Salve a tutti. Prima
di lasciarvi a questa nuova storia, devo fare una premessa IMPORTANTE.
Questa
storia segue la trama del libro “Evermore” di Alyson Noel. I personaggi invece appartengono
a Stehenie Meyer.
Detto questo, vi
lascio alla lettura di questo primo capitolo introduttivo. In fondo,
chiarimenti.
Buona lettura.
I sentimenti – Noemi. Colonna sonora capitolo 1.
“Indovina
chi è?”.
La voce
entusiasta e squillante di Angela mi risveglia dai miei pensieri e anche se non
mi avesse parlato, avrei saputo che è lei anche con gli occhi chiusi dalle sue
mani.
So anche
che sua madre se n’è andata alle terme per trovare un altro dei suoi amanti
occasionali, che sua padre non ha intenzione di
tornare dal suo “viaggio di lavoro” cosi presto come invece ha detto, e che
ieri ha perso dieci anni di vita dopo aver smarrito i suoi fratelli al parco.
So che
oggi ha tenuto la sua chioma scura in una crocchia apparentemente disordinata,
ma che ha dovuto sistemarli per dieci minuti per far in modo che i suoi capelli
lisci come spaghetti avessero un’aria ribelle.
So pure
che i suoi occhi appaiono dorati perché ha messo le lenti a contatto gialle sui
suoi occhi nocciola. Questo mese Angela è una dark. Lo scorso era una fighetta
fissata con l’house e i vestiti alla moda dove spendeva tutta la sua
modestissima paga di commessa in un negozio di dischi.
Per sapere
tutte queste cose non mi sono fatta gli affari suoi e non l’ho spiata. Le so
perché sono una sensitiva.
“Muoviti, indovina! Sta per suonare la campanella e se
faccio ancora tardi Banner mi ammazza veramente”, dice scocciata, mentre so che
sta sorridendo.
La prendo
in giro, dicendole il nome dell’ultima persona in cui vorrebbe essere
identificata: “Paris Hilton?”.
La sento
sussultare e premere di più i palmi freddi delle sue mani sui miei occhi. “Che
schifo! Non sapevo di essere messa cosi male. Riprova”.
“Umh, forse la signora Obama?”, le
rispondo, corrugando le sopraciglia.
Scoppia a
ridere e il suono mi riempie l’anima; non che sia difficile sentire Angela
ridere, ma ogni volta mi mette di buonumore.
La vedo
alzare la mano per pulire lo sbaffo sul mio viso provocato dal dito sporco
della sua matita nera, ma la batto sul tempo.
Non perché
non mi piacciano le sue premure, ma solamente perché non so se riuscirei a
sopportare ancora il suo tocco. Angela ha talmente tanta sofferenza dentro di
sé.
Ogni
contatto è troppo rivelatore, troppo sfiancante. È per questo che cerco in ogni
modo di evitare la vicinanza con le persone.
Dopo
essersi seduta vicino a me, cosa che va completamente contro la sua ipotetica
fretta di andare alla lezione di Banner, si sporge verso di me e ruba il mio iPod dal taschino che ho cucito in ogni mia felpa col
cappuccio per nascondere gli auricolari, che ormai fanno parte di me.
La vedo
sgranare gli occhi quando vede le scritte che scorrono veloci nel piccolo
schermo.
Insomma,
visto che il suo stile è talmente arrabbiato e la sua visione del mondo cosi
nera, la musica che ascolto dovrebbe stargli bene. Dovrebbe esclamare tutta
entusiasta il titolo della band e afferrare un mio auricolare per metterselo
lei. Invece non lo fa. Forse non ha ancora superato il periodo della musica country e ne è ancora influenzata. Infondo non è passato
tanto tempo: solo tre o quattro mesi.
“Oddio.
Non so davvero come fa ad ascoltare questa cosa. Non si può
neanche chiamare musica”, dice, facendo una smorfia di disgusto. “Fanno
talmente tanto casino che sento da qui”, continua, allontanandosi un poco come
a voler controllare se quei pochi centimetri cambiano la situazione.
Non so se
il cantante ha davvero attraversato i sette mari e trovato gloria eterna come
canta, ma comunque urla abbastanza da convincermi a non farmi domande stupide e
farmi bastare il fatto che il suo rumore offusca un po’ i miei sensi super
sviluppati.
“Sono i Kamelot. Vanno molto negli Stati Uniti,
dovresti conoscerli”, rispondo, facendo finta di spegnere l’iPod. In realtà ne
abbasso solamente il volume, come se potesse bastare a non farmi sentire ciò
che non vorrei. Almeno farà sentire Angela più apprezzata. Insomma, parlare con
una persona che ha le orecchie trapanate da quattro persone che fanno casino
non deve essere proprio il massimo.
“Mi
sorprende che tu sia riuscita a sentirmi”, sorride Angela.
Un altro di quei suoi sorrisi tranquillizzanti e speciali. Non sono una ragazza abituata a
sorridere. Cioè una volta lo facevo spesso, anche troppo. E il valore del
sorriso era perso, rovinato. Ora invece, è un evento da ricordare se una
battuta scatena le mie risa o cose del genere.
Ma i miei
amici si sono abituati ormai, non è una cosa di cui mi preoccupo troppo. Ci
sono cose ben più importanti che mi occupano la mente. Anzi, non la occupano.
La torturano.
Una
tortura che subisco ormai da troppo tempo e che ha ridotto la
mia sopportazioni al livelli sotto lo zero. Come i gradi di oggi. Quanto
diavolo fa freddo? È impossibile che sia già ora di tirare fuori il mio
giubbotto più pesante. Insomma, Angela va ancora in giro con le gonne. Anzi, la
gonna. Lunga, nera. Abbinata a un corpetto di pelle nera nascosto dal dolcevita obbligatorio nella mia scuola. Sarebbe una
specie di divisa, ma ormai tutti si limitano a indossarne solo una parte. E
poi, è talmente brutta che sarebbe una vergogna passeggiare per la città con
quella. L’unica cosa salvabile è appunto quella che indossa Angela. Ma io non
porto neanche quella. Troppo… troppo scoperta per i miei gusti. Le mie felpe
vanno più che bene.
La
campanella suona e io mi dimentico di rispondere al sorriso di Angela che però
non se la prende. È ormai abituata alle mie stranezze, anche troppo.
Mi chiedo
perché sia ancora al mio fianco, che cosa la trattenga. Mi rendo conto che lei
è una delle pochissime cose che mi sono rimaste.
Evito di
dirle che avrei potuto sapere qualsiasi cosa lei volesse dirmi anche solo
toccandola e mi limito a darle appuntamento per il pranzo.
Mi avvio
velocemente verso la lezione, ma vengo costretta a fermarmi quando percepisco
due ragazzi del secondo anno che le calpestano di proposito la lunga gonna di
Angela, quasi facendola cadere.
Sono
tentata dal tornare indietro, non so perché o per cosa, ma lei non ne ha
bisogno. Gli guarda con occhi gelidi, quasi volesse ucciderli con questi, dopo
avergli fatto un gesto che non ho ancora capito, anche se ha cercato mille
volte di spiegarmelo. So che dovrebbe portare molta, moltissima sfortuna.
Un’altra cosa che si porta dietro dal periodo in cui voleva essere una strega.
Questi si
allontanano leggermente intimoriti dalla sua reazione e camminano via
velocemente, tanto rapidamente da farmi capire che in realtà vorrebbero
solamente correre.
Seguo il
loro esempio e riprendo a camminare, di fretta almeno quanto loro, sapendo che
tra poco l’energia residua del tocco di Angela mi lascerà libera.
Appena
entro nell’aula un vociare forte mi fa barcollare. Mi sorreggo forte alla porta
e poi, facendo finta di niente, mi dirigo verso il mio banco, in ultima fila,
nell’angolo opposto alle finestre.
Evito la
cartella che ogni giorno Jessica Stanley mette nel mezzo del corridoio,
tentativo di farmi cadere rovinosamente a terra, e il coro che sussurra. È
sempre lo stesso, dalla prima settimana di scuola. “Sfi-ga-ta!”.
È forte, detto con tanta cattiveria e convinzione. Ma non fa più male ormai.
Il
professor Robinson arriva sempre in ritardo. La maggior parte delle volte è
perché fa una tappa nel bagno riservato agli insegnanti, quello sempre pulito e
provvisto di carta igienica a volontà, e si riserva un’abbondante
sorso di Gin. La sua fiaschetta è sempre piena e se per caso una volta
se ne dimentica, si ferma al supermarket vicino a scuola per fare provviste. La
sua macchina è piena di bottiglie di scorta, nel caso il supermarket in
questione fosse chiuso e non avesse tempo di andare in un altro più lontano.
Il suo
matrimonio è ormai finito da un pezzo e l’amore tra lui e sua moglie
probabilmente non c’è mai stato. O almeno da parte di lei. Forse lui ci ha
provato ad amarla. Ma senza collaborazione dall’altra parte è troppo difficile
che un rapporto abbia buon fine.
L’unico
motivo per il quale lui non è stato ancora sbattuto fuori di casa, almeno non
ufficialmente, è la figlia del professore. Una ragazza che ha un profondo
rifiuto per lui e che lo considera un fallito.
Tutto
questo lo so perché il primo giorno di scuola, mentre consegnavo il foglio che
testimoniava il mio trasferimento nella scuola, gli ho appena sfiorato la mano.
Era ancora
uno dei miei primi giorni da sensitiva e quindi il fiume di sofferenza, ricordi
e sbornie era stato molto pesante da sopportare. Ora le cose sono diverse, ma
sono sempre molto attenta a lasciare qualsiasi cosa che gli debba consegnare in
un angolo della cattedra, lasciando a lui il compito di prenderla.
Appoggio
la cartella sulla sedia del posto vuoto accanto a me e aspetto che arrivi il
professore.
Cambio
canzone e metto qualcosa di più tranquillo: ora che la lezione inizierà, le
loro menti saranno abbastanza occupate da non darmi più problemi. Almeno per il
momento.
Le grida e
le note dure dei Kamelot lasciano spazio a quelle più
dolci e armoniche dei Coldplay.
Nono sono
sempre stata un fenomeno da baraccone. Una volta ero una ragazza qualunque.
Una che
veste capi femminili e la mattina sta quei buoni dieci minuti davanti allo
specchio per controllare che sia tutto a posto e che sia pronta per la
mattinata di scuola.
Una con
una bella macchina appariscente e tirata a lucido con cui faceva ingresso nel
parcheggio della scuola e che si beava delle occhiate affamate dei ragazzi.
Una che si
vantava dei suoi lunghi e bellissimi capelli biondi e che non ci pensava
neanche a legarli in una coda di cavallo e nasconderli sotto un grosso
cappuccio di una felpa grande una taglia di troppo.
Avevo un
padre, una madre, una sorella di nome Riley e una dolcissima
labrador gialla di nome Buttercup. Stavo in una casa grande e lussuosa
in un quartiere agiato di Eugene, Oregon.
Avevo
tantissimi amici e un mucchio di ragazzi che mi correvano dietro, che si
scannavano per portarmi lo zaino, visto che apparivo troppo gracile e minuta.
Allora quelle attenzioni mi facevano veramente piacere, mi facevano sentire
importante.
Ero felice
e non vedevo l’ora di arrivare al penultimo anno di liceo, visto che ero stata
accetta nella squadra delle ragazze pompon.
Nella mia
vita c’era tutto. Il mio unico limite era il cielo. E benché quest’ultima possa
sembrare una frase fatta, per ironia della sorte è anche vera.
Comunque,
a dirla tutta, tutte queste cose mi sono solamente state raccontate. Perché
dopo l’incidente io non ricordo niente della mia vita passata. L’unica cosa che
so, e che mi tormenta in ogni incubo, è che sono morta.
Ho avuto
una di quelle cose che la gente chiama ‘esperienze premorte’. Ma questi
sbagliano alla grande. Perché non è un ‘pre’. Un attimo prima ero nel SUV nero di mio padre con il
resto della mia famiglia, con la testa di Buttercup posata sulle ginocchia di
Riley e la sua grande coda pelosa che mi sbatteva dolcemente sulle gambe, e un
attimo dopo c’erano gli airbag aperti e la macchina distrutta, mentre io
guardavo tutto da fuori.
Come se io
non fossi parte di quella famiglia, come se non c’entrassi niente.
Guardavo
quel disastro –la macchina ribaltata su un lato con la mano di mia madre
abbandonata fuori dal finestrino, le portiere accartocciate come carte scartate
da una caramella- e mi chiedevo che cosa fosse successo e soprattutto perché era successo.
Ma la
domanda che mi premeva di più era se anche gli altri stavano bene, se
guardavano tutto da fuori come me. Mi chiedevo stupidamente perché non mi
avessero già presa con loro e abbracciata, perché non mi stessero rassicurando
sul fatto che tutto sarebbe andato per il meglio, come sempre facevano.
Poi sentii
un latrato famigliare e mi voltai. Charlie e Renèe tenevano per mano Riley,
mentre camminavano per un sentiero illuminato da una luce innaturale, seguendo
Buttercup che gli precedeva, come per indicargli la strada.
Non ci
pensai neanche un secondo. Presi a correre con tutte le mie forze per seguirli.
Poi, rallentai, per godermi solo per qualche secondo quel campo fiorito, del
quale riuscivo a sentire le magnifiche fragranze. Il sole splendeva forte ma
pallido, sebbene in realtà fosse notte; eppure non me ne preoccupavo.
Mi
promettevo che sarei andata preso a cercarli, che un solo attimo di quel campo
sarebbe bastato e che poi sarei potuta tornare dalla mia famiglia.
Ma quando
riaprii gli occhi, loro non c’erano già più.
Iniziai a
correre, a urlare, chiamando i loro nomi. Gli vidi.
Erano al
di là di un massiccio ponte di legno scuro che passava sopra un fiumiciattolo.
Mi salutavano con la mano, regalandomi dei sorrisi magnifici.
Fui colta
dal panico. Iniziai a urlare, pregandoli di non andare ed aspettarmi, ma loro
continuavano a scuotere le mani e a sorridere, come se non potessero più
sentirmi.
Poi mi
prese un fortissimo dolore al petto. Mi contorsi, urlando ancora più forte,
facendo promesse che sapevo non avrei mai potuto mantenere.
Poi sentii qualcuno dire: “Isabella? È cosi che ti chiami? Apri gli occhi, guardami”. Allora fui costretta a uscire da
quel mondo e a trascinarmi di nuovo in superficie.
Obbedii a
quello che mi avevano detto e ripiombai in un luogo in cui tutto era sofferenza
e disperazione. Un dolore insistente e terribile mi tormentava la fronte.
Guardai
l’uomo chino su di me, fissai il suo volto preoccupato e i suoi occhi scuri e
mormorai: “Mi chiamo Bella”. Poi persi di nuovo i sensi.
Eccoci qui alla fine
di questo nuovo capitolo. Sto già scrivendo il secondo e mi sto rendendo conto
che sta venendo fuori davvero troppo lungo.
Vi starete chiedendo
dov’è Edward. Nel prossimo capitolo lo vedrete. Anzi, sarà lui il centro di
tutto.
Fatemi sapere che
cosa ne pensate e se avete dei dubbi. Infondo è un
capitolo un po’ enigmatico, qualche domanda può essere sorta.
Vi abbraccio,
Greta.