Il salto
Febbraio,
otto mesi dopo Miami
È
una pazzia, e ne è consapevole. Un colpo di testa, la
decisione improvvisa di
seguire un impulso irrazionale e farsi guidare dall’istinto.
Un salto nel vuoto
senza paracadute.
Lo
sa che potrebbe sfracellarsi al suolo. Tutti i rischi a cui va incontro
gli si
sono affacciati alla mente non appena era sceso in garage e aveva messo
in moto
l’auto ma ha deciso di ignorarli.
Non
vuole restare fermo. Non vuole ripetere gli stessi errori di una vita.
Basta
paranoie, ripensamenti, analisi di comportamenti e di frasi pronunciate
per
caso.
Ha
deciso di passare all’azione, di vivere fino in fondo
accettando i rischi che
questo comporta.
Afferra
il volante con entrambe le mani, sospira. Inserisce la retro, fa
manovra, e poi
si dirige verso l’uscita.
È
l’una del pomeriggio, Monaco brulica di vita e risplende
sotto il sole. In
cielo non c’è nemmeno una nuvola. Allunga la mano
a prendere gli occhiali da
sole, se li infila sul naso.
Guida
con prudenza, senza fretta. Non serve correre. Si allontana dal centro,
e
intanto cerca una stazione radio che gli possa fare compagnia. Supera
l’Allianz
Arena mentre punta verso nord sulla A9, il traffico è
scorrevole.
Mentre
viaggia cerca di non indugiare su certi pensieri, non vuole che le sue
ossessioni prendano il sopravvento. Prova a distrarsi osservando il
paesaggio
al di là del parabrezza ma quella zona della Baviera
è piuttosto noiosa,
pianure con campi coltivati a perdita d’occhio e qualche zona
industriale.
Tamburella con le dita della mano destra sulla leva del cambio, supera
alcune
auto più lente. All’altezza di Ingolstadt
attraversa il Danubio, i prati
lasciano il posto a zone più boschive.
L’autostrada continua il suo percorso,
si ritrova a canticchiare il ritornello della canzone che sta passando
alla
radio ‘All the other kids with the pumped up kicks
You better run, better
run outrun my gun All the other kids with the pumped up kicks You
better run,
better run faster than my bullet’ e intanto scuote
la testa. Si ricorda di
come il ritmo lo avesse stregato al primo ascolto e poi la lettura del
testo
gli avesse fatto venire il mal di pancia.
Continua
a guidare.
Rallenta
quando ormai ha quasi raggiunto Norimberga, ha lasciato la A9 e si
è spostato
sulla A3, direzione ovest. Un cantiere stradale ha causato un
po’ di coda, per
percorrere quel tratto gli ci vogliono quindici minuti in
più rispetto a quanto
previsto. Alla sua destra e alla sua sinistra ci sono alberi e boschi,
di
fronte a sé vede solo l’asfalto che corre verso la
meta.
Decide
di fermarsi per una sosta dopo quasi tre ore di viaggio, ormai manca
poco. Fa
rifornimento all’auto, poi si sgranchisce le gambe entrando
nella stazione di
servizio. Ordina un caffè, dà una rapida occhiata
ai titoli dei giornali.
Quando si rimette in marcia non sono ancora le quattro, supera il Meno.
Non ci
sono altri intoppi, meno di un’ora dopo arriva a destinazione.
È
il crepuscolo, il cielo si è tinto di blu cobalto.
Trova
parcheggio lungo la via, quando spegne il motore viene investito da un
turbine
di emozioni.
Sono
arrivato fin qui e non torno indietro. Posso solo andare avanti.
Chiude
per un istante gli occhi, appoggia la fronte sul volante, sbuffa.
E
poi si fa coraggio, ancora una volta zittisce quella voce che vorrebbe
redarguirlo e metterlo in guardia, trattenerlo, elencargli le mille
ragioni –
tutte valide - che rendono quell’idea una pessima idea.
Ha
deciso, il momento è arrivato.
Espira,
si limita ad afferrare il cellulare, il portafoglio e le chiavi della
macchina,
esce e si incammina sul marciapiede. Casa sua dista poche centinaia di
metri,
sono una manciata di minuti a piedi. Quando ci arriva davanti stringe i
pugni,
nervoso.
Le
luci sono accese, c’è qualcuno.
È
una buona notizia, non ho fatto un viaggio a vuoto.
Ma
non posso nemmeno aggrapparmi a questa scusa per fare dietrofront.
Vado
avanti.
Deglutisce.
I
citofoni non riportano i nomi, ci sono dei numeri, ma questo non
è un problema
perché lui è già stato qui. Una volta
sola, ma ricorda tutto.
Digita
387, e poi aspetta.
Cinque
secondi.
E
poi sente la sua voce.
«Chi
è?»
«Genzo.»
C’è
un momento di silenzio, nessuno parla.
«Genzo?
E cosa ci fai qui?»
Genzo
sorride appena, si passa rapido la lingua sul labbro inferiore, si
sente quasi
sollevato adesso che ha rotto il ghiaccio.
«Sono
venuto qui per parlare con te.»
«E
di cosa vorresti parlare per essere venuto fin qui senza preavviso? Sei
per
caso impazzito?»
Fa
per rispondere, adesso sorride davvero, si sente finalmente a suo agio.
Fa per
rispondere e chiedere di farlo salire, vuole parlare faccia a faccia,
senza
filtri.
Ma
poi sente un’altra voce.
C’è
qualcun altro in casa.
Qualcuno
che sopraggiunge, che forse prima era in un’altra stanza e
adesso domanda chi
ci sia al citofono.
Sente
rispondere.
«È
solo un mio amico, passava di qui.»
Rimane
interdetto.
Poi
si riscuote.
«Hai
compagnia?»
«Sì.»
Genzo
sente una sgradevole sensazione soffocante che lo strizza proprio in
mezzo alla
pancia.
«Vuoi
entrare comunque? Se ti va ti puoi fermare a bere qualcosa.
Però non ti invito
a cena. Ho un impegno, ehm, romantico.»
Annaspa.
«Ah,
ok. No. No, meglio di no. Non voglio disturbare.»
«Ma
dai, ti sei fatto quasi quattrocento chilometri…»
«Non
importa.»
«Sicuro?»
«Certo.»
«E
le cose di cui volevi parlarmi?»
Gli
trema la voce.
«Lascia
perdere. Sono stato un idiota a presentarmi così senza
avvisare prima, io non…
Non pensavo avessi compagnia. Io ho fatto uno sbaglio. Ho sbagliato,
scusami.»
Sente
un sospiro.
«Mi
dispiace. Forse c’è stato un
fraintendimento.»
«Non
importa. Buona serata.»
Stringe
i denti, strizza gli occhi. Si gira, volta le spalle a quel
maledettissimo
citofono, alla casa, a quella via. Cammina in fretta, raggiunge
l’auto, si
mette a sedere. Quando è lì, celato agli occhi
del resto del mondo, impreca e
dà un pugno al sedile del passeggero.
«Dannazione!»
Si
sente un idiota. Un emerito idiota. Un ingenuo, un visionario, un pazzo.
Ha
fatto una stronzata.
Non
avrebbe dovuto agire d’impulso, ha rimediato solo
un’umiliazione.
Mette
in moto, mentre si allontana imposta il navigatore.
Arrivo
previsto a Monaco di Baviera alle ore nove e quarantanove minuti.
Esce
dal centro, imbocca la strada che lo porta di nuovo sulla A3.
Sente
il cuore battere furioso nel petto, adesso guida in modo nervoso. Pigia
il
piede sull’acceleratore, vuole mettere più
distanza possibile tra sé e quello
che è appena accaduto. Come se allontanarsi possa servire
a far sbiadire il
ricordo di quello spiacevole scambio.
Si
domanda per un attimo se esista la possibilità di salvare la
faccia, se magari
un domani potrebbe negare di essere andato fin lì per
dichiararsi ricevendo in
cambio un due di picche.
Ma
poi si ripete che in fondo non è successo niente di
irreparabile, non si è
esposto più di quel tanto, non ha fatto in tempo a dire
niente di
compromettente. Non in modo esplicito.
Fa
una smorfia e digrigna i denti.
Non
sono un codardo. Non mi serve nascondermi dietro
l’ambiguità.
Prova
a rilassare le spalle, a respirare con più calma.
Va
tutto bene. Non è successo niente.
Imbocca
di nuovo l’autostrada, torna a cercare una stazione radio che
possa fargli
compagnia e comincia a macinare chilometri.
Per
tutto il viaggio le luci delle auto che marciano in senso contrario gli
sembreranno violente come schiaffi, la strada scorre nera e
indifferente verso
sud, non vedrà altro.
Note:
Questa
è la storia che
riprende le fila dei discorsi lasciati in sospeso un po’ in
tutta la serie
Lonely Hearts e Winners & Loser e chiude quel cerchio nato da
un incontro
casuale in aeroporto a Francoforte qualche anno prima.
Genzo
e Kojiro in questa
storia hanno delle caratteristiche diverse dal canon, ma hanno dieci
anni in
più del canon, e sono il frutto dei percorsi di vita che
avevo tratteggiato per
loro.
Pubblicherò
un capitolo a
settimana, di lunedì.
Ringrazio fin da subito chi dedicherà del tempo alla lettura.
P.S. Auguri di buon Natale!