per un attimo sugli occhi, che stropicciò per allontanare da essi la stanchezza e, magari, pure quel maledetto dubbio.
“Dopo che l’assistente l’ha lasciata, cos’ha fatto?”
“I-io… io non… non ne ho idea,” balbettò l’investigatore, chiudendo le dieci dita attorno alla lattina, quasi aggrappandosi ad essa come se fosse stata una boa e lui un naufrago alla deriva.
Davanti a sé vedeva i nei suoi ricordi, come un film alla televisione, il tessuto jeans dei pantaloni che la ragazza portava scostarsi da lui lungo il parquet del caffè della pensione ed il suo boccale, giallo in risalto sul legno scurissimo del bancone sui si era piazzato.
Oltre quei due elementi c’era l’oscurità. Il nulla. Quel niente che ti inghiotte e non ti lascia più andare.
Ed in quel buco nero, visi e voci così sfocati ed irriconoscibili da non poter dire se fossero stati veri o meno, se li avesse creati il suo cervello o se li avesse incontrati davvero.
Era terrificante.
Aveva provato a richiamare a sé gli eventi di quella notte una mezza dozzina di volte, ma luci ed ombre erano sempre identiche ed il loro pattern lo aveva disturbato profondamente.
Era come se tutti i dettagli fossero finiti in una fotocopiatrice, cosicché non potessero essere alterati in nessun modo.
Il giovane drizzò le orecchie a quella dichiarazione, nuovamente sbigottito e ad un passo dal saltare in piedi.
“Che vuol dire?” lo spronò a chiarire, finalmente rendendosi conto dell’espressione spaurita ed insolita del padre della sua amica.
“Vuol dire che non ho la più pallida idea di che diamine mi sia capitato, dopo quella conversazione. Non riesco a ricordare cos’è successo tra un sorso di birra ed il risvegliarmi ricoperto di sangue, con una statuetta in mano, un morto di fronte ed un gruppo di persone che mi fissa!” sbottò, la voce piegata dal panico e dalla furia, sia per la domanda sciocca del moccioso sia per il suo ipotalamo traditore, che non avevano altro per lui, se non quelle due scene.
Il liceale si sollevò dalla sua sedia come se fosse stata fatta di lava, la mano sinistra poco sotto la dodicesima e quella destra fra i capelli scuri, arruffandoseli freneticamente, mentre iniziava a passeggiare da un’estremità all’altra della sala.
“Può aver ordinato altro al barista?”
“Non lo so, ti dico. Può essere, visto che puzzavo d’alcol quando la polizia mi ha arrestato.” borbottò sempre in quel tono misto, correndo con le pupille da una parte all’altra come stava facendo il diciassettenne alla stregua delle rotelle, a parer suo malfunzionanti, nella propria testa.
“Ha detto di essersi risvegliato. In che senso?”
Le sue parole erano concitate ma ben scandite, come un video riprodotto a velocità aumentata.
Il tempo era agli sgoccioli e nel momento più critico, in cui tutto sembrava voler cambiare in loro favore.
“Non so spiegarlo precisamente. So solo che la porta della mia stanza è stata sfondata ed il rumore mi ha fatto tornare alla realtà, come se fossi stato addormentato fino ad allora.”
Shinichi si placò al centro del corridoietto su cui stava camminando, incrociando il suo sguardo perso, generato dalla rivoluzione dell’atteggiamento di quel poppante già assai bizzarro di suo.
“Si sentiva ubriaco, signor Mouri?” pronunciò ogni lettera accuratamente, volendo comunicargli quanta importanza avesse quella questione, senza dovergliene spiegare le ragioni, che avrebbe processato egli stesso più tardi.
Adesso, stava semplicemente facendo quel che il suo istinto da detective gli stava suggerendo e non aveva il tempo per rielaborare tutti i dati raccolti in quel preciso istante.
Doveva solo sapere.
Kogoro esitò a ribattere, riflettendo attentamente, perché persino lì non sarebbe stato in grado di essere certo al cento percento, sebbene quella memoria risiedesse tra quelle vivide.
“Avevo mal di testa ed ero stordito, ma… no, non mi sarei potuto definire sbronzo. O meglio, forse un pizzico, ma non abbastanza da dimenticare così tanto.”
“Ricapitolando, lei ha rimosso quasi un’ora della sua vita, quando era praticamente sobrio?”
Faticò assurdamente per mantenere piatto il suo timbro vocale, seppure quel microscopico spiraglio da cui faceva capolino un docile raggio di sole lo chiamasse a sé come una delle sirene di Ulisse.
Avrebbe voluto festeggiare, cantare ai quattro venti che aveva ottenuto qualcosa su cui poter imbastire un indagine fatta come Dio comandava, ma aveva la sensazione che la fregatura fosse dietro l’angolo, appostata come il più infame dei killer lì dove nessuno poteva scorgerla.
L’uomo baffuto annuì lentamente, sostenendo che, in linea di massima, le cose stesse proprio in quella maniera.
Ricordava distintamente il disorientamento e lo shock delle condizioni in cui l’avevano beccato e l’orrore più puro, che solo qualcuno di perfettamente presente a se stesso poteva provare.
Era raro che succedessero cose del genere, fortunatamente.
Tuttavia, a qualcuno era successo di ritrovarsi in un brutto posto senza sapere né come né perché ed anche per quella persona sarebbe stato pressoché impossibile descriverne l’angoscia, com’era stato per lui.
L’angoscia di guardarti attorno e percepire l’insieme di ciò che ti circonda come un qualcosa di impalpabile e fulmineo, in cui pure le lumache danno l’impressione di correre e tu cerchi, annegando quasi, di piantare i piedi per terra, come quando la marea ti trascina via con la sua gloriosa potenza e, esattamente come in situazioni del genere, più ti accorgi di non poter nulla, meno razionalità hai per lottare.
Alla fine, lui si era solo lasciato trasportare e sopraffare da quell’incessante tormento, ancora più confuso e con le tempie martellanti.
“Lo ha fatto presente agli agenti che sono intervenuti?”
“Sì…” s’interruppe, indeciso su come sottoporgli quel che aveva intenzione di comunicargli.
“Sì, ma…?” insistette, ora afferrandosi entrambi i fianchi da sotto la giacca.
“Ma non hanno fatto niente al riguardo.”
“Prego?!” fu un urlo strozzato ed attonito quel che gli scappò dalle labbra, mentre con le braccia si resse al tavolo, contemporaneamente per sostenersi e per accertarsi che Kogoro non lo stesse deridendo, giungendogli ad una cinquantina di centimetri dalla faccia contrita.
“Vuole dirmi che non le hanno fatto qualche esame, quantomeno per zittirla e dimostrarle che fosse in stato di ebbrezza?!” esclamò, respirando profondamente per ripristinare un minimo di controllo sulle sue corde vocali, le quali avevano emesso suoni troppo acuti per i suoi gusti.
Kogoro si mostrò piuttosto colpevole a quel punto, sottraendo le proprie mani alla sua vista per poggiarsele sulle ginocchia.
“La scongiuro, mi dica che lei ha insistito per farsi visitare.”
“Apri bene le orecchie, moccioso: non ti azzardare più ad usare quel tono con me! Gliel’ho ripetuto un paio di volte, ma quel verme di un ispettore ha attribuito come mi sentivo alla sbornia e me lo ha impedito. Che avrei dovuto fare, maledizione?! Lì comandava lui.” ruggì, scalfendo appena la dura scorza di Shinichi, che si era fatto gridare addosso da gente molto più minacciosa e facinorosa.
Riconobbe, però, di aver esagerato, nonostante la mattonata arrivata, come preventivato, a frantumare buona parte delle sue aspettative per un futuro meno precario e più luminoso.
Si spinse via da quell’ammasso di metallo bianco, riprendendo a fare avanti ed indietro come un automa ad un ritmo più accettabile.
Doveva stare calmo.
Scaldarsi più di quanto non stessero facendo quelle quattro mura sarebbe stato inutile.
“L’ha almeno riferito all’avvocato Kisaki?”
“Naturalmente, ma è stato in vano. Quando ha avuto la possibilità di reclamare delle analisi del sangue, era già passato troppo tempo e non hanno rilevato niente di insolito.” mormorò monotonamente, avendo già passato, grazie al Cielo, la fase dello sconcerto più totale, che se ne era andato a spasso con il desiderio di spaccare il naso a quell’ispettore con il muso da ratto.
Gli era sembrata una svolta troppo positiva quella del sobrio che dimentica, effettivamente, ma gli equilibri erano stati ristabiliti ed adesso, anche se vi fosse stato il legittimo sospetto che Kogoro non avesse agito secondo la propria volontà, non avrebbe avuto prove per supportare quella teoria.
In breve, l’unico metodo per dar credito all’ipotesi sarebbe stato quello di scovare, eventualmente, chi quella volontà l’aveva alterata.
Facilissimo a circa trecento chilometri di distanza dal luogo del delitto, no?
“Secondo lei, quell’ispettore è un incompetente a trecentosessanta gradi o ha solo finto di esserlo?” gli chiese, così da scacciare il bisogno di prendere la parete a testate e riconciliarsi con Mouri, seppur temporaneamente e blandamente.
Si appoggiò al cemento con le spalle, la gamba destra allungata sulla sinistra, le braccia incrociate e la fronte imperlata dal sudore come quella del suo interlocutore, comprensibilmente accaldato in quegli abiti tristi e scomodi.
Quest’ultimo schioccò sonoramente la lingua, fissandolo con le iridi scure.
“Quel topo di fogna può sembrare facilmente un cretino, ma, lo giuro sul mio onore, qualcosa mi fa credere che non lo sia affatto. Chiamalo istinto, sesto senso o quel che ti pare, ma, qualsiasi cosa sia, mi consiglia di non sottovalutarlo.” bofonchiò, riavvertendo sulla sua pelle la stessa repulsione per quel figuro che aveva avuto la prima volta.
Rammentare che quel tipo, più viscido di una serpe, fosse stimato dalle forze dell’ordine non mancava mai di fargli risalire i pessimi pasti del centro di detenzione.
Di bene in meglio!, fu il commento che Shinichi non ebbe il coraggio di esternare, ma esplicitò dando un colpetto con la nuca al suo sostegno.
Ad un tratto, a mancina udì dei rintocchi che non promisero nulla di buono, poiché provenivano dalla porta sigillata.
Game over, suppose e lui aveva in serbo tantissimi altri quesiti per colui che avrebbe voluto poter definire suo amico e che, al contrario, lo stava sopportando, facendo di necessità virtù.
Kogoro tirò un sospiro di sollievo, quando Kazuma spuntò sulla soglia, permettendo all’aria fresca di penetrare lì dentro, tra i poveri ed indegni mortali intrappolati nella sauna.
La robusta guardia si grattò la guancia, a disagio, non gradendo doversi immischiare in quello che, tra un urlo ed il successivo, aveva capito essere un dialogo importantissimo.
“Mi concede un’ultima domanda?” fece all’agente, che non assentì prima di essersi assicurato, sporgendosi all’indietro, che Benio Shitara non fosse nei paraggi per sbattere fuori lei stessa, dal suo territorio, il signor Kudo, che le aveva dato tanti grattacapi.
La sorte, stavolta clemente per rimediare, forse, alle sue malvagità, volle che la responsabile fosse ben due piani sopra di loro, intenta a sedare un litigio tra due prigionieri che si stavano contendendo un libro.
“Signor Mouri, se lo ricorda, sa dirmi se ha dovuto voltarsi per vedere chi avesse buttato giù la porta, quando è stato rinvenuto il cadavere?”
Che razza di richiesta era quella?!
Kogoro alzò un sopracciglio, non comprendendo né condividendo tutto quell’interesse per un dettaglio, quando sicuramente ci sarebbero potute essere altre cose di utilità maggiore da apprendere.
Sbuffò, sapendo che accontentarlo sarebbe stato meglio di restare ancora in quella fornace, soprattutto ora che aveva riavuto un assaggio del clima migliore del corridoio da cui era arrivato.
“No, mi sono trovato immediatamente di fronte chi era accorso.” rispose, cacciando dalla mente l’idea d’informarsi sullo stato di salute di sua figlia, che, se Dio avesse voluto, avrebbe rivisto il pomeriggio seguente, senza dover ascoltare il suo nome pronunciato da quel ragazzino, il quale, volente o nolente, aveva in mano la sua esistenza.
Shinichi annuì, cingendosi di nuovo il mento con le dita con gli occhi tipicamente bassi e pensosi.
Poi, indirizzò un’occhiata nella sua direzione assieme ad un sorriso non troppo calcato, cercando di essere incoraggiante senza diventare irritante.
Kogoro non ricambiò, scrutandolo con semplice diffidenza, adesso che quella giostra di emozioni si era fermata e che ricominciava a rivederlo per chi era, come se i led chiarissimi fuori riportassero la luce là dentro in ogni senso possibile, esorcizzando il bisogno per cui aveva conservato lontano il suo odio, il quale poteva riaffiorare senza rischi, gongolando, siccome, con Shinichi Kudo, difficilmente avrebbe avuto rapporti che non fossero strettamente professionali.
“La ringrazio per l’aiuto, detective. Arrivederci.” si congedò con gentilezza, aggiungendo un inchino proprie parole, che, però, non ricevettero altro che un misero cenno del suo capo, elementare da interpretare.
“Va’ via!” pareva significare e, dopo tutto quel tempo trascorso con lui, non gli sarebbe servito una guida per esserne cosciente.
Ovviamente…, fu l’unica considerazione che passò in una rapida folata nella sua mente, lasciando una pillola troppo amara da inghiottire, mentre Kazuma lo invitava con un braccio ad uscire.
Lui eseguì senza discutere, solo in un limbo tra il dovere e le sue vicende personali, un oblio talmente spaesante che raccolse con un gesto automatico la carta d’identità restituitagli e, con meccanismo altrettanto autonomo, salutò il guardiano, che lo osservò, con tanta empatia,  allontanarsi con grandi falcate lungo l’androne beige.
 
Se siete giunti fin qui, i miei complimenti e tutta la mia gratitudine! Se avete colto la mia allusione alla serie tv Lucifer, vi amerò anche. Scherzi a parte, finalmente iniziamo ad apprendere qualcosina su quello che è successo, ma la strada è ancora lunga e tortuosa.
A questo proposito, come avrete ben compreso, io ci metto moltissimo tempo a terminare un capitolo e devo annunciarvi che ce ne metterò ancora di più, perché mi tocca la maturità quest'anno. Farò del mio meglio per scrivere il terzo capitolo, ma è giusto farvi sapere che dovrete attendere. Per saperne di più, vi invito a seguirmi su Instagram: a_friendly_fangirl .
Grazie mille per l'attenzione,
Martina
   
 
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