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Autore: IlakeychanMorgain28    15/09/2009    0 recensioni
Agli occhi del mondo, Albert sembra un uomo come tutti gli altri. Un po' solitario e schivo, forse, ma nulla al di fuori della norma. Eppure, il passato di Bert è quanto di più lontano ci sia dalla normalità, un passato antico che non dovrebbe ricordare, ma da cui non può staccarsi. Eva è una moderna ragazza londinese. Ultima arrivata al museo di Plymouth, è vivace, chiacchierona e pazza quanto basta. L'esatto contrario del silenzioso Bert. Eppure, quando una sera le vite di queste persone tanto diverse si incroceranno, segnerà per loro l'inizio di un'avventura sospesa tra passato, presente e futuro, alla scoperta di loro stessi e l'uno del'altra che cambierà la loro storia per sempre.
Genere: Romantico, Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Green Knight
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Green 1



La Bizzarra, Anacronistica Storia di un Caveliere, una Londinese ed un Faro


Prima collaborazione tra me, Morgain28, ed Ilakey_chan. Un'idea nata dal delirio sul Green Knight e la sua situazione sentimentale, che abbiamo voluto realizzare a tutti i costi! Speriamo vivamente che ci accompagnerete alla scoperta di un cavaliere che, diviso tra due mondi diversissimi, troverà, infine, un posto nella vita di una modernissima, pazza londinese dei nostri tempi. E di come lei lo troverà nella sua.

Dedicato a Bertilak, Cavaliere Verde, mio imperituro amore, e a noi, nella nostra prima, pazza avventura.

Capitolo 1: Le Cose Che Detesto

Il faro rosso e bianco spiccava imponente sulla città di Plymouth. In qualunque punto uno si trovasse, avrebbe potuto vedere la grossa struttura innalzarsi, orgogliosa e solitaria, sugli abitanti della città, abbracciando con fare quasi protettivo la baia, ogni notte. Al momento, tuttavia, il faro riposava tranquillo, lasciando il posto ad un pallido sole i cui raggi passavano a fatica attraverso la coltre di nubi grigio scuro, una seria minaccia di pioggia.
Dal suo appartamento al secondo piano, Eva O'Connel fissava il cielo in subbuglio con espressione imbronciata, tentando di scacciare il cattivo presentimento che le attorcigliava lo stomaco: la promessa del temporale non faceva altro che rendere il suo umore, già teso come una corda di violino, ancora più nervoso. Eppure, tutt'altra era stata la sua reazione quando aveva saputo che, dopo un'infinità di tempo e impegno, avrebbe realizzato uno dei suoi sogni più arditi: entrare da dipendente nel Museo Elisabettiano di Plymouth. All'epoca, quando la sua ex professoressa di Letteratura Inglese le aveva comunicato la notizia, aveva creduto di poter toccare il cielo con un dito, nonostante sapesse quali e quanti cambiamenti la scelta di accettare avrebbe implicato nella sua vita; adesso che il momento era arrivato, l'unico sentimento che provava era un'acuta voglia di vomitare.
Si voltò verso lo specchio intero che occupava quasi tutta la piccola stanza semivuota, che portava ancora i segni del suo recentissimo trasferimento in città. Distrattamente, passò una mano a lisciare una grinza sui sobri pantaloni neri che aveva comprato per l'occasione, nella speranza di darsi un minimo di credibilità; poi, rise di se stessa. Non era facile darsi un tono, quando ti ritrovavi il viso lentigginoso e la struttura fisica di una quindicenne, per di più bassina, pur avendo dieci anni di più. Le efelidi le costellavano gli zigomi pallidi e paffuti e il naso piccolo, che spariva dietro alla montatura degli occhiali quando leggeva; le lentiggini continuavano il loro tragitto, diffondendosi per il resto del corpo e non accennavano a diminuire nonostante la lotta agguerrita in cui Eva le aveva ingaggiate fin dall'adolescenza - stava così poco al sole da sembrare un fantasma. Ma la cosa che più la infastidiva in assoluto era un'altra: il rosso intenso dei suoi capelli, ereditati chissà da quale antenato irlandese nella linea di sangue di suo padre. Quel colore, oltre a renderle praticamente impossibile vestirsi ogni mattina, era di un'appariscenza inconcepibile; se avesse voluto fare la spia di professione, ragionò, a causa della sua capigliatura non ne avrebbe mai avuto la possibilità. Per quella, e per la sua innata goffaggine.
Quella mattina, aveva cercato di rimediare attorcigliandoli in una crocchia severa sulla nuca, ma la pettinatura non smorzava granché l'effetto torcia che le provocavano. Sua madre, orgogliosa posseditrice di una sobria chioma nera, per scherzare, andava dicendo che avrebbe fatto meglio a chiamarla Anna; per scherzare, e per irritarla deliberatamente a morte. Il che non era poi così difficile a farsi, dato che Eva incarnava consapevolmente tutte quelle dicerie che pullulavano sulle persone con il suo colore di capelli; irritabile, litigiosa e testarda. E fiera di esserlo, si disse con orgoglio. Nonostante quel suo carattere focoso, l'umidità di quella città sembrava aver spento tutta la sua baldanza; si sentiva nervosa come poche volte lo era stata in vita sua. Il suo flusso di coscienza terminò bruscamente quando avvertì un insopportabile puzzo di bruciato provenire dalla cucina; si diresse verso la stanza correndo, rischiando di rompersi l'osso del collo scivolando su un tappeto, ma non fece in tempo ad evitare il disastro: fissò con disgusto i resti della sua colazione, che pur concepita come una fetta di pane tostato, assomigliava di più ad un tizzone carbonizzato. Con cautela, lo gettò nel secchio sotto i fornelli, il naso arricciato per l'odore pungente: perfetto, persino il tostapane aveva deciso di fare il difficile, quella mattina. Fantastico.
Mentre apriva la finestra nella speranza di respirare di nuovo, il suo orologio da polso, programmato con cura per ovviare ad una sua certa tendenza ad essere sempre in ritardo, cominciò a suonare. Eva si bloccò di colpo, presa dal panico: non aveva tempo di fare colazione, se voleva arrivare in tempo alla fermata dell'autobus, e rifiutava di concepire l'idea di arrivare meno che puntuale, ad ogni costo. Afferrò la pesante borsa in fretta, chiuse a chiave l'appartamento e caracollò giù per le scale alla volta della fermata dell'autobus per la strada affollata del centro. Corse a perdifiato, andando a sbattere contro diversi passanti sistematicamente, i piedi doloranti per lo sforzò, e urlando scuse sconnesse; arrivò in tempo per un soffio, esausta e accaldata pur in quella fredda giornata di ottobre. Cinque minuti dopo, si dirigeva alla volta del suo posto di lavoro, pigiata tra un passeggino ed un uomo di mezza età che emanava un forte odore di sigaro. Un'altra cosa da annoverare tra le tante che detestava, decise: gli autobus pieni del lunedì mattina. Aveva già percorso quel tragitto il giorno precedente, per evitare di sbagliare strada; il tratto dalla fermata al Museo era misericordiosamente breve e diretto. Ma la domenica era un altro universo rispetto all'affollamento del lunedì: l'abitacolo era pervaso dal parlottio della gente, pacato ma che creava lo stesso un brusio poco piacevole; il respiro della folla appannava i vetri dei finestrini, in una patina di umidità. Eva ci passò un dito, creando una scia dritta e netta sul vetro sporco. Cominciava a innervosirsi di nuovo, dopo essersi ripresa dalla corsa mattutina. Allentò la sciarpa intorno al collo della giacca pesante. La sua testa si riempì nuovamente di ipotesi e sogni ad occhi aperti: chissà dove avrebbe lavorato, si chiedeva tra timore ed anticipazione, o cosa avrebbe dovuto fare. Come sarebbero stati i suoi colleghi? Gli sarebbe piaciuta? L'autobus frenò all'improvviso, ricordandole dove si trovasse. Mise da parte le sue riflessioni, prestando attenzione alla strada. Per dieci minuti osservò il continuo susseguirsi degli edifici: la città prendeva vita sotto i suoi occhi, il rumore dei clacson echeggiava dall'esterno. Riconobbe il suo punto di riferimento, la grossa insegna di un ristorante cinese, ancora spenta ma ben visibile nel suo violento colore rosso fuoco. Un po' a spinte, un po' a balzi, arrivò all'uscita, scendendo più in fretta che poté nel traffico cittadino. Poteva già vedere la cima dell'edificio bianco ed alto che era la sua meta. Saltò giù con la poca agilità che possedeva, evitando una pozzanghera grigiastra e fangosa per un pelo, mentre gettava uno sguardo all'ora: era ancora in tempo. Doveva essere un miracolo. Si avvio a passo svelto nella via di fronte a lei, scalpitando come un cavallo nervoso, fino ad arrivare, finalmente al suo traguardo: " Museo e Galleria d'Arte della Città di Plymouth", recitavano i caratteri cubitali incisi sulla facciata dell'edificio. Eva si passò una mano tra i capelli, ormai inevitabilmente arruffati dalla corsa, un largo sorriso pieno di aspettativa che si formava sulle labbra nude e sottili: iniziava l'avventura
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