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Autore: Selene123    19/08/2023    0 recensioni
La vita aristocratica di una donna alla ricerca di luoghi, persone e sentimenti raccolta in un prezioso diario settecentesco
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rivoluzione francese/Terrore
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Ho guardato più volte negli occhi la solitudine, illudendomi così di riuscire ad affrontarla ad armi pari. Mi sono fatta più piccola e, all'occorrenza, più grande, ho taciuto nel tentativo di adattarmi. Talvolta, quando il peso da sopportare era eccessivo, mi intrattenevo in lunghe conversazioni con la mia immagine riflessa nello specchio e spazzolavo i capelli con la cura che, solitamente, mi riservava la cameriera prima di andare a dormire. La balia per un certo periodo credeva che fossi pazza: quando mi sorprendeva a discutere con me stessa, mi afferrava per un braccio precipitandosi da mia madre con il terrore negli occhi. "La bambina parla da sola!" esclamava con il tono di chi avesse visto uno spirito, "In una lingua sconosciuta, per giunta!". Io non ero andata fuori di testa né mi cimentavo in idiomi oscuri e la donna che mi aveva partorito poco più di un lustro prima lo sapeva. "Sta esercitando il suo italiano, come il maestro le ha chiesto." concludeva lei la questione ogni volta, spesso senza neanche degnarci di uno sguardo. Aveva sempre tutt'altro da fare: intrattenere ospiti di vario lignaggio, impartire ordini alla servitù, redigere carte e cucire decori floreali su fazzoletti di stoffa. Di tanto in tanto si dilettava anche al clavicembalo, passatempo che a me divertiva perché avevo il permesso di assistere alle sue esibizioni e, una volta iniziato anche io a suonare discretamente, potevo addirittura partecipare. 

Frequentavo poche persone della mia età finché ho vissuto nella casa della mia famiglia, insomma, un sontuoso palazzo nei pressi della Reggia. I miei genitori, i duchi De Cigale, si erano sposati molto giovani: un matrimonio combinato, il loro, tra una bella figlia della nobiltà francese e il rampollo di un ramo di un'importante nobile famiglia genovese stabilistasi in questo Paese per ampliare le relazioni con la corte; funzionale, peraltro, era stato il cambio di cognome da un italianissimo Cigala a un più consono De Cigale. Léopold Philippe Marie e Joséphine Augustine avevano appena ventuno e diciannove anni quando è nato il mio fratello, Marc-Antoine Léopold Auguste. Ne parlavano sempre come di un bambino tranquillo e generoso, attento durante le lezioni e desideroso di apprendere come diventare il futuro duca De Cigale per rendere orgoglioso nostro padre. Io, purtroppo, non ho memoria di lui a quel tempo. L'unica figlia femmina della famiglia, la persona a cui riservare la dote e per cui organizzare fin dai primi vagiti un'esistenza dignitosa in vista dell'obbligata cessione un giorno a un uomo facoltoso, ci aveva impiegato di più per venire al mondo, ossia quando il fratello era già stato mandato in accademia militare. I nostri genitori mi hanno presentata a lui, infatti, come suo regalo di compleanno: il quindicesimo. Mi sarebbe piaciuto trascorrere più giornate insieme a lui, ma ricevevo solo lettere di tanto in tanto che mi davano quantomeno la possibilità di poterlo immaginare. Pensavo a Marc-Antoine come ad un valoroso guerriero, un cavalliere che tirava di scherma in sella al proprio destriero come nelle pagine dei libri che sfogliavo di nascosto nella grande biblioteca di famiglia. Quando mio fratello tornava, però, mi sembrava talmente diverso da come i ritratti esposti nelle sale del palazzo lo raffiguravano e da come me lo ero figurato io che non riuscivo a riconoscerlo. Ogni volta in cui tornava a casa mi sembrava sempre più alto, la sua voce sempre più profonda e spaventosa... Si rivelava del tutto inutile la sua presenza in casa, dal mio punto di vista, non avendo lui alcuna intenzione di passare con una bambina più di tanto tempo. I suoi racconti riguardavano quasi soltanto la vita militare e, sebbene i miei genitori (soprattutto il duca nostro padre) ascoltavano con piacere ciò che avesse da dire, a me pareva che ogni visita si prolungasse troppo a lungo e che quei congedi fossero una gran perdita di tempo. Per Marc-Antoine e per me. Un giorno, poi, quando il suo percorso di studi era già ben avviato al successo e gli si profilava un bel posto per cominciare la sua carriera nell'esercito di Sua Maestà, la casa si era riempita all'improvviso di gioia e trepidazione: nostro padre aveva finalmente trovato la moglie perfetta per il suo unico erede maschio e in men che non si dica mi ero trovata circondata di estranei che mi facevano rimpiangere i soliloqui allo specchio. Grandi feste e grandi celebrazioni, tutte destinate a portare via con sé anche quella propaggine di gente sconosciuta per la quale ero stata obbligata a indossare i corsetti più stretti che avessi mai avuto e ad acconciare i capelli in modo pericolante. 

Ero una bambina sola, quindi, in una grande casa, circondata da adulti che non pensavano a me o, se lo facevano, era per impartirmi una lezione noiosa. Una volta cresciuta, alla "piccola donna" venivano affidati compiti da svolgere in vista di un futuro non meglio precisato in cui qualcuno l'avrebbe sposata. Tutta la mia esistenza era ormai finalizzata a quell'unico obiettivo. Mia madre aveva cominciato a commissionare abiti simili a quello cucito per le nozze di mio fratello, stecche di balena e crinoline terrificanti dentro le quali crescevo di mese in mese e mi sentivo a disagio. Si preoccupava che sapessi conversare bene, comportarmi adeguatamente a tavola e compagnia obbligandomi a seguirla nei suoi incontri mondani del pomeriggio, controllava che avessi una grafia "gradevole, comprensibile ed elegante" e si premurava che le mie velleità intellettuali - una volta scoperto il mio rifugio tra le pagine della biblioteca - non prendessero il sopravvento. "Non pensare e non parlare, cara," ripeteva spesso Madame la duchesse, "agli uomini non serve". Mi sentivo mancare il fiato quando quelle parole venivano pronunciate. Non servivo a nient'altro che ad accompagnare qualcuno, a generare la sua prole e a far finta di occuparmene mentre sorseggiavo del té cinese immersa nel pettegolezzo della corte. Ricordo di aver pianto molto quando ero una ragazzina, una "piccola donna" di cui liberarsi al più presto perché la famiglia rafforzasse il proprio ruolo nella nobiltà e accrescesse il prestigio di un cognome naturalizzato ma non originario dei luoghi. Distrattamente, durante le merende in compagnia di marchese e principesse amiche di mia madre, sentivo discutere circa l'inconcludenza della nuova arrivata, l'austriaca moglie del delfino di Francia, incapace di dare alla nazione e al marito un erede. Mi rincuorava sapere di non essere l'unica incarnazione della delusione nei confini dello Stato. Certo, il mio momentaneo nubilato non avrebbe compromesso né la discendenza della famiglia reale né gli equilibri di mezzo continente europeo, però, anche se solo spiritualmente, trovavo conforto nella sua storia. "E la delfina com'è? L'avete mai incontrata?" mi ero azzardata a chiedere io un mattino interrompendo la chiacchierata fra madri maritate da anni. Gli occhi di mia madre si erano posati sul mio volto con l'accanimento di una belva: non avevo il permesso di immischiarmi in conversazioni che non mi riguardavano, a maggior ragione se per farlo avrei dovuto togliere la parola alle persone più grandi di me. Non le era servito neanche muovere un muscolo del volto, sapevo cosa significasse quello sguardo: "Non parlare, agli uomini non serve". La mia curiosità, pertanto, era caduta nell'aria, o forse si erano limitate a descrivere la principessa sommariamente con una battutina sagace (come facevano un po' tutti, d'altronde).

Che parlassero in quei termini anche i miri genitori di me? Come avrei potuto trovare marito e adempiere ai miei compiti se mi presentavano alla corte in tal modo? E se davvero non avessi trovato nessuno, neanche un vecchio conte con un appezzamento di terreno ridicolo dall'altra parte del Paese che necessitava soltanto di carne fresca a cui imporre il proprio cognome e la propria stirpe prima di lasciare questo mondo? Sarei stata una disgrazia! Anzi, sarei passata alla storia come l'ultima della mia famiglia, colei la quale avrebbe posto fine ad una nobile famiglia di antichissime origini! Dovevo impegnarmi di più, sforzarmi di stare zitta, imparare meglio le buone maniere, la danza, il canto — quello sì che mi piaceva! — la sottile arte della seduzione con il ventaglio, il savoir-faire a corte... Il tempo stava correndo veloce, lo sentivo e all'arrivo della notizia che Marc-Antoine e la sua bella moglie Françoise avrebbero avuto un bambino l'angoscia aveva cominciato a perseguitarmi. Non ero più sola, in effetti. Adesso, mi trovavo in compagnia di tutte le preoccupazioni, le ansie, le paure che una giovane donna dell'aristocrazia senza marito e con il vizio di fare domande possa avere. 

Io sono Aphrodite Marie Augustine Léopoldine, sono nata a Versailles nell'aprile del 1755 e questa è la mia storia. Écrite par moi même, dans mon journal, à partir des mes souvenirs. 

   
 
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