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Autore: afep    09/10/2021    1 recensioni
La vita dell'eroe professionista è costellata di sacrifici, e chiunque voglia puntare alla vetta deve essere pronto a rinunciare a tutto ciò che possa rallentare la sua scalata. Questo vale anche per il più grande di tutti, il simbolo della pace in persona.
Eppure, abbagliati dalla sua luce sfolgorante, nessuno si chiede a cosa abbia dovuto rinunciare. O a chi.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: All Might, Altri, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Kiss me once, then kiss me twice,
Then kiss me once again
It's been a long, long time.
Haven't felt like this, my dear

Since I can't remember when.
It's been a long, long time

(It's been a long, long time – Kitty kallen)





Da questa mattina ho deciso che diserterò il servizio al banco, almeno per il resto del mese.
Di solito è quello che preferisco. Amo parlare con i clienti, accoglierli con un sorriso, soddisfare le loro piccole e golose richieste, ma oggi non riesco a sopportarlo.
Ovviamente la causa è Lui.
Lo abbiamo visto tutti, al telegiornale della sera, e stamattina la radio non parla d'altro. È una notizia sensazionale, inaudita, terrificante, e sono certa che i giornalisti non esiteranno a sviscerarla fino allo sfinimento.
Dopo tanti anni di onorato ed eroico servizio, dopo decenni di salvataggi e imprese incredibili, Lui ha deciso di cessare l'attività e andare in pensione. Un simile annuncio da parte del più rinomato e attivo tra gli Eroi sarebbe bastato, da solo, a far parlare la gente per giorni. Ma un annuncio di questo genere dato al termine di una terribile battaglia, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, è un argomento che non si esaurirà tanto presto.
Se ci penso, ancora non riesco a crederci.
È accaduto ieri sera, mentre aiutavo Seika a preparare la cena. Mi aveva invitato a tener compagnia a lei e sue due figlie, poiché mio cognato è ancora in trasferta per lavoro e non tornerà che tra un paio di giorni.
Mentre affettavamo le verdure tendevamo un orecchio al notiziario, che le ragazze guardavano nella stanza accanto. Il giornalista parlava della battaglia che si stava svolgendo in città, i cui risvolti stavano causando danni ingenti a numerose strutture. A quanto pareva, nel corso dello scontro Lui era rimasto gravemente ferito e si prospettava necessario un soccorso d'urgenza non appena fosse stato possibile.
Non riuscivo a capacitarmene, e anche se fingevo indifferenza – Seika continuava a sbirciarmi con la coda dell'occhio, per controllare le mie reazioni – non potevo fare a meno di sentirmi il cuore stretto in una morsa di apprensione.
Quando mai Lui era rimasto ferito? Certo, graffi e piccole contusioni – l'ombra di una bruciatura che non gli ha mai lasciato una cicatrice, un livido che si era subito riassorbito, un taglio che io avevo medicato mentre Lui scherzava per sollevarmi il morale – ma nulla di grave.
Ero mortalmente preoccupata, eppure non potevo darlo a vedere. Tagliavo i funghi per la zuppa con l'aria più neutra che ero in grado di sfoggiare, mentre mia sorella mi scrutava attentamente, pronta a rimbrottarmi sottovoce.
Eravamo impegnate in quel gioco amaro quando le urla delle ragazze ci hanno costrette a lasciare la cucina per unirci a loro, in ginocchio davanti al televisore.
«Mamma! Zia! Venite a vedere! Presto, presto!» urlavano, e non appena le ho raggiunte, non appena ho spostato lo sguardo sullo schermo, mi sono portata le mani al volto con un singulto.
Le immagini che stavano trasmettendo al notiziario erano confuse, rese sfocate dalle colonne di fumo e polvere che si alzavano dalle macerie. Il campo di battaglia a scontro concluso, ho riconosciuto, ma non era stato quello ad attrarre la mia attenzione.
Ad attirare il mio sguardo, a strapparmi quel singulto strozzato, non era stato il paesaggio ma l'uomo in piedi in mezzo alla distruzione: alto e terribilmente magro, ferito a più riprese ma ancora in piedi, sanguinante ma ancora saldo al proprio posto, con i capelli che gli ricadevano davanti al viso e quel costume da Eroe, quel costume cascante ma inequivocabilmente Suo, che rendeva impossibile travisare la scena.
Non c'era modo di sbagliarsi. L'uomo che si intravedeva tra i fumi della distruzione aveva appena combattuto e vinto, ed era Lui. E non solo.
«È l'Insetto Stecco!» ha esclamato mia sorella, stupita, ma le sue parole sono state soffocate da un grido affranto. Il mio grido, che non ho potuto trattenere.
Ho posato le mani sullo schermo, gemendo il suo nome – quello vero, quello con cui mi si è presentato quando era ancora uno studente del liceo, quello che sussurravo con il fiato mozzo ogni volta che mi amava – senza riuscire a smettere di fissare le immagini che scorrevano sotto le mie dita.
“Sei tu!”, aveva urlato qualcosa dentro di me, quando lo avevo intravisto mesi fa dietro la mia vetrina, e avevo avuto ragione.
“Sei tu!”, urlava in quel momento ogni fibra del mio essere, straziandomi per il desiderio di raggiungerlo e la pena di vederlo in quello stato. Le immagini sono poi cambiate, tornando sul giornalista in studio e sulla notizia del ritiro di Lui dalle scene, e io mi sono ritrovata a fissare lo schermo senza vederlo, come istupidita.
Dopo una simile scena le ragazze volevano una spiegazione, e questa volta Seika e io abbiamo vuotato il sacco.
Quando me ne sono andata, ventidue anni fa, le ragazze erano molto piccole. Aino aveva poco più di un anno, mentre Ayame era sul punto di nascere. Ho sempre preferito tenerle all'oscuro del mio precedente legame, ma dopo gli avvenimenti di ieri sera non era più possibile tacere.
Così ho parlato. Ho raccontato loro di Lui, di me, di come ero stata amata dall'Eroe più conosciuto e ammirato dei tempi moderni, di come ero stata sul punto di sposarlo e come invece lo avevo lasciato, pentendomene a ogni passo che mi portava lontana dalla sua strada.
Le ragazze all'inizio non ci hanno credute. Sospettavano uno scherzo, forse. Poi Seika ha tirato fuori qualcosa che credevo perduto per sempre, un vecchio album di fotografie, e lì non hanno potuto evitare di riconoscere la verità.
Anche adesso, mentre lavoro sul retro e impasto i croissant, frattanto che i mochi si raffreddano in frigorifero – innovazione e tradizione, come dice sempre mia sorella – le immagini sbiadite di quelle vecchie stampe mi passano davanti agli occhi.
Eccoci a ventisette anni, nella casa che abbiamo condiviso per poco più di dodici mesi; eccoci a ventiquattro, sulle spiagge dorate a sud del paese; eccoci a venti, in America, là dove Lui ha vissuto e si è specializzato per alcuni anni e dove io l'ho raggiunto con un visto lavorativo, perché non sopportavamo di restare separati; eccoci a sedici sotto i ciliegi in fiore, con i sorrisi imbarazzati degli adolescenti e le divise di due diversi istituti scolastici.
Premo le nocche nell'impasto e sorrido mestamente. Siamo stati insieme per così tanto tempo, abbiamo condiviso tutte le prime esperienze dell'età adulta, e ora...
Inspiro profondamente, ripiegando la pasta per ottenere dei croissant sfogliati alla perfezione. Ora Lui non è più un Eroe professionista. Si è ritirato, il mondo l'ha visto nel suo stato peggiore – quell'aspetto così secco, patito, coperto di sangue – e ci aspettano tempi duri.
Finché non si presenterà qualcuno in grado di prendere il suo posto, i criminali torneranno a imperversare nelle strade. Mi chiedo cosa possa averlo spinto a mollare proprio ora.
Mi chiedo cosa farà, adesso che non ha più il lavoro al quale ha dedicato la sua intera vita.
Mi chiedo se tornerà mai al mio locale, fosse anche per un istante fugace.
Mi chiedo se forse non sto lavorando troppo questo impasto. Meglio metterlo a riposare.
Sposto la pasta lavorata su un vassoio, la copro con un canovaccio pulito e la sistemo in un punto fresco e asciutto della cucina.
Sto finendo di pulirmi le mani quando sento la voce di mia sorella alzarsi con fare accusatorio, dall'altra parte della tenda che chiude la porta della cucina separandola dal resto del locale.
«Ah, sei tu!». È raro sentirla usare questo tono, che riserva quasi esclusivamente alle sue figlie o a suo marito quando combinano qualcosa di grosso. «No, non dire una parola... vieni qui!».
Chiunque sia la persona a cui si sta rivolgendo deve averla davvero irritata, per meritarsi un simile trattamento, e in silenzio ridacchio tra me. Probabilmente si tratta di una delle ragazze: Aino, o forse la piccola Ayame – anche se, a ventun anni, ormai non è più così piccola.
Dall'altra parte della porta avverto una seconda voce che protesta debolmente, così bassa da rendermi impossibile riconoscerla, poi i passi decisi di Seika che si avvicinano.
«Niente storie. Entra» la sento ingiungere, mentre un fruscio secco mi avvisa che la tenda è stata scostata per far passare qualcuno. «Eccola. Parlale, e non osare farla piangere!».
Un attimo, cosa sta succedendo?
Sorpresa mi volto, giusto in tempo per vedere la tenda ricadere al proprio posto e mia sorella che si allontana. E davanti alla porta, immobile e imbarazzato, l'ultimo uomo che mi sarei mai aspettata di vedere nella cucina del mio locale.
Può un cuore smettere di battere? O forse quello che sento è l'esatto opposto, e dopo essere rimasto immobile e muto per tanti anni, solo ora ha ripreso il suo battito regolare?
Quale che sia la risposta, c'è qualcosa di nuovo nel mio petto. Qualcosa di nuovo e terribile e meraviglioso e straziante e vivo!
Quanto a lungo ho aspettato questo momento, senza nemmeno saperlo. All'improvviso mi sento come se avessi vissuto ventidue anni nell'attesa di questo istante, di questo singolo attimo di colpevole dolcezza.
Perché, finalmente, Lui è davanti a me.
Schiudo le labbra, incapace di esprimere quanto sto provando. Guardarlo mi riempie il cuore di gioia, eppure mi fa male. Le immagini del notiziario non mi avevano preparata a questo.
È diventato così magro, così incavato, talmente diverso dall'uomo che era; se un tempo aveva un'aria solida, vigorosa, come il muro di una fortezza, ora è sottile e spigoloso, tutto angoli acuti in un modo che mi ricorda una scheggia di cristallo.
Non so cosa dire. Ci sono così tante parole che si affollano alla mia mente – dove sei stato, ti amo, perché non mi hai mai cercata, mi sei mancato, ti odio per avermi ignorata, ti amo, è così bello vederti, come osi mostrarti qui, ti amo, non andartene, cosa ti è accaduto, ti amo, ti odio, dovrei odiarti, non lasciarmi, ti amo, non ti voglio qui, resta, ti amo...
Mi sono mossa quasi senza accorgermene. Per colmare la distanza tra noi, forse, ed evitare che fosse riempita da quel flusso di parole che mi sentivo scorrere sulle labbra senza riuscire a concretizzarsi, o forse per accertarmi che fosse davvero lì, davanti a me, e non si trattasse solo di un'illusione.
Mi sono mossa in avanti senza saperne la ragione, obbedendo a un impulso muto, a un desiderio primordiale, e le sue braccia mi hanno accolta immediatamente come se non avessero aspettato altro.
Mi stringo a Lui ed è come tornare a casa. I nostri corpi si incastrano esattamente come erano soliti fare un tempo, con una perfezione che nemmeno il suo nuovo aspetto – più sottile, più fragile, meno prestante – riesce a minare. La mia fronte trova istintivamente quel punto speciale appena sotto la sua clavicola, dove combacia perfettamente; le sue braccia mi stringono con familiarità, l'incavo del gomito che sembra adattarsi così bene alle curve del mio corpo, la mano che riposa sul mio fianco come se quello fosse il suo posto da sempre.
Gli faccio scorrere le dita sulla schiena e mi sorprende scoprire quanto sia deperito. La muscolatura prorompente che ricordo è stata sostituita da fasci asciutti, terribilmente tesi, sotto i quali si sentono distintamente le ossa. Se premessi un po' di più, probabilmente riuscirei a contargli le costole attraverso gli strati di vestiario.
Lo stringo con forza, fin quasi a fargli male, ma lui non si lamenta e si limita a tenermi tra le braccia, con le labbra premute sulla sommità della mia testa.
Sono così sopraffatta che mi ci vuole qualche attimo per schiarirmi la mente, per capire che il mormorio indistinto che sento proviene da me. Con il volto affondato tra le pieghe della sua camicia sto continuando a sussurrare il suo nome, come una litania, come se fosse la formula di un incantesimo in grado di trattenerlo qui con me.
Poco a poco mi calmo.
Lui è qui. È davvero qui.
Sono le sue braccia che mi tengono stretta, è il suo respiro che mi scompiglia debolmente i capelli, è il suo cuore quello che sento battere con l'orecchio premuto sul suo petto.
È davvero lui.
Ed è qui.
È qui!
«Se cominci a piangere», lo sento mormorare dopo qualche istante, ancora con le labbra premute sui miei capelli e la voce rotta dall'emozione, «credo che tua sorella mi ucciderà».
«Non sto piangendo», ribatto in automatico, asciugandomi fugacemente gli angoli degli occhi. Sollevo il capo, cercando il suo sguardo, e nel vederlo sorridere il mio cuore fa una capriola; non il sorriso esuberante, esagerato, che sfoggiava davanti al grande pubblico, ma uno più cauto, più sincero, che lo fa somigliare come non mai al ragazzo che era, troppi anni fa.
Vorrei dirgli così tante cose, fargli così tante domande, ma quando apro bocca tutto quello che riesco a dire è un banale: «Perché?».
Perché sei tornato solo ora, perché hai sempre cercato di evitarmi quando venivi alla caffetteria, perché hai questo aspetto, perché hai deciso di abbandonare la carriera, perché siamo rimasti separati così a lungo, perché?...
È una parola così piccola, eppure racchiude così tante domande. E lui deve capirlo, perché all'improvviso comincia a ridere tra sé, scuotendo quelle spalle che appaiono così esili ai miei occhi.
La sua risata ha però breve durata. Lo sento emettere un verso strozzato, si preme un fazzoletto sulle labbra, e quando lo allontana è macchiato di sangue.
«Va tutto bene», cerca di rassicurarmi, con un tono rassegnato che non gli ho mai sentito prima. «Sono i postumi di una vecchia ferita». E, addolorato, me ne parla senza che io gli domandi nulla.
Uno scontro, mi racconta, cinque anni fa. Una ferita al fianco, così grave e profonda da avergli fatto rischiare la vita; il corpo per sempre debilitato, i poteri che gli sfuggono come sabbia tra le dita. Ha perso l'uso di un polmone, mi dice, e l'intero stomaco.
«Sarei venuto da te molto prima», ammette, accarezzandomi la schiena, «ma finché lavoravo come professionista avrei rischiato di metterti in pericolo. E poi, temevo che non volessi al tuo fianco un uomo che cadeva a pezzi».
Queste sono le motivazioni che avevo già intuito, ma c'è dell'altro, lo so. Quest'inflessione nella sua voce l'ho già sentita in passato; è la gelosia, il timore che io possa aver trovato qualcun altro, e allora comprendo che il modo furtivo in cui visitava la caffetteria non era dovuto ad altro che al suo bisogno di sondare il terreno senza che io lo riconoscessi, di comprendere se le ragazze – le mie bellissime nipoti – erano figlie mie o di Seika, di carpire l'accenno a un compagno che potesse aver preso il suo posto.
Dietro quella facciata scanzonata è sempre stato un discreto pianificatore, in fondo.
Ma non abbastanza sveglio da capire che non avrei mai potuto rimpiazzarlo.
Glielo dico e di nuovo lui scoppia a ridere, stringendomi come se temesse di vedermi scivolare via.
È passato così tanto tempo dall'ultima volta che ci siamo parlati, dall'ultima volta che ci siamo stretti, eppure è come se non fosse trascorso un solo minuto.
Ci sono talmente tante cose che devo raccontargli, che voglio chiedergli, ma un solo giorno non può bastarci.
Quando Seika viene a controllare come sta andando il nostro incontro ci trova seduti l'uno accanto all'altra, sugli sgabelli traballanti e infarinati della cucina, così vicini da poterci abbracciare. Io sto ridendo con la testa sulla sua spalla, lui mi tiene le mani e ne accarezza i dorsi coi pollici.
«Oh, meno male!» esclama mia sorella, guardandoci con malcelata soddisfazione. «Ce ne avete messo, di tempo!».
«Troppo», ammette lui mestamente, lanciandomi un'occhiata fugace, e in quel momento accade un fatto curioso.
Sento le sue dita stringere la presa sulle mie, avverto la sua presenza finalmente vicino a me, ed è come se mi risvegliassi da un lunghissimo sonno. La tristezza degli ultimi anni e lo stordimento per la sua comparsa improvvisa lasciano il posto a una placida soddisfazione, e mi ritrovo a sorridere quasi senza rendermene conto.
Finalmente, dopo tanto tempo, sono di nuovo felice.



 
  
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