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Autore: Flying_lotus95    08/03/2024    0 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt: Nascondere


 
Capitolo 12
Qualcosa da (nascondere)


Sei il mio volo a metà, 
sei il mio passo nel vuoto
 


Torino, 1944
 
La camionetta avanzava per le strade sterrate di campagna, ogni tanto incappando in qualche buca occasionale.
Gustaf sopportava gli scossoni in silenzio, rassegnato ormai al suo destino. 
Sapeva che era tutto perduto, e che di lì a poco si sarebbe consumata una strage.
Aveva cercato con ogni mezzo di non giungere a quell'epilogo, in fondo lo aveva sempre saputo che non ci sarebbe stata possibilità di cambiamento, che avrebbero fatto meglio a seguire il flusso degli eventi senza tentare di osteggiarlo.
Sia lui che Maxime si erano avvicinati troppo al sole con le loro misere ali di cera, la caduta in mare aperto era inevitabile, oltre che prevedibile.
Con la testa occupata da quei pensieri ingombranti, si accorse con qualche secondo di ritardo che la camionetta si era fermata, a causa di una ruota bucata.
Prevedibile, vista la strada percorsa.
Ma ciò che successe qualche secondo dopo non fu poi così prevedibile.
A distanza di tempo, Gustaf non avrebbe mai saputo affermare se ciò che accadde fu un mero miracolo o una scelleratezza fortunata. 
Avvertì voci concitate, urla, spari…
Gustaf temette per sé stesso per qualche secondo.
Poi qualcuno entrò nel retro della camionetta, dove era ammanettato, e per riflesso alzò le mani, tremando come una foglia.
«Meno male, abbiamo assaltato la camionetta giusta!».
Una voce familiare fece sussultare il tedesco, che in quel buio non riconobbe immediatamente chi avesse fatto irruzione lì dentro.
«Tu sei Gustaf, la nostra staffetta, sì?» chiese il partigiano, poggiandogli bruscamente una mano sulla spalla. 
Gustaf guardò il profilo scuro dello sconosciuto con aria stranita.
«Tuuu essere Gustaaaaf?!?» ripeté quasi urlando, pensando che il prigioniero non avesse colto perché aveva scandito male la frase precedente.
«Non urlare Beppetondo! È lui, è il nostro uomo!» intervenne poi un secondo partigiano, che entrò con una torcia accesa, puntata dritta sul viso del povero Gustaf.
Grazie al fascio di luce, quest'ultimo riconobbe il padrone di quella voce dall'aria burbera e scostante.
«Alfredo! Li abbiamo tramortiti e legati vicino alla quercia!».
La voce accorta e più amichevole di Dante giunse alle orecchie dei tre, invitandoli a scattare al passo successivo.
Beppetondo provvide a togliere le manette a Gustaf, mentre Alfredo scese dalla camionetta, osservando l'operato dei suoi uomini.
«A quest'ora saranno già arrivati al casale…» constatò ad alta voce, guardando il sentiero illuminato soltanto dalla luce fioca della luna.
«Che si fa adesso, Alfredo?» sussurrò di soppiatto Dante, aveva i nervi a fior di pelle per l'adrenalina.
Alfredo ci pensò su per qualche istante, dopodiché, dopo aver assestato qualche colpo a mano aperta al veicolo, si avviò verso il posto di guida.
«Prendiamo la divisa dei crucchi e i loro documenti!» ordinò poi, perentorio.
«Dobbiamo arrivare al casale prima di Schlütz!».



 
》◇《


Agnese li vide arrivare dalla finestra della sua stanza.
I soldati tedeschi uscirono dalle loro camionette circondando il casale e la zona limitrofa.
Si portò una mano alla bocca, gli occhi di un castano intenso sgranati e spauriti.
«Devi andare via di qui!» mormorò, voltandosi verso Maxime, che si era alzato dal letto qualche secondo dopo di lei.
Il ragazzo la guardò stralunato, non riuscendo a capire cosa stesse per accadere.
«Was ist passiert, Agnese?» provò a domandare, un principio di fiatone cominciò a farsi largo nel petto.
La vide aprire l'armadio, alla ricerca di chissà cosa, forse un indumento, uno scialle, un cappotto.
Poi il rumore di un calcio e urla di soldati che gridavano la loro presenza. 
Ad Agnese tremò il cuore nel percepire che ormai non vi era più alcuna via di fuga, per nessuno.
Poi un'idea le balenò in mente, osservando l'anta aperta dell'armadio.
«Nasconditi qua!» e afferrò Maxime per un braccio, costringendolo ad entrare nell'armadio, nascondendolo tra i vari vestiti e coperte. 
Maxime provò a protestare, a tirarsela dentro, ma Agnese fu irremovibile.
«Cercano te, io me la caverò» dichiarò decisa, spingendo Maxime all'interno dell'armadio.
Il giovane, mosso da un impeto di coraggio, afferrò Agnese per le braccia e la baciò con passione, presagendo che sarebbe potuto essere l'ultimo che le avrebbe dato.
Dopo aver risposto a quell'ultimo tentativo disperato di farle cambiare idea, Agnese spinse definitivamente Maxime nella parte più profonda dell'armadio, coprendolo con le trapunte e i vestiti appesi alle grucce.
Aveva appena chiuso le ante dell'armadio, quando Schlütz fece irruzione nella sua stanza, assieme ad altri due tedeschi al seguito.
«Fraulein Martini! Che piacere rivederla!».
Agnese lo fissò disgustata, indietreggiando nella stanza, verso lo scrittoio.
Conservava uno stiletto nel cassetto, lo usava per lo più per tagliare la carta, ma non si sarebbe posta alcun problema ad usarlo per difesa personale.
«Mi sorprende che l'abbiano lasciata qui da sola…» commentò, guardandosi attorno, sospettoso.
Agnese toccò con le dita il legno dello scrittoio, cercando di apparire quanto più indefessa possibile.
«Controllate ovunque!» ordinò poi il capitano delle SS, perentorio.
I due soldati eseguirono il comando, iniziando ad ispezionare l'abitacolo.
Agnese avvertì che altri soldati erano entrati nelle altre stanze del casale, li aveva intravisti correre sul pianerottolo dalla porta lasciata aperta dai soldati.
«Dove si sono nascosti tutti?» chiese minaccioso Schlütz alla ragazza, sgomenta.
Agnese avrebbe voluto rispondergli con la sua solita verve, mostrandosi impavida e sarcastica come sempre, ma un moto di paura le aveva inchiodato i piedi a terra.
Si sentiva come se l'avessero imbavagliata da cima a fondo, non dandole modo di scappare o reagire.
Si abbracciò il ventre con aria tremante, limitandosi a fissare con aria di sfida il tedesco che le bloccava ogni via d'uscita.
«È tutto finito, Fraulein Martini» dichiarò poi Schlütz, compiaciuto.
«Brünner è qui, e all'indomani verrà fucilato in pubblica piazza assieme ai disertori arrestati» annunciò con aria tronfia, gonfiandosi il petto come un pavone.
«Che dite?» esclamò sprezzante Agnese, ridendogli quasi in faccia. Schlütz non smise di fissarla tra il minaccioso e il soddisfatto.
«Suvvia, signorina, la smetta di fingere» e le afferrò un braccio con violenza, obbligandola a fare un passo in avanti.
«Avrei dovuto arrestarla quella mattina, fuori dalla chiesa… magari avrei evitato rogne e sotterfugi inutili!» sibilò tra i denti, il puzzo di sigaretta colpì le narici di Agnese con una tale veemenza da darle il capogiro.
«E con lei, la sua intera famiglia al seguito!».
Ad Agnese scappò un lamento di dolore alla stretta troppo forte che il tedesco esercitò sul suo braccio.
Una botta improvvisa colpì il soldato che si era avvicinato all'armadio, facendolo rovinare all'indietro. Agnese urlò con lui, presa alla sprovvista.
Nel voltarsi, Schlütz si trovò faccia a faccia proprio con l'uomo che da giorni non gli aveva dato respiro né pause.
Maxime troneggiava sul soldato tramortito, mentre il secondo soldato gli puntò un'arma contro, intimandolo ad arrendersi.
«Maxime, no!» urlò Agnese, cercò di raggiungerlo, ma venne prontamente bloccata da Schlütz.
La situazione sarebbe degenerata inesorabilmente, se non fosse stato per un intervento a dir poco inaspettato.
Un uomo sbucò alle spalle del tedesco che teneva puntata la pistola contro Maxime, colpendolo violentemente alla nuca con un bastone. 
Approfittatosi della distrazione, Maxime inveì su Schlütz, bloccandolo per le braccia. Agnese dovette appoggiarsi al davanzale per non perdere l'equilibrio.
Non riuscì a credere ai propri occhi, l'emozione le offuscò il cervello a tal punto da dimenticarsi ogni cosa, persino del pericolo appena corso.
Si portò una mano sul cuore, batteva velocissimo, non seppe dire se per la felicità o per quel miscuglio di eventi susseguitisi uno dietro l'altro.
«Agnese…» la chiamò l'uomo, con le lacrime agli occhi.
Era da quel giorno in stazione che non si erano più visti. Erano passati quattro anni da allora, quattro lunghi anni.
Ma per Agnese tutta quella distanza svanì con un colpo d'occhio, cancellando ogni timore, ogni delusione, ogni sciagura.
«P-Papà?!».
Si portò le mani tremanti alla bocca, era in procinto di scoppiare.
Poco dopo in stanza irruppero altri soldati, che parvero puntare il fucile contro Maxime, che ancora teneva Schlütz bloccato, con un braccio intorno alla gola.
«Gut, endlich!» starnazzò il capitano, rischiando di soffocare ad un solo movimento storto.
«Arrestateli tutti! Verranno fucilati all'alba!» continuò, tentando di divincolarsi dalla presa del più giovane, che si dimostrò inaspettatamente forte.
Ma quei soldati rimasero immobili, i fucili puntati ancora verso Maxime ed Agnese.
Quest'ultima, però, notò un particolare che la lasciò basita per qualche minuto: nessuno di quei soldati si era accorto della presenza di suo padre. Quel dettaglio le stonò in tutto quel marasma.
«Worauf wartet hier? Arrestateli, ho detto! Branco di incapaci!».
Ma nessuno mosse un dito.
Uno dei soldati si levò l'elmo, scoprendo i suoi capelli chiari ai presenti e la sua faccia da schiaffi che era solito metter su in ogni situazione di sfida.
Mise una mano sulla spalla di Furio, stringendogliela forte, mentre avanzava nella stanza.
«Ha proprio ragione, Schlütz! I vostri uomini sono un branco d'incapaci! Si sono lasciati sconfiggere da un semplice gruppo di campagnoli, mi viene quasi da ridere!».
E Alfredo esplose ugualmente nella sua risata rauca, attirandosi qualche d'un altro al seguito.
Furio si limitò ad abbozzare un sorriso, fissando il pavimento, mentre Agnese si portò le mani giunte tra naso e bocca, ringraziando il Signore e la Madonna per quel miracolo inatteso.
«Mentre voi non c'eravate, i miei compagni hanno preso d'assalto il vostro quartier generale. La parola fine» e alzò il fucile in aria «l'abbiamo decretata noi!».
Alfredo urlò quella frase con un'enfasi tale, che tutti i presenti esultarono all'unisono, alzando a loro volta le armi al cielo.
Maxime realizzò in quel momento che tutti quei soldati non erano altro che partigiani travestiti. Non seppe se gioire della cosa o restare ugualmente in allerta.
Non appena, però, tornò a fissare Agnese, la vide perdere lentamente le forze, e per raggiungerla, Maxime lasciò andare Schlütz, di tutta fretta, lasciandolo rovinare in ginocchio sul pavimento.
«Agnese, ich bin da!» esclamò il ragazzo, accogliendo un'Agnese bianca come un lenzuolo tra le sue braccia.
«Es ist vorbei, meine Liebe, es ist vorbei
«Ich weiß, Maxi, ich weiß!» biascicò Agnese in risposta, sul punto di svenire. Troppe sorprese tutte insieme l'avevano provata fino a tal punto da portarla allo sfinimento.
Mentre i partigiani travestiti da soldati portarono via i veri tedeschi, così come gli altri fecero nelle altre stanze - avevano teso loro un'imboscata - Furio raggiunse la figlia maggiore, prendendole il volto tra le mani, sollevato.
«Agnese, bambina mia!» esclamò, unendo le loro fronti, con aria commossa.
«Papà! Papà, du bist da!».
Per l'emozione e le lacrime, Agnese non riuscì più a parlare in italiano per qualche secondo. Allargò le braccia verso il genitore, come faceva da bambina tutte le volte che l'uomo le si avvicinava per prenderla in braccio e farla volteggiare, e si strinsero entrambi in un abbraccio sentito, emozionato.
Maxime si fece in disparte, assistendo alla scena in silenzio, anche lui in procinto di commuoversi.
Ben presto, in stanza, rimasero soltanto loro tre, mentre il chiasso e il disordine regnava per tutto il resto della casa.

 
•°•°•
 
 
Raggiunsero l'accampamento partigiano qualche ora più tardi.
Agnese si era aggrappata al braccio del padre come una forsennata, temendo di star vivendo tutto un sogno, dal quale avrebbe preferito non svegliarsi, per timore che tutto svanisse all'improvviso.
Maxime era rimasto qualche passo indietro, con Alfredo, Beppetondo e Dante che non facevano che parlottare di festeggiamenti, libertà e vittoria.
Assorto nei suoi pensieri, Maxime non avvertì la mano che gli si posò sulla spalla, stringendogliela forte.
«Sei stato bravo, moccioso» si complimentò Alfredo, continuando a guardare la nipote e il fratello maggiore poco più avanti. Ancora non riusciva a crederci di aver salvato il fratello maggiore e la cognata, anche grazie all'intervento della fazione nemica.
«Il cielo ha voluto venirci incontro» ribatté Maxime, sollevato ma sempre in allerta. Temeva le imboscate dei soldati tedeschi, divenute sempre più frequenti negli ultimi tempi.
«Presto tutto questo finirà… il Duce ha le ore contate, e con lui questi invasori di merda!» decretò Alfredo, con sicurezza.
Quella guerra aveva strappato troppe libertà, troppo sangue era stato versato in nome di un'ideologia sbagliata e contorta, troppe alleanze sbagliate avevano decretato il destino di una Nazione, portandola alla deriva.
Tutto sarebbe finito, vero, ma ci sarebbe stato molto da ricostruire, da affrontare, da risanare.
Maxime si chiese fugacemente se gli spiriti dei partigiani avrebbero retto anche dopo la gloria, anche dopo la battaglia.
Ma preferì non soffermarsi troppo a riguardo. 
Qualsiasi conferma sarebbe giunta, a tempo debito.


Agnese, Maxime e i partigiani vennero accolti da una festante Anna, che corse felice ad abbracciare il padre, emozionata oltre ogni dire.
Seduta tra Alisea ed Angioletta, le due donne partigiane del gruppo, Agnese riconobbe la figura esile ma distintiva di sua madre Levda, intenta ad ascoltare le chiacchiere che le due donne stavano interloquendo chissà da quanto tempo.
Realizzò una forte nostalgia nel riconoscerla, e non le parve quasi vero. Le sembrò di assistere alla fine di un incubo durato troppo a lungo. 
Non appena Levda sollevò lo sguardo verso di lei, si alzò di scatto, arrancando verso la figlia maggiore.
Agnese notò che era stanca e affaticata, era dimagrita tanto. Non volle nemmeno immaginare per cosa lei e suo padre fossero passati nell'arco di quei mesi.
«Anja!» la chiamò Levda, con un filo di voce.
Agnese scoppiò in lacrime di nuovo, allargando le braccia emozionata verso la madre che credeva ormai perduta.
Si strinsero in un abbraccio forte, rassicurante.
«Visto bambina mia, stiamo tutti bene! Stiamo tutti insieme!».
Nonostante la voce stanca ed incerta, Levda rimase ferma e lucida come sempre.
Forse anche troppo.
Nel stringersi la figlia contro, percepì una presenza strana, toccandole il fianco.
Dai vestiti, attraverso il tocco, captò una spilla da balia, che teneva ferma una fascia attorno al ventre.
Levda la osservò attentamente, distaccandosi lentamente da Agnese.
«Ci sono tante cose di cui ti devo parlare… sono successe tante cose» comunicò la ragazza, umettandosi le labbra, imbarazzata.
La madre le scostò una ciocca di capelli dal volto, comprensiva.
«Avremo tutto il tempo per farlo» commentò dolce, mentre Anna e Furio le raggiunsero, la prima con entusiasmo, il secondo un po’ più lentamente, ma sereno in volto.
«Mi siete mancate così tanto!» esclamò Levda, accogliendo anche la figlia minore nel suo abbraccio, stringendole entrambe in contemporanea.
Furio abbassò lo sguardo, per non farsi beccare proprio mentre era stato colto da un moto di commozione improvviso.
Quel ricongiungimento fu un dono voluto da qualcuno che, lassù da qualche parte, aveva avuto pietà di loro.

 
 

Torino, 1970
 
Gabriele si strinse nel giubbino, affondando il mento nella corposa sciarpa grigia.
Quel pomeriggio non faceva poi così freddo, non vi era stata neanche nebbia durante la mattinata.
Eppure era da due giorni che Gabriele avvertiva un freddo strano che gli corrodeva le ossa, un gelo che nessuno era stato capace di alleviare in casa.
Successivamente a quanto gli era stato rivelato quella notte fatidica, Gabriele era andato a lavoro come sempre, non tradendo nessuna emozione.
Lavorava in un negozio di dischi, aveva trovato quell'impiego tramite un amico del conservatorio. Il proprietario ormai era anziano e non aveva figli, così quando Gabriele si era proposto per dargli una mano a mantenerlo, ne era stato davvero felice.
Quel giorno era filato tutto liscio finché non erano arrivati due turisti stranieri, tedeschi svizzeri per la precisione. Nel sentirli parlare con quell'accento tanto marcato, a Gabriele era mancato il respiro. 
Era tornato con la mente a quando, da bambino, lui e Massimiliano si rintanavano nella libreria di Agnese dopo la scuola, e ogni tanto la sentivano conversare con clienti stranieri che venivano a far visita. 
Ripensare a sua zia gli aveva montato un fastidio addosso insolito, pruriginoso.
Con una scusa, aveva lasciato tutto nelle mani del giovane cassiere e si era nascosto nel ripostiglio, intento ad attutire i succhi gastrici che gli erano saliti su e giù per lo stomaco.
Erano trascorsi due giorni di silenzio in casa, due giorni in cui Gabriele aveva evitato sistematicamente i genitori, facendo preoccupare Massimiliano e Magda, che avevano intuito qualcosa di diverso nell'aria, senza capire a cosa fosse dovuto quel cambio repentino di clima.
A breve avrebbero dovuto tutti festeggiare il suo matrimonio, eppure Gabriele non sembrava esserne così entusiasta.
La mente era altrove, il cuore in subbuglio.
Scoprire quella verità era stato come un fulmine a ciel sereno.
Passeggiando per il parco, Gabriele ripensò al momento in cui sua madre, in lacrime, gli aveva confessato tutta la verità sulle sue origini, su Agnese e su quello sconosciuto di nome Maxime Brünner.
Gabriele aveva ascoltato tutto senza fiatare, senza commentare niente. Ascoltava e un forte moto di rabbia nei confronti della donna che fino ad allora aveva creduto fosse sua zia materna gli montava dentro, come un cavallone che si abbatte imponente sulla battigia.
Romeo gli aveva stretto le spalle, ogni tanto gli aveva carezzato la guancia con quella sua mano ruvida, anche lui chiuso in un mesto silenzio. Aveva lasciato parlare solo Anna, tra un singhiozzo e l'altro.
Agnese ti ha amato tanto, tesoro mio.
Le parole di sua madre - o per meglio dire, della donna che lo aveva cresciuto, continuavano a vorticare nella testa di Gabriele, provocandogli le vertigini.
Voleva che tu crescessi in una famiglia normale, non avrebbe sopportato che ti additassero come figlio di nessuno… voleva la tua felicità, sopra ogni cosa.
Aveva avuto intenzione di passare alla boutique dove lavorava Silvana, prendersi un gelato con lei e dimenticare quella storia una volta per tutte. Ma gli era mancato il coraggio.
Agnese era morta portandosi quel segreto con sé, eppure in quel momento Gabriele stava avvertendo tutto il peso delle sue bugie addosso. Un peso che non avrebbe potuto sfogare su nessuno, se non con la diretta interessata, che a quel mondo non esisteva più.
Farlo con qualcun altro che non fosse lei lo trovò inutile e privo di senso logico.
Poco prima di raggiungere il parco, era passato dinnanzi alla libreria di Agnese. Ogni tanto Anna e Allegra andavano ad aprirla per farla arieggiare e sistemarla dalla polvere.
Anche suo nonno Furio ogni tanto andava a passarci le giornate, sedendosi sulla poltroncina in sala lettura, sfogliando l'album delle foto di famiglia.
Stava iniziando ad avere i primi segni di demenza senile, molto leggeri, ma che lo avevano già portato a darsi da fare per ricordare tutti i volti dei suoi cari, in particolare quello della sua amata moglie Levda, morta qualche mese prima della nascita di Allegra, nel luglio del 1950, e di sua figlia Agnese.
Di loro due, ormai, al vecchio Furio Martini restavano soltanto le fotografie e il libro de “Le affinità elettive” che Agnese non aveva mai concluso di leggere. 
Nel vedere le saracinesche abbassate, Gabriele evinse che quel giorno, alla libreria, non si era ancora recato nessuno.
Da quando Agnese era venuta a mancare, non ci aveva più messo piede lì dentro.
Aveva avuto l'impressione che il suo spirito fosse rimasto lì dentro, ad aleggiare tra quegli scaffali e quei libri, perfettamente a suo agio.
Da che Gabriele ricordava, Agnese trovava pace solo lì, tra quelle mura. Non era mai stata molto socievole, eppure in quella libreria, Gabriele aveva avuto la prova che quella donna era stata davvero capace di amare, forse in un modo diverso rispetto agli altri, in un modo più sottile ed impercettibile.
Si sedette su una panchina, sfinito.
Avrebbe ricominciato a piangere di nuovo, ne era certo.
Sospirò stanco, curvato in avanti.
Alzò di poco lo sguardo su un gruppo di bambini che giocavano in strada, assorto nei suoi pensieri.
«Gabriele?!».
Per un attimo, il ragazzo rimase sorpreso nel sentirsi chiamare. Pensò di esserselo immaginato e non gli diede troppo credito.
«Gabriele! Sei proprio tu?».
A quel punto si decise ad alzare la testa verso quella voce femminile che lo stava chiamando.
Era una ragazza snella, alta il giusto, capelli neri e mossi e un viso delicato e gentile. Indossava un maglione marrone su di una gonnellina a balze, le gambe avvolte da in paio di collant scuri e stivaletti bassi, che le arrivavano sotto al polpaccio.
Aveva una borsa ampia e una sciarpa a coprirle il collo e il mento.
Gabriele sorrise genuino nel riconoscerla.
«Ehi, Grecia! Quanto tempo!» esclamò sinceramente, contento di rivederla.
Era la ex di suo fratello, eppure continuava a farle una bella impressione. Era una ragazza affabile, gentile, anche molto laboriosa. 
Viveva a Moncalieri e si era stabilita a Torino per studiare quando conobbe Massimiliano.
Gabriele non era riuscito mai a capire quali fossero stati i reali motivi che l'avevano spinta a lasciarlo da un giorno all'altro, due anni prima. Stesso suo fratello non seppe spiegarselo, rimuginandoci sopra per mesi.
«Prego, siediti pure.»
«Davvero? Posso?»
«Certo, accomodati».
Grecia gli si accomodò di fianco, portandosi la borsa sulle gambe snelle. Non smise di sorridere nemmeno per un istante.
«Pensavo non fossi più a Torino» chiese poi Gabriele, per rompere il ghiaccio.
Grecia giocherellò con i bordi della gonna, prima di rispondergli.
«Infatti sì. Sono stata a Moncalieri fino al mese scorso. Ho trovato lavoro presso una rivista di moda, scrivo articoli sulle nuove tendenze e ogni tanto poso anche come modella, per arrotondare» raccontò poi, entusiasta e un po’ in imbarazzo.
Gabriele le sorrise incoraggiante, davvero felice per lei.
«Ne sono davvero contento» commentò infatti.
«E lo studio?».
Gabriele sapeva che Grecia studiava arte moderna all'Università, ma non appena gli fece quella domanda, notò un certo spaesamento in lei.
«Ho lasciato… ho avuto problemi a casa…».
I suoi tentativi di dissimulare non convinsero in tutto e per tutto Gabriele.
«Tu invece? Come te la passi?» chiese poi Grecia, sperando così di spostare l'interesse lontano da lei.
«Mi sono laureato al conservatorio e adesso lavoro in un negozio di dischi in centro. Ah, e tra qualche giorno mi sposo!».
Grecia lo guardò con occhi luminosi, felice di quelle novità così appetibili.
«Quindi tu e Silvana vi sposate finalmente! Era ora» esclamò giuliva, sorridendogli cortese.
Gabriele annuì in rimando, sorridente anche lui.
«Ti ricordi ancora di lei?» le chiese con sincerità, stupito.
«Certo che mi ricordo! Massimiliano mi parlava sempre di voi due come… la coppia… del secolo…».
Nel pronunciare quel nome, però, l'espressione felice di Grecia si smorzò appena, di nuovo. 
Cercò di dissimulare tornando a sorridere, in modo più esagerato rispetto a poco prima.
Gabriele si contenne dal ridere per le parole del fratello, preferendo concentrarsi su quanto avesse appena notato.
«È tornato, comunque. Per il mio matrimonio» la buttò lì, con finta innocenza. Studiò la reazione di Grecia, sperando di cogliere qualche gesto che potesse indurlo a sperare che un briciolo di sentimento per Massimiliano fosse ancora presente in lei.
«Ah. Bene, ne sono contenta» biascicò, persa in chissà quale pensiero.
«So che è di stanza a Napoli. Sarà una bellissima città» Grecia cercò di buttare sul vago quella conversazione, senza addentrarsi in territori troppo pericolosi.
«Già, mi ha detto che le piace molto infatti, ma…» e poggiò una mano sulla spalla di lei, accondiscendente.
«Ma tu gli manchi da morire».
Gabriele non aveva avuto conferme a riguardo, non sapeva davvero se stessero davvero così le cose, sapeva soltanto che quando Grecia lo aveva mollato all'improvviso, Massimiliano era stato diversi giorni chiuso in camera a piangere da solo, senza voler parlare con anima viva.
Poi si era rimesso in sesto, era uscito, si era divertito, finché non era arrivata la chiamata per la leva, che aveva accettato con grande felicità. Forse proprio per allontanarsi da quel posto che gli ricordava troppo Grecia e i momenti trascorsi insieme a lei.
Anche se non lo dava a vedere, Massimiliano era un romanticone, peggio di Gabriele, che era sempre stato più razionale e affidabile.
«Naah, non credo che in questi anni sia rimasto a pensare a me. Sarà andato avanti com'è giusto che sia» disse Grecia, più per convenienza che per vero interesse. Sul viso l'ombra dell'imbarazzo era ancora presente.
Gabriele però non volle lasciare la questione in sospeso.
«Sai, non ho mai veramente capito cosa ti abbia spinto a lasciarlo… insomma, si vedeva lontano un miglio che vi amavate-»
«Ho avuto i miei motivi, e poi l'amore va e viene» si giustificò Grecia, ma con poca convinzione.
A quel punto per Gabriele fu chiaro che c'era dell'altro in quella vicenda. 
Così decise di andare a fondo, sia per sperare che le cose per suo fratello migliorassero, e sia per togliersi dalla testa il tarlo fastidioso di Agnese che lo stava tormentando anche troppo ormai, concentrandosi su altro.
«Dovreste vedervi. Come amici, s'intende» provò così Gabriele, rivelando una certa caparbietà ed insistenza.
Grecia lo guardò come se non lo riconoscesse, sentendosi fin troppo spoglia davanti a lui.
«Ma tanto non avremo nulla da dirci» cercò poi di chiudere, deglutendo nervosa.
«Non penso lui voglia rivedermi.»
«E tu? Tu vuoi rivederlo?».
Grecia gli lanciò un'occhiata terrorizzata, presa in contropiede. Cercò di dissimulare tutto con un sorriso, ma ormai la sua maschera allegra stava traballando davanti alle richieste di Gabriele.
«Ehm, ti va un caffè, da qualche parte? Offro io» scattò poi, alzandosi dalla panchina come se fosse stata punta da una tarantola.
Gabriele la fissò sospettoso, ma accettò ugualmente l'offerta.
Raggiunsero un piccolo bar storico poco fuori il parco, non rimasero a chiacchierare chissà quanto, ma a Gabriele servì per distrarsi e non pensare ossessivamente alla faccenda che lo riguardava in prima persona.
Nonostante, ormai, avesse capito che Grecia avesse qualcosa da nascondere.
 

«Ecco, io vivo qui, a pensione» dichiarò la ragazza, indicando il balcone del terzo piano.
Gabriele annuì distrattamente.
Dopo che la vide inserire le chiavi nella toppa del portone, fece per salutarla e ringraziarla del caffè, ma Grecia lo bloccò per un braccio, prima di lasciarlo andare.
«Se vuoi dire a Massi che sono a Torino, per me non c'è alcun problema».
Grecia non lo guardò negli occhi nel dirglielo, ma l'imbarazzo misto alla vergogna Gabriele lo percepì ugualmente. Gli provocò un'immensa tenerezza.
«D'accordo. Ti auguro una buona serata» si congedò poi, scendendo gli scalini con una certa rapidità.
«Ancora auguri per il tuo matrimonio!» gli disse dopo qualche minuto Grecia, quando ormai Gabriele era già in strada, diretto verso casa.
Si limitò ad alzare una mano, senza voltarsi.
Una volta rimasto solo, il ricordo di Agnese tornò a fargli ancora visita, e per un breve attimo, sovrappose l'immagine di sua zia a quella di Grecia, senza spiegarsi bene il motivo.
Scosse il capo, deciso, e affrettò il passo.

 

 
1944, un mese dopo…
 
Dalla notte dell'assalto tutto era andato così rapido che non c'era stato neanche il tempo materiale di realizzare quanto fosse accaduto.
Agnese aveva riabbracciato i suoi cari, apprendendo da Alfredo che era stato tutto merito dell'intercessione di Gustaf e Maxime.
Il primo, in Germania, aveva preso parte alla Widerstand, la resistenza antifascista tedesca, ma era stato costretto ad arruolarsi nella Schutzstaffel per evitare l'arresto dell'intera famiglia, nonostante continuasse a seguire gli incontri in segreto. Se lui si era rivolto ai compagni del partito per trovare un modo per scagionare i coniugi Martini, Maxime si era rivolto all'unica persona che, dalla morte di Edina, gli aveva mostrato affetto e vicinanza: Feride Brünner, sua nonna materna.
Da che Maxime aveva avuto memoria, l'aveva sempre ricordata come una donna algida, impeccabile, inavvicinabile.
Eppure, dopo la perdita della figlia, era stata l'unica della famiglia a mostrare al nipote un briciolo di umanità.
Poco prima che Maxime raggiungesse Torino, Feride gli aveva fatto lasciare il suo recapito, nel caso avesse avuto bisogno di contattarla.
Maxime non aveva mai tenuto in conto l'eventualità di chiederle aiuto, aveva pensato addirittura che quel gesto di vicinanza fosse un modo come un altro per elargire la propria spocchia nobiliare, e che in un eventuale momento di bisogno, Feride gli avrebbe voltato le spalle senza ripensamenti.
Si stupì profondamente, invece, di constatare che sua nonna, appena fu messa al corrente della vicenda, avesse promesso di attivarsi riguardo all'arresto dei Martini.
Era una donna potente, intercedere per loro sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Maxime si era rivolto a lei privo di speranza, ma nel vedere quanto la nonna si fosse impegnata per “accontentarlo”, se ne sentì sollevato e leggero.
Era stato contento di vedere Agnese così felice dopo tanto tempo, nonostante il mondo intorno a loro stesse andando in scatafascio, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
Gli scontri tra partigiani, tedeschi e fasci della RSI, istituita dopo l'armistizio del ‘43, erano all'ordine del giorno, giravano quotidianamente notizie di stragi nelle campagne, uccisioni, rastrellamenti…
Una battaglia fratricida che si consumava sotto gli occhi impotenti di tutti, un orrore senza fine.
Nonostante il clima non troppo a favore, Maxime aveva preso la sua decisione.
Il problema era doverlo riferire ad Agnese: non tanto per la paura di litigare ancora con lei, ma di farla agitare nel suo stato.
Ed era l'ultima cosa che avrebbe voluto far scatenare in quel momento.
Quell’ inaspettata verità era uscita fuori dal nulla, mentre Agnese era abbracciata a lui, il viso incassato sul suo petto e la voce spezzata. 
E tante emozioni erano venute a galla, investendolo senza pietà.
Decise, poi, che il momento giusto per affrontare la questione insieme sarebbe stata quella sera stessa, dopo cena.
Agnese si era seduta in veranda, all'aria fresca. Era stata stranamente taciturna per tutto il giorno, aveva sopportato le fantasticherie di Anna sul matrimonio che avrebbe voluto tanto celebrare, una volta che la guerra sarebbe finita.
Levda l'aveva guardata con aria sognante, unendosi al suo entusiasmo di bambina. 
Anche Agnese avrebbe desiderato esserne partecipe, ma la testa era altrove, verso lande sconosciute.
Mentre sua sorella era intenta a sognare un matrimonio che, se Dio avesse concesso, si sarebbe celebrato presto, invogliata ancor di più dalla presenza dei genitori, Agnese, invece, aveva la mente occupata da pensieri meno ameni, più oscuri.
Stava seriamente pensando di unirsi alla lotta partigiana, di combattere in prima fila proprio come Alisea ed Angioletta, donne di casa che si erano trovate ad impugnare un fucile per liberare la loro terra dagli usurpatori.
Voleva fare qualcosa di concreto con le sue mani, combattere e non subire il corso degli eventi restando immobile ad aspettare.
Lo avrebbe detto a Maxime, e in seguito al resto della famiglia.
Anche se non sarebbe stato facile convincerli a lasciarla andare, ormai la decisione era stata presa.
Persa nei suoi pensieri, sussultò nel sentirsi toccare la spalla dal nulla.
Si voltò e il sorriso timido di Maxime l'accolse, gentile.
«Maxime…» lo chiamò piano Agnese, abbozzando un sorriso. Saperlo accanto le rendeva l'animo più leggero. 
«Agnese…» disse lui di rimando, sedendole accanto sulla panca di legno.
Lasciò che si poggiasse sulla spalla, cingendo le sue con un braccio, stringendola appena a sè.
«Devo dirti una cosa» iniziò lui, un principio di paura tradì la sua voce.
Agnese si umettò le labbra, fissando il vuoto.
«Anch'io» rispose, ma con più decisione.
Maxime ondeggiò il capo, come a voler annuire.
«Dì prima tu» le concesse il giovane, fissando anche lui al di là delle roverelle, che recintavano naturalmente la tenuta.
Agnese deglutì, socchiudendo gli occhi, la tempia ancora appoggiata al suo omero.
«Mi unirò alla causa partigiana» dichiarò, senza ripensamenti.
Avvertì il petto di Maxime inglobare aria, per poi espellerla lentamente in un sospiro rassegnato.
«Ismaele e gli altri non la prenderanno bene…»
«Lo so. Ma non ho più intenzione di nascondermi. Dopotutto tante donne hanno preso in mano un fucile e sono scese in campo, al fianco degli uomini. Perché non potrei essere da meno?».
Maxime le rivolse uno sguardo triste.
«Perché tu…» e allungò una mano verso il suo ventre, leggermente lievitato e libero dalle fasciature «… non puoi permetterti di essere egoista».
Agnese sollevò lo sguardo, sfidandolo.
«Però tu sì invece, non è così?».
Improvvisamente Maxime si sentì nudo di qualsiasi barriera.
Agnese aveva già capito tutto, e sarebbe stato inutile, fuorché stupido, continuare a far finta di niente.
«Non devi seguirmi per forza, Agnese. Starò bene». Maxime cercò di risultare convincente, pensando erroneamente che Agnese avesse preso quella decisione perché lo reputava debole e malleabile.
«Io non voglio seguire te» lo smentí, però, prontamente Agnese, imbronciata.
«Voglio poter guardare in faccia mio figlio e dirgli un giorno che se è nato in un Paese libero, lo deve in parte a sua madre e a suo padre. Che mentre lo portavo in grembo, combattevo anche per lui, e per tanti altri bambini che in questo momento aspettano di nascere. E combatterò Maxime, non mi tirerò indietro».
Maxime non seppe controbattere a quelle parole. Esercitavano un fascino così particolare che, più che abbaglio, Maxime provò orgoglio puro nel vedere la donna che amava così combattiva e poco incline alla resa.
La guardava con ammirazione, ma allo stesso tempo non poté evitare lo stesso di preoccuparsi.
«Ma è rischioso, Agnese! Se ti succederà qualcosa-»
«Alisea è una levatrice, seguirà lei passo passo la mia gravidanza. Seguirò le sue indicazioni, e se mi dirà di dover recuperare le forze, lo farò. Ma voglio che tu sappia che non ti converrà lasciarmi indietro, perché ti raggiungerei fino in capo al mondo, anche con la pancia grossa quanto un'anguria!».
A Maxime sfuggì un sorriso, che non riuscì a camuffare. L'idea di vedere Agnese arrancare tra i sentieri di campagna, all'ottavo mese di gravidanza, con aria decisa e tronfia, gli suscitò ilarità.
Cercò comunque di ricomporsi, gli sembrò di prenderla in giro in modo cattivo.
Ma nel vedere che Agnese aveva sorriso alla sua stessa battuta, scoprì i denti definitivamente.
«Pensi che stia scherzando?» aggiunse la ragazza, cercando lo sguardo di Maxime, chiuso tra le palpebre strizzate per il riso.
«Guarda che ne sarei capace! Mi dovranno incatenare al letto, e neanche basterebbe! Troverei comunque un modo per raggiungerti e suonartele di santa ragione per non avermi permesso di partecipare!» e per rafforzare il concetto, Agnese picchiò leggermente il petto del tedesco, facendolo esplodere definitivamente dal ridere.
«E va bene, mi arrendo!» alzò le mani Maxime, ancora preso dal troppo ridere.
Si asciugò una lacrima scappata dalle ciglia, cercando di tornare serio.
«Ma ad una condizione».
Agnese si sollevò del tutto dalla sua spalla, fissandolo interdetta.
Maxime ricambiò lo sguardo, sollevando un angolo delle labbra in un sorriso malandrino.
«Heirate mich».
Agnese sgranò gli occhi, colta di sorpresa.
Sulle prime, pensò di aver avuto un'allucinazione uditiva.
Maxime iniziò a fissarla con aspettativa, sollevando le sopracciglia come un bambino in attesa del suo dolce preferito.
«Ehm, Max, perdonami, ma credo di non aver capito bene…» mentì Agnese, soltanto per indurlo a dirglielo ancora.
Maxime stralunò scherzosamente gli occhi, sbuffando aria dal naso.
«Sposami e ti lascerò fare quello che vuoi».
Agnese assottigliò lo sguardo, fintamente indispettita.
«Vuole essere un ricatto questo?» domandò, sospettosa. Maxime non riuscì a trattenere l'ennesima risatina.
«Proprio così» e si avvicinò al viso di Agnese, le punte dei loro nasi si sfiorarono «Frau Brünner».
Agnese indietreggiò di qualche millimetro, ancora più sorpresa di prima.
Ma la risposta, in cuor suo, la conosceva già da tempo.
Lo baciò sulle labbra, delicatamente.
«Non mi resta che cedere, allora».
E il bacio continuò, sotto una coltre di stelle luminose che formavano un sentiero di luce, diretto chissà dove nei meandri oscuri del cielo.
 

Come era ovvio, Blanca e Levda furono contrarie a mandare Agnese tra le montagne nel suo stato. Furio ed Ismaele avevano fermamente appoggiato le loro consorti, cercando di convincere la giovane a desistere.
Avevano perfino implorato Maxime di farle cambiare idea, ma il tedesco sapeva che sarebbe stato soltanto fiato sprecato.
Così, una settimana dopo, seduta su di un carretto, accomodata su delle coperte di lana, Agnese s'incamminò con Maxime e Gustaf presso il rifugio di Alfredo, non prima di aver ricevuto mille raccomandazioni da parte dei suoi genitori e dei suoi zii.
Abbracciò fortissimo sua sorella, promettendole che si sarebbe mossa cauta e che sarebbe tornata per il suo matrimonio, fosse venuto giù il mondo nel frattempo.
Con il cuore in mano e l'adrenalina sparata a mille, Agnese e Maxime intrapresero quel cammino insieme, con la speranza di ritrovare, una volta tornati, la loro terra dei limoni intatta, proprio come la stavano lasciando in quel momento, un passo alla volta.

 
 

1970
 
Massimiliano aveva finto indifferenza nell'apprendere dal fratello maggiore della presenza della sua ex fidanzata in città.
Aveva ribadito con perfetta nonchalance che ormai quella era storia vecchia, e che di rivedere la donna che le aveva spezzato il cuore non gliene importava assolutamente nulla.
A parole, Massimiliano aveva detto tante cose, troppe.
Ma la verità era stata che da quando Gabriele gli aveva riferito tutto, non aveva smesso di pensare a Grecia neanche per un solo istante.
Aveva rivisto gli amici di sempre durante quei giorni di licenza, aveva fatto come se niente fosse.
Era da due anni a quella parte che aveva cercato di dimenticarla, di odiarla addirittura. La pace interiore non l'aveva mai davvero raggiunta.
In parte, però, Napoli aveva provveduto ad alleviare i suoi tormenti, distraendolo dal dolore di quella rottura.
E nonostante avesse giurato a sé stesso che non sarebbe tornato da Grecia neanche strisciando, dopo una notte passata a rigirarsi tra le coperte, agitato, Massimiliano decise di togliersi quel dente una volta per tutte.
Gabriele gli aveva lasciato l'indirizzo della pensione sulla scrivania, anche se Massimiliano non glielo aveva chiesto esplicitamente.
Aveva ringraziato internamente il fratello per aver letto oltre, come sempre, nei suoi comportamenti, nonostante in quegli ultimi giorni gli fosse parso strano e assente.
Sperò non avesse problemi con Silvana, e che se anche fosse stato così, almeno si augurò si trattasse di quisquilie di poco conto.
Aveva raggiunto la pensione con il cuore in mano e passo nervoso.
Non sapeva come avrebbe davvero reagito nel trovarsela davanti, dopo tutto quel tempo di silenzio e lontananza.
Bussò incerto alla porta della sua stanza, e per un solo istante, si augurò di non incontrare nessuno.
Bussò di nuovo, un po’ più deciso.
Una voce ovattata dall'interno avvisò del suo imminente arrivo, e Massimiliano pregò che la terra gli si aprisse sotto i piedi per nascondersi.
La porta si aprì, e il ragazzo puntò lo sguardo verso la punta delle scarpe, irrequieto.
«Massi?!».
A quel punto, sollevò lo sguardo, ritrovandosi gli occhi castani e sorpresi di Grecia che lo fissavano sgomenti.
Si era fatta ancora più bella dall'ultima volta che si erano visti, aveva un'aria decisamente più… adulta.
Massimiliano dovette soffocare un'imprecazione tra i denti.
«Posso entrare?» fu la sua unica risposta piatta, un po’ dura.
Dopo una breve esitazione, Grecia lo invitò ad entrare, ancora frastornata per la sua visita improvvisa.
Era passato qualche giorno dall'incontro con Gabriele, ma non si era aspettata che fosse riuscito a convincere il fratello ad andarla a trovare.
Si sentiva in bilico tra la voglia di scappare e quella di saltargli al collo per la gioia.
Massimiliano si era fatto più muscoloso, piazzato. La giacca di pelle che indossava s'intonava molto con i suoi capelli neri e gli occhi grigioazzurri. 
«Quanto… tempo…» riuscì solo a mormorare Grecia, avvampata in viso. 
Massimiliano si guardò intorno, passando in rassegna ogni particolare della stanza: un letto matrimoniale, due comodini, un armadio di legno pregiato, tende color panna che nascondevano le finestre del balcone…
Gli sembrò tutto stranamente familiare e allo stesso tempo tutto estraneo.
«Somiglia molto alla tua vecchia stanza…» dichiarò Massimiliano, poggiando la sguardo ovunque, men che meno sulla diretta interessata.
Grecia si strinse nel maglione di lana beige, nascondendo le mani nelle ampie maniche.
«Mica è così simile alla prima» commentò, più per rompere il ghiaccio che per altro.
Massimiliano non la guardava, eppure lei non poteva fare a meno di fissargli la schiena, attratta da quella figura protettiva e familiare. 
«Ti offro qualcosa?» chiese poi, incolore, stretta nel suo maglione che le arrivava poco sopra le ginocchia nude.
Massimiliano si voltò verso di lei, con espressione dura. 
«No, grazie» buttò lì, ancora distratto.
Grecia avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e girarlo nella sua direzione, ma le braccia non volevano collaborare, tremavano al solo pensiero di poterlo sfiorare anche solo di sfuggita.
Giocherellò sul posto con i piedi nudi, soppesandosi prima sull'una e poi sull'altra gamba, agitata.
«Perché sei venuto qui?» si sforzò a chiedere ancora Grecia, la voce tradì il suo timore crescente.
Massimiliano si sedette sul letto lentamente, poggiando i palmi aperti sul materasso, sospirando.
«Ero curioso di vedere come te la passassi» rispose vago, illeggibile in viso.
«Ma se vuoi che me ne vada-»
«No! No, certo che non voglio!» mise le mani avanti Grecia, inquieta.
«È solo che… insomma… non mi aspettavo di vederti qui. Sai, sono un po’ emozionata…».
Si sistemò una ciocca nera dietro l'orecchio, ridendo nervosa.
A Massimiliano gli si addolcì leggermente lo sguardo nel vederle compiere quel gesto.
Grecia era sempre stata una ragazza molto timida con chiunque, e quando qualcosa le provocava nervosismo, se la prendeva spesso con i suoi capelli, giocherellandoci o attorcigliandoli tra le dita, dissimulando qualsiasi aspettativa stesse provando.
«Sì… in effetti forse ho fatto male a venire. Dopotutto io e te… ecco…».
Massimiliano non seppe come continuarla quella frase. Iniziò a pensare che, tutto sommato, non sarebbe dovuto andare lì seguendo l'istinto. 
Aveva rivisto Grecia dopo due anni, ma le cose non sarebbero di certo cambiate.
Era stata lei a lasciarlo, perché continuare a farsi del male inutilmente?
«Ma no, invece. Sono contenta di vedere che stai bene» prese la palla al balzo la ragazza, cercando di calmare il battito accelerato del cuore, temendo che potesse sentirsi per tutta la stanza, perché lei ne percepiva il rimbombo ovunque, sotto pelle e nei timpani delle orecchie.
Massimiliano tornò a guardarla, di nuovo duro.
«No, io non sto bene Grecia, non sto bene per niente» fu invece la sua risposta finalmente sincera.
Grecia spalancò gli occhi a quella rivelazione improvvisa.
«Se sono venuto qua era solo per mettere un punto a questa situazione. Sono due anni che non trovo pace, che non faccio che domandarmi cosa avessi sbagliato con te… ti giuro che ho cercato di andare avanti, ma tu eri sempre lì, nei miei pensieri, dannazione!».
Massimiliano vomitò quelle parole rapidamente, deglutendo e sospirando a fatica.
Grecia lo fissò dispiaciuta, la bocca e il naso nascosti dalla manica del maglione.
Avrebbe tanto voluto dirgli il motivo per il quale si era dovuta allontanare da lui, all'improvviso. Sapeva che lo aveva ferito indelebilmente con quel gesto, ma non aveva potuto fare altrimenti, non vi era stata altra miglior soluzione se non sparire dalla sua vita per sempre.
Ma adesso che se lo era ritrovato di nuovo davanti agli occhi, Grecia non seppe più affermare se la scelta intrapresa anni prima fosse stata davvero la migliore.
«Ti ho pensato tanto anch'io Massi, è la verità» riuscì solo a mormorare, fissando le mattonelle del pavimento con una certa insistenza. 
«Ma adesso abbiamo due vite diverse, tu sei a Napoli, io invece-»
«E se ricominciassimo?».
Grecia sussultò nel sentirlo parlare a quel modo. Sulle prime, le venne quasi da ridere.
«Cosa?» ripeté, interdetta.
«Ricominciamo da capo. Ricominciamo a conoscerci, anche da amici mi va bene. Sono disposto a concedermi una seconda possibilità con te, se tu vorrai. Ma ci andremo piano, se è questo che vuoi».
Grecia lo guardò stupefatta.
Massimiliano era convinto che in passato fossero andati troppo di fretta, e per questo poi avevano finito per allontanarsi, perché si erano riscoperti incompatibili.
Non poteva neanche lontanamente immaginare che non fosse quella la vera ragione per cui Grecia aveva interrotto la loro storia.
«No» fu la sua risposta, scuotendo il capo più volte.
«No, io non voglio questo!» dichiarò, incespicando nei propri passi.
«Hai ragione, hai fatto male a venire qui!».
Tuttavia, la paura di far venire a galla quella verità ebbe il sopravvento.
Prese Massimiliano per un braccio e lo condusse alla porta, le lacrime gli iniziarono a rigare il volto senza sosta.
«Non saresti dovuto venire qu-».
Grecia si trovò le labbra di Massimiliano attaccate alle sue, senza minimamente aspettarselo.
Inizialmente il bacio fu impacciato, ma con l'incalzare dell'insistenza, divenne più languido e passionale.
Ad un tratto, tutto svanì.
Svanì la paura, la vergogna, il passato.
Svanì la timidezza, il riserbo, la compostezza.
I loro corpi si volevano, si cercavano come calamite.
Grecia si lasciò prendere da Massimiliano e si lasciò stendere sul letto, intontita e languida. 
I baci che Massimiliano le lasciò sulla pelle bastarono a farle mollare ogni freno inibitorio che si era imposta, abbandonandosi completamente a quella confusione di baci, carezze e abbracci.
Magari affondandoci dentro e uscirne solo per respirare.
 

«C'è qualcuno nella mia vita».
La voce di Grecia uscì roca e stanca, mentre Massimiliano era intento a baciarle ripetutamente la fronte e ad accarezzarle la spalla nuda.
«Mm mm» mugugnò indifferente Massimiliano, come se la cosa non lo riguardasse più di tanto. Preferì continuare a vezzeggiarla piuttosto che darle retta.
«Si chiama Riccardo» Grecia lo sussurrò ad occhi chiusi, una lacrima le scivolò dalle ciglia, percorrendole la guancia.
Massimiliano si fermò, bloccando le labbra sulla sua tempia in un bacio lento, morbido.
Avvolta nel suo abbraccio, a Grecia cominciò a mancare l'aria. Temette di non trovare il coraggio di proseguire, che Massimiliano l'avrebbe odiata definitivamente.
Si aggrappò al suo braccio, sospirando.
«Tra due mesi compirà due anni».
Il viso le si stropicciò in una smorfia di dolore, trattenne a stento un singhiozzo.
Ogni volta, dopo l'amore, Grecia si sentiva sempre così fragile, non riusciva mai a controllare le proprie emozioni. Specialmente se era in procinto di rivelare qualcosa di importante.
Ma rimandare sarebbe stato inutile e insensato. Massimiliano doveva sapere, doveva conoscere, soprattutto dopo quanto successo in quella stanza quel pomeriggio.
«È nostro figlio».
Massimiliano si sollevò per guardarla in viso, attonito.
Grecia piangeva, coprendosi il viso con le mani, affranta.
Si sentì afferrare il polso con gentilezza, intrecciando in seguito le dita tra quelle dell'altro, con estrema lentezza.
«Mi hai lasciato perché eri rimasta incinta?» chiese Massimiliano, ma senza risultare arrogante o ferito.
Grecia annuì, voltando il viso verso la finestra, per non essere costretta a guardare negli occhi Massimiliano, ancora allibito dalla notizia.
«Avevi tanti sogni, tanti progetti… ti ho lasciato perché volevo sbarazzarmene… ma non ho avuto il coraggio».
Grecia era un fiume di lacrime mentre rivangava quegli eventi dolorosi del passato.
La paura di non essere all'altezza, di non riuscire ad essere una madre degna, di dover tenere testa alle chiacchiere e di non poter realizzarsi con serenità perché adesso aveva un bimbo a cui badare.
Tante volte aveva avuto la tentazione di rintracciarlo, di raggiungerlo a Napoli con Riccardo in braccio pur di mostrargli quel bambino che amava, perché era nato dal loro amore, ma che aveva preferito sacrificare per permettergli di inseguire i suoi progetti di vita senza intoppi e incidenti.
Grecia si era rassegnata a quella vita, ma il destino aveva deciso altro. Forse mosso da un Mangiafuoco invisibile, che aveva mosso le fila affinché entrambi si ritrovassero e si ricongiungessero.
«Adesso ce l'hai un motivo per odiarmi. Adesso sarai soddisfatto» mugugnò Grecia, asciugandosi le lacrime e alzandosi, scostandosi Massimiliano di dosso e coprendosi il seno con la coperta. Poggiò il viso tra le ginocchia coperte, nascondendolo in parte tra le braccia, evitando volutamente il contatto visivo con Massimiliano.
Ma non appena sentì una carezza tra i capelli, compì lo sbaglio di alzare il viso nella direzione opposta.
Il castano dei suoi occhi si confuse con il grigioazzurro del compagno, facendole mancare il respiro.
Grecia si aspettò una scenata, un rimprovero, non lo avrebbe di certo biasimato.
Ma Massimiliano non sembrò per nulla sul punto di esplodere o trattarla male.
«Tu sei tutta scema!» e sghignazzò, mostrando la dentatura bianca in un sorriso accomodante. Grecia rimase scioccata a quella reazione.
«Che vuoi-»
«Ti sei voluta accollare tutto da sola per farmi intraprendere la carriera che volevo? Ma che ci tieni inda ‘sta cap!» e le sbatté docilmente la fronte contro la sua, non smettendo di ridere.
Tra il confuso e il divertito, Grecia rispose di rimando alle sue risate, perplessa.
«Non ho capito le ultime parole!» esclamò, sfuggendo alle testate di Massimiliano, che non le davano tregua.
«È napoletano, picceré» continuò a prenderla in giro Massimiliano, euforico.
«Magari un giorno di questi, te lo insegno per bene. E anche a Riccardino.».
Nonostante il ragazzo lo avesse detto con aria sorniona, a Grecia non parve affatto una battuta detta tanto per dire.
Le sembrò invece il preludio di una dolce promessa, l'inizio di un nuovo cammino da intraprendere insieme.
«E allora, quando me lo presenti il mio rivale?» continuò, mordendo la punta del naso di Grecia, che lo colpì fintamente infastidita.
«Sei sicuro di volerlo conoscere? Guarda che in quanto a bellezza ti batte al cento per cento» lo provocò Grecia, tirando su col naso. Le lacrime avevano lasciato il posto ai sorrisi luminosi e carichi d'amore.
«E che problema c'è? Tanto c'ha i miei geni, di che mi preoccupo!» e se la strinse contro in un abbraccio caloroso, trascinandola giù tra i cuscini.
Rimasero in quella posizione per un bel po’ di tempo, beffandosi a vicenda e regalandosi baci e carezze ad intervalli alterni.
«Te ne sono grato, Grecia» disse poi ad un certo punto Massimiliano, sazio di amore e felicità.
«Per cosa?» chiese Grecia, sinceramente incuriosita.
«Per esserti presa cura della mia pianta di limoni…».
Grecia non riuscì a cogliere ciò che realmente avrebbe voluto dirle.
Lo guardò come se avesse voluto trovare la risposta nei suoi occhi, o da qualche parte scritta in volto.
«Poi te lo spiego» si limitò a dire Massimiliano, captando la curiosità silenziosa della compagna.
E mentre tornavano a rilassarsi, incuranti delle ore che passavano, un fugace pensiero corse a quella zia tanto misteriosa, che in tempi non sospetti, gli aveva augurato di trovare la sua terra dei limoni, come se fosse stato l'augurio e al contempo l'eredità più grande che gli avesse lasciato. A lui, come a Gabriele e alle loro sorelle.

 
 
Dove sei, unico amore che rivivrei?


 
Ho delle cose da dire riguardo a questo capitolo, sul risultato totale ne parlerò al prossimo, che è anche quello conclusivo.
Le vicende di Agnese, Maxime e tutti gli altri si concludono ufficialmente qui.
Non so se la scelta, ad un certo punto, di alternare la temporalità delle scene sia stata giusta o meno, sicuramente è stata quella meno faticosa per me.
Ho iniziato a scrivere questa storia inseguendo un'idea, che non era l'idea originale da cui era partita.
Ma mi ha stupito che, nonostante i giri immensi, Agnese sia giunta ugualmente al suo destino originale, ossia quello di diventare una partigiana.
Avrei voluto scrivere più nel dettaglio il periodo storico della Resistenza, dargli più voce e spessore, renderlo più presente… ma mi sono dovuta accontentare di quanto ho riportato.
Su Agnese vorrei dire tante cose, lei ed Anna hanno atteso con pazienza il loro momento di uscire fuori dai miei appunti, e lo stesso mi piacerebbe dire su Gabriel e Maxime, che sono più “giovani” rispetto alle loro controparti femminili.
Mi sono resa conto, scrivendo, che entrambi, pian piano, mancavano sempre più di spessore, diventando sempre più dei fantocci utili alla narrazione. 
Perché ovviamente Gabriel non potrà mai sostituire colui che era nel destino di Agnese, così come anche Maxime.
Diciamo che ci ho provato, ho provato a mescolare l'alchimia, ma il risultato non è stato dei migliori.
Avrei dovuto ascoltare di più Agnese, e credo di averla soltanto limitata nel suo essere.
Ovviamente queste sono mie considerazioni, se voi che leggete la pensate diversamente sono contenta, anzi meglio così, in fondo.
Ho buttato giù questa storia in un momento molto difficile per me, e il solo fatto di essere riuscita a scrivere è stato davvero confortante, e ne prendo il buono, come sempre.
L'ultimo capitolo vorrei farlo uscire prima di Pasqua, ma non so se riesco.
Mi dilungherei ancora, ma sarebbe inutile.
Alla prossima con il capitolo finale 👋👋👋
Flying_lotus95
   
 
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