5°
Capitolo
Stiles quella
mattina non fu ridestato dal sole cocente che filtrava dalla finestra ai suoi piedi,
ma dalla pioggia battente, incessante e che oscurava completamente il cielo, le
nuvole grigie perseveravano a incutere timore, non garantendo che il tempo
climatico migliorasse.
Le dita furono
stuzzicate da qualcosa di morbido e peloso ed involontariamente stinse quella
consistenza sconosciuta, ma estremamente confortevole e calda che lo avvolgeva
completamente. Le palpebre si aprirono con sforzo, uno sguardo appannato al
vetro pieno di striature d’acqua, impossibili da focalizzare, stesso destino
toccò alla palla di pelliccia che respirava tranquillamente sotto il suo tocco.
La chiazza nera
riuscì a metterla a fuoco dopo qualche attimo, tra uno sbadiglio e l’altro,
riprendendo confidenza con l’ambiente che lo circondava e che riconobbe al
volo. Un lupo nero adulto riposava sul letto, il muso poggiato sul petto e il
corpo ricurvo su se stesso, era completamente appiccicato a lui.
Un mormorio di
stupore sfuggì dalla sua bocca e la mano risalì verso la testa, affondando nel
folto pelo, accarezzandolo dolcemente in mezzo alle orecchie. Non riusciva a
scorgere e sentire Derek da nessuna parte, ma non era difficile individuare chi
si nascondesse sotto la forma di lupo completo. «Sei davvero meraviglioso» non
riuscì a trattenere il sorriso felice ed ammaliato che si dipinse sul volto.
Le orecchie del
canide si rizzarono, muovendosi al suono della voce, godendosi passivamente
quella premura per qualche attimo prolungato, finché i suoi occhi non si
mostrarono, vigili e consapevoli, completamente svegli ed attenti.
Stiles lo scrutò
con sgomento, incontrando per la prima volta iridi di fuoco e mare,
perfettamente amalgamati tra loro, ma senza incrociarsi mai. Il cerchio esterno
era di quel blu metallico che aveva sempre pensato appartenergli e quello
interno, che toccava la pupilla scura, era del colore del comando, di un’Alpha.
Era qualcosa che non credeva potesse esistere ed a cui mai avrebbe immaginato
di essere spettatore; era quella la motivazione per cui si ostinava a non
mostrarli? «Derek» non era sicuro di che cosa fosse uscito fuori, un misto tra
un’espressione interrogativa ed esclamativa; non era in grado di cogliere cosa
predominasse.
Derek si disfò
della sua presa e si alzò sulle quattro zampe, rimanendo per qualche attimo a
squadrarlo con la sua profondità tipica che gli avrebbe impedito di scambiarlo
con chiunque altro, poi scese dal letto e si diresse verso la cucina, i rumori
degli artigli e dei cuscinetti che ammortizzavano il passo felpato si
tramutarono in passi di piedi umani nudi che aderivano al pavimento.
Avvertì la porta
della lavanderia aprirsi e uno sportello scattare, non sapeva identificare se
fosse quello della lavatrice o dell’asciugatrice. Lo sentì muoversi, il fruscio
dei vestiti a seguirlo, l’anta del frigorifero schiudersi, una bottiglia essere
estratta e un bicchiere di vetro essere riempito d’acqua.
Attese, il respiro
di Derek che si faceva più pesante, come affaticato. Poco dopo tornò in
versione umana con un bicchiere pieno quasi all’orlo, le sue capacità non gli
permettevano di far cadere una sola goccia di liquido trasparente e glielo
porse quando arrivò da lui, con Stiles che lo accettava leggermente riluttante
e più che altro confuso, portandosi in posizione da seduta. Fu soddisfacente
essere dissetato da acqua fresca. «Hai davvero ritenuto necessario vestirti di
là?».
«Sì» Derek
indossava soltanto dei pantaloni comodi, casalinghi, ma il petto era ancora
scoperto, come lo erano i suoi piedi. «Non volevo andassi in iperventilazione».
Le gote del figlio
dello sceriffo si surriscaldarono e distolse per un attimo gli occhi. «Dovresti
vestirti di più, allora» ma Derek aveva già quell’idea evidentemente, difatti
era rivolto verso l’armadio coperto impegnato ad afferrare una maglia qualsiasi.
Stiles poteva osservare i muscoli delle spalle contrarsi, insieme alla schiena
nuda che si allungava, il grande tatuaggio inchiostrato di nero flettersi,
indelebile sulla pelle leggermente bronzea. Erano anni che non vedeva quella
triscele figurare tra le sue scapole e di occasioni comunque ne erano esistite
poche, ma da quando era diventata una matricola universitaria poteva osservarla
ogni mattina da quasi un mese.
«Non mi pare ti
dispiaccia» affermò disinteressato, scostando la tenda aranciata per trovare
quello che stava cercando.
«Dio, Derek!»
perché doveva avere a che fare con un tale essere infame? «Odio questa cosa,
che puoi sentire le mie emozioni».
Il mannaro indossò
una maglietta grigia dalle maniche lunghe, voltandosi verso di lui con un
giudizio ben assestato. «Non sento soltanto le tue emozioni, sento tutto».
«Ecco, appunto»
sbuffò gonfiando le guance, profondamente offeso dalla precisazione. Era
imbarazzante e anche umiliante. Con Scott non c’erano problemi, non giudicava
mai le sue azioni o ciò che sentiva, era spensierato e anche molto distratto;
con Derek la situazione era ben diversa. «Sei troppo bello, è un’ingiustizia».
Derek arcuò un
folto sopracciglio, l’attenzione rivolta totalmente verso i suoi deliri.
«Dovrei chiedere scusa?».
«Sì» esclamò di
slancio Stiles, non pensando minimamente a quanto apparissero ridicole le sue
esternazioni.
Il licantropo
schioccò la lingua contro il palato, la mossa esasperata e dilettata
dall’essere pittoresco dell’umano.
Si accomodò sulla
sedia abbinata alla scrivania, scostandola leggermente e direzionandola verso
Stiles, mentre a disaggio lo studente di criminologia finiva di svuotare il
bicchiere.
C’era una strana tensione
elettrica e Stiles sapeva ci fosse qualcosa in agguato. «Sei un lupo completo».
«Acuta
osservazione» lo incalzò il mutaforma, la nota sarcastica evidente.
«Da quanto tempo
puoi assumere la forma completa?» Stiles era piuttosto sicuro che prima di
intraprendere la vita da universitario Derek non ne fosse in grado, al
contrario di Laura che ne era stata in grado nel momento in cui aveva ottenuto
il ruolo di Alpha. Ma cosa poteva affermare di sapere su di lui, se nemmeno
conosceva il reale colore dei suoi occhi.
«Un anno» fu tutto
quello che Derek gli concesse, secco e sbrigativo.
Un anno, Stiles non
sapeva come sentirsi a riguardo, non era stato il suo momento più florido
quello. O per meglio dire, non era proprio esistito, cancellato dalle memorie
del mondo. Mentre lui era stato dimenticato da chiunque, perfino dal suo stesso
padre, Derek doveva aver affrontato qualcosa che l’aveva fatto divenire un
tutt’uno con il suo lupo. Stiles era retrocesso, Derek evoluto.
«Voglio che passi
le notti qui» disse il licantropo, andando dritto al punto e aggirando
qualsiasi tentativo l’umano avrebbe tentato per scappare dalla questione
principale.
Le pupille della
matricola si ingrandirono e gli occhi sgranarono, si sentì spinta all’indietro.
«Non se ne parla».
«Se ne parla
eccome» dissentì asciutto Derek, le iridi di giada serve e non permissive. «Sta
degenerando, sta diventando troppo pericoloso per te. Non voglio più doverti
trascinare dall’autostrada mentre un’auto cerca di investirti o ripescarti dal
fiume in piena» Derek aveva mille esempi che avrebbe potuto esternare e far
presente, descrivendo ogni sensazione che l’avevano attraversato, il tormento
che non riusciva a scrollarsi di dosso. «Cosa capiterebbe se non riuscissi a
trovarti? Se non dovessi intervenire in tempo e strapparti dalla strada? O non
essere abbastanza veloce mentre la corrente ti porta via?».
«Cosa?» Stiles era
esterrefatto, incredulo, credeva di avere delle allucinazioni uditive. «Un
auto, il fiume?».
Derek lo vide
tremare, il bicchiere che teneva ancora in mano che oscillava, il viso che si
faceva completamente pallido. Si avvicinò con circospezione, il contenitore di
vetro che gli estraeva dalle dita e lo poggiava sul comodino, sistemandosi di
fronte a lui sul materasso. «Non ti sei svegliato. Ti sei gettato nel Red
Cedar River e hai continuato a farti trascinare dalla corrente, perfino
quando ti ho tirato fuori. Questa cosa mi terrorizza, devo sapere di trovati in
un luogo dove posso intervenire subito, senza cercarti in ogni centimetro del
campus».
Stiles lo guardò
affranto, distrutto, non era pensabile che nella sua incoscienza facesse delle
cose simili, che desse tutto quel lavoro a Derek per tenerlo vivo e incolume.
«Non volevo trascinarti in tutto questo».
«Lo so» proferì
Derek con certezza, conscio di ciò che vivesse dentro il figlio dello sceriffo.
«È qualcosa che devi accettare, preferisco averti qui, sotto il mio occhio
vigile. Questo non vuol dire che voglia controllarti».
«So che non vuoi
controllarmi» era incredibile, come le cose si stessero invertendo tra loro,
quanta passione e moderazione il capitano gli stesse dedicando. Fu a quel puntò
che cadde in picchiata sul letto, coprendosi fino alla testa con le coperte,
fuggendo nell’unico modo permessogli. Derek non commentò né si mosse, restò
esattamente come l’aveva lasciato. «Devo dirtelo, vero? Cosa è accaduto».
Derek perseverò
nel suo silenzio, l’impatto dell’importanza che rivendicava il suo spazio.
«Sarebbe d’aiuto».
Lo studente di
criminologia sospirò esausto e sconfitto, domandandosi quanto ancora potesse
andare avanti senza condividere nulla con lui. La sua attenzione cadde su un
piccolo spiraglio lasciato libero dalle lenzuola, la sveglia digitale di Derek
che scandiva il tempo. «Abbiamo perso le lezioni» realizzò senza davvero
comprendere cosa dovesse provare. Derek era rimasto con lui per tutto il tempo,
a discapito di se stesso e si chiese cosa avesse realmente affrontato quella
notte, quanto esausto fosse.
«Quelle mattutine,
sì» convenne con lui il padrone di casa, consapevole che l’orologio segnasse le
undici.
«Ne hai nel
pomeriggio?» chiese allora Stiles, sollecitato dalla precisazione del mannaro.
«Una» dichiarò con
semplicità, non turbato minimamente di non aver adempiuto al suo compito di
studente. «Tu?».
«Due» ah,
era una fatica realizzarlo. Era stanchissimo e la giornata non era nemmeno
cominciata, anzi era ben avviata senza che lui avesse fatto niente. Ma
evidentemente il suo corpo e la sua mente la pensavano in modo diverso, loro
avevano affrontato qualcosa di cui non era consapevole.
Derek decise di
sistemarsi meglio sul letto, distendendosi parzialmente, senza fare sentire
troppo la sua invadenza e Stiles uscì pigramente dal suo rifugio, guardandolo
come se si aspettasse qualcosa. «È il primo sorriso che ti ho visto fare» disse
invece, lasciando completamente di stucco Stiles e facendo comparire nei suoi
tratti facciali un interrogativo ben presente. «Al lupo».
«Oh» l’umano era
piuttosto combattuto e disorientato, era un appunto che non si aspettava di
udire da Derek. «Conti i miei sorrisi?» quell’ipotesi lo fece sorridere dentro
più di quanto potesse sospettare e le labbra si incurvarono all’insù in
automatico, senza controllo, incredibilmente deliziate e quel leggero sottotono
di ironia graffiante.
«Sì, se il numero
da tenere a mente è uno» proferì Derek, implacabile allo stuzzicare del suo
ospite.
«Se mi mostrerai
nuovamente quel bellissimo lupo, sorriderò di nuovo» lo invitò ed incitò, il
ghignetto di sfida che si palesava senza vergogna.
Derek roteò gli
occhi verso il cielo, per niente stupito di quanto facilmente la sua anima da
canaglia prendesse vigore. «Non mi trasformerò per te».
«Tecnicamente, è
quello che hai fatto» l’aveva cercato in quella forma? Com’era riuscito a
condurlo nel suo appartamento? Perché aveva avuto la necessità di vegliare su
di lui mantenendo la trasformazione, addormentandosi acciambellato al suo
fianco?
«Non mi
trasformerò per soddisfare i tuoi capricci» parò il tiro il capitano della
squadra di basket. Stiles era pericoloso continuamente, non si poteva mai
abbassare la guarda, la vittoria era sempre dalla sua parte.
«E così come farai
a vedermi sorridere?» ammiccò spudoratamente, lo scintillio nelle gemme
ambrate.
«Stiles, sono
serio» il tuono risuonò tra le quattro pareti e Stiles si ritrovò a guardarlo
bene, realizzò anche che le pagliuzze blu e rosse che vedeva emergere in
particolari circostanze nelle iridi verdi erano reali. «Non devi dirmi quello
che è successo adesso, puoi anche non farlo mai, ma credo sia importante
affrontare la questione».
Il figlio dello
sceriffo sospirò di nuovo, più sconfitto e avvilito di quanto non apparisse in
precedenza. Nascose parzialmente il viso sul cuscino e guardò dritto Derek che
non distoglieva l’attenzione da lui. «Non è questione di non volertelo dire,
semplicemente non so nemmeno da dove cominciare» si ammonì e socchiuse per
qualche attimo le palpebre; da digerire era qualcosa di insopportabile. «Sono
successe troppe cose e sono tutte intricare e collegate. Mi fa scoppiare il
cervello» ma in effetti era esploso davvero e la maggior parte dei tasselli li
aveva sistemati lui.
Una mano del
licantropo si poggiò su uno zigomo dell’umano, il lato lasciato libero dal
guanciale piumoso, e le dita serpeggiarono tra i capelli che lui stesso aveva
ripulito nella notte precedente e si legarono pigramente alle ciocche
scombinate. «Puoi partire da dove preferisci e andare con calma, ho tutto il
tempo del mondo».
Accidenti, continuava a
ritrovarsi a domandarsi se Derek l’avesse mai toccato in quel modo ed ogni
volta gli appariva più significativa di quella precedente, eppure perseverava a
non ricordarsi alcuna occasione in cui un’evenienza simile potesse essere
capitata, tutto il suo calore gli scorreva nell’epidermide e andava fino in
fondo, strato dopo strato. Era stordente. «Sai qualcosa sui Nogitsune?».
Derek non aveva
una linea guida su come sarebbe iniziato quel discorso, ma non si aspettava che
partisse proprio da quell’antefatto. «Sono degli spiriti millenari, di volpi
oscure».
«Sì, vero» il
respiro della matricola si appesantì e il tocco di Derek si fece più cadenzato,
più confortevole; Stiles avrebbe voluto serrare le palpebre e godersi la
sensazione invece di andare avanti. «Sono stato posseduto da uno Nogitsune, per
diverso tempo. Anche troppo».
Il licantropo
serrò le labbra, la notizia strisciò avvezza e si intrappolò dentro di lui;
qualcosa l’aveva decriptata nei deliri dell’umano, ma non andavano mai a fondo
e non aveva capito quanto tortuosa fosse stata. «Quando?».
«Al terzo anno,
quando abbiamo trovato Malia» se lo ricordava bene il momento in cui nei boschi
lui e Scott erano andati in giro per cercare quel coyote che ritenevano fosse
una ragazza, intrappolata nel corpo animale da nove anni, dopo l’incidente
stradale e la dipartita della sua famiglia adottiva. Stiles aveva bisogno di
mettere le cose a posto, scacciare gli incubi ed i tormenti che gli annidavano
la testa, chiudere quella porta oscura nel suo cuore che aveva dovuto aprire
per sconfiggere il Darach.
Quando una porta
non è una porta?,
era il quesito, Stiles aveva risposto quando è socchiusa. Ma lo era
rimasta per tutto il tempo, perché la volpe si era già insidiata ed aveva
soltanto nascosto le sue tracce, mascherandole. «Mi ha manipolato, messo in
testa pensieri terrificanti, i miei incubi ricorrenti. Ha usato il mio corpo e
le mie azioni a suo vantaggio, mi ha intrappolato dentro me stesso, da cui non
riuscivo ad uscire. Mi ha ingannato, riempito la testa di illusioni e ha usato
tutto quello che le serviva contro di me» si fermò, perché l’affanno stava
accelerando e gli opprimeva il petto.
Raccontarlo gli
faceva rivedere ogni secondo dell’agonia che aveva vissuto, quanto fosse
incapace di respirare. «Mi ha fatto credere che fossi affetto dalla stessa
malattia di mia madre» la voce si spezzò e faticò a riprendere il ritmo. Era
stato tra i colpi più bassi che potesse assestargli.
Le dita del lupo
si insinuarono ancora in profondità e la sua testa si sistemò sullo stesso
cuscino occupato dal figlio dello sceriffo. Erano occhi negli occhi e non c’era
nulla a mitigarli, a permettergli di celarsi almeno un po’. «L’ho odiato. Ho
odiato come conoscesse perfettamente la mia mente e riuscisse a usarla contro
di me. Ho pensato che lei avesse ragione, che l’avesse sempre avuta».
Stiles non si
spiegò, non rivelò la figura misteriosa che si nascondeva dietro lei, ma
in passato l’umano gli aveva fatto intendere a chi si riferisse, chi era la
persona che gli aveva arrecato più danno. «So quanto male ti abbia fatto» Derek
aveva vissuto un’esperienza piuttosto simile, seppur con modalità differenti.
«Non sai quello
che ho fatto» articolò lo studente di criminologia, le iridi d’ambrosia che si
scurirono. «Ho ucciso Allison» rivelò spietatamente, come se non dovesse in
alcun modo provare comprensione e compassione per lui. Nessuna possibilità di
redenzione. «Ho ucciso tantissime persone. Così tante, Derek, non riesco
nemmeno a contarle».
Derek si irrigidì
al nome della cacciatrice. Era già stato informato della sua dipartita
prematura, ma Stiles non aveva mai fatto cenno a cosa le fosse successo, benché
Derek avesse afferrato qualcosa dalla sua afflizione, dal patimento che provava
alla sua memoria. «Ho ucciso anch’io».
«Non è
paragonabile» tremò sotto i suoi polpastrelli, la vista che si riempiva di
liquido trasparente. «Tu l’hai fatto per amore, io per nutrice una volpe sadica
con il dolore».
«Amore?» ripeté
Derek accigliato, la fruizione del calore che si affievoliva leggermente per
via delle dita che si erano lievemente scostate dal viso del suo interlocutore.
«Non lo chiamerei così».
Il viso di Stiles
si increspò e gli occhi si sgranarono leggermente, colpito da una fitta nociva
al petto. «E come lo chiameresti?».
«Arroganza» disse
lapidario il mutaforma, in una sintesi perfetta.
Era stato ingenuo
nel farsi sedurre dai sussurri di Peter e sì, arrogante nel credere che una
vita da essere soprannaturale fosse la chiave di volta per chiunque, ciò a cui
tutti ambissero e senza nessuna controindicazione. La sua presunzione aveva
richiesto un prezzo molto difficile da pagare. Lo stava ancora scontando.
Una lacrima scappò
dalle ciglia dell’umano e Derek la asciugò con il pollice cancellandone le
tracce, evento che avvenne anche dall’altro lato, ma fu assorbita dal cuscino.
«Ehy» soffiò morbidamente il lupo mannaro, il viso che si avvicinava al suo, le
fronti che combaciavano lentamente. «Non sei stato tu, non hai nessuna colpa».
Avrebbe voluto
dirgli quelle esatte parole, ma la questione Paige era troppo complicata e
insidiosa. Ciò che Derek pensava di se stesso lo pensava anche Stiles, era
estremamente difficoltoso celarlo. «Vorrei fosse così» proferì Stiles agitato,
destabilizzato, non riusciva a togliersi la sensazione dalle viscere. «L’ho
avuta per mesi nella mia testa, a sussurrarmi, a pianificare le sue mosse e io
non l’ho capito subito. Quando ho cominciato a dubitare di me stesso, di tutto
quello che mi stava capitando, ho cercato di avvisare tutti, ma nessuno voleva
credermi» uno scoppio di risa amara gli scappò, la follia dell’assurdità e
altre lacrime non riuscì a serrarle. «Tutto quel dolore. È di questo che si
nutrono i Nogitsune: caos, confusione e dolore farcito con ancora più dolore.
Tutte quelle vite spezzate dalla mia incapacità di resistergli».
«È questo che
credi? Di essere stato incapace?» Derek lo guardò dritto nelle pupille, il
verde riflesso nell’ambrosia.
«Gli serviva il
mio consenso» annunciò la matricola, il tormento che si faceva sempre più
premente. «E io glielo concesso».
Derek non si tirò
indietro, non apparve nemmeno stupito di quella possibilità, rimase esattamente
piantato dov’era, a completo contatto con lui. «Hai detto che ha usato molti
escamotage contro di te, per controllarti; che cosa ha usato quella volta?».
Stiles non
riusciva a capire come Derek potesse essere tanto fiducioso su quell’aspetto,
quanto fosse proiettato oltre le sue parole. «Malia».
Parve evidente
come il mannaro assorbì il colpo, una conoscenza parziale che si ramificava.
«Non sei stato incapace, sei stato messo di fronte a una scelta impossibile e
hai agito al meglio delle tue possibilità» era chiaro che Stiles avrebbe voluto
salvare tutti, nessuno escluso, chi conosceva come le sue tasche e sconosciuti
che non aveva mai incontrato in vita sua. Scegliere tra una sola persona e
tutti gli altri era qualcosa di impensabile, gli faceva credere di aver preso
la decisione sbagliata. Faceva anche quello parte del gioco della volpe?
Stiles fu scosso
dai singhiozzi che tentava di soffocare e tutto il suo corpo vibrava contro
quello della creatura della notte che lo teneva saldo alla realtà. «Vorrei
riuscire a vederla come te».
Derek gli schioccò
un bacio su una tempia, mentre Stiles si aggrappava tremante a lui. «Un giorno
lo farai».
Mantenne le labbra
su quel punto finché l’umano non cominciò a calmarsi, i tremori a placarsi e
l’agitazione a togliere gli artigli su di lui. Ancora una volta Stiles non
registrò la naturalezza e libertà delle gestualità con cui il lupo completo lo
ricopriva, un bacio che in un’altra epoca non sarebbe mai esistito. Lo Stiles
del passato si sarebbe liquefatto a quel contatto, ma quello attuale era troppo
annichilito da tutto il resto per analizzare la situazione e decodificarla.
«Non è cambiato
niente dopo che si è separata da me» forse era stato perfino peggiore, perché
non poteva più provare a contrastarla.
Derek lo guardò
con un interrogativo ben presente, la barba curata e morbida che sfregava
contro di lui per il movimento, ma la bocca si separò e Stiles non avrebbe mai
creduto di non volere che accadesse, che l’istintività di Derek restasse
concentrata su di sé. «Trovarono il modo, Scott e tutti gli altri, credevamo
fosse una cosa che rientrata nei nostri desideri, invece era proprio quello che
il Nogitsune voleva. Ogni mossa, ogni scelta e ogni pensiero, l’aveva già
previsto ed eravamo tutti sue pedine» Stiles lo ricordava come se non fosse
trascorso un solo giorno. «Eravamo ancora collegati, ma mentre io mi
indebolivo, la volpe si rafforzava e diventava sempre più padrona del corpo che
si era costruita. Dovevano trovare il modo di imprigionarla per fermare tutto
il male che stava portando. Non puoi uccidere un Nogitsune, puoi solo
intrappolarlo».
«È questo che ti
spaventa? Che può essere liberato in qualsiasi momento?» domandò di seguito il
nato lupo, le parole vuote di uno Stiles inconsapevole che prendevano una
forma.
Stiles lo guardò
con occhi giganti, la testa che scattava all’insù e si disfò dal legame che il
licantropo aveva istaurato. «Credi che possa? L’abbiamo nascosto» anche se la
prima volta non aveva funzionato molto bene.
«Non conta quello
che credo io, ma quello in cui credi tu» lo Stiles vagante nella notte ne era
fin troppo sicuro, voleva scappare a tutti i costi e non riusciva ad inquadrare
il modo migliore per riuscire nell’impresa. A volte credeva che si fosse fissato
sull’azione peggiore da compiere, il punto di non ritorno, ma in realtà non gli
aveva mai dato l’impressione che fosse davvero quella la meta, ma solo il non
aver controllo di nulla. «È questo che ripeti tutte le volte in cui ti trovo:
la volpe sta tornando a prenderti».
«Ah» l’umano
sentiva che il materasso lo stava risucchiando al suo interno. «Quindi sapevi
della volpe?».
«Erano solo parole
sparse che dovevo collocare nel giusto ordine e con un senso logico» non era
stato facile e sentire tutta la storia da Stiles gli faceva capire quanto poco
avesse realmente compreso. «Il tuo tormento, dovevi esternarlo».
Stiles si alzò dal
letto irrequieto, i piedi nudi sul pavimento, l’indecisione di dove andare, la
sua mente macinava e macinava pensieri.
«Sei arrabbiato?»
domandò allora il padrone di casa, portandosi in posizione da seduta corretta,
osservando l’umano girare su se stesso.
«No» Stiles lo
guardò senza capire, non riuscendo a cogliere la sua preoccupazione moderata.
«Dovresti esserlo tu, perché non vi abbiamo chiamato» tanto aveva detto e
fatto, ma alla fine uno Stiles, lui, aveva comunque avuto il bisogno di
confidarsi con Derek.
«Era questo il
patto» disse allora la creatura della notte, riportando indietro parole che
erano state pronunciate per rassicurarli ed invitarli a mettere radici da
un’altra parte.
«Lo so bene»
Stiles ne era fin troppo consapevole, come lo era stato il suo branco. «Era la
nostra battaglia, voi avevate già affrontato le vostre. Abbiamo chiesto a Peter
e Malia di non dirvi nulla».
Il mannaro si
accigliò, aveva una mezza ramanzina da fare a qualcuno e se l’appuntò
mentalmente. «Vuoi fare sempre tutto da solo. Hai la pretesa di voler aiutare
chiunque, ma non può accadere lo stesso con te».
Stiles non
ribatté, non avrebbe avuto alcun senso negare l’evidenza. Se ci fosse riuscito,
non avrebbe mai coinvolto nessuno nei suoi problemi. Era quello che aveva
tentato di fare anche intestardendosi di frequentare l’università nelle
condizioni in cui si trovava. Senza Derek, dove si sarebbe ritrovato? E perché il lupo nero sembrava conoscerlo
così bene, aver compreso tutte le sue particolarità abilmente nascoste? Aveva
accusato Derek di non avergli permesso di far parte della sua vita, ma se
invece fosse accaduto senza che lui ne avesse preso coscienza?
Inavvertitamente e
probabilmente richiamato dal colore, la visione periferica fa cattura dalle
proprie braccia e individuò quella sfumatura particolare, rossa e arancione che
si fondevano insieme. Fu chiamato in allarme, le sue memorie non corrispondevano,
era quasi certo di aver indossato il suo pigiama preferito di Ritorno al
Futuro. Si diresse verso lo specchio, l’attenzione trattenuta di Derek su
di sé, lo vide anche sbiancare quando riuscì a riflettersi sulla superficie.
Stiles si ritrovò a trattenere il respiro.
Indossava un
completo di un pigiama autunnale, maniche e pantaloni lunghi, a occhio
decretava fosse di due taglie più grandi, come tutto quello che Derek gli
prestava. Le maniche erano di quell’arancione rossiccio che Stiles incontrava
in diversi oggetti personali di Derek, che inizialmente aveva identificato come
casuale; anche i pantaloni erano di quel colore, ma più chiaro e vi erano delle
piccole stampe ripetute, simili all’enorme che si trovava sulla maglietta, al
suo centro: una volpe rossa disegnata con tratti morbidi, allegra e vigorosa,
giocava con dei palloncini dello stesso colore del pigiama. Sui pantaloni
invece i disegni si alternavano, a volte la volpe era arrotolata su di sé e
dormiva, altre volte era nel bel mezzo di un salto, pensierosa in quella
successiva, entusiasta subito dopo, emozionata e pronta a prendere tutto dalla
vita nella stampa accanto. C’era tanta cura in ogni tratto, i colori vividi
alternati a quelli pastello, Stiles non riusciva a mettere in fila un pensiero.
«È molto carino» era la cosa più carina che avesse visto negli ultimi tempi,
c’era un mondo che si stava divertendo a sue spese.
«È un vecchio
pigiama» fu tutto quello che Derek riuscì ad articolare, la semplicità della
sua giustificazione.
Un sopracciglio
del figlio dello sceriffo si arcuò immediatamente ed ispezionò meglio la
fattura, gli occhi e il tatto che studiavano le cuciture. «Non sembra essere
stato usato» era immacolato, appena uscito dal negozio o dalla scatola che lo
conteneva.
«È così» confermò
la creatura leggendaria.
Stiles vedeva nei
lineamenti perfetti e controllati quanto Derek non fosse realmente sereno di
affrontare la questione. «Perché tenerlo, allora? Ti piacciono talmente tanto
le volpi?» ma sapeva essere crudelmente spietato senza alcuna ragione.
«Tu non hai
qualcosa che ti porti sempre dietro e che credi un giorno ti tornerà utile?»
Derek aveva estratto le unghie, dalla perfidia senza scopo di Stiles non si
faceva domare.
«Sì, certo»
soltanto che Derek proprio non sapeva cosa fosse un pigiama, la sua moda notte
si limitava a dei pantaloni, a volte pensava dovesse ringraziarlo per
quell’accortezza. «Quindi la volpe rientra nei tuoi gusti? Un lupo come te?» a
Stiles si arricciavano le dita dei piedi, era qualcosa di adorabile, fin troppo
tenero per legarsi al lupo cattivo per eccellenza a cui corrispondeva Derek
Hale. Faticava a trattenere il sorriso che voleva prendere predominio.
Derek lo guardò
piuttosto giudicante, come se non fosse sicuro di parlare con la persona
giusta. «La ragazza di Scott è una kitsune».
Derek apprendeva
in fretta le nozioni di cui era stato all’oscuro. «Scott non fa testo» rise un
po’, perché gli risultava incredibilmente assurdo avere una conversazione del
genere con il capitano della squadra di basket.
«Puoi cambiarti»
lo invitò il mutaforma, indicandogli l’armadio aperto coperto dalle tende
colorate, lì dove c’era una piccola pila dedicata ai vestiti che in genere gli
passava. Ne aveva creata una di proposito, l’andava aggiornando ogni volta che
glieli riconsegnava perfettamente puliti e pronti per essere riutilizzati,
anche se Stiles sperava sempre che sarebbe stato Derek a indossarli, avrebbe
significato che il suo problema di sonnambulismo fosse passato. «Ѐ il più
caldo che ho».
«No, va bene. Ti
ho detto che è carino, non sono così suscettibile» capiva perché il mannaro
volesse correre ai ripari. Indossare un indumento che raffigurava una
bellissima volpe giocherellona proprio da qualcuno che aveva patito per delle
sofferenze profonde scaturite da una sua simile, poteva far esplodere il
cervello; messo sempre che Stiles ne possedesse ancora uno. Ma poi fu
attraversato da un pensiero, dalla motivazione che aveva portato Derek a
doversi preoccupare di quell’aspetto, di cercare qualcosa che lo tenesse al
caldo. Era caduto dentro un fiume, sotto la pioggia e Derek era stato costretto
a seguirlo, a tirarlo fuori dalla sua trappola di correnti pericolose. Stiles
era pulito, perfettamente in ordine, non aveva un minimo livido, del fango tra
i capelli. Il suo cuore ebbe dei sussulti pericolosi.
«Non è successo
niente» Derek captò subito l’agitazione nel figlio dello sceriffo, i battiti
accelerati, il fiato che diveniva pesante. Si alzò dal letto per renderlo più
evidente, perché il suo affanno era diventato il proprio. «Non ti ho toccato».
Ah, Stiles pensava
di avere un mancamento per il solo fatto che Derek avesse concretizzato a
parole il suo disagio. «Non lo penso» perché avrebbe dovuto? In quella loro
convivenza erano entrambi tesi come corde di violino, che venivano scosse per
ogni paranoia. Stiles capiva la propria reticenza, l’essere completamente alla
mercé del lupo mannaro e inconsapevole di tutto quello che poteva accadergli o
fargli, ma di certo non metteva a fuoco la possibilità e ragione per cui Derek
potesse in qualche modo approfittarsi di lui. «È solo imbarazzante. Hai dovuto
occuparti anche di questo» spogliarlo, lavarlo e rivestirlo. Automaticamente
quello includeva la gestualità di essere stato toccato senza alcun velo a
frapporsi tra loro, totalmente nudo sotto i suoi occhi verdi scrutatori, ma con
l’unica finalità di riscaldarlo e togliergli lo sporco della sua avventura
acquatica notturna. «E so, so che non mi romperesti. Fai di tutto per tenermi
intero».
«Per me non è un
peso, né occuparmi di te né tenerti intero» Derek lo disse con convinzione
certa, una sorta di vocazione che a Stiles provocò leggera paura, ma non
riusciva ad identificare di che fattezza. «Farti del male, non è qualcosa che
farei coscienziosamente».
«Questo lo so» il
Derek che aveva davanti non aveva mai mostrato quella direzione, molto diverso
da quello diciottenne con cui si era imbattuto dopo che Scott era stato morso e
Laura li aveva accolti a braccia aperte. Non che intendesse che a quel tempo il
lupo volesse arrecargli danno, ma non si prodigava di certo verso la sua
figura. Forse, intrinsecamente, il rifiuto di Derek nei suoi confronti l’aveva
vissuto in quel modo, come un male subito. Era qualcosa di totalmente
irrazionale.
Stiles sentì il
bisogno di allontanarsi, di mettere della distanza per riprendere fiato, per
tutta quella parte di sé che aveva condiviso con il mannaro.
Si diresse in
cucina, aprendo il frigorifero e cercando qualcosa che gli desse le energie che
in quel momento il suo corpo esigeva. C’erano tre cartoni di succhi di frutta
da un litro e mezzo ciascuno: ace, pera e ananas. Stiles era piuttosto sicuro
di aver terminato il suo preferito due giorni prima.
I primi giorni in
cui si era ridestato catapultato nel monolocale del mutaforma, vi era soltanto
la confezione ace e non era nemmeno certo che Derek lo bevesse
spassionatamente. «È troppo aspro» si era lamentata la matricola, non perché
volesse gettare delle regole in una casa che non era la sua, ma semplicemente
perché aveva l'abitudine di esternare i pensieri ad alta voce.
Derek l’aveva
fissato giudicante mentre gli preparava il caffè con una macchinetta a cui
Stiles non avrebbe mai osato avvicinarsi, sia perché sembrava eccessivamente
complicata sia perché urlava costosa da ogni angolatura riflettente. «E
cosa preferiresti?».
«Qualcosa di
dolce» aveva dichiarato ovvio, accomodandosi su una sedia del tavolo mentre
aspettava la sua tazza.
Derek gliela
consegnò, l’odore di caffeina e caramello salato che gli solleticavano le
narici. «Ad esempio?».
«Pera» non gli
stava dettando un menù, non gli voleva stilare una lista della spesa, aveva
risposto perché era quello che ci si aspettava quando una domanda veniva posta;
era del tutto disinteressato.
Derek non lo era,
il giorno dopo all’interno del frigorifero vi era quel fantomatico succo di
frutta alla pera e quattro mattine successive quello all’ananas, che non era un
concentrato di zucchero come il primo, ma era una perfetta via di mezzo tra la
dolcezza e l’asprezza. Stiles si era un po’ innamorato di quel gusto e Derek
faceva in modo che non mancassero mai nella loro colazione insieme. Acquistava
anche le migliori marche, quelle dal prezzo più alto. Stiles non si meritava
una premura come quella, non se la meritava soprattutto dopo la discussione del
giorno prima, in cui esternava chiaramente di non volere il suo aiuto e che i
loro rapporti potessero concludersi in quel preciso momento, ma Derek aveva
comunque rifornito il frigo di ciò che l’umano preferiva.
Lo studente di
criminologia afferrò il contenitore ancora sigillato in cui era specificato pera
e si avvicinò allo stipetto in cui erano riposti i bicchieri in vetro,
prendendone uno e riempiendolo di succo di frutta quasi fino all’orlo, per poi
adagiare il cartone sul tavolo e sedersi sul divano.
La vetrata dietro
di lui era costellata di gocce d’acqua, la pioggia non cessava e all’interno
del soggiorno non entrava la solita luce che la caratterizzava sempre. Era
quasi sicuro che Derek avesse ispezionato ogni appartamento libero del palazzo
prima di decidere di affittare quello, l’ultimo piano laterale, in cui erano
presenti molte più finestre rispetto agli appartamenti interni o a quelli dei
piani inferiori. Derek voleva luminosità, così com’era nel bilocale che Laura
aveva comprato a Beacon Hill e com’era nella vecchia villa Hale. Stiles era un
po’ invaghito da quella personalità controversa di un autentico lupo solitario
e cupo.
Derek lo raggiunse
soltanto qualche minuto dopo, la macchina del caffè azionata a tostare il caffè
e il toppig al caramello salato estratto dallo sportello del frigorifero. Non
parlarono, il silenzio perdurò e Stiles poteva sentire soltanto i movimenti del
padrone di casa, mentre si gustava la sua bevanda zuccherata. «Come ha fatto il
Nogitsune ad arrivare a te?» domandò il mutaforma subito dopo aver versato la
bevanda alla caffeina nella sua tazza, spostando una sedia e prendendone
possesso. Sul tavolo vi erano fette biscottate e marmellata d’arancia, biscotti
al cioccolato e un pacco di fette di pane in bauletto che sarebbero state più
appetitose se tostate, ma era evidente che Derek non avesse intenzione di
accendere un solo fornello come non lo era Stiles stesso.
«Si è liberato»
semplificò il figlio dello sceriffo. Si aspettava che delle domande sarebbero
saltate fuori, ma ad alcune non voleva affatto rispondere.
«Da dove si è
liberato?» non era la risposta che si aspettava, non era per niente una
risposta.
«Dal sua prigione»
proferì Stiles nuovamente con ovvietà, accompagnando la risposta con un
movimento degli occhi che la sostenesse.
«Stiles» ruggì a
denti stretti. Sapeva che stava tergiversando, nel suo modo subdolo di giocare.
Che mistero c’era nella scelta di una volpe malvagia di possedere la mente di
un’altra volpe lungimirante ed astuta, condita di scaltrezza e doppie
manipolazioni? Stiles era la persona perfetta, non era nemmeno un quesito che
qualcuno avrebbe dovuto porsi, eppure i suoi amici non avevano compreso che si
celasse proprio dietro la figura di Stiles. Possibile che fosse l’unico, tra
tutti loro, a vederlo sotto quelle sembianze?
«Dal Nemeton» fu
costretto ad esternare, l’umore che cambiava e si incupiva. Dovette prendere
due sorsi del suo succo per andare avanti. «Il Nemeton si è risvegliato e di
conseguenza, anche la volpe. Era prigioniera lì».
«Il Nemeton si è
risvegliato?» chiese Derek incredulo alle proprie orecchie, lo guardò come se
non riuscisse a recepire il messaggio. «Com’è accaduto?».
«Non l’hai
percepito?» fu il turno di Stiles di apparire sorpreso, era qualcosa che non
aveva messo in conto.
«No, non faccio
più parte di un branco a Beacon Hills» spiegò semplicemente il capitano della
squadra di basket, incerto che fosse stato necessario. Stiles era il più
sveglio di tutti loro, aveva capito come funzionava quel mondo molto prima
degli esseri soprannaturali da cui si era circondato.
«Lo so, però…» si
fece pensieroso, non riusciva a capire un meccanismo che gli era parso chiaro
inizialmente, sostenuto delle molteplici prove che si era ritrovato dinnanzi.
Più che prove, cataclismi. «Da quando si è risvegliato, molte e troppe creature
ne sono stati attratti. Dobbiamo vigilarlo sempre e impedire che si approprino
del suo potere. Pensavo fossi riuscito a sentirlo anche tu».
«Non mi interessa
il suo potere» dichiarò spicciolo il licantropo, leggermente indispettito che
fosse categorizzato insieme alle altre creature che nel tempo Stiles si era
ritrovato a combattere.
Stiles sentì di
essere entrato in possesso di un nuovo tassello per quel regno sovrannaturale
in possesso di regole tutte sue e anche del fatto che Derek fosse ormai
completamente estraneo alla loro città natale. Magari l’albero sacro non voleva
prendere altro dal lupo completo.
«Com’è accaduto,
il risveglio?» riformulò il padrone di casa, il caffè che si stava lentamente
raffreddando, il cielo che perseverava a rimanere grigio.
«Lo abbiamo
risvegliato noi: io, Scott ed Allison. Abbiamo dovuto, per impedire che lo
facesse il Darach» non avrebbe voluto rivelare quelle informazioni così,
avrebbe dovuto partire dal principio ed essere più chiaro. «Il Darach era la
mia professoressa di letteratura, per essere precisi e prendeva potere dal
Nemeton molto prima del suo totale risveglio, non potevamo permettere che ne
avesse il completo controllo. Ne abbiamo deviato le intenzioni».
«Molto prima del
totale risveglio? Il Nemeton era morto» non c’erano dubbi su quello, il suo
tronco veniva utilizzato dai druidi per costruire oggetti speciali e intrisi di
potere rimanente. Se quella lavorazione fosse avvenuta nel pieno della sua
linfa vitale, sarebbe stato un sacrilegio.
Stiles tacque, si
portò il bicchiere alle labbra come se potesse impedirgli di aprirle e dargli
suono, una scusa che non poteva essere rettificata. Aveva fatto un’azzardata
scelta di parole e il suo malcontento si impresse nelle pareti che li
circondavano.
Derek lo fissò a
lungo, gli occhi che cercavano delle risposte che non arrivavano. Avrebbe
voluto sommergerlo di domande, scoprire tutto quello che era accaduto in quegli
anni, ma Stiles si stava chiudendo a riccio. «Non vuoi dirmelo?».
Le sue iridi
ambrate brillavano, il sussulto di una maschera che cadeva a terra. «No».
Derek non recepì
bene il colpo, non capiva perché ci fosse qualcosa che non potesse confidargli
dopo ciò che aveva compiuto sotto il volere del Nogitsune, poteva esserci
qualcosa di più grave? Non riusciva ad identificare quale potesse essere. «Hai
detto che gli episodi di sonnambulismo sono iniziati, ormai, sette mesi fa. Ma
dai giorni della volpe è trascorso molto più di un anno».
«È vero» si limitò
a confermare l’umano, ma non andò oltre.
«Che altro è
accaduto?» era evidente, Stiles aveva esternato fossero successe fin troppe
cose, tutte legate tra di loro, ma Derek ancora non riusciva ad individuare
quale fosse l’anello congiuntivo. Tutto quell’insieme non aveva fatto del bene
alla sua psiche.
Stiles lo fissò
penetrante e Derek individuò un’oscurità tutta nuova in lui, qualcosa che
sapeva fosse in grado di tirare fuori se l’occasione lo richiedeva, ma non era
mai stata così sporca e letale. «Sono stato dimenticato».
Stiles era andato
via prima di un’ora consona per il pranzo, indossando nuovamente i vestiti e le
scarpe di Derek che soltanto il pomeriggio prima aveva consegnato ad Erica come
intermediaria; era evidente che le avesse riportate al legittimo proprietario e
il loro tempismo era piuttosto d’impatto per una situazione di cui Stiles non
riusciva a distarsi.
Aveva mangiato da
solo, in uno dei locali affiliati ai buoni pasto che rientravano nella borsa di
studio, di corsa si era diretto verso la prima lezione pomeridiana ed a tentoni
e con troppi pensieri nella testa l’aveva seguita. Non ne aveva ricavato il miglior
risultato, ma nelle condizioni in cui era, non poteva trarre qualcosa di
diverso.
«Come te la passi,
amico?» la suoneria del suo telefono era stata l’unica compagnia di quella
giornata così devastante, la voce familiare e allegra che risuonava a
chilometri e chilometri di distanza.
«Ehy, Scott»
salutò distrattamente, sfinito. I suoi sforzi da studente quel giorno erano
stati minimi, ma il figlio dello sceriffo non riusciva ad alleggerirsi la
mente. Non era pentito di aver rivelato buona parte dei crucci che l’avevano
visto protagonista lontano dagli occhi di Derek, ma lo aveva privato di energie
che già gli mancavano per via della nottataccia che entrambi avevano
affrontato. Forse era anche esausto dalle parti che ancora voleva tenere per
sé; gli creava delle tensioni interne doverle tacere, non rivelare troppo.
«Come procede da
quelle parti?» chiese entusiasta il messicano, la spensieratezza tipica che lo
caratterizzava.
«Non demordo»
cercò di mitigare Stiles, la smorfia che sapeva essere percepibile da un capo
telefonico all’altro.
Seguì uno scambio
acceso tra i due, in cui si aggiornavano reciprocamente, raccontandosi quanto
le cose andassero bene. Scott esternava la verità, Stiles mentiva spudoratamente;
era un bene che i suoi super sensi non fossero troppo affinati tra
un’interferenza e l’altra. «Non crederai mai chi ho incontrato da queste parti»
disse allora, bisognoso di condividere qualcosa che non fosse un segreto.
«Erica».
«Erica?» ripeté in
una eco l’Alpha, le meningi che si spremevano per cogliere a tutto tondo la
figura a cui il suo migliore amico si riferiva. «Erica Reyes?».
«Proprio lei»
confermò con entusiasmo Stiles, felice che non l’avesse completamente rimossa
dalle sue memorie. «Frequenta il corso d’arte ed è nel dormitorio femminile».
«Che coincidenza»
esclamò vitale Scott, agitandosi sul posto come se potesse essere visto dagli
entrambi frequentatori della Michigan State University. «È bello trovare una faccia amica.
Lydia si lamenta sempre che all’IMT non conosce nessuno».
Già, coincidenza, Stiles non
riusciva a togliersi l’anomalia con cui risuonava quella parola. «Lydia
impiegherà cinque minuti a diventare la reginetta di quel posto».
«Assolutamente
vero» concordò senza fronzoli il Vero Alpha. «Tu, invece, hai fatto nuove
amicizie?».
Che terreno
insidioso quello. «Sì, Erica si è quasi creata un branco tutto suo, mi ha
presentato le sue persone preferite, Boyd ed Isaac. Isaac ti piacerebbe» non
sapeva dire il contrario. «Passo il mio tempo libero con loro, in genere».
«Altre creature
soprannaturali, Stiles?» chiese retoricamente il messicano, piuttosto
rassegnato a quella sua inconsueta caratteristica.
«Sono loro a
trovare me. Devo avere un sensore che si attiva, altrimenti non si spiega» era
stato divertente all’inizio, poi dannoso e nocivo. Era ancora innamorato di
quel mondo, lo sarebbe stato sempre, ma a volte voleva soltanto respirare
normalità, esseri umani banali come tutti gli altri. «Sono dei bravi lupi».
«Se a te sta bene,
non ci sono problemi» semplificò il messicano; lui di certo non ne aveva, ma la
sensazione che Stiles volesse allontanarsene l’aveva ben percepita quando la
lettera di accettazione della Michigan State University era arrivata, insieme all’aver
ottenuto una borsa di studio completa che gli garantiva una copertura totale e
un alloggio incluso. L’aveva quasi sentito liberarsi i polmoni per prendere una
nuova boccata d’ossigeno.
A volte si chiedeva se non fosse
quello che avesse sofferto di più tra tutti loro. Stiles teneva le sue
difficoltà per sé, l’aveva sempre fatto. Super sensi o meno, non era in grado
di leggergli nella mente, ma soltanto fiutare le sue emozioni e alcune sapeva
mitigarle piuttosto bene.
«C’è anche
un’altra persona» faticò a prendere fiato Stiles, in un primo momento aveva
pensato che quell’informazione se la sarebbe tenuta per sé, senza davvero
sapere perché nasconderla. Probabilmente perché avrebbe svelato più di se
stesso e della sua situazione che qualsiasi altro aspetto. «Derek».
La linea parve
essere caduta per quanto il silenzio si prorogò. «Derek chi?».
Stiles avrebbe
voluto tirargli il telefono in faccia, magari storcendogli ancora di più la
mascella. «Quanti Derek abbiamo in comune?».
«Derek Hale»
articolò in un’unica parola, segno che era ben consapevole di chi stessero
parlando.
«Sì, Derek Hale»
confermò lo studente di criminologia, non c’era nient’altro da aggiungere.
«Anche lui studia
lì?» si vide costretto a chiedere Scott, in una conferma.
«Sì, letteratura»
l’edificio incredibilmente vicino al suo, i due minuti che aveva cronometrato
personalmente.
«Questo spiega la
presenza di Erica» si illuminò Scott, come se dei pezzi di un puzzle appena
assemblato finalmente combaciassero.
Ma non spiegava
quella di Derek. «Sì, lo segue sempre dappertutto».
«Frequenti anche
lui?» domandò Scott d’istinto; era un’azione consequenziale farlo, se la lupa
mannara aveva una sorta di branco privato, era logico pensare che anche Derek
ne facesse parte, anche se non era scontato. Con Derek Hale nulla lo era.
«Diciamo di sì» si
trovava in svantaggio, Derek era la persona che frequentava più di tutte,
volente o meno. Stranamente era anche quella con cui si trovava meglio e
apprezzava maggiormente. «È sempre lo stesso, non farti grandissime
aspettative» ma era una menzogna anche quella.
«Ah, questa vorrei
proprio vederla» la risata di Scott lo contagiò e anche se si sentiva sporco
per le verità che non gli rivelava, il motivo per cui Derek e Stiles si fossero
incontrati e passassero fin troppo tempo insieme, si sentì comunque più in pace
con se stesso.
Derek percepì il
suo odore molto prima che raggiungesse la porta e iniziasse a bussare, quando
sentì l’impatto delle nocche sulla lastra di legno solida si chiese perché non
l’avesse aperta prima.
«Sembra non mi
aspettassi» disse Stiles, lo sguardo deciso, le intenzioni evidenti, un piccolo
borsone alla mano e un fagotto dentro una busta di stoffa.
Derek lo fece entrare
senza troppe cerimonie e Stiles andò avanti conoscendo bene l’ambiente. «Mi
sembravi restio» ma se l’umano portava con sé quell’agglomerato di stoffa che
aveva le fattezze del suo prezioso cuscino senza la quale non riusciva a
dormire e che conservava pienamente il suo odore, era un indizio promettente
che puntava in tutt’altra direzione.
«Lo sono ancora»
quando il figlio dello sceriffo aveva concluso la loro discussione con sono
stato dimenticato, non aveva accettato che Derek ponesse altre domande e
lui non ne aveva fatte; si erano limitati a spizzicare quella colazione tardiva
e Stiles si era preparato per tornare al dormitorio e risolvere tutte le
questioni in sospeso. Non si era deciso a preparare quella borsa dalle
dimensioni ridotte finché non era arrivata l’ora di cena, ancora una volta
consumata in solitaria. Aveva anche sperato che non arrivasse Jiang, non
avrebbe saputo come giustificare la sua assenza annunciata e non voleva dover
dare spiegazioni a nessuno. «Odio dipendere dagli altri, ma in questo momento
non sono in grado di occuparmi di me e tu sei l’unico che può e vuole proteggermi
da me stesso».
Stiles aveva
poggiato il borsone sulla scrivania del padrone di casa, sistemato il cuscino
sul materasso e si era buttato di peso sul letto, al tracollo delle sue forze.
Riuscire ad arrivare lì gliene aveva richieste ben troppe e non era ancora
riuscito a recuperare quelle che aveva perso. Dalla finestra, la visione a
testa in giù, la luna si mostrava fiera in uno scenario notturno, le nuvole
grigie erano ancora lì e la pioggia aveva concesso una tregua per un paio
d’ore. Minacciava di ripresentarsi presto. «Ho le scarpe» gli fece notare,
muovendo i piedi con le scarpe indosso per aria. Era una sorta di vittoria, in
qualche modo.
«Lo vedo» proferì
Derek, andandogli incontro. «Non devi pensare di essere un peso per me».
«Difficile farlo»
borbottò la matricola, il sospiro che gli sporcava la voce. Si portò in
posizione da seduto, il cruccio che distorceva i suoi lineamenti facciali. «Non
mi devi niente».
«È solo uno
scambio di favori che cerchi?» chiese di rimando il capitano della squadra di
basket, le braccia conserte e la stazza imponente.
«No» la
mortificazione affiorò, gli occhi bassi e la consapevolezza di far emergere la
parte peggiore di sé. Era sempre stato bravo in quello. «È solo che… mi sento
in difetto».
Derek lo guardò
per qualche secondo in silenzioso scrutamento e la mascella serrata si
ammorbidì. «Non è una situazione ottimale, ma io preferisco averti qui. Non ti
sei imposto, non ti sei autoinvitato, non hai invaso i miei spazi».
«Lo farò» Stiles
sorrise machiavellico, ma era timido e contenuto, come se non volesse
sbilanciarsi troppo.
«Ne prenderò atto»
Derek stette al gioco e gli dedicò un angolo della bocca a sostegno del loro
prendersi in giro.
Stiles si sentì
alleggerito e il peso che sentiva sul petto evaporò leggermente. «Vado a
cambiarmi» comunicò allora, alzandosi velocemente dal materasso e prendendo la
borsa al volo. Si rintanò dentro il bagno ed indossò direttamente il pigiama di
Star Wars, senza lavarsi o gingillarsi, se ne era già occupato nel suo
campus usando gli spazi comuni e non voleva prendere da Derek più di quanto non
gli offrisse già.
Uscì dandosi il
cambio con il lupo che non espresse alcun commento e Stiles avrebbe tanto
voluto gettarsi già tra le coperte e farsi catturare dalle braccia di Morfeo,
era esausto e voleva soltanto ricaricarsi, ma aveva ancora la decenza di
aspettare che fosse il padrone di casa ad aprire le danze.
Si rintanò in
cucina a bere un bicchiere d’acqua e ad osservare la vetrata essere toccata
nuovamente di gocce d’acqua. Era ben consapevole di quanta familiarità avesse
preso nell’appartamento di Derek, soltanto ventinove giorni, quanto ancora si
sarebbe allargata?
Derek uscì una
ventina di minuti dopo, la doccia fatta, il corpo umido, i pantaloni soliti
protagonisti sul mannaro, non c’era altro e Stiles si distese sul letto dopo di
lui, arrotolandosi tra le lenzuola; poteva chiudere gli occhi e farsi
trascinare. «Mio padre non voleva frequentassi il college quest’anno» rilevò
invece, spinto dal dover dare dei chiarimenti al ragazzo che si prodigava tanto
per lui. «Voleva che rimandassi di un anno, il tempo di riuscire a capire come
gestire le cose e trovare una soluzione, ma avrei perso la borsa di studio e
non volevo accadesse. Non volevo nemmeno rimandare, avevo davvero il bisogno di
cambiare aria» ricordava come si fosse opposto, quanto avesse cercato in tutti
i modi di far valere le sue ragioni. «Abbiamo fatto un patto, se le cose si
fossero fatte più complicate sarei tornato e avrei rimandato all’anno
successivo».
«Si aspettava
davvero lo rispettassi?» era evidente che Stiles non avesse chiamato lo
sceriffo e spiegato cosa stesse succedendo, quanto le cose fosse peggiorate.
«No, è un bravo
papà, fa finta di credere alle mie bugie» era ingiusto nei suoi confronti, come
lo era con tutta la sua cerchia. «Ma sono sicuro, che se recepisse qualcosa di
allarmante, mi verrebbe a prendere di peso».
«Quindi, adesso,
lo sceriffo conosce il nostro mondo?» nel silenzio riflessivo, il mannaro
chiese conferme. L’aveva già dato per scontato, il modo in cui Stiles parlava
del suo coinvolgimento con i suoi problemi legati alle disavventure
soprannaturali erano chiari.
«Sì» si voltò
lievemente verso il licantropo, lo sguardo già rivolto verso di lui. «Il Darach
aveva rapito mio padre, Melissa e Chris Argent, voleva sacrificarli, procedere
con il rituale che aveva iniziato con i sacrifici precedenti, per questo io,
Allison e Scott abbiamo preso il loro posto» si era spaventato come mai prima
di allora e aveva cercato di fare tutto quello che era in suo potere. «Siamo
morti per tre giorni e si è creata questa fessura nei nostri cuori, un legame
con l’oscurità» seppe che Derek gestì malamente il colpo alla parola morti,
ma non era qualcosa che poteva celargli, un sacrificio aveva un unico
significato. «Abbiamo cercato di sanarla successivamente, Scott ed Allison ci
sono riusciti; credevo di essermela cavata anch’io, era quello che la mia testa
mi aveva fatto credere, ma il Nogitsune l’ha usata a suo vantaggio. Ѐ
entrato» Stiles provava profonda rabbia per un’ingenuità che non gli
apparteneva, ma non avrebbe mai potuto credere che uno spirito malvagio
millenario fosse stato affascinato da lui. «È un bene che mio padre fosse stato
informato, non avrebbe capito, non sarebbe riuscito ad aiutarmi. La volpe ha
ingannato e usato anche lui» le urla nel cuore della notte, le sue sparizioni,
i sintomi della Demenza Frontotemporale che si palesavano ogni giorno di più,
simulati magnificamente studiate e la tac del suo cervello che risultava
pulita. Gli episodi di sonnambulismo che si erano palesati un anno dopo così
simili a quelli indotti dalla volpe.
«Sei morto»
proferì al vuoto il mannaro, le dita di una mano che prendevano confidenza con
il viso di Stiles, testandolo e acquisendo le nozioni fondamentali che gli
confermassero fosse esattamente lì, sotto i suoi polpastrelli. «E sarai legato
al Nemeton per sempre».
«Sì» Stiles sapeva
bene quanto fosse sbagliato, quanto facilmente si stesse lasciando assuefare
dal tocco di Derek. C’era una parte egoistica di lui che non voleva rimparare a
vivere senza.
Il lupo completo
non proseguì oltre, eppure sapeva quanto fosse assetato di conoscenza.
Probabilmente doveva incanalare ed elaborare tutto quello che Stiles gli aveva
confidato quel giorno; non poteva che comprenderlo. «È stato mio padre a
indicarci il percorso per trovare Malia» lo illuminò come se fosse un fatto
fondamentale e per Stiles lo era stato. Era cosciente di quanto Derek gli
stesse prestando attenzione, ma non sapeva quanta ne avesse nei riguardi di
lei. «Dopo aver scoperto del soprannaturale, ha voluto rianalizzare tutti i
suoi vecchi casi irrisolti e il suo è quello che gli è rimasto più impresso.
Noi non l’avremmo mai cercata».
«Nessuno la stava
cercando» forse soltanto Peter, con delle rimanenze di sensazioni che gli
comunicavano che esistesse una figlia da qualche parte. Sua madre, Talia Hale,
gli aveva estratto ogni ricordo su tutta la faccenda, compresa la Lupa del
Deserto. Trovarla era impensabile.
«Erica mi ha detto
che l’hai incontrata» provò a testare il terreno il figlio dello sceriffo.
Chissà cosa si provava ad entrare a conoscenza di un membro della propria
famiglia che era andata dispersa ancor prima di sapere che esistesse.
«Sì» si limitò a
confermare lo studente di letteratura, inflessibile come gli conferiva.
«Non ti è
piaciuta?» domandò Stiles con tutto il tatto di cui era pregno, ma in realtà
gli riuscì molto male, lui e Derek erano pessimi in quello.
Derek lo guardò
stralunato, come se l’avesse detta grossa. «Perché lo pensi?».
«L’hai incontrata
soltanto una volta» forse il lupo nero avrebbe dato una strigliata ad Erica
dopo quella rivelazione.
«Non c’è stata
altra occasione» si limitò a giustificarsi, senza scendere in particolari.
L’umano non se li
aspettava, ma gli risuonava comunque anomalo. Era vero che Derek vivesse per la
maggior parte dell’anno negli appartamenti privati del Michigan State, ma dubitava che non tornasse mai a
New York nei mesi di pausa, tra una festività e l’altra. Laura, Peter e Malia
erano tutti lì.
Stiles preferì non indagare
ulteriormente, non ne avrebbe ricavato nulla di utile. «Non ho mai visto
occhi come i tuoi» era riuscito a trattenere quel commento per tutto il giorno,
ma nel silenzio vuoto che li circondava non era riuscito a trattenersi. Anche
se, il silenzio serviva proprio per permettergli finalmente di addormentarsi, ma
era evidente che la sua mente non fosse pronta a smettere di elaborare.
«Credevo fossero blu».
«Lo sono» lo
corresse la creatura della notte. Stiles li aveva visti brillare quelle iridi
di giada, stuzzicate da un’osservazione che attendevano venisse esternata.
Derek aveva quasi trattenuto uno sbuffo rassegnato. «Lo erano».
«Da quanto tempo
li hai così?» non era sicuro di potergli porgere la domanda, nella retrovia
della sua perspicacia era quasi certo di conoscere la risposta.
«Dall’incendio»
dichiarò di conseguenza Derek, facendola risuonare come unico responso
esistente.
Li teneva nascosti
per quella ragione? «Sei un Alpha?».
«No» negò
vigorosamente il mutaforma, la mano che si separava totalmente da Stiles,
lasciandolo scoperto ‒ si stava abituando malamente. «Non sono niente».
Il mannaro era
pacato e mansueto, era quasi sicuro che non gli avrebbe negato niente se avesse
fatto la domanda giusta, ma alla formulazione Alpha si era alterato.
«Sei tu a non voler essere niente?».
«È soltanto un
potere annacquato» uno squarcio di risa derisoria ed amara gli uscì dalla bocca
ed a Stiles spezzò il cuore, perché si rendeva conto di quanto la sua vita si
ostinasse a bersagliarlo e punirlo.
Le falangi lunghe
e affusolate della matricola si prodigarono e sfiorarono le ciglia nere
inferiori, poggiando parte delle dita sull’epidermide al di sotto; con la
visione periferica colse il fiato trattenuto da parte di Derek. «Forse devi
scegliere chi vuoi essere, il ruolo più adatto a te».
Il modo con cui
Derek lo guardò gli prosciugò tutta la salivazione che aveva in bocca, le
pagliuzze zaffiro e rubino si accesero, ma non si mostrarono totalmente, lo
smeraldo le teneva ancora in riga. Quante volte aveva avuto la risposta davanti
a sé, ma non era riuscito a coglierla. «Laura è l’Alpha».
Quella fu la sola
risposta del licantropo e Stiles si chiedeva se non si stesse aggrappando alla
concretezza del ruolo che spettava alla sorella maggiore. «Puoi esserlo anche
tu, se è quello che vuoi» il modo in cui Erica, Boyd ed Isaac lo seguivano era indicativo
su che aura sprigionasse, che ne fosse cosciente o meno. «Non credo affatto che
ti ripudierebbe o lo riterrebbe una mancanza di rispetto. È la persona più
saggia e grandiosa che conosca» e lo amava con tutta se stessa.
«Sì, lo è» Derek
concordò con lui senza rimostranze e Stiles la decretò come una vittoria.
Abbozzò un
minuscolo sorriso e scivolò verso di lui, i polpastrelli ancora sul lato destro
del viso del capitano, sulle occhiaie fortunatamente inesistenti rispetto alla
mattina precedente. «I tuoi occhi, li trovo molto belli».
Derek emise un
soffio sarcastico, facendo risuonare le sue parole come se non avessero grande
rilevanza. «Trovi tutto bello, Stiles» era la parola che continuava a usare per
descrivere certi aspetti di sé.
Stiles non si
scoraggiò e non se la prese nemmeno troppo, era consapevole di essere
ripetitivo su determinate questioni, ma non riusciva a trovare dei sinonimi che
rendessero allo stesso modo. «Tutto di te, Derek, lo è».
Il trascorrere del
tempo fu come se si fosse arrestato e Stiles crebbe di essere all’interno di
una bolla che poteva esplodere da un momento all’altro, la facilità con cui
Derek gli toglieva il respiro era inspiegabile, così com’era indescrivibile la
profondità con cui lo guardava sempre.
Le iridi di giada
furono risucchiate dal colore dell’oceano e del fuoco e Stiles non riuscì a
trattenere quel sorriso di contentezza che si estese su ogni tratto del suo
viso.
«Due» soffiò Derek
alla vista, apprendendo immediatamente il numero che aumentava con una lentezza
snervante.
Stiles
si sciolse abbagliato dalla continua attenzione ed accuratezza che il lupo
completo gli dedicava anche in quei frangenti così atipici e le labbra si
curvarono di nuovo liete, felici, come non lo erano state da un infinito
trascorrere temporale. Tre.
Buona
parte delle verità di Stiles sono state rilevate e tutto ciò ci farà addentrare
in una convivenza definitiva forzata tra loro due per necessità.
Gli
eventi che noi tutti conosciamo canonici nella serie lo sono anche in questa
storia, tranne i fatti della quarta stagione che è praticamente inesistente (e
il film che non ho alcuna intenzione di vedere mai nella mia vita), quindi diciamo
che gli eventi dalla quinta stagione in poi vengono anticipati.
Lo
svolgimento di tali eventi si svolgono senza una presenza incisiva di Derek e
di suoi affini, più i vari personaggi che incontreremo capitolo dopo capitolo,
sostituiti ipoteticamente da qualcun altro che ha ricoperto i loro ruoli. Mi
limiterò a citarli o sintetizzarli in breve giusto per creare una cornice
quanto più chiara possibile, senza dover spenderci eccessivo tempo nel
raccontare qualcosa che effettivamente conosciamo.
Alla
prossima settimana,
Antys