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Autore: awhmoony    28/09/2023    2 recensioni
Parigi è in fiamme, supplica afflitta nel tumulto ché s’avvicina la Rivoluzione, in mezzo a terrificanti rivolte popolari che si confondono tra i lamenti strazianti che squarciano il cielo di quelle madri che piangono disperate lacrime sui cadaveri dei figli rimasti senz’anima, si consuma discreto e intimo un amore struggente tra un comandante e una contadina, che tanto vorrebbero metter fine a quel conflitto sigillando le ostilità con un bacio in una piazza. Ma non succede, loro combattono al fianco della capitale che cade in ginocchio innalzando comunque quel desiderio di libertà che riverbera nel cuore di tutti sotto l’ultima notte stellata di Parigi.
[...] “Esser morta vorrei veramente. Mi lasciava piangendo, e tra molte cose mi disse:
È terribile ciò che proviamo. Ti lascio, non per mio volere. Va’ pure contenta, e di me
serba il ricordo: tu sai quanto t’amavo.”
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Soldati della guardia metropolitana di Parigi
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO II.
CRUDELE.

  

 

 

 

 

Avvertenza: avviso la presenza di una scena che riporta la descrizione più o meno esplicita di una violenza sessuale.

 


 

 






 

 

Sognare era sempre stato semplice. Affievolirsi con soffice apatia in un luogo incolume e quieto. Fin dagli albori della sua fanciullezza, le fantasie di Joëlle erano sempre state tele inzuppate di colori tenui e capovolte: in quelle visioni eteree era ancora bambina, mai cresciuta e senza l’ombra di sofferenza a macchiarle gli occhi — forse perché da piccini il mondo viene percepito affusolato; sopra il quale la purezza di quelle innocenti creature talmente sensibili fluttua incontaminata, così distante dall’essere insozzato dalle brutalità degli adulti. Il mondo, attraverso gli occhi di un bambino, è uno spazio ricco d’incanto e di meraviglie, che nasconde in sé posti da scoprire e avventure da raccontare, con la stessa ingenuità con cui la realtà viene osservata: sottosopra, vellutata, inarrivabile. L’infanzia è vivere in un sogno ad occhi aperti e sperare di non svegliarsi mai.

Eppure, appena nata nessuno aveva azzardato a riporre molte aspettative in merito alla sua sopravvivenza. Venuta alla luce in una gelida notte di metà marzo, non aveva emesso nemmeno il principio di un lamento, né il presupposto di un vagito. Se Gilbert Masson non si fosse precipitato con impaziente frenesia, spalancando la porta della camera da letto dando l’impressione di preannunciare cattive notizie, Gérard non si sarebbe accorto della nascita della figlia e dato l’inquietante silenzio che giungeva dalla stanza dove sua moglie pochi istanti prima stava squarciando l’aria di grida che invocavano l’Altissimo – e avevano provocato nel disgraziato Moreau incontrollabili brividi di terrore che avevano pervaso tutto il corpo –, aveva seriamente temuto l’inconfessabile. Ma appena l’amico, con le lacrime pregne di felicità e l’ampio sorriso volutamente non trattenuto gli aveva pronunciato le parole «È nata», Gérard Moreau si era abbandonato completamente svigorito sulla sedia.

Pochi minuti più tardi si era trascinato all’interno della camera dove alla vista di Camille sudata, con i capelli biondi appiccicati al viso e il fiato mancante a causa delle urla e degli sforzi, che reggeva delicatamente la sua creatura fra le braccia avvolta dalle morbide lenzuola bianche, aveva avuto il preludio di un mancamento. Era padre, quel pensiero fino a quel momento gli era sembrato così lontano, irreale, inafferrabile. Si era avvicinato incerto, Gérard, prendendo posto rigidamente sul lato destro del letto sopra il quale era distesa sua moglie con ancora le gambe divaricate e gli stracci posizionati in mezzo a esse, macchiati di sangue e liquidi corporei – a cui l’uomo dedicò una distratta occhiata e non volle indugiare oltre: svenire non era contemplato in un momento come quello –. Ebbe a malapena il tempo per riservare uno sguardo lieto a Camille, la quale, stremata, gli rispose con un sorriso stanco ma soddisfatto e posare delicatamente e con cautela gli occhi sulla figlia che, silenziosa e estremamente calma, emetteva solo piccoli versi da neonata e teneva gli occhi chiusi. La donna distesa sul materasso venne improvvisamente contratta da ulteriori doglie che di riflesso mandarono impulsi repentini: afferrò saldamente le lenzuola, stringendole fra le dita, gettò la testa all’indietro e inarcò la schiena. Le corde vocali emisero altre grida di dolore. In profondo stato di allarme, le infermiere si precipitarono sulla donna e obbligarono il Dottor Masson a intervenire. Nemmeno quando venne strappata via dalle braccia della mamma, Joëlle pianse. Venne accuratamente affidata al sostegno esperto della nonna, la quale si premurò tenere saldamente l’infante e senza batter ciglio uscì dalla stanza da letto seguita dal figlio, il quale, disperato ribatteva insistentemente di voler rimanere al fianco della moglie. Nello spazio esiguo e tra le figure addolorate di Gérard e di sua madre, la fiera e severa Louise, aleggiava un imbarazzato e riservato silenzio. Gérard perché gravemente preoccupato; i gomiti poggiati sulle ginocchia e i palmi delle mani a coprirgli il volto, e l’anziana donna perché impegnata a cullare la neonata che malgrado le grida della madre sembrava essersi abbandonata a un sonno profondo.

«Pensi che stia bene?» Postulò con la voce incrinata dalla tensione più estrema Gérard. Non udendo alcuna risposta, l’uomo scostò lievemente le mani da davanti gli occhi per osservare la madre che con neutralità cullava dolcemente sua figlia. Lo sguardo che gli lanciò suggeriva distacco, indifferenza.

«Non sarebbe una grande sorpresa,» parlò fredda Louise, facendo intendere che provava apatia nei confronti dello stato di Camille – com’era sempre stato d’altronde, non era una novità – «la poveretta è sempre stata cagionevole di salute, dare alla luce due figli è impegnativo di per sé.» Per le donne forti, avrebbe voluto aggiungere, ma si azzittì sebbene con difficoltà. Louise non era mai stato il tipo di donna capace a tenere a freno la lingua, sia con disprezzo o autorità doveva dire ciò che pensava; era più forte di lei, le parole mal trattenute le scivolavano via dalla punta della lingua senza che lei potesse effettivamente far niente. Con l’avanzare dell’età, poi, questo aspetto sgradevole era andato peggiorando. Era una donna impettita, con lo sguardo affilato e il viso allungato, gli occhi vitrei e la corporatura gradevolmente slanciata.

«E comunque, nel caso non riuscisse a sopravvivere, questi poveri bambini avranno sicuramente bisogno di una figura materna, di riferimento se non altro.»

Quella frase rimase sospesa, oscillante tra l’inquietudine e l’affanno, mal sentita e che non voleva essere compresa.

Fu soltanto quando venne posizionata con estrema cura sul braccio libero di Camille, faccia a faccia con il fratello gemello poggiato sull’altro braccio, che Joëlle, finalmente, pianse.

 

 

Il tintinnare di piccolissimi bulloni, viti, ingranaggi rotondi e di appena percettibili oggetti metallizzati soffocati gli uni negli altri, che venivano ripetutamente mescolati, agitati e scossi nel palmo chiuso di una mano, innervosivano in maniera a dir poco evidente i delicati timpani delle cameriere che spazientite rivolgevano occhiate accigliate in piena direzione di quell’impertinente ragazzina che sembrava proprio lo facesse apposta a dar fastidio. In realtà Joëlle sembrava non essersi accorta dell’irritazione che scuoteva i nervi delle colleghe, impegnata a star scomodamente seduta sul bordo del davanzale della vetrata nella grande sala della villa del Conte Bourdon, attendendo spazientita il ritorno della famiglia da Parigi. Osservava distrattamente in basso, gli occhi placidamente puntati sulla lontana figura dello stalliere che sotto i raggi del sole a giudicarlo faceva avanti e indietro dalle stalle al fienile trasportando su una carriola arrugginita il fieno dall’accecante colore dorato; non che, malgrado tutto, le interessasse cosa facesse il garzone, bensì pensieri paranoici si erano rannicchiati in un angolo nella sua testa e dall’insistente irrequietezza portata proprio da suddetti grattacapi aveva preso a giocherellare freneticamente con i resti del carillon distrutto che portava sempre con sé nella tasca anteriore del grembiule. Perciò non avvertì nemmeno i chiacchiericci sussurrati che le colleghe infastidite si scambiavano, appollaiate a pochi metri di distanza sui divani da salotto della stanza giacché troppo impegnata a rintracciare quel minimo di tregua dalle brutte sensazioni: César era definitivamente partito per Parigi, raggiungendo Odette e determinato a far cambiare idea al padre in merito alla decisione di quest’ultimo di far arruolare il figlio maggiore nell’esercito della Guardia Metropolitana – o più semplicemente conosciuta come un’accozzaglia di bestie della peggior specie raggruppate tutte insieme a proteggere le pericolose vie di Parigi e a metter quiete nel tumulto che di notte sconquassava l’animo dei francesi, ma che in realtà erano solo buoni a infestare come ratti le bettole della città –, era diventato l’apprendista di un falegname.

Erano trascorse tre settimane e complessivamente il fratello aveva spedito a Joëlle solo tre lettere che componevano la totalità di informazioni equivalenti alla lista della spesa; Joëlle si sentiva profondamente trascurata, abbandonata e soprattutto annoiata, contrariata, quasi astiosa. E si biasimava aspramente per questo. Si dava della stupida quando al mattino si svegliava e desiderava essere da tutt’altra parte, magari al posto di Odette, esclusivamente per essere accanto al fratello a vivere una vita insieme a Parigi. Invece Joëlle era rimasta a casa, come era giusto, impegnata ad aspettare il giorno in cui il suo futuro coniuge si sarebbe presentato alla sua porta e l’avrebbe portata via. Sopportava a stento le discussioni che avvenivano quasi quotidianamente con il padre; in assenza di César, la tensione tra i due si era fatta notevolmente più compatta e senza nessuno che riuscisse a far calmare il fuoco che Joëlle aveva dentro, i litigi proseguivano fino a quando uno dei due non decideva di porre fine a quel supplizio uscendo di casa, mettendo una distanza fisica tra loro. Adesso Joëlle e suo padre a malapena si scambiavano brevi occhiate, riducendosi sempre di più a un mutismo selettivo che aveva creato un alone di tensione ogni volta che i due si trovavano nella stessa stanza. Suo padre era dominato dall’insistenza, da un inalterato patriottismo e da quel macabro, urgente sentimento di maschilismo radicato che non lasciava sfuggire quando si trattava di discutere con la figlia dei doveri di una donna, perseverando sulla questione del matrimonio; tanto da arrecare in Joëlle una profonda repulsione. Non l’aveva ancora conosciuto, ma già detestava suo marito.

 

In aggiunta a questo profondo sentimento di solitudine, a turbare il delicatissimo equilibrio del sonno della giovane Joëlle era comparso l’ennesimo elemento di disturbo che però portava con sé un nome: Louise Archambeau, o conosciuta dalla famiglia Moreau semplicemente come Nonna Louise. La bisbetica, lunatica e isterica nonna paterna che Joëlle e suo fratello César ricordavano imprecisamente quando di tanto in tanto il suo nome sbucava fuori dalle distratte conversazioni di Gérard, il quale le riservava sempre parole succinte e lievemente intimidite; per i due fratelli la figura della nonna era sempre stata un’ombra indefinita. Ciononostante adesso la ragazza sarebbe stata perfettamente capace di descrivere per filo e per segno ogni minima caratteristica che contraddistingueva quell’anziana signora che di punto in bianco, una mattina di inizio primavera, si era acquattata in un angolo di casa e da lì non s’era più mossa. Tra le altre cose, poi, ella aveva anche resa propria la stanza di Joëlle.

Come detto, la saggia donna era dapprima capitata con l’intenzione di concedere una fugace visita: si era comodamente seduta su una sedia attendendo nervosamente che le venisse servito un tè e del pane con della marmellata; aveva indirizzato l’ordine al figlio che disciplinatamente si era messo all’opera. Joëlle si era svegliata con il profumo del pane fresco che le arrivava alle narici e scendendo le scale con la prospettiva di una colazione abbondante, aveva scoperto lo sguardo burbero e corrucciato della vecchia che masticava aggraziatamente un boccone, offuscata nell’oscurità della casa; la figura infilata in un abito dal colore fuligginoso era esile e longilineo, l’aspetto spigoloso. Sembrava uno spettro.

«Oh Santo Cielo,» mormorò assumendo un’espressione al limite del disgusto mentre il suo sguardo vagava sulla giovane appena sveglia: in vestaglia da notte, con i capelli arruffati e la faccia assonnata. La sagoma si mosse spostando il braccio appoggiato sul tavolo; posò la tazzina del tè sul piattino e poi si alzò affiorando lentamente dalla penombra. Adesso che era illuminata dal fievole sprazzo di luce che si insinuava dalle finestre, Joëlle assodò mostruosamente che l'aspetto dell’ospite non era troppo dissimile dal suo. Allungò una mano ossuta e rugosa in sua direzione, la ragazza osservava ammutolita le dita scheletriche avvicinarsi sempre di più finché non afferrarono con forza le guance, spostarono il capo da una parte all’altra e dalle labbra serrate e inesistenti uscirono gutturali versi di disappunto. «Questa ragazza è un disastro, Gérard. sembra appena uscita da una maison de prostitution¹.» Dichiarò con una compostezza tale da far rabbrividire di terrore Joëlle che non era certamente qualcuno che si lasciava svalutare così facilmente. Presagì, infatti, un terrificante sentimento di angoscia all’altezza dello stomaco, come se qualcuno l’avesse appena accoltellata nell’orgoglio e senza preoccuparsi di mettere a freno i pensieri, diede libero sfogo all’immediata concezione che aveva avuto di quella presunta parente: «Ha parlato la vecchia uscita dall’ospizio!»

Nonna Louise esalò un respiro così profondo che sembrava preannunciare un trapasso immediato, invece per disgrazia di Joëlle, l’anziana assunse solo un’espressione talmente tanto sconcertata da essere al limite del ridicolo, tanto da far sogghignare leggermente la nipote; la donna doveva essere stata abituata troppo alla nobiltà e si era dimenticata delle sventurate origini della sua famiglia. Poiché tempo addietro, prima di portare altezzosamente il cognome del marchese Archambeau – un vecchio più vecchio persino di Nonna Louise –, lei era figlia di nessuno, una contadina anonima che poteva far altro che sognare. Da quando era convolata a nozze all’onorabile età di sessantasette anni, però, non aveva esitato a traslocare istantaneamente nella sfarzosa villa degli Archambeau, localizzata a pochi chilometri da Versailles. E quando il povero margravio aveva espirato l’ultimo respiro successivamente a settimane di lenta agonia, tutto il patrimonio passò automaticamente nelle mani di Louise: ora una marchesa vedova che viveva da sola nell’antica residenza degli Archambeau e che frequentava assiduamente la Reggia di Versailles nel tentativo di esorcizzare il dolore che il peso della morte del marito le pesava sul quel povero, stropicciato cuore. Questa era la storia, spesso condita con frivoli pettegolezzi, alcuni dei quali accusavano Louise di aver avvelenato il marito per accaparrarsi il patrimonio.

In quel momento però, nella stanza immersa nel silenzio, l’unico suono che si percepì fu quello di uno schiaffo. Joëlle si toccò la guancia dolorante: sua nonna, la donna che aveva visto solo una volta in vita sua, l’aveva appena picchiata così forte da farle voltare il capo dall’altra parte e suo padre non aveva mosso un dito per difenderla. Infatti, il buon vecchio Gérard aveva silenziosamente indugiato, restando acquattato accanto al fuoco svolgendo un ruolo da osservatore non avendo in sé la spudoratezza necessaria per azzardare a mettere in pericolo la propria incolumità intromettendosi nella discussione tra due donne; soprattutto se queste erano sua figlia ribelle e sua madre.

«Se ti comporterai ancora in questo modo, di schiaffi così ne riceverai parecchi da tuo marito.» Disse con inflessibile austerità, voltandosi poi verso il tavolo da cucina e afferrando il manico della tazzina da tè diede un sorso alla bevanda ancora calda, come se quel gesto fosse il risultato di un gesto raffigurato come normalità. «Non mi sorprende che quell’incapace di mio figlio non abbia saputo dare a te e ai tuoi fratelli le conoscenze fondamentali, ma vedo che nemmeno tua madre è stata in grado di far niente.»

Il sentimento di indifferenza che Joëlle nutriva nei confronti della vecchia, adesso stava velocemente trasformandosi in qualcosa di più cattivo; un impulso nefando che le contorceva lo stomaco, bloccandole il respiro in gola e provocandole un profondo ardore brutale. Era comune a molti che Joëlle non permettesse a nessuno di rivolgersi alla sua defunta madre in qualunque circostanza; il nome di Camille non veniva mai pronunciato, era una presa di consapevolezza collettiva che tutti, tacitamente, avevano deciso di seguire. Adesso, a Joëlle ribolliva il sangue nelle vene e avrebbe tanto voluto rispondere a quella provocazione con la medesima violenza che le era stata appena rivolta. Tuttavia, sua madre qualcosa di buono le aveva insegnato: l’educazione e il rispetto.

«Io non sarò certo ammaestrata come quegli aristocratici che siete così tanto abituata ad avere attorno,» sibilò Joëlle con la mascella contratta, si mosse a grandi falcate pesanti raggiungendo la figura longilinea della nonna «ma quantomeno possiedo quel minimo di delicatezza da riconoscere il momento in cui è necessario smettere di parlare.» Pronunciò Joëlle corrucciando le sopracciglia, assumendo un’espressione imbronciata che tuttavia non suscitò alcuna reazione alla donna a pochi passi da lei.

«Ci sarà molto lavoro da fare.» Concluse Nonna Louise, allontanando la nipote usufruendo della punta del suo bastone da passeggio, pressandolo leggermente sul suo petto facendole fare qualche passo indietro.

 

Étiquette, élégance, féminité. Etichetta, eleganza, femminilità. Joëlle stremava le più irrigidite membra del suo cervello con l’unico scopo di fissare le dottrine che Louise le affidava; quelle tre voci reiteriate senza affanno orientate in direzione di qualunque esercizio di preparazione che scandiva ritmicamente la quotidianità della giovane Moreau, erano alla base del successo. Proclamate ad alta voce durante lo studio dei poemi destinati alle giovani menti nobiliari giacché recitati in modo sbagliato, oppure intanto che venivano indottrinati passi di danza complessi che si differivano spaventevolmente da quelli che Joëlle ricordava da bambina, o ancora, laddove la tazzina da tè rovesciata sul tavolo emetteva lamenti strozzati. Erano un rimprovero a cui Joëlle, quando i muscoli delle gambe o della schiena bruciavano sotto il tocco scottante del bastone da passeggio di Nonna Louise, nell’insistente tentativo di farle mantenere la posizione rigidamente corretta, riusciva a sottrarsi sovvertendo a insubordinazioni che provocavano litigi interminabili. Anche adesso, accompagnata dall’amata raccolta di poesie di Saffo – ché andava volontariamente in opposizione alle ambizioni letterarie di Louise –  adocchiata in mezzo a tutti i libri che sua nonna aveva portato con sé, sottratta furtivamente e letta privatamente quando la donna non era nei paraggi, con il viso parzialmente illuminato dalla fiamma di una candela che ondeggiava sinuosamente e la guancia poggiata sulle sottili pagine, dedicava un po’ di solidarietà a quell’anima oppressa e perseguitata da avviliti sentimenti.

«Cosa leggi?»

Joëlle sollevò la testa e diresse uno sguardo addormentato sul ritratto in penombra di un uomo robusto. Alzò le spalle dando vita a un movimento distratto facendosi da parte per permettere a Gérard di prender posto accanto a lei. Chiuse il libro concedendo al padre di leggere il nome stampato sulla copertina. Assunse un’espressione esitante per poi ammettere di non sapere chi fosse questa Saffo.

Un leggero sbuffo d’aria scappò dalle labbra di Joëlle che poggiò una mano sulla spalla dell’uomo: «Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce non esce, e la lingua si spezza. Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e gli occhi più non vedono e rombano le orecchie.»

Sulle figure sedute vicine gravò un silenzio paralizzato dall’imbarazzo.

«È questo che voglio provare per qualcuno. Amare qualcuno che riesca a farmi dimenticare come si respira. Ecco, cosa significa.» Joëlle riuscì a pronunciare quelle parole tra un sospiro tremolante d’insicurezza e l’altro.

«Sarà così. Imparerai ad amare tuo marito.»

«Ma io non voglio imparare! Voglio solo…» Si zittì scettica, ultimare quella confessione avrebbe potuto sgretolare definitivamente un rapporto già spaccato. «Voglio vivere un amore come quello tuo e della mamma.»

Gérard si ammutolì, lasciandosi cadere sulla sedia svigorito abbandonato dagli ultimi frammenti di energie. Joëlle seguì il suo movimento, tuttavia assumendo un atteggiamento di arroganza obbligandosi a non proseguire con ciò che aveva da dire.

«Ho dovuto togliere Hugo dalla scuola,» ruppe il silenzio l’uomo, senza tentare neanche di nascondere l’ombra di disperazione che inglobava sempre di più il suo cuore. «Tua nonna pagherà un collegio nei pressi di Lyon. Ti imploro, figlia, ubbidisci a Louise. Sposa il conte che ti presenterà senza reagire d’impulso. Andrai lontano da Parigi, almeno tu. Quella è diventata una città sofferente; si è arresa a un male incurabile. Le strade della città sono mosse da un’agitazione esausta anche di giorno, e quei vigliacchi dei nobili sorpassano con le carrozze corpi dei bambini agonizzanti in mezzo alla strada senza nemmeno fermarsi,» L’oggettiva sincerità di quelle parole obbligò Joëlle a restare in un rispettabile silenzio «Sono sicuro che in questa battaglia ci perderò il mio figlio maggiore, non voglio veder morti anche gli altri due. Perciò vi prego, restate al sicuro.» Joëlle non fu capace a trattenere le lacrime le quali tracciavano un passaggio ardente lungo le sue guance. L’idea di perdere César si palesò talmente tanto nitidamente nella sua testa prendendo la forma di una tragica immagine che non poté fare a meno di toccarsi il petto all'altezza del cuore, asfissiato da una straziante malinconia.

«Se César dovesse venire a mancare in battaglia, morirei di dolore anch’io.» Confessò Joëlle, la voce spezzata dai singhiozzi che assalivano la gola. Si apprestò ad asciugarsi rapidamente gli occhi arrossati e stremati con il dorso della mano «E se in questo modo dobbiamo giungere alla nostra fine, allora lasciatemi morire con lui.»

 

Quella conversazione patita venne soppressa dall’ultima dichiarazione di Joëlle, lasciando sapori amari dalle lacrime mute e occhiate imploranti ché nient’altro fecero se non esortare la giovane Moreau a proseguire ancora più meticolosamente verso una decisione sempre più concreta e decisiva, mentre suo padre abbassava il capo rassegnandosi faticosamente e dolorosamente al desiderio della sua unica figlia. Non aggiunse altro, il Signor Moreau, edotto del fatto che qualunque tentativo di preghiera sarebbe risultata ormai inconcludente. Cedette, dunque, lasciando andare quella figlia sempre stata così indomabile che alla fine indomata rimase. «Pregherò ogni giorni supplicando di rivedere entrambi tornare a casa.» Decretò per poi infilare una mano nella tasca dei pantaloni, ne estrae una lettera allungandola a Joëlle che l’afferro con mani tremolanti; osservò la busta ricamata che riportava una calligrafia ordinata e elegante. «Quando lo vedrai, dì a César che ha ancora una settimana per arruolarsi.» Concluse poggiando affettuosamente una mano sulla testa della figlia muovendo lentamente la mano accarezzandole i capelli, dedicandole poi un sorriso terrorizzato ma amorevole.

Joëlle interpretò quel gesto come una concessione a lasciare quel villaggio di campagna che, in fin dei conti, non le era mai piaciuto.

 

 

 

 

 

«Hey, tu, dài muoviti. Sono tornati.»

Il gutturale richiamo che una delle cameriere più anziane rivolse a Joëlle fu abbastanza dissonante da far sfumare rapidamente i pensieri riflessivi dalla testa della ventenne, la quale balzò immediatamente in piedi raggiungendo velocemente il gruppo di domestiche che scagliarono in sua direzione occhiatacce insofferenti, dopodiché si affrettarono a raggiungere il più velocemente possibile l’ingresso della villa. In lontananza si udì il lento aprirsi del cancello principale e di seguito i cavalli che trasportavano la carrozza battendo freneticamente gli zoccoli sul selciato bagnato; erano ufficialmente tornati. La porta principale si spalancò con un boato agghiacciante rivelando la terrificante figura tarchiata e bassa del padrone di casa il quale non si disturbò neanche a rivolgere uno sguardo alla servitù camminando, o meglio zoppicando trascinandosi dietro quel suo bastone da passeggio sopra il quale poggiava tutto il peso, in direzione del suo ufficio finendo per barricarsi all’interno senza pronunciar neanche un saluto. Joëlle non conosceva abbastanza il Conte Bourdon per poter stabilire un pensiero nei suoi riguardi, si limitava semplicemente a tenere la testa bassa e svolgere il suo lavoro: camminava sempre in punta di piedi tentando di non intralciare il cammino di nessuno. Successivamente apparvero loro, le reali padrone di casa; le donne della famiglia erano coloro che in definitiva comandavano e esercitavano il potere assoluto sulle povere domestiche che quotidianamente dovevano mantenere un autocontrollo inflessibile per poter sopportare il carattere maleducato della Contessa madre che, inevitabilmente, aveva trasmesso, forse geneticamente, alle figlie. Joëlle, dal canto suo, metteva in pratica tutti i sotterfugi che aveva selezionato in modo da non avere direttamente a che fare con la Contessa; non poteva evitare le contessine, ma raggirava il confronto con la madre che, a quel che sentiva dire, era come dover combattere a mani nude con un orso. Anche in quell’occasione, soltanto dopo essersi assicurata che le ragazze fossero scomparse nelle rispettive stanze, Joëlle fuggì ai ripari nelle cucine, dove era assolutamente certa che Mamma Orsa non avrebbe fatto entrare nemmeno la punta delle scarpe.

«Oi, mocciosa» Gli appellativi con cui le colleghe più anziane si ostinavano a chiamarla anziché utilizzare il suo nome erano sempre in grado di far sollevare impercettibilmente gli angoli della bocca di Joëlle, che mentalmente appuntava ogni singolo soprannome che le domestiche potevano utilizzare esclusivamente con persone della loro stessa specie, chissà magari lo facevano per liberarsi dalle frustrazioni del lavoro «dovrai occuparti tu del padrone, oggi. La contessa e le figlie vogliono uscire per un picnic e noi andiamo con loro. Tu rimani qui.» Fece una delle donne mentre preparava tutto l’occorrente per l’uscita. Joëlle si limitò semplicemente ad annuire tentando di mantenere un’espressione solenne, anche se in realtà dentro di sé stava saltellando dalla felicità. Sarebbe rimasta da sola per tutto il pomeriggio, avendo la villa completamente a sua disposizione poiché il Conte non metteva mai il naso fuori dal suo ufficio e la casa era così grande che prima che lui potesse raggiungerla con il suo passo strascicato, Joëlle avrebbe avuto il tempo di farsi un bagno e tornare alla sua postazione.

La corvina approfittò immediatamente dell’occasione; assicurandosi di essere realmente da sola, s’intrufolò di soppiatto c nell’area riservata alla Contessa Madre, si tolse addirittura le scarpe lasciando sfuggire un sospiro di sollievo in merito al benessere che le attraversò tutto il corpo: la sensazione di freschezza sotto i piedi le fece venir voglia di correre. Raggiunse la camera da letto privata della Signora e senza attender indugi s’introdusse all’interno di soppiatto, chiudendosi immediatamente la porta alle spalle. La stanza era immensa, a Joëlle sembrava di essere stata catapultata all’interno di quelle fiabe che era abituata a sentir da bambina: questa volta, però, la principessa era lei. L’ambiente era illuminato da una luce naturale grazie alle vetrate che occupavano l’intera parete, un divano azzurro dall’apparenza confortevole e morbida occupava il centro della stanza; la mora la attraversò giungendo alla portafinestra che spalancò di colpo: l’aria primaverile le accarezzò le guance, scompigliandole leggermente i capelli si introdusse all’interno della stanza districandosi dalle leggere tende che presero a svolazzare al suo passaggio. Il vento che le carezzò dolcemente le labbra riuscì a farle distendere in un sorriso cheto come se qualcuno avesse appena depositato un paio di labbra fresche e morbide sulle sue. Una sensazione che la fece rabbrividire leggermente. Dopodiché non perse tempo, si insinuò nella camera da letto; sfarzosa, pacchiana e decisamente fuori dal gusto della ragazzina benché la sua attenzione venne immediatamente catturata da un piccolo e quasi impercettibile oggetto posato sulle bianche lenzuola del grosso letto a baldacchino: un ventaglio. Uno di quelli grandi, utilizzati dalle nobildonne francesi che usualmente frequentavano la Reggia di Versailles, somigliava a quello che spesso le aveva mostrato Nonna Louise in quei vaghi momenti di tenerezza in cui anziché massacrare Joëlle di lavoro intenso preferiva raccontare vecchie storie e curiosità. La giovane ragazza lo afferrò; lo aprì rivelando un ampio pavese spolverato di colori, la tela raffigurava le figure di tre bambine vestite con adorabili vestiti di tulle impegnate a danzare sulle punte. Sembrava uno scherzo del destino, rifletté Joëlle intanto che invece di rimettere l’oggetto dove l’aveva trovato, se lo portò con sé.

Si era addormentata. Distesa sul divano bianco che si era dimostrato essere comodo proprio come sembrava, talmente tanto che non dovette aspettare molto prima di cadere fra le braccia di Morfeo grazie alla lieve brezza gentile che si spostava appena sul suo corpo e il silenzio che avvolgeva la stanza; in quel tranquillo pomeriggio di primavera soltanto il cinguettio degli uccellini era udibile da quella casa.

«Perdonate» piano piano la voce di qualcuno, di un ragazzo, le arrivò alle orecchie facendole lentamente socchiudere gli occhi. Venne poi delicatamente toccata dalle dita gentili nel tentativo di svegliarla definitivamente e quando finalmente Joëlle aprì gli occhi, mise a fuoco la figura di un giovane dall’aria trasandata e sudicia, con i capelli mori disordinati e i vestiti da lavoro completamente sporchi. La ragazza si alzò immediatamente mettendosi seduta sul divano, scostando la mano gentile del ragazzo dalla sua spalla. «Perdonate, mademoiselle» Ripeté con estrema cortesia. Era evidente come quel giovane avesse una scarsa proprietà di linguaggio e a giudicare dal modo in cui pronunciava lentamente le parole Joëlle dedusse che potesse anche essere uno straniero, arrivato da chissà quale paese. Nessuno l’aveva mai chiamata a quel modo prima d’ora e soprattutto era la prima volta che veniva usato un tono di rispetto come se ci si stesse rivolgendo a qualche nobile. «Non volevo disturbare, ma il Padrone vorrebbe il suo tè.» Concluse piegando la schiena in un leggero inchino e abbassando il capo fino a guardarsi i piedi. Joëlle era confusa, turbata e talmente in imbarazzo che poté avvertire la punta delle orecchie bruciare leggermente. Si alzò in piedi il più rapidamente possibile imprecando sottovoce: aveva perso la nozione del tempo. Ringraziò brevemente il giovane stalliere e si precipitò correndo fuori dalla camera della Contessa. Il giovane nel frattempo, ch’era rimasto immobile guardando andar via veloce una fanciulla senza le scarpe e con la treccia sciolta, si era incantato dalla visione; mai avrebbe immaginato di trovare una semplice cameriera celestiale come una principessa, addormentata su un sofà e vederla correre via con il vento che le galoppava dietro alzandole il vestito e muovendole i capelli.

Joëlle arrivò in cucina e rapidamente afferrò uno dei vassoi posandoci sopra qualche biscotto e mise a riscaldare l’acqua per il tè. Febbricitante non riusciva a stare ferma, continuava con frenesia a strofinare i palmi delle mani sudate sul grembiule. Quando finalmente l’acqua fu abbastanza calda la versò nella teiera e assieme alla tazzina la depositò accuratamente sul vassoio. Solo quando aveva già bussato alla porta dell’ufficio del Conte, Joëlle s’accorse di non avere le scarpe. Iniziò a inveire contro tutti i Santi che conosceva.

Quando ottenne il permesso, abbassò con difficoltà la maniglia della porta con il gomito e poi la schiuse lentamente facendo capolino nella stanza. Pulito, a differenza con la luminosità che contraddistingueva la totalità della casa, l’ufficio del Conte era velato da una semioscurità olimpica. La luce del sole faticava a introdursi nello studio a causa delle tende chiuse, riuscendo solo a creare un riflesso di fioca luminosità che si depositava sulle assi del pavimento in mogano, a lumeggiare l’ambiente di calde luci soffuse v’erano delle candele appese ai muri che regalavano alla stanza un’atmosfera rilassante. Avanti a sé, Joëlle individuò la grossa scrivania dello stesso materiale e colore del pavimento dove seduto dall’altra parte con la schiena ricurva impegnato a scrivere, c’era il Conte Bourdon. Come la giovane domestica aveva predetto, il Conte non aveva alzato la testa, e dunque incerta se avanzare o meno, restò immobile.

 

«Avanti.» Ordinò l’uomo, la sua voce anche a causa della posizione, risultò terribilmente profonda e rauca; doveva essere una persona che di per sé fumava molto, pensò Joëlle, eppure sembrava per lo più innocuo. Intimidita si fece lentamente avanti fino a raggiungere il tavolo; per la prima volta in due anni che lavorava al servizio per la sua famiglia, Joëlle ebbe l’occasione di osservare più da vicino il padrone di casa che aveva sempre intravisto di sfuggita. Appoggiò il vassoio sull’estremità della scrivania, fece un piccolo passo indietro e attese.
Quando l’uomo attempato alzò il capo indirizzandole un’occhiata mascherata da insoddisfazione, Joëlle provò un’orrenda sensazione di affanno che le fece accapponare la pelle. Lui la osservò per qualche brevissimo istante per poi rivolgerle una smorfia curiosa. «E tu chi sei?» La sua voce, questa volta, gli uscì decisamente più duttile e acuta, lasciando anche spazio a un leggerissimo sorriso storto che precludeva un interesse emerso d’acchito.
«Una cameriera, Signore.» Replicò confusa Joëlle. Lui rise leggermente, di gusto.
«Questo l’avevo notato, intendo: perché una così giovane e graziosa cameriera come te non è mai venuta a portarmi il tè.»

Alla mora non sfuggì la modulazione in cui il Conte aveva forzatamente sottolineato quei due appellativi disgustosi facendo indugiare un po’ troppo lo sguardo sulla sua figura. Era in imbarazzo e voleva andarsene. All’improvviso l’uomo si alzò facendo urtare pesantemente le zampe della sedia sul legno del pavimento, afferrò il suo bastone poggiato di fianco e claudicante fece il giro della scrivania arrivando a presenziare a pochissimi passi dalla cameriera. La differenza di altezza non era esagerata, ma sufficiente per far sfuggire a Joëlle uno sogghigno divertito: quell’ometto era più basso di lei. Tuttavia lui continuò ad avanzare con sguardo languido e terribilmente affascinato e la giovane, presa ormai dallo spavento, incominciò a indietreggiare fino a toccare con il fondoschiena il bordo della scrivania. Sussultò.

«Vedo che lo trovi divertente. Mi trovi divertente?»

«Nient’affatto Signore.»
Un altro passo avanti e a Joëlle iniziarono a sudare le mani.

«Mi sembrava che stessi beffeggiando di me.»
Una mano callosa e ruvida si posò sul suo fianco magro. Joëlle non poteva più svincolarsi, era bloccata, intrappolata; come il respiro che si era incastrato in gola e aveva iniziato a far bruciare il petto, gli angoli degli occhi e le guance.

«Non mi permetterei mai, Signore.»

«Credi di essere più forte di me?» Serrò la presa sui suoi fianchi con entrambe le mani iniziando a opprimerle ancora di più il respiro. Adesso il corpo grassoccio e possente dell’uomo era completamente a contatto con il suo e il viso sudaticcio a pochi centimetri da quello di Joëlle la quale, quasi inutilmente, provava a voltarsi nell’inconcludente tentativo di non sentire l’alito del Conte che aveva un nauseabondo sapore di tabacco amaro. L’uomo emanava il tipico fetore delle persone anziane che preferiscono tenersi addosso gli stessi vestiti per più di una settimana. Lui non concesse a Joëlle di rispondere alla sua domanda e ferocemente la sollevò facendola sedere sulla scrivania. Appena avvertì le viscide, piccole e umide labbra del padrone di casa sul suo collo, Joëlle tremò, il suo corpo venne pervaso da un orrore talmente tanto ripugnante che d’istinto si mosse all’indietro proibendo così all’uomo, che non godeva di troppa agilità e non era in grado di raggiungerla così lontana, di continuare. Si osservarono negli occhi per qualche istante, poi Joëlle riuscì a intravedere un’agghiacciante lampeggiamento sorpassare gli occhi del Conte che si spalancarono assumendo una figura quasi bestiale. Era arrabbiato e in preda al furore più cieco si accanì violentemente su di lei. Le afferrò le cosce, che fino a quel momento aveva tenuto serrate, cercando forzatamente di aprirle. Nonostante Joëlle fosse fisicamente forte, l’uomo sembrò esserlo molto di più — o forse, molto più semplicemente, lo stomaco di Joëlle era talmente tanto ribaltato da nausea e emozioni riprovevoli aggrovigliate che non aveva le forze necessarie per combattere, — e riuscì a farsi strada tra le sue gambe e avvinghiandola nuovamente per i fianchi con una mano riportandola più vicina mentre con l’altra le artigliò la gola stringendo le sue dita grassocce attorno al collo bloccandole il respiro. Erano insufficienti le urla, i tentativi di contorcersi, divincolarsi e affannarsi a colpirlo. Nessuno poteva sentirla, nessuno poteva aiutarla. E se anche qualcuno l’avesse sentita, non avrebbe avuto il coraggio di intervenire.

Il Conte Bourdon tornò nuovamente a baciarle il collo scendendo giù fino alla spalla scoperta, all’improvviso la mano che prima si trova sul fianco cadde sulla coscia; sollevò il vestito e appena avvertì la mano sudaticcia e tremante dell’uomo su di sé che saliva sempre di più, Joëlle trovò finalmente la forza per scrollarselo di dosso. Gli piantò il piede sinistro sul petto e riuscì a spingerlo lontano; abbastanza per scendere dalla scrivania con un balzo e correre raggiungendo la porta dell’ufficio: si voltò esclusivamente per assicurarsi che l’uomo non potesse raggiungerla. Era pietosamente piegato su sé stesso, incapace di muoversi. Joëlle scappò, con le lacrime che finalmente riuscirono a scorrere copiosamente sulle guance, uscì dalla villa dei Bourdon con la premessa di non metterci più piede. Non si fermò nemmeno quando oltrepassò il cancello, continuò a correre; senza le scarpe sul terreno acciottolato e umido di pioggia. Il cielo iniziava a dipingersi di arancione e il sole unico testimone di quanto era accaduto, scompariva lentamente dietro le montagne.

Non tornò a casa, bensì i piedi sanguinanti, sporchi e pieni di tanti piccoli tagli la condussero stremata fino all’abitazione di Zia Babette. Era tardi, ormai il cielo si era oscurato di blu, le strade erano scarsamente illuminate ma Joëlle riuscì comunque ad attraversare la piazza di corsa e trovare la casa di Babette. Diede una rapida occhiata all’interno della casa attraverso la finestra: era buio, probabilmente lei e il marito stavano dormento già da un pezzo. Tuttavia la ragazza era mossa da così tanta disperazione da bussare incessantemente alla porta. Batté complessivamente quattro colpi prima che i passi pesanti e i borbottii di Babette riuscirono a farla smettere. Quando la donna aprì la porta, quasi non le venne una colpo: Joëlle era piegata, con le mani appoggiate alle ginocchia tremanti. La schiena si alzava e abbassava affannosamente mentre tutto il corpo era scosso da spasmi incontrollati.

«Joëlle…» riuscì a malapena a sussurrare la donna. Quando Joëlle sollevò il viso era contratto in un’espressione sofferente; le lacrime non smettevano di scendere abbondanti, le guance erano arrossate e la voce spezzata dal pianto. «Oh per bontà del Signore. Entra, presto.» Sussurrò la donna aiutando la ragazza a sollevarsi e entrare in casa, chiudendo la porta dopo essersi assicurata che nessuno avesse assistito alla scena.

Babette aveva acceso il fuoco del salotto, aveva fatto sistemare Joëlle sulla sedia più vicina al camino e le aveva appoggiato i piedi sullo spazio in mattoni; su di essi le aveva messo dei panni caldi nel tentativo di sopprimere il dolore. Le ferite, malgrado tutto, non sarebbero guarite tanto facilmente. La ragazza si era lasciata completamente cadere sulla sedia, appoggiando la testa allo schienale e chiudendo gli occhi. Come avrebbe fatto a dimenticare una cosa del genere? Come si sarebbe tolta di dosso il disgustoso odore di quell’uomo, la sensazione delle sue mani e delle sue labbra sulla sua pelle, l’alito ripugnante che si era mescolato con il suo. Solo a ripensarci, a Joëlle venne un conato di vomito e spalancò furtivamente gli occhi. Babette era voltata di spalle, stava preparando un tè caldo con uno scialle poggiato sulle spalle a coprire la vestaglia da notte e, vedendola così, un senso di colpa prese il sopravvento dallo stomaco; le calde lacrime tornarono a pizzicarle gli occhi.

«Allora,» fece Babette mettendole davanti la tazza di tè bollente nel frattempo che prendeva posto accanto a lei «Che cos’è successo tesoro?» Glielo chiese con tale gentilezza, poggiandole delicatamente una mano sul braccio, che il cuore di Joëlle sprofondò. Le raccontò tutto tenendo costantemente lo sguardo fisso sulle fiamme del fuoco che incantarono i suoi occhi, persi nei ricordi travolgenti e troppo vividi dell’esperienza traumatica che aveva vissuto poche ore prima. E quando poi, a racconto concluso, Joëlle spostò lo sguardo su quello di Babette e riuscì a scorgere il terrore e il dispiacere unite in un’unica espressione di sgomento, la ragazza, appena ventenne, scoppiò in un pianto disperato. Il minimo che la donna anziana poté fare fu stringere quella ragazzina che aveva visto crescere in un abbraccio stretto, allacciando le possenti braccia attorno al corpo esile di Joëlle così forte che sperò bastasse quello a far guarire la ragazza dalla profonda ferita che, sapeva, non si sarebbe mai cicatrizzata del tutto. Dopotutto, come si può guarire da una ferita come questa? Pensò, con orrore, mentre afflitte lacrime iniziarono a scendere anche sulle guance della povera donna. «Non posso dire a mio padre una cosa del genere. Non posso.» Joëlle aveva smesso di piangere, tuttavia aveva fatto raffreddare la bevanda aromatizzata che era rimasta intatta nella tazza. Il suo stomaco, ormai rivoltato, era chiuso. «E non posso nemmeno tornare a casa.» A quell’ultima dichiarazione, Babette si alzò in piedi quasi come fosse stata scottata. Posò le tazze nel lavabo, dopodiché si voltò in direzione di quella ragazzina ribelle, con lo sguardo più severo che potesse mostrare.

«Puoi dormire qui, per stanotte. Te lo concedo,» puntò un dito in direzione di Joëlle per metterla in guardia «Ma ti conosco troppo bene, so quello che hai in mente di fare. Non ti servirai della bruttissima esperienza che hai vissuto come una scusa per scappare, ragazzina. È troppo perfino per te.»

«No! Zia, ti prego, ascoltami» proclamò disperata Joëlle, alzandosi dalla sua postazione e camminando un po’ a fatica in direzione di Babette. Le prese le mani nelle sue e la guardò con struggente emozione «Domani, colui che diventerà mio marito, verrà a prendermi. Non posso restare. Non voglio partire con un uomo che non ho mai visto prima per poi, chissà, scoprire che sarà come quello per cui ho lavorato per due anni e che in tutto questo tempo neanche s’è accorto della mia presenza per poi all’improvviso…» si interruppe, non riusciva a proseguire senza essere invasa dall’ennesima rivoltante sensazione di nausea. Babette lo notò, comprese e abbassò il capo. Comprensiva, ma apparentemente irremovibile. Calò il silenzio nella stanza, l’unico rumore udibile era lo scoppiettio del fuoco che stava lentamente spegnendosi, lasciato trascurato. «César mi ha dato il suo indirizzo di Parigi. Prima di partire mi disse che, semmai ne avessi avuto bisogno, non avrei dovuto esitare a bussare alla sua porta. Ora ho bisogno di lui. Adesso più che mai.»  La conversazione si concluse con un «Ci rifletterò» da parte di Babette che fece sperare, anche se di poco, Joëlle. L’anziana signora l’accompagnò nella stanza degli ospiti sistemandola sotto le coperte e prima di andarsene le lasciò un dolce bacio sulla fronte: una dimostrazione di affetto che Joëlle non provava da troppo tempo. Si abbandonò a quel bacio che sapeva di intimità e conforto, una preghiera silenziosa rivolta ai sogni più felici che abbattessero quelli brutti.

 

 

 

 

   
 
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