3°
Capitolo
Stiles sapeva che era una pessima idea nel momento in cui
aveva accettato di seguirlo, ma era il suo compleanno, compieva diciannove anni,
continuava a svegliarsi nel letto di Derek Hale, segno che non vi era alcun
miglioramento in corso, e voleva semplicemente scaricare la frustrazione,
festeggiare in qualche modo.
Non era stato anticipato da chissà quale forma di
conteggiamento, Stiles sapeva di interessargli dal primo giorno in cui si erano
presentati ed avevano evitato di girarci attorno. Forse, se avesse preso tempo,
avrebbe scelto la persona che gli interessava di più, ma l’offerta che quel
giorno si era presentata era stata quella e si era accontentato.
Le spinte di Donovan e le penetrazioni erano state
brutali, senza alcuna grazia o attenzione nel farlo stare meglio; erano
istintive, guidate dal desiderio di raggiungere il piacere e trarre godimento
da quel corpo su cui aveva messo gli occhi quasi subito. Lo percorreva tutto
con le mani e con la lingua, gli addentava ogni parte di pelle a cui riuscisse
ad arrivare. Stiles l’aveva odiato. Aveva odiato ogni momento con lui. Non
aveva goduto nemmeno un secondo.
E pensare che quella giornata era iniziata in modo
particolare, imprevedibile, avrebbe osato dire. «Hai diciannove anni» l’aveva
accolto Derek, le membra che si ridestavano e gli occhi che sfarfallavano
ancora mezzi sopiti. Non permetteva mai che la matricola si svegliasse da sola,
anche quando era di fretta aspettava che fosse cosciente di cosa la circondasse
e del luogo in cui si trovasse. Con chi avesse trascorso la notte. Era una
delicatezza che le impedisse di andare in iperventilazione.
Stiles si era
ritrovato a guardarlo stupefatto, impreparato da una tale premura da parte sua.
«È vero» fu come se lo realizzasse in quel momento, comprendesse che giornata
fosse e data figurasse sul calendario, sfuggendogli completamente dalla memoria
che doveva ancora carburare. Ma quella di Derek non ne aveva bisogno e si vide
costretto a domandarsi quand’è che avesse appreso il giorno della sua nascita.
Si era sentito
contemplato, come se fosse un grande evento o fosse inimmaginabile essere
arrivato a quel traguardo ed in effetti per Stiles si era rivelato essere così,
ma cosa rappresentava per il licantropo?
Il lupo aveva
preparato una colazione da re, pancake a volontà impilati uno sull’altro,
sciroppo d’acero e uova con bacon, bottiglie di due tipologie di succo di
frutta e il caffè bollente già in tavola. Stiles l’aveva tradotto come il suo
modo personale di augurargli un buon compleanno.
Ma il calore
trattenuto che Derek gli dava senza pretendere nulla da lui, le imboscate
effervescenti di Erica che lo trovavano ovunque, erano offuscate dalla voglia
di unirsi a qualcuno che lo stava marchiando a fuoco, inabissandosi in lui e
tenendolo ben stretto, le bocche che si univano frementi ed affamate e il sesso
sporco che andò avanti più di quanto avesse preventivato. Non era quello che
cercava, non era ciò a cui ambiva e non era nel modo in cui piaceva a lui, ma
se lo prese comunque tutto.
Eppure si ridestò
tra le lenzuola del capitano della squadra di basket, lo sguardo smarrito ed
esausto. Le iridi boscose le riconobbe perfino nella foschia da cui non
riusciva a defilarsi, la testa inspiegabilmente pesante.
Stiles sconsolato
si coprì gli occhi con il dorso delle mani, la luce solare che lo inondava, la
schiena distesa sul materasso e gli arti che avevano bisogno di allungarsi.
«Credevo che almeno stavolta non sarebbe accaduto».
Derek tacque per
qualche secondo, il silenzio che si prodigava per il piccolo appartamento che
aveva preso in affitto. «Perché? Cosa è cambiato?».
«Evidentemente
niente» sorrise con amarezza, la tristezza che si espandeva in tutto
l’organismo. Si sentiva incatenato, non riusciva in alcun modo a serpeggiare
via. «Ho disperso le mie energie, le ho catalizzate. Di solito funziona» di
solito aveva anche esperienze migliori.
«Forse non è così
che funziona» decretò Derek diretto, il dubbio che diveniva concreto.
Lo studente del
primo anno scostò appena le dita dalle palpebre serrate, le gemme d’ambra che
si posavano sul suo interlocutore. Dove l’aveva trovato quella notte? Dopo
essere uscito dalla stanza di Donovan, svignandosela alla meno peggio,
percorrendo la lunga strada che lo conduceva al proprio dormitorio e
fiondandosi tra le docce comuni a togliersi tutte le impronte che aveva
lasciato su di sé, si era gettato sul letto, stringendosi alle coperte, la
mezzanotte del nuovo giorno scattata e l’addio a quello precedente, al primo
dei suoi diciannove anni. «Sembra così» ma non proseguì, non lasciò sfuggire la
domanda allora come funziona?, Derek di conseguenza gli avrebbe chiesto
da dove fosse partito tutto.
«Ti conviene
tornare a dormire» fu tutto quello che invece il lupo disse, disinteressato. «È
sabato, te lo puoi permettere».
Stiles socchiuse
gli occhi ancora addormentati, la pesantezza della testa non ne voleva sapere
di alleggerirsi ed era ancora intorpidito. «Sarebbe bello» ma quanto era
giusto? Quanto si poteva appropriare dei beni di Derek? Se fosse stato nel
proprio letto, al Mayo Hall, non ci avrebbe pensato due volte, ma era un
infiltrato che il mannaro doveva accorrere a soccorrere perché non riusciva a
svegliarsi. «E tu?» si voltò appena verso di lui, la mano che scorreva e
scopriva una singola iride ambrata, lo sbadiglio a mezza bocca. «Anche tu
dovresti seguire il tuo suggerimento. Non fai altro che inseguirmi, sarà
estenuante».
«Non lo è» ma le
labbra si chiusero per un attimo, come se esitassero, Stiles avrebbe voluto
sapere cos’è che non gli dicesse. «Soprattutto se stai bene».
Bene, chissà cosa
significasse davvero. «Sei più gentile di quanto ricordassi».
Derek irrigidì i
tratti, annoiato dalle sue considerazioni e Stiles si liberò nella sua smorfia
diabolica, le labbra arricciate e pericolose. «Dormi e basta, invece di dare
aria alla bocca».
L’umano si sciolse
un po’, i nervi che si rilassarono ed i muscoli che smettevano di essere in
tensione. C’era qualcosa di rassicurante nel notare quanto il suo interlocutore
non fosse minimamente cambiato, che ancora il suolo su cui camminava era
solido. Era una piccola prova, ma Stiles ormai aveva soltanto quelle e doveva
richiamarle con tutte le forze per non perdersi. «La Camaro parcheggiata qui
sotto è la tua?» era un tassello che ogni tanto gli pizzicava la corteccia
celebrale, ma non l’aveva ancora appianata. Si era ritrovato spesso di prima
mattina a cercarla in uno dei posti auto, ancora assonnato e sopraffatto dagli
eventi, come se bisognasse di qualcosa di aggiuntivo che gli lasciasse
intendere che effettivamente quello con cui aveva a che fare fosse realmente il
Derek Hale che conosceva.
«Sì» confermò il
capitano senza prestare attenzione alla sua curiosità viscerale.
«Perché è qui? A
cosa ti serve?» benché il campus della Michigan State fosse tempestato di parcheggi e strade asfaltate
facilmente percorribili, non intravedeva la necessità di possedere
un’automobile al suo interno con la facilità con cui ogni luogo nei dintorni
fosse facilmente raggiungibile. Diverso era se si preferiva frequentare luoghi
esterni, come il centro città, mete in cui arrivare. Derek non gli sembrava uno
che andasse molto in giro.
«Mi ha condotto
qui, come ogni anno» si limitò a spiegare il mannaro non dilungandosi.
Le pupille del
figlio della massima autorità di Beacon Hills si allargarono leggermente alla
nozione acquisita. Non era stupefacente che il lupo preferisse guidare la sua
preziosa auto invece di chiudersi dentro una scatoletta sospesa nel cielo ‒
che impiegava quasi un decimo del tempo ‒, ma se la memoria non lo
ingannava la distanza tra New Work e l’università del Michigan distava su ruote
di circa dieci ore, aggiungendo l’ipotetico traffico e gli imprevisti lungo la
strada, le pochissime pause che si conduceva perché non ne aveva strettamente
bisogno. Era davvero stupito di quella presa di posizione? Lui si sarebbe
comportato allo stesso modo con la sua Jeep azzurra se avesse potuto. «La mia
bambina invece l’ho lasciata a Scott. Chissà se la troverò ancora intera».
«Quella carcassa
non è mai stata intera» lo punzecchiò il padrone di casa senza lasciarsi
scappare l’occasione, un mezzo ghignetto sardonico in un angolo della bocca.
«Ehy» si imbronciò
con fervore Stiles, afferrando uno dei cuscini più vicini e tirandoglielo
addosso. «Sei un villano» ovviamente lo mancò, ma suscitò una parziale risata
in quella belva immonda ‒ probabilmente più per la scelta del vocabolo
che per l’azione in sé. Era contenuta, ma lasciò intendere che certe cose
sfuggissero al controllo del licantropo, per quella ragione si concesse di
studiarlo per qualche momento senza apparire fuori posto o insistente per
rinnovare le informazioni che aveva su di lui. «Era di mia madre» la voce si
affievolì e si rimpicciolì tra le coperte sentendosi esposto.
«Lo immaginavo»
rivelò la creatura notturna, il tono cadenzato. Si prolungò verso di lui e le
falangi si annodarono nella chioma castana, il polpastrello del primo dito che
gli sfiorava le radici a confine con la fronte. «Dormi adesso».
Era un
suggerimento che aveva intenzione di cogliere, maggiormente se accompagnato da
gestualità che lo scaldavano così tanto e lo avrebbero potuto fare scivolare
nella condizione di produrre delle fusa. «Resti con me?».
Nelle iridi verdi
si accesero quelle pagliuzze di zaffiro e rubino, ma il figlio dello sceriffo
continuava a non riuscire ad identificarle. «Finché ti sopporterò».
Le bocca di Stiles
si arcuò in una piega derisoria per entrambi e tornò a stendersi completamente
sulla schiena, la tenda che Derek tirò per impedire che l’Astro d’Apollo li
disturbasse troppo e la necessità di mettere a riposo quella continua energia
statica che gli scorreva dentro. La matricola non si accorse nemmeno che
impiegò soltanto qualche secondo per riaddormentarsi, il calore della creatura
della notte che gli invadeva i tessuti perfino quando non lo sfiorava nemmeno.
Riaprì gli occhi
tempo dopo, non sapendo che ore fossero e osservando il posto accanto al suo
vuoto, sentiva anche dei rumori casalinghi, oggetti spostati, sporteli
richiudersi insieme ai cassetti, i passi sul pavimento. Adocchiò la sveglia che
sostava sul comodino del mannaro, anonima e basica, le lancette arancioni che
scandivano la realtà del mezzogiorno passato da almeno trenta minuti. Sospirò,
si sentiva intontito, ma si sgranchì le ossa e balzò sul letto, infilandosi
dentro il bagno e schizzandosi la faccia d’acqua fresca che potesse ridestarlo
completamente. Prendere fiato e ricomporsi gli richiese del tempo.
Con ancora il
pigiama, si diresse verso la cucina, i piedi nudi sul freddo pavimento e la
seduzione del divano situato davanti la grande finestra luminosa che lo
richiamava a sé. Quasi gli si lanciò di sopra. «Buongiorno, Sourwolf».
«Giorno» lo
accolse Derek immutabile, non alzando nemmeno lo sguardo su di lui. «Ti ho
lasciato un cambio».
«Grazie» si
distese sui cuscini, le braccia che si tiravano per scrocchiare le ossa. Lo
aveva seguito quando era precipitato nuovamente nel regno di Morfeo o si era
alzato quasi subito, lascandolo alla solitudine? A volte faticava enormemente
ad inquadrare Derek, come riuscisse ad essere così paziente con lui, a non
sembrare mai disturbato da ciò che gli toccava fare e contemporaneamente
esasperato dalla sua persona, ma sapeva altresì essere costantemente
preoccupato, glielo leggeva ogni volta scritto sul volto statuario.
«Caffè?» domandò
la creatura leggendaria, la porta della lavanderia che veniva chiusa dopo aver
spento l’asciugatrice.
«Mh, non lo so. Ho fame» il suo stomaco brontolò come se
volesse sottolineare la situazione in cui l’essere umano si trovava e Stiles
una volta si sarebbe imbarazzato, ma dopo dodici giorni a svegliarsi nella
camera privata di Derek Hale aveva ben poco senso. «Forse dovrei sbrigarmi e
uscire a cacciarmi del cibo».
Derek il caffè
glielo preparò comunque e glielo consegnò in mano, in una tazza rossa
aranciata, la ceramica che gli riscaldò immediatamente le dita, costringendo la
matricola a sistemarsi meglio sulla seduta, appoggiandosi allo schienale per
non versare la bevanda. Stava cominciando a chiedersi se non fosse il colore
preferito del lupo, la tonalità perfetta del manto di una volpe infuocata. «Ho
il frigo pieno».
Stiles lo guardò
criptico, quell’indifferenza del capitano nel modo di porgersi non lo stupiva
affatto, era sempre stato freddo e disinteressato, eppure cominciava a notare
quanta cura gli dedicasse, quanto i suoi gesti fossero premurosi, ne era fin
troppo deliziato. «Non posso continuare a scroccarti tutto».
Il mutaforma lo
guardò come se lo stesse giudicando apertamente. «Non mi cambia niente».
Stiles tacque, non
aveva la più pallida idea di che cosa significasse quell’uscita. Davvero non
gli creava alcun disturbo condividere qualcosa con lui? Il Derek di due anni
prima era di un avviso ben diverso, odiava quando invadevano i suoi spazi e
andava lì dove era sicuro non lo avrebbero raggiunto, li guardava anche
piuttosto male quando se li ritrovava nel bilocale che Laura aveva comprato e
storceva il naso come se il loro odore lo trovasse disgustoso o semplicemente
invasivo, fastidioso. «Okay» Derek lo confondeva o forse era lui a confondere
il licantropo, non sapeva dirlo con certezza. Di una cosa, però, la certezza
l’aveva ed era quel liquido della temperatura perfetta che gli scivolava in
gola, la caffeina che gli svegliava il cervello in stasi e la nota di caramello
salato che accarezzava le papille gustative.
La prima volta era
rimasto sorpreso da quel connubio, la nota che Derek avesse aggiunto senza
rendersene conto e che avesse continuato a perpetrarlo in seguito poiché il
figlio dello sceriffo non l’aveva mai corretto. Aveva capito che era qualcosa
che piaceva molto al lupo e in qualche modo abbracciava la sua essenza, la
dolcezza dello zucchero che si scioglieva diventando uno sciroppo ambrato e il
tocco del sale che rendeva il gusto corposo, era un po’ come lo specchio di
quella vita che gli aveva dato tanto e tolto ancora di più. O semplicemente
aveva una predilezione per i sapori decisi e particolari. Stiles avrebbe
continuato ad usufruirne finché Derek avrebbe perseverato ad aggiungerlo
dappertutto.
Depositò la tazza
nel lavandino, i piedi sul tappeto che assorbiva l’acqua in accesso ed attutiva
i rumori, e si ritrovò davanti al padrone di casa senza un reale motivo,
l’osservava armonizzarsi in quell’appartamento che parlava in uno strano modo
di lui senza farlo davvero, perché Stiles si trovasse lì proprio non riusciva a
capirlo, quella confidenza che con Derek non aveva mai avuto e che il
licantropo non aveva mai permesso si realizzasse, eppure erano legati, ma non
riusciva ancora ad inquadrare in quale modo. Derek rispose alla sua occhiata
con un interrogativo ben stampato nei tratti facciali, ma Stiles non esternò i
suoi pensieri, come non esternava molte altre cose.
Si indirizzò
nell’angolo dedicato alla notte, il solo muro della cucina a differenziare gli
spazi che riusciva a creare la giusta intimità, anche se Stiles dubitava che a
Derek servisse essendo un’abitazione abitabile da una sola persona, tuttavia si
vedeva costretto a condividerla in qualche modo con il figlio dello sceriffo.
Individuò subito i vestiti che gli aveva anticipatamente depositato in un
angolo del letto, quello stesso che era stato monopolizzato dalla propria
persona, aggrovigliando le lenzuola. Come facesse Derek a sopportarlo era il
vero mistero di tutta quella atipica situazione.
Estrasse la maglia
del pigiama, trattenendola per la braccia, come se non sapesse esattamente come
procedere o se dovesse farlo; quante volte ancora si sarebbe trovato a rivivere
quella scena? In quante si sarebbe svegliato tra le coperte di Derek che lo
vegliava in allarme?
«Cos’è?» Stiles non
lo sentì arrivare dietro di lui, le gemme di giada che riuscivano a scrutare
ogni cosa anche a metri di distanza, le dita bronzee che gli sfiorarono un
punto sotto la spalla destra e la scapola, a tracciarne i contorni.
L’umano rabbrividì
e si scostò come se si fosse scottato, il capo che si voltava verso di lui e lo
fissava senza capire nulla, le iridi di miele giganti ed incredule. «Cosa?» ma
Derek continuava a non guardare lui, ma il punto che aveva sfiorato per capirne
la natura.
Non vedeva niente,
non era così contorsionista da riuscirsi, anche se aveva delle abilità motorie
che in genere i suoi partner apprezzavano; continuava ad alzarsi in punta di
piedi come se quello potesse aiutarlo.
Fu costretto a
sistemarsi davanti lo specchio posizionato nella piccola parete costituita dal
muro divisorio, la testa girata nell’angolazione migliore che gli permettesse
di osservarsi. «Quell’idiota» esclamò con fastidio, gli occhi che si scurirono,
costringendosi a voltarsi del tutto e contare i numerosi morsi che
costeggiavano buona parte del corpo. Uno faceva bella mostra di sé su una
clavicola e un altro alla base del collo, proprio lì dove la maglietta del
pigiama riusciva ancora a nasconderlo. «Grandissimo idiota» tutto il suo torace
ne era disseminato, come parte della schiena e la curiosità di controllarsi le
gambe e ben altre parti lo inondò, ma non gli parve l’opzione migliore
spogliarsi per assicurarsene davanti a Derek. Aveva voglia di far male a
qualcuno. «Voglio strappargli i denti».
Derek si silenziò
completamente, tanto che Stiles si dimenticò del suono della sua voce. «Non
apprezzi i morsi?».
«I morsi?» perché
gli appariva così anonimo il tono vocale che il mannaro stava utilizzando? «Non
ho detto questo. Non voglio i suoi» ah, ma che cosa stava farneticando?
«Generalmente li
vuoi?» era impassibile, ma la nota di interesse risuonò abbastanza forte.
«No. Sì. Dipende»
Stiles era piuttosto confuso, non sapeva con esattezza nemmeno più di cosa
stessero parlando.
«Dipende?» il tono
del lupo si fece più calzante e Stiles aveva giramenti di testa.
«Dalla persona»
non poteva credere che stessero davvero affrontando quell’argomento, che Derek
stesse tenendo in piedi quella conversazione che avrebbe dovuto concludersi con
l’arrabbiatura della matricola. «Perché stiamo parlando delle mie fantasie?».
Lo sguardo del
mannaro si fece alquanto scettico, come se interloquisse con qualcuno dotato di
poco intelletto. «Fanno parte delle tue fantasie?».
Stiles era sicuro
di voler sprofondare nel pavimento e arrivare fino al pian terreno, per
scendere ancora e giungere alle fauci dell’inferno. «No, io… non lo so. Non mi
ha morso molta gente. Ma di certo non volevo che lui mi lasciasse il calco
della sua dentatura».
Derek tacque e lo
vide quasi chiudersi, essere incredibilmente distante da sé. Che avesse detto
qualcosa di sbagliato? «Ti ha fatto male?».
«Sì» lo studente
di criminologia si stupì della domanda, la mano sull’orma dei denti che andava
a coprire per alleggerire il fastidio che gli procurava. Muoveva la pelle come
se sperasse che sparisse. «Aspetta, in che senso?» dalla postura assunta da Derek,
le spalle in tensione, lo sguardo assassino, si sentì chiamato ad approfondire
la questione.
«Ti ha fatto del
male?» scandì il mannaro a semplificarne il significato, le iridi di giada
affilate, quasi pronte ad entrare in azione. «Ti ha fatto qualcosa che non
volevi?».
Ah, quello metteva
tutto in un’altra prospettiva, soprattutto se Derek era in ansia e pronto a
passare all’azione, qualsiasi Stiles avesse bisognato. «Sei molto dolce, Der».
La creatura della
notte lo fissò come se vedesse un fantasma, qualcosa di non spiegabile e forse
Stiles aveva pronunciato qualcosa in cui il mannaro non si identificava, ma non
trovava un altro aggettivo con cui potesse descrivere ciò a cui Derek aveva dato
vita, tutta la premura e la gentilezza che gli era stata negata la sera prima,
ma anche in tantissime altre occasioni. Se Derek all’esterno apparisse come un
essere senza cuore capace di ottenere tutto quello che voleva senza alcun
riserbo, la realtà era ben diversa. Perché gliel’aveva nascosta talmente bene
da credere di trovarsi dinnanzi ad una delle sue allucinazioni? «È solo stato
brusco, per niente gentile. Si è rivelato molto egoista ed eccentrico, una
pessima scelta da parte mia» capiva perché il lupo avesse percepito il suo
dissenso come un torto che gli era stato arrecato, qualcosa che non voleva gli
venisse fatto, non si era espresso nel migliore dei modi ed il suo corpo aveva
comunicato in propria vece e Derek era troppo abituato a fidarsi delle emozioni
che le persone emettevano, che alle mezze verità a cui le parole davano una
struttura. «Il sesso è complicato» il dubbio era sempre dietro l’angolo, il
velo sottile che poteva essere frainteso.
«Sì, lo è»
l’insinuazione autentica era palpabile e Stiles non poteva ignorare il passato
di Derek, le mentite spoglie dei rapporti sessuali che aveva intrattenuto. Ma
per Derek non era mai stato esclusivamente sesso, successivamente era diventato
un incubo da cui non riusciva a svegliarsi.
«Se avessi
percepito qualcosa di diverso o anomalo, sarei andato via» chissà se gli
credeva, se la sua stoltezza fosse giustificabile.
Derek si limitò ad
annuire, senza bisogno di aggiungere altro. «La tua prima esperienza con un
ragazzo?» si vide costretto a chiedere il licantropo, i sensi attivi a captare
tutte le emozioni che l’umano emetteva e che potevano confermare o disfare
quello che era stato effettivamente detto.
«No, affatto»
avrebbe riso sguaiatamente di quell’ipotesi per niente fondata, anche il vice
sceriffo Parrish l’avrebbe fatto, molto più di lui.
«Di certo è tra le prime che rientrano tra le pessime» se la ricordava bene la
sua prima esperienza pessima, iniziata in modo insolito e stuzzicante, anche
totalmente inattesa, ma il problema si era presentato subito dopo, quando aveva
perso completamente se stesso. Cominciava a notare quanti elementi avesse in
comune con il lupo solitario.
Il silenzio cadde
così com’era stato rotto e l’immobilità si impadronì di loro. Era il caso che
Stiles si desse una mossa. «Vuoi che li cancelli?».
Stiles impallidì
al suono di quella proposta che al solito appariva contenuta, ma era del tutto
dedita a lui. «Lo faresti?».
«Non ho problemi»
dichiarò limpido lo studente di letteratura, a lasciarsi scivolare tutto
addosso senza esserne toccato.
«Sì» l’umano non
si trattenne, l’esigenza di vederli sparire dalla pelle era qualcosa che
scalciava, urlava e chiedeva giustizia. «Li odio».
Derek gli prese un
braccio trattenendolo tra le dita, le vene si colorarono di nero e l’inchiostro
si muoveva nella sua direzione, scorrendo sotto gli occhi attenti di Stiles che
non potevano credere che il lupo assorbisse quel dolore minimo soltanto per
fargli un favore ‒ e quell’evento lo faceva riflettere sulle abilità
pratiche di cui erano dotate quelle creature straordinarie, poter singolarmente
guarire parti specifiche di un corpo, quelle che richiedevano il loro
intervento senza toccare tutto il resto.
L’epidermide si
rigenerò, le tracce delle dentature sparirono e tutto appariva come se non
fosse stato toccato da qualcuno, come se la notte precedente non si fosse
arrotolato tra le lenzuola con un essere spregevole. Quando i vasi sanguigni
tornarono del loro colore naturale, Stiles alzò lo sguardo nel suo ed era della
stessa intensità speciale che riservava soltanto a lui. «Grazie, Derek».
Derek non aveva
nulla da aggiungere né Stiles si aspettasse qualcosa di diverso, eppure mentre
indossava una delle maglie basiche del mannaro, il dubbio si insinuò nella
mente rischiarata. «Sai riconoscere qualsiasi ferita, i morsi sono la tua
specialità» mimò i canini che uscivano fuori, la forza bruta dei lupi che
sapevano sempre come assestarli. Come usarli per trasformare qualcuno. «Perché
mi hai chiesto cosa fosse?».
Derek non si
pronunciò, rimase statuario com’era sua caratteristica, a decretare quanto
potesse spingersi oltre. «Ti fai del male» enunciò in un grande segreto
svelato, la serietà che si manifestava a indirizzare quanto lo fosse. «Quando
sei sonnambulo».
Stiles non
riusciva a credere alle sue orecchie, gli occhi si ingigantirono e divenne
anche un po’ sordo. «Che vuol dire che mi faccio del male?».
«Qualcosa di molto
simile all’autolesionismo» rivelarlo fu pesante, Derek se l’era tenuto per sé,
per una serie sconfinata di motivi, soprattutto con la necessità di comprendere
osservando.
«Autolesionismo?»
domandò in un coro senza consistenza, guardandosi le mani quasi potessero
comunicare con lui e rivelargli la verità. «Faccio una cosa simile?».
«Sì» si limitò a
confermare il mutaforma, severo ed autentico.
Stiles portò gli
occhi increduli nei suoi, totalmente attoniti ed intontiti. «Ma non lo farei
mai» arrecarsi del dolore fisico era un pensiero che non gli apparteneva,
infliggersi ferite, infierire su di sé.
«Il tuo cervello
ragiona in un modo» enunciò il padrone di casa, le parole ricercate e
meticolose, in un pensiero che si era già concretizzato. «Ma il tuo corpo
reagisce in un’altra maniera».
«Non ne avevo
idea» lo fissò come se non lo riconoscesse, come se non riconoscesse se stesso
e tutto quello che lo circondava. Suo padre si era imbattuto in quegli episodi?
«Quante volte è successo?».
«Qualche volta» ma
erano trascorsi soltanto dodici notti, non aveva idea di quante altre volte si
sarebbero potute ripetere.
«Ma non ho mai
fe-» ma si mutò e l’incredulità, insieme alla consapevolezza, si palesarono in
automatico. «Mi curi tutte le volte?».
«Non posso fare
altrimenti» non avrebbe nemmeno dovuto chiederglielo, Derek di certo non
l’avrebbe mai lasciato cosparso di sangue e ferite da ogni parte, il perpetuo
dolore che Stiles provava ogni singola volta.
L’umano si
abbandonò sul bordo del letto, le forze che gli venivano meno e gli occhi che
non riusciva a distogliere da quelle mani traditrici che agivano di propria
volontà. Era un incubo senza fine, continuava ad arrotolarsi intorno a sé in un
ciclo infinito. Quando avrebbe visto la luce del tunnel? La salvezza e la
libertà di cui aveva bisogno, invece di imprigionarsi autonomamente. «Non lo
sapevo» ma erano fin troppe le cose che non conosceva. «Stavi solo
controllando» come aveva reagito Derek quando aveva visto cosa accadeva? Cosa
aveva pensato e come aveva agito? Si era spaventato, era rimasto inorridito? In
che condizioni si riduceva per portare il mannaro a far sparire ogni forma di
autodistruzione che inconsapevolmente si arrecava? Non aveva nemmeno mai
trovato tracce di sangue da nessuna parte, si prodigava a pulirlo
diligentemente? Gli doveva così tanto e Derek non chiedeva niente in cambio,
non lo informava nemmeno di che cosa avvenisse, come se il suo contributo non
avesse alcun valore. «Arrecarmi dei danni fisici è qualcosa che disconosco».
Derek si accomodò
al suo fianco, il peso che prendeva consistenza facendo abbassare le molle, la
distanza di riserbo che in qualche modo continuava a dargli ed i movimenti
impercettibili che si aggiravano attorno a lui. «Sono stato testimone di
parecchie azioni suicide».
Stiles si voltò di
getto verso di lui, fulminandolo sul posto nel momento in cui afferrò la presa
in giro, sottoforma di mezzo rimprovero, che Derek gli assestò. Il suo tono era
sempre immutabile ed incolore, ma aveva quel retrogusto di leggerezza che stemperava
tutta lo scenario che li vedeva protagonisti. «Non è la stessa cosa, i miei
amici sono importanti, le persone lo sono. Salvarle è giusto».
«E tu, ti sei
salvato?» la ribeccata tagliente fuoriuscì dalla bocca serrata,
dall’impeccabilità del lupo che si limitava a mostrare soltanto quanto venisse
infastidito, ma lì c’era ben altro racchiuso.
Stiles si sentì
punto sul vivo, uno schiaffo d’aria che lo colpì in pieno viso, facendogli
arretrare la testa come se la collisione fosse realmente avvenuta. «No».
L’amarezza della
verità si propagò a tutto il monolocale e il senso di claustrofobia colpì la
matricola come se non se fosse mai andata via, insinuandosi nel cervello e
mettendo radici. Forse era qualcosa da cui non sarebbe mai potuta guarire.
Forse era stata danneggiata per sempre. «Forse una parte di me sta cercando di
liberarsi dall’involucro che la tiene prigioniera» la pelle che si lacera, il
liquido vermiglio che scorre, l’accanimento verso il proprio organismo che lo
tiene vivo. Ciò che lo teneva intero si stava disgregando.
«O forse sta solo
chiedendo aiuto» decretò il mannaro in una verità in cui era evidente credesse.
Glielo aveva
chiesto? Quello Stiles incosciente, che vagava nella notte gelida con soltanto
un pigiama leggero ed i piedi nudi, aveva mormorato qualcosa che avesse portato
la creatura della notte ad agire nella sua direzione? Aveva formulato una
richiesta che Stiles teneva radicata dentro di sé da tempo immemore, preferendo
soffrire in silenzio?
Ma il suo corpo,
il suo subconscio, avevano un’idea diversa e si prodigavano per far emergere
quei problemi che Stiles voleva bloccare in ogni modo permissibile. Che stolto
continuava a rivelarsi. «Riesci a sentirlo?».
Le iridi di
smeraldo si accentuarono in un cerchio cremisi, che dissipò nel blu marino.
Stiles ne fu risucchiato. «Sento tutto di te».
Stiles risultava
piuttosto distratto in aula, scriveva gli appunti senza ascoltare davvero le
parole del professore, aggiungendo considerazioni che avrebbe dovuto approfondire
in un secondo momento. Si rese conto che avrebbe dovuto fare un salto alla
biblioteca per consultare la lunga lista di libri da cui il docente estrapolava
le sue informazioni.
Derek si era fatto
più distante nelle mattinate in cui si svegliava di fianco a lui, non
conversavano più e si defilava in fretta, rimaneva al suo fianco nella quantità
temporale necessaria a comprendere che fosse al sicuro. Stiles non riusciva
proprio a viscerare la ragione. Che stesse diventando un fardello troppo grande
per il lupo? Un fastidio? Di certo aveva sempre saputo di esserlo, eppure il
mannaro non glielo aveva mai fatto pesare in alcun modo, non aveva proferito
parola in merito, ma Derek non era certo il miglior conversatore del mondo.
Se fosse diventato
un peso troppo grande per lui, senza nemmeno conoscere un quarto del bagaglio
opprimente che Stiles si portava dietro, avrebbe smesso di condurlo nel suo
monolocale dov’era certo potesse tenerlo d’occhio? O si sarebbe visto costretto
a continuare quell’azione da cavaliere impavido che doveva comunque
intervenire, perché non l’avrebbe fatto nessun altro?
Perché era
riuscito a mettere Derek in quella terribile situazione senza via d’uscita?
«Lavati e stirati»
disse Stiles con soddisfazione, tirando un sacchetto di carta in cui erano
sistemati un paio di magliette e pantaloni, consegnandolo tra le mani salde
della creatura della notte.
«Non era
necessario» proferì Derek non particolarmente colpito e annoiato, prendendo
anche il pacchetto che conteneva per l’ennesima volta le scarpe che diverse ore
precedenti gli aveva intimato di prendere.
«Stirarli?»
domandò confuso il figlio dello sceriffo, un sopracciglio innalzato e la fronte
corrucciata.
«Tutta questa
cerimonia» specifico spiccio il capitano della squadra di basket.
Le scale dietro di
loro si affollarono e Stiles rimaneva spesso stupito da quante persone ci
fossero al padiglione di arte e letteratura; quante ce ne fossero in generale
in tutto il campus, quella piccola cittadina dedicata esclusivamente agli
studenti. «Non posso certo riconsegnarteli tutti sgualciti, non sarebbe per
niente carino» non dopo tutto quello che faceva per lui, rimanendo in silenzio.
«Metà del tuo guardaroba lo dai a me».
Derek annuì
soltanto, unica risposta a quello sproloquio che l’umano avrebbe potuto
risparmiarsi e che non lo toccava minimamente. «Potresti cominciare a lasciare
qualcosa di tuo, se lo vedi tanto come un problema».
Stiles impallidì e
si fece quasi indietro. Resse il colpo malissimo e avvertì un cappio stringersi
attorno al collo. Il mutaforma lo sguardò stranito, gli occhi indagatori che
cercavano di guardare attraverso e leggere ciò che teneva radicato in sé. «Non
vuoi?».
«Non è quello»
sentiva la trachea chiudersi, l’ossigeno che faticava ad entrare e l’affanno
che cominciava a farsi sentire. Era tutto così difficile, così complicato.
«Sarebbe come se fosse definitivo».
«Non ho detto
questo» lo corresse Derek, smorzando le paranoie dello studente di
criminologia. «Noi non sappiamo cosa sia».
Stiles distolse lo
sguardo, voltando il capo di tre quarti e guardando da un’altra parte, quasi
sperasse che il lupo non potesse vederlo e celarsi a lui, anche il suo corpo lo
seguì in quell’angolatura, la strada per allontanarsi dal licantropo che si palesava
in tutta la sua bellezza. Era così ingiusto, così spregevole nei confronti
dell’unica persona che si stava occupando di lui in totale silenzio, senza
fargli gravare nulla.
«Stiles» le dita
bronzee e calde del lupo mannaro gli sfiorarono quelle pieghe crucciate che si
formavano un po’ troppo sulla sua fronte e prese e distenderle nella speranza
di farle scomparire. Sembrava proprio che non gli piacessero. «Non è una
cattiva idea essere preparati».
L’istinto
irrefrenabile di socchiudere gli occhi, seguirlo ed abbandonarsi a quel tocco
delicato era impressionantemente difficile da non assecondare. Non avrebbe mai
immaginato di essere toccato in quel modo da Derek, di essere toccato in
qualsiasi modo. «No» eppure la trovava comunque pessima.
Derek sembrò
essere soddisfatto delle linee d’espressione parzialmente scomparse, gli
appoggiò il polpastrello del pollice proprio al centro della fronte e
tamburellò due volte, in una sorta di purificazione, finché non risalì fino
alla radice del cuoio capelluto e dissolversi subito dopo. «Fai quello che è
meglio per te».
«Ci penserò» cosa
sarebbe accaduto se fosse diventato dipendente dal tocco liberatorio del
licantropo?
«Ragazzi!» un
uragano biondo si fiondò su di loro e circondò con le braccia Stiles da dietro,
stringendo forte.
«Erica» la salutò
con sorpresa evidente l’unico umano del trio, guardandola con fatica dalla
posizione di svantaggio in cui si trovava. Derek non le prestò particolare
attenzione, ma non c’era nulla di nuovo in quello.
«La mia mente ha
bisogno di carburante» disse la ragazza con trasporto evidente, la tracolla che
anche lei portava che premeva su un fianco di Stiles, a sottolineare che anche
la lupa avesse concluso con le lezioni per quel momento. Doveva essere appena uscita
dal College of Arts & Letters, lo stesso di Derek. «Mangiamo
qualcosa?».
«Okay» fu l’unica
parola che il mannaro pronunciò e Stiles ne fu davvero stupito, non perché non
fosse consapevole che anche i licantropi avessero la necessità di nutrirsi, ma
per l’essere incluso anche lui nell’invito di quel pacchetto. Ne ebbe la certezza
quando Erica lo trascinò con sé, a indicargli la direzione da prendere,
afferrandolo lievemente da un avambraccio.
Fu catapultato in
una tavola calda, molto lontana dai loro dipartimenti, occupando uno dei tavoli
più grandi e raggiunti minuti successivi da Isaac e Boyd.
Ognuno di loro
aveva davanti un hamburger gigante dall’aria invitante e strapieno di patatine
fritte, quelli dei licantropi avevano una cottura al sangue, cosa che non
doveva davvero incuriosirlo, ma il proprio aveva una cottura ben avviata – ben
cotto, ma non bruciato. C’erano degli aspetti nella sua vita che lo
invogliavano a voler vedere meno sangue possibile e soprattutto a sentirlo sul
palato, era stato parecchio categorico su quello. Derek l’aveva occhieggiato
appena a quella richiesta, le parole che teneva per sé; ancora una volta non
aveva commentato la sua insistenza.
«Accidenti»
esclamò sconsolato Isaac, la testa cigolante e il cellulare in mano a
controllare le notifiche. «Hanno appena anticipato l’allenamento. Tra due ore».
«Niente giorno
libero» sottolineo con dissenso Boyd, addentando con decisione una patatina, a
decapitarla nettamente.
«C’è il tuo zampino,
vero?» accusò Isaac, strizzando gli occhi azzurri e indicando Derek.
«No» negò con
semplicità, continuando a mangiare il suo panino con disinvoltura ed eleganza,
aspetti piuttosto insoliti da riuscire a tenere mentre si masticava un
hamburger gigante.
«Non ti credo» un
broncio evidente si formò sui tratti del licantropo riccioluto ed Erica ne
sorrise vivamente, come se la questione la divertisse, ammiccando trionfa con
le labbra rosse.
«È proprio un
capitano terribile» affermò l’afroamericano con dispiacere, ma in realtà Stiles
riusciva a sentire l’ammirazione che entrambi provavano per il lupo cattivo, si
stavano soltanto divertendo un po’ a sue spese.
«È uno
stacanovista» sintetizzò Erica con diletto, la parola che bisognava prendere
forma.
«È proprio da
Derek» l’umano scoppiò a ridere di cuore, qualcosa di totalmente inaspettato,
che colse impreparati i quattro ragazzi presenti al tavolo. «Questo Sourwolf si
impegna più di tutti, stremandosi; vuole che gli altri facciano altrettanto».
La lupa mannara
ammorbidì la curva affilata delle labbra e anche ai suoi occhi toccò la stessa
sorte, accomodata accanto a lui, collocazione che si era presa con la forza. «È
vero».
«Mi piacerebbe
tanto rivederlo giocare» era passato così tanto tempo, a volte credeva ne fosse
trascorso più di quanto effettivamente segnasse un calendario. Si erano
frapposti soltanto un paio d’anni, ma gli apparivano come ere intere, che non
avevano ancora raggiunto il loro picco. «Chissà che potenza sarai adesso. Posso
infiltrarmi tra gli allenamenti?» si rivolse direttamente a Derek, certo che
avesse bisogno della sua approvazione, gli occhi imploranti e da cucciolo
speranzoso.
«No» la risposta
del capitano della squadra di basket fu lapidaria e diretta, ammonendo
qualsiasi possibilità. «Sono a porte chiuse».
Stiles si
imbronciò tristemente, con il cuore spezzato ed Erica gli spettinò i capelli in
una carezza bonaria, di consolazione. «L’università è molto seria e severa,
diversa dal liceo» gli fece presente Isaac apparecchiandogli un quadro
totalmente diverso da quello che avevano conosciuto in precedenza. «I biglietti
per le partite si acquistano e non sono per niente economici» non che fosse un
aspetto che lo riguardava direttamente considerando fosse perennemente in
campo.
«Già, qualcosa che
non posso proprio permettermi» l’unico essere umano della cerchia sospirò
affranto, prima che incontrasse Derek non era qualcosa che lo interessasse
particolarmente, ma trovarsi lì entrambi, conoscere le sue abilità, sapere che
aveva ottenuto per la seconda volta di seguito il titolo di capitano, lo faceva
ammattire non poterlo osservare con i propri occhi. «Ehy, posso sempre forzare
le serrature, sono bravo» brillò, scuotendosi l’aria malinconica che soltanto
un secondo prima lo caratterizzava, riprendendo in mano la situazione ed
ammiccando pericoloso, la volpe furba e maliziosa che si palesava senza
riserve, senza considerare le conseguenze.
«Stiles» lo
riprese Derek tra i denti, ammonendolo immediatamente e tenendolo bloccato
sulla seduta in cui era con l’evidenza del suo sguardo severo.
Stiles sbuffò,
immune ai suoi rimproveri. «Non se ne accorgerebbe nessuno».
«Io sì» non
ammetteva repliche, il grande lupo cattivo era piuttosto chiaro su quel punto.
«Lo guardavi
giocare?» domandò invece il taciturno studente di medicina osteopatica,
interrompendo quel botta e risposta che dava la sensazione che sarebbe
continuata per un bel po’. «Alle partite?».
«Anche, sempre,
non ne ho mai persa una» il figlio dello sceriffo non si aspettava
quell’inaspettata voglia di conoscenza da parte dell’afroamericano, che
sembrava sempre disinteressato a tutto, tranne a quel gruppetto in cui la
matricola si era ritrovata per caso. «E assistevo a quanti più allenamenti
possibili».
«Perché?» si
ritrovò a dover sondare Isaac, era qualcosa che gli appariva fin troppo
anomala. «Non facevi parte della squadra, giusto?».
«No, certo che no»
Stiles ridacchiò in modo sardonico, trovava quello scenario delirante, al
limite dell’assurdo. «Nessuno mi ha mai fatto questa domanda» ma in effetti
c’era un motivo.
«Ah» Isaac tacque
e le iridi chiare si spostarono con circospezione verso il suo capitano che
appariva intoccabile, anche se era fin troppo consapevole di quanto non lo
fosse.
«Non devi
rispondere a noi» si intromise la mannara, cogliendo la difficoltà che si stava
insinuando, una che in qualche modo aveva conosciuto.
«Non è un segreto»
Stiles scacciò la proposta come se non fosse nulla, le dita che solleticavano
l’aria a cancellare quanto già accaduto. «Immagino fosse per non tornare in una
casa vuota».
Un attimo di
silenzio eterno si propagò, ma lo studente di criminologia non parve farci
caso. «Sì, è una buona motivazione» sopraggiunse Isaac, come se conoscesse a
menadito la situazione. In fondo, la conoscevano quasi tutti loro, in modi e
gravità diverse.
«È riduttivo,
detto così» si fece nuovamente sentire Stiles, la nostalgia che si faceva
sentire, tutte le memorie che scorrevano davanti ai suoi occhi. «Derek era
sempre lì, con la squadra o da solo, giocava finché poteva permetterselo,
finché non era soddisfatto di se stesso. Era uno spettacolo ricco di potenza,
bellissimo».
«Tu, invece, eri
fastidioso» lo riprese Derek, insensibile alle parole che venivano pronunciate
per lui.
«Non è vero, ero sempre
diligentemente silenzioso» ribeccò Stiles immediatamente, l’aureola finta sulla
testa.
«Silenzioso, tu?»
il mannaro strascicò le sillabe, come se fossero veleno, innaturale.
«Applaudivi tutto il tempo».
«Ero entusiasta»
puntualizzò l’umano stizzito, il naso che si arricciava e la combattività che
si accendeva tutta.
«Impara a
contenere il tuo entusiasmo» continuò la creatura leggendaria, il nervosismo
che sormontava velocemente.
«Sei così falso,
Der» lo prese in pugno il futuro detective, la ragione che prendeva il
sopravvento. «Se ti disturbavo talmente tanto, perché non mi buttavi fuori? Non
l’hai mai fatto».
«A cosa sarebbe
servito?» chiese retoricamente Derek, per niente turbato dalle manovre
manipolative della volpe acuta seduta di fronte a lui. «Non mi ascolti mai».
«Te ne do atto,
Sourwolf» il sorriso da Stregatto si manifestò in tutta la sua imprescindibile
vittoria e Derek roteò gli occhi come se non volesse sapere nient’altro,
afferrando il suo bicchiere e ingurgitando la bevanda zuccherata.
«Siete così
divertenti, mi siete proprio mancati» le labbra piene della lupa mannara si
curvarono totalmente deliziate, ghiotta del siparietto a cui aveva assistito.
Avrebbe volentieri richiesto un bis.
Stiles ammiccò
trionfante, Derek invece la incenerì nell’immediato e lei non si scompose
minimamente.
«Io mi preparerei
a vederlo sbucare in qualsiasi momento» prese coscienza Boyd, facendo tesoro di
ciò che aveva appena appreso. Erica riempì il locale con la sua risata corale,
Derek invece gli rifilò un’occhiata eloquente, in cui lo invitava a non incoraggiarlo.
«Che c’è? Se è come mi è stato descritto, è inevitabile» Boyd si sentiva
piuttosto pulito sotto quell’aspetto, il rimprovero dal suo capitano non
l’accettava affatto.
Stiles ammiccò
subito in modo spavaldo e malandrino, la piega pericolosa che si disegnava
sulle labbra abbondanti. «Parlate di me?».
«Hai continuato a
frequentare la palestra, anche dopo che Derek è andato via?» deviò abilmente
Isaac, decisamente disinteressato allo scontro a fuoco che si presentava dietro
l’angolo.
«Ah» il figlio
della massima autorità di Beacon Hills fu preso in contropiede, una bolla
d’ossigeno che si incastrò in mezzo alla trachea, indecisa. «Non ho più avuto
tempo» non aveva più avuto tempo per niente, anche se le mura domestiche che lo
circondavano continuavano ad essere vuote e la solitudine a volte si era
insediata ed espansa più di quanto ne avesse avvertito per sedici anni,
rivelando i diciassette come i più duri della sua vita; Stiles non aveva potuto
affievolire quelle sensazioni in alcun modo. «Comunque, senza Derek c’è poca
storia. Di Derek Hale ne esiste uno solo» sorrise in modo triste, appestando
l’olfatto di tutti i lupi mannari che lo accerchiavano.
Boyd e Isaac
spostarono i loro sguardi in modo piuttosto evidente sul loro capitano, mentre
Erica ebbe la lungimiranza di non provarci minimamente, Stiles, invece, non lo
comprese affatto e Derek li ignorò vistosamente, ma le spalle si irrigidirono.
L’umano non volle chiedere nulla, temeva che entrassero troppo nella sua sfera
personale e non voleva condividere gli anni che erano andati avanti senza lo
studente di letteratura nei dintorni. Non avrebbe comunque fatto la differenza.
Stiles per la
prima volta dopo settimane si affacciò al nuovo giorno in una camera ben
diversa da quella del lupo mannaro, ma piuttosto simile alla propria, nel
dormitorio a cui era stato assegnato. Ne ebbe la certezza quando notò il suo
compagno di stanza scendere dal suo letto, il pigiama sgualcito e gli occhi
ancora assonnati. Stiles non si era mai sentito più sveglio, più rilassato.
«Sei qui» registrò
Jiang enormemente sorpreso, come se apprendesse in quel momento che
effettivamente condividesse la camera con qualcuno ed esistesse un coinquilino.
«Sì» ah,
non riusciva ancora a crederci, si portò in posizione da seduta, a prendere più
coscienza con quello che lo accoglieva, toccando il materasso e le lenzuola in
cui si era risvegliato. «Buongiorno» lo era davvero.
La matricola di
economia esitò, le iridi scure che lo scrutavano attentamente. «Non voglio
essere indiscreto, ma ti frequenti con qualcuno?» ebbe la delicatezza di non
ricordargli che si scopasse i suoi amici.
In qualche modo
Stiles apprezzò, anche se lo avrebbe corretto, a sottolineare che fosse
accaduto soltanto una volta e con uno solo. Ma sarebbe stato ipocrita da parte
sua, aveva dell’interesse che lo conduceva a Theo, non poteva giurare che se ne
sarebbe tenuto alla larga né Theo sembrava volerlo; l’esatto contrario. «No,
nessuno» aveva storie di una notte, l’ultima era stata con Tracy, ragazza con
cui condivideva il percorso di studi – quella sì che si era rivelata appagante.
Non le definiva affatto relazioni. Non le cercava, non le voleva.
«Non ci sei mai al
risveglio. Quando torni, indossi vestiti di un paio di taglie più grandi»
l’asiatico non era particolarmente convinto, non erano nemmeno fatti suoi,
eppure non poteva esimersi dall’annotarlo.
Era stato beccato
con le dita nel barattolo della marmellata. «Ho problemi a dormire, ho bisogno
di uscire» era un eufemismo, avrebbe preferito legarsi al letto che affrontare
l’ignoto della notte, ma non voleva dilungarsi in spiegazioni né allarmare eccessivamente
il suo inquilino che non mostrava particolare simpatia nei suoi confronti; non
poteva fargliene torto.
Era evidente che
Jiang non fosse persuaso per nulla, la sua risposta colmava una sola lacuna,
non certo il fatto concreto che indossasse i panni di un altro ragazzo ad ogni
nuovo giorno – quindi, effettivamente, poteva far presagire che avesse una
relazione, una con Derek Hale. Irrealisticamente irrealistico.
Il coinquilino si
limitò ad annuire, facendo finta che gli bastasse, dirigendosi verso la porta,
azione che inevitabilmente l’avrebbe condotto al bagno comune che condividevano
con tutti gli studenti del loro piano. «Se posso fare qualcosa, chiedi» si interruppe
prima che facesse scattare la serratura, un cambio in mano ed i prodotti bagno
già preparati nell’apposito astuccio.
Stiles ne rimane
enormemente sbalordito, anche un po’ assordato. «Grazie, amico» anche se gliene
era vivamente grato, non avrebbe mai potuto chiedere a nessuno.
«Sono stupefatto»
lo studente di veterinaria era notevolmente sudato, accaldato e quasi esausto, fattori
molto atipici per dei lupi mannari o per la credenza che si aveva su di loro.
Boyd guardò nella
direzione che catturava l’interesse del suo compagno di squadra, individuando
nell’immediato l’anomalia. Ne sorrise senza vergogna. «Questa voglio proprio
godermela».
Derek gli lanciò
di proposito il pallone da basket dietro la schiena con l’intenzione di
punirlo, ma il colosso nero aveva dei sensi molto sviluppati che gli permisero
di afferrarlo e palleggiare in risposta, minimamente provato da quell’azione.
«Chi l’ha fatto
entrare?» domandò il coach a tutto l’ambiente che li circondava, osservando i
giocatori uno ad uno, incurante della fatica a cui li aveva sottoposti.
«Non è una
minaccia» si prodigò il capitano, i capelli scossi e pettinati dalle dita, ad
asciugare e mandare via il sudore, in un’azione inutile. Fece un unico cenno di
permesso all’allenatore, a rabbonirlo – era bravo –, avvicinandosi alla
panchina in cui erano stati accatastati gli asciugamani puliti e piegati
egregiamente, strofinandovi il viso ed avvolgendolo intorno al collo, in un
rito che gli permettesse di raccogliere i pensieri, non distogliendo gli occhi
dalla figura che sogghignava giocosa nella sua direzione, senza minimamente
nascondere le sue macchinazioni. «Cosa non hai afferrato di allenamento a
porte chiuse?» gli domandò quando percorse i gradini che lo conducevano al
settore che quella bestia di satana si era scelto, piazzandosi proprio davanti.
Stiles mostrò i
denti per quanto la curva della sua bocca fosse compiaciuta, tutti i tratti che
enfatizzavano il diletto di quel mammifero rosso che si prendeva tutto quello
che desiderava. «Mi intrigano i posti inaccessibili» era stretto in una delle
sue felpe, era blu e bianca, le temperature si stavano abbassando, mancava una
sola settimana all’entrata di ottobre, ma per lui più che essere accolto dal
tenue ed indefinito autunno, sentiva solo uno stringente inverno. Era tutta un
altro concetto rispetto all’eterno calore della California, si chiese se avesse
dovuto armarsi di qualcosa di più pesante per affrontare la rigidità della
stagione gelida che sulla carta era ancora lontana. «È stato anche fin troppo
facile».
«Stiles» lo
ribeccò il licantropo, pur sapendo di non ricavarne alcun effetto.
«Sei più bravo dei
miei ricordi» rivelò invece la matricola di criminologia, gli occhi ambrati che
non si scollavano dall’evidenza delle sue osservazioni. «Un altro livello»
odiava non aver potuto assaporare la crescita sportiva che il lupo aveva
intrapreso, non aver festeggiato anche privatamente i suoi miglioramenti, i
traguardi che aveva raggiunto. In effetti, era qualcosa con cui aveva fatto i
conti nel passato, ma apprendere la reale collocazione di Derek, il luogo che
un giorno Stiles aveva tutta l’intenzione di raggiungere, lo faceva sentire
come se gli fosse stato rubato qualcosa e gli scaturiva una certa rabbia che
non sapeva contenere. Ma era sempre arrabbiato, per qualsiasi cosa, non
riusciva a catalizzarla.
«Niente lusinghe»
ne era piuttosto immune, non si scomponeva mai.
«No, certo» il suo
sorriso triste e nostalgico, che stava stranamente diventando il suo marchio di
fabbrica, si palesò e non riuscì a cancellarlo.
Le iridi verdi lo
perforarono da parte a parte, Stiles sapeva che vi fosse una domanda
intrappolata e palese. «Mi sono svegliato nel mio letto» disse infinite, i
cuscinetti rossi che si ammorbidivano in qualcosa di più spensierato, tuttavia
rimaneva l’amarezza.
«Bravo» si
congratulò spicciolo ed intoccabile il capitano della squadra di basket che
continuava ad allenarsi alle sue spalle.
«Non credo ci sia
del merito in questo» ne avrebbe fatto volentieri a meno. Era sciocco
festeggiare una vittoria come quella, eppure si era ritrovato a volerla
condividere comunque con Derek nell’unico giorno in cui non si erano ancora
incontrati; non ve n’era motivo, nessun indumento da consegnare, niente scarpe
da riportare indietro. Non avrebbe mai voluto sottolineare una frase come
quella, comprensibile soltanto per le loro due figure. «In realtà, non so cosa
sia. Succede e basta» generalmente a casa gli accadeva più di frequente, ma da
quando si era risvegliato nel suo terzo giorno da matricola tra le coltri di
Derek Hale, non aveva avuto tregua.
«Una vittoria alla
volta, Stiles» gli fece ben presente la creatura della notte, la concretezza
che per lui prendeva forma.
«Sì» per l’umano
era impossibile classificarla come tale, si ritrovava in un circolo vizioso. Lo
sarebbe divenuta nel momento in cui si sarebbe sempre ridestato tra le proprie
lenzuola, senza conseguenze in mezzo.
Stiles non
l’avrebbe presa bene, la sua negatività atipica stava cominciando a
comprenderla.
Il periodo buono
dell’umano era durato appena due giorni, alla terza notte le orecchie si
rizzarono e Derek fu costretto nuovamente ad uscire con il cielo oscuro, le
stelle quasi inghiottite dall’inquinamento luminoso e la luna che brillava
incontrastata, perché nulla poteva adombrala, cancellarla, la fase di gibbosa
crescente prossima a passare a quella successiva, il plenilunio che attendeva
silenzioso dietro l’angolo. Ma per Derek non era mai silenzioso.
Il lupo percepì la
matricola nei dintorni del dormitorio, eppure non riusciva a trovarla; girando
e girando su se stesso i sensi erano in ansia perché lo conducevano alla parte
più pericolosa del campus, lì dov’era presente la Grand River Avenue,
trafficata di giorno, estremamente pericolosa di notte, con l’inesistenza del
rispetto per il codice stradale e il limite di velocità.
Raggiunse il bordo
della strada appena captò la direzione presa, il vento graffiante che non
cessava di rallentare, le auto che si lasciavano spostare dalle folate,
l’asfalto scuro che si perdeva nella notte. Non riusciva a vedere Stiles da
nessuna parte, avrebbe potuto percorrerla per ore senza riuscire a trovarlo,
chiedendosi se non fosse troppo tardi; il richiamo e l’esigenza di trasformarsi
erano lampanti, necessari, ma era troppo esposto, non poteva permettersi una
tale avventatezza così dal nulla. La precarietà della situazione e la
preoccupazione non gli rendevano lucida la mente, tutto il corpo fremeva per
trovare l’umano più disastroso in cui si fosse imbattuto.
Lo sentì quando i
suoi occhi si illuminarono del colore più improbabile, uno dei segreti che
custodiva gelosamente e di cui ne erano in possesso pochi eletti.
Il cuore quasi si
fermò quando lo vide sul limite della strada, i piedi completamente scalzi per
metà sull’asfalto e l’altra sulla ghiaia che lo facevano sanguinare, il suo
stupido pigiama di Star Wars – Il Ritorno dello Jedi che sventolava,
quasi volesse essere strappato via. «Stiles» era altro che voleva essere
strappato via.
Stiles non lo
sentì, non lo sentiva mai e nel silenzio Derek si avvicinò cauto, teso e
profondamente turbato. «Sta arrivando» disse al vuoto, all’unico interlocutore
che lo ascoltasse, al pericolo che si palesava sottoforma di fanalini accessi.
«Torna indietro» a
volte si era chiesto se gli parlasse perché lo interrogava, instaurava una
sorta di dialogo con lui, o se le parole che gli uscivano dalla bocca il figlio
dello sceriffo le formulasse a prescindere se fosse in compagnia o in
solitudine.
Stiles non tornò
affatto indietro ed i passi proseguirono in avanti, sulla linea che definiva l’inizio
della corsia, la pianta dei piedi completamente a contatto con il materiale
liscio di cui era composta la strada. «Lei è dentro di me. Nella mia testa. Mi
manipolerà. Farà tutto ciò che vuole».
Derek impallidì
quando lo vide avanzare, automobili sporadiche che li ignoravano al loro
passaggio, proseguendo la loro corsa ignari della tragedia annunciata a cui il
licantropo stava assistendo. «Fermati, Stiles» lo afferrò d’istinto, la mano
più vicina che si trasformava in una tenaglia, aggrappandosi al braccio della
matricola ed ancorandola a lui, bloccando ogni tentativo di andare oltre. «La
volpe non c’è».
«Sì, invece»
articolò con forza, le unghie che si conficcavano violentemente nei palmi delle
mani, sbiancandoli per l’interruzione del flusso sanguigno. Ma un altro flusso
ebbe inizio e dalle ferite cominciò a sgorgare quel liquido vermiglio che il
mutaforma vedeva manifestarsi in fin troppe notti. «Lei mi farà uccidere di
nuovo».
Derek lo guardò
incredulo, le iridi verdi giganti, sordo alle proprie orecchie dall’udito
eccellente, le vene che si ghiacciavano. Era la prima volta che veniva in
possesso di una tale verità, di ciò che logorava davvero l’umano straordinario
che si ridestava ogni mattina accanto a lui, eppure non era abbastanza per
legare tutti i pezzi di quel puzzle frammentato.
Ebbe quasi un
capogiro e si raggelò quando lo vide nuovamente mettere un piede dopo l’altro
per proseguire all’interno della carreggiata, gli anabbaglianti che si posavano
sul figlio dello sceriffo ad illuminarlo parzialmente, la stretta da cui si
stava liberando per procedere sul suo cammino. Derek fu quasi investito dalla
consapevolezza di non aver più un organo pulsante nel petto. Di nuovo.
Lo tirò indietro,
andando contro le sue proteste limitate da quel sonno continuo che prendeva
possesso del corpo, le azioni che sfuggivano al suo controllo e che non gli
permettevano un’autoconservazione. L’automobile li sfiorò con l’aria che
spostava, superandoli, i fanalini di dietro di un rosso accesso che li lasciava
ai loro drammi. «Non succederà» avrebbe voluto urlagli in faccia, scuoterlo,
svegliarlo, gridargli la sciocchezza che la sua mente offuscata stava mettendo
in atto, probabilmente senza nemmeno esserne pienamente cosciente, ma non
sarebbe valso a niente, Stiles non si lasciava mai svegliare e una sola parola
non gli arrivava. «Non permetterò che accada» quello che fece invece fu di
circondargli il viso con le dita, il calore corporeo che si prodigava dentro di
lui, la delicatezza del tocco che accompagnava i suoi tempi.
«Come?» gli occhi
del nettare degli dei erano sempre offuscati in quelle situazioni, ma le
risposte erano persistentemente la loro vera ricerca, concretezza e solidità
perfino quando era impossibile coglierle o essere fattibili. «Come farai,
Derek?».
Il mannaro stava
completamente perdendo la bussola, ancora una volta non riusciva a credere al
suo stesso apparato uditivo fornito di poteri incredibili. Non l’aveva mai
chiamato per nome, non aveva mai pronunciato alcun nome se non quello del
Nogitsune, era sicuro che Stiles non avesse alcuna coscienza con chi si
imbattesse in ogni episodio di sonnambulismo, che gli sarebbe andato bene
chiunque, che una voce valesse l’altra e non sapesse minimamente distinguerle,
ma se si fosse sbagliato? Se tutto quel tempo trascorso a rincorrerlo, a fargli
sentire la sua voce e presenza, si fossero aggrappati a lui, divenendo
un’impronta che potesse distinguere perfino in quegli scenari catastrofici? La
sua mente si stava affinando nella precarietà. «Troverò un modo. Fidati di me»
i polpastrelli dei pollici si piantarono sulle tempie, in cerchi concentrici
che alleviavano il tormento che viveva dentro lo studente del primo anno, la
fragilità della connessione che avevano creato, l’inestimabilità che Stiles
rappresentava per Derek.
Stiles si era
fidato.
Stiles non doveva
affatto stupirsi di essere avvolto tra le coperte di Derek con quest’ultimo al
suo fianco, ciò che lo incupiva era l’aria esausta che il lupo mostrava, gli
occhi coperti da un braccio che li celava alla luce, ma non sapeva se ne
fuggisse per una qualche ragione o se fosse solo un caso. «Der?» chiamò in una
domanda, il fruscio delle lenzuola che attivarono le orecchie del padrone di
casa che si fecero attente, segno fosse perfettamente sveglio.
«Ne dobbiamo
parlare» disse con un unico tono, la serietà rassegnata che si faceva strada.
Stiles si raggelò,
un unico blocco di ghiaccio che giaceva su un letto non suo. Non poteva essere
vero. «Cosa? No».
Derek scosse il
braccio, rimproverandolo alla vista e Stiles con orrore notò le occhiaie che
sporcavano il suo viso perfetto. I lupi potevano avere le occhiaie, quelle
ombre violacee che indicavano quanto il sonno fosse stato privato ad una
persona? «Sì, invece. Non puoi rimandare ancora».
«Io non sto
rimandando niente» l’umano scattò agitato, si liberò dalle coltri che lo
proteggevano dalle temperature differenti da quelle della sua città natale.
«Non dobbiamo parlare proprio di nulla».
«Da cosa stai
fuggendo?» si vide costretto il mannaro a chiedere, coscio di essersi fatto
scappare la domanda sbagliata.
«Fuggire, io?» una
risata sarcastica e derisoria sporcò la bocca di Stiles, insieme ad una
cattiveria che aspettava soltanto di balzare. «Che ipocrita. Chi è che fugge,
senza essere capace di dire la verità alla propria sorella? L’unica persona
cara che gli è rimasta».
La creatura della
notte si paralizzò, presa alla sprovvista e si dannò per quello, perché sapeva
che prima o poi la matricola l’avrebbe usato contro di lei. «Non stiamo
parlando di me».
«Non parliamo mai
di te, è tabù» un’altra risata satirica prese vita, l’esasperazione perfida che
non ammetteva una tale posizione da parte sua.
«Stiles» Derek era
veramente stanco, la perdita di tempo era qualcosa che detestava e lo sviamento
dell’argomento madre non era qualcosa che poteva permettersi, sentiva che in
qualche modo il tempo stava scorrendo nella direzione opposta alla loro e bisognava
prendere la situazione in mano. «Ogni notte è più difficile della precedente,
non hai idea del pericolo in cui ti cacci».
«Non ti ho mai
chiesto aiuto, non ti ho chiesto niente» il figlio dello sceriffo si diresse
verso il bordo del letto, scivolando e poggiando i piedi nudi sul pavimento;
ancora una volta erano puliti. Ancora una volta non vi era alcun graffio su di
loro né su alcuna parte di sé. Si sentiva braccato, bloccato, accerchiato da un
predatore che non gli dava via di scampo; doveva andarsene, fuggire, lasciarsi
dietro la sensazione della mancata capacità di respirare autonomamente. «Ti sei
presentato come un cavaliere senza macchia e senza paura e hai fatto tutto da
solo».
Derek lo seguì
furioso, le gambe avvolte dai pantaloni del pigiama che si alzavano
abbandonando il giaciglio, il torace possente ed allenato completamente privo
di veli, i lineamenti del viso taglienti e sciupati, l’aria di chi non avesse
mai raggiunto il regno del dio greco dei sogni. «Credi che non abbia paura?»
chiese retoricamente feroce, il tono vocale che prendeva valore. «Che non sia
terrorizzato dal tuo vagabondare senza meta e senza coscienza, dal male che
continui ad infliggerti senza che te renda conto?».
Le labbra carnose
dello studente di criminologia si serrarono malamente, schiuse a metà ed
indietreggiò come se fosse stato schiaffeggiato, colpito da un impatto che gli
arrecò dolore. Non voleva sentire, non voleva conoscere la verità. Non voleva
più essere salvato e salvare nessuno. «Dimenticati di me, Derek» era l’unica
soluzione, l’unica azione da compiere per non farlo affondare con lui più di
quanto non si fosse già condannato da sé. L’angoscia che Derek provava era
sempre sotto il suo sguardo, lo era perfino in quel momento, le forze in
esaurimento che gli chiedevano di trovare una soluzione all’assurdità del male
che la sua mente aveva creato. Era stato spregevole da parte sua sindacare su
ciò che il lupo provava davvero.
«Dimenticarmi di
te?» Derek avrebbe tanto voluto scoppiargli a ridere in faccia malamente e in
qualche modo lo fece, ma la drammaticità dei toni accusatori che utilizzavano,
rendevano lo scenario più inquietante di quanto si aspettassero. «Non è
qualcosa che posso fare».
Le mani di Stiles
presero a tremare, nell’avvisaglia del suo malessere, un peso estremo premeva
sul torace, pressando sui polmoni che non riuscivano a contrarsi e gonfiarsi,
prendere tutto lo spazio di cui necessitavano, l’affanno si fece preminente e
stava annaspando.
Derek si attivò in
allarme, riconoscendo subito i segnali e captando tutto quello che si stava scatenando
dentro Stiles, la dura lotta che si annidava al suo interno. «Hai un attacco di
panico».
Non era una
domanda né la conferma di ciò che stava accadendo, era semplicemente la
descrizione della sua fragilità e Stiles era stufo, sfinito e arrabbiato per
essere costantemente sul bordo di un precipizio. «Non toccarmi» esclamò
nell’immediato, allontanandosi nel secondo in cui vide il capitano avvicinarsi
alla sua sfera privata, protendere le mani, come se in qualche modo potesse
assorbire il suo dolore, ma Stiles ne provava eccessivamente per essere
risucchiato da vene che si tingevano di nero inchiostro.
Si chiuse in una
barriera, ricurvo su se stesso, una mano sul petto che faticava a tenere il
ritmo, oppresso dall’incudine che pressava e pressava. «È già successo» Stiles
avrebbe voluto gridare tutta la devastazione che avvertiva dentro di sé, che
aveva chiuso e sigillato in una parte recondita del suo essere, lontana da
qualsiasi fonte di luce, senza alcun amore verso la propria persona, facendola
crescere e crescere, diventare qualcosa di così enorme ed abissale da non
averne più il controllo. «È facile dimenticarsi di me» ma non era colpa sua,
non era colpa di nessuno, ma sapeva troppo bene quanto il mondo lo avesse
dimenticato, ben prima che la Caccia Selvaggia lo cancellasse realmente; non
era mai veramente riuscito a perdonare qualcuno. «Non hai alcun diritto di
chiedermi niente, Derek» di certo non sarebbe accaduto con Derek, consapevole
di quanto continuasse ad essere ingiusto, bestiale e crudele nei suoi
confronti. «Te ne sei andato».
Tutto il corpo
della creatura leggendaria si gessò e le gemme di giada risultarono incredule,
incapaci di credere a ciò che l’astiosità nefasta di Stiles avesse dato voce.
La volpe subdola che sapeva esattamente dove indirizzare i suoi colpi per
arrecare danno. «È questa la carta che ti stai giocando per tenermi fuori?».
«Non ti ho mai
invitato» sbottò l’essere umano, la presa che stava tentando di allentare, di
rilassare quel cervello avverso che combatteva contro di lui senza davvero
identificarne la ragione. Forse era vero ciò che Derek affermava, le azioni da
autolesionista che metteva in moto. In qualche modo ogni parte di sé voleva
sabotarlo. «Il tempo in cui ti volevo nella mia vita non è questo. Non puoi
scegliere tu, hai perso questo diritto».
«Sei sempre il
solito spietato, Stiles. A tenere la mossa decisiva per ultima» di cosa doveva
stupirsi? Chi impugnava l’arma vincente era l’umano che nascondeva la sua
natura malvagia in bella vista. «Sei stato tu a dirmi di andare via. Di
ricominciare da un’altra parte, esattamente come avresti voluto fare tu».
«Sì» asserì lo
studente di criminologia sputando veleno, gli girava la testa e vedeva tutto
sfocato, incapace di afferrare il concetto cardine che gli scappava dalla
periferia della mente. «Le nostre strade si sono interrotte. Le avevi
interrotte tu fin dall’inizio, camminiamo su binari separati sin da quando ci
siamo incontrati la prima volta. È stata una tua scelta, non c’è alcun motivo
per cui dobbiamo congiungerli. È la mia battaglia».
Derek era più
spento di quanto non fosse mai apparso, snaturato dai colpi bassi di quel
mammifero rosso astuto e perfido, estremamente pericoloso, ma i suoi occhi
boscosi sapevano ancora lanciare dei fendenti precisi. «La stai perdendo».
Stiles sapeva quanta
ragione avesse.