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La voce
entusiasta e squillante di Angela mi risveglia dai miei pensieri e anche se non
mi avesse parlato, avrei saputo che è lei anche con gli occhi chiusi dalle sue
mani.
So anche
che sua madre se n’è andata alle terme per trovare un altro dei suoi amanti
occasionali, che sua padre non ha intenzione di
tornare dal suo “viaggio di lavoro” cosi presto come invece ha detto, e che
ieri ha perso dieci anni di vita dopo aver smarrito i suoi fratelli al parco.
So che
oggi ha tenuto la sua chioma scura in una crocchia apparentemente disordinata,
ma che ha dovuto sistemarli per dieci minuti per far in modo che i suoi capelli
lisci come spaghetti avessero un’aria ribelle.
So pure
che i suoi occhi appaiono dorati perché ha messo le lenti a contatto gialle sui
suoi occhi nocciola. Questo mese Angela è una dark. Lo scorso era una fighetta
fissata con l’house e i vestiti alla moda dove spendeva tutta la sua
modestissima paga di commessa in un negozio di dischi.
Per sapere
tutte queste cose non mi sono fatta gli affari suoi e non l’ho spiata. Le so
perché sono una sensitiva.
“Muoviti, indovina! Sta per suonare la campanella e se
faccio ancora tardi Banner mi ammazza veramente”, dice scocciata, mentre so che
sta sorridendo.
La prendo
in giro, dicendole il nome dell’ultima persona in cui vorrebbe essere
identificata: “Paris Hilton?”.
La sento
sussultare e premere di più i palmi freddi delle sue mani sui miei occhi. “Che
schifo! Non sapevo di essere messa cosi male. Riprova”.
“Umh, forse la signora Obama?”, le
rispondo, corrugando le sopraciglia.
Scoppia a
ridere e il suono mi riempie l’anima; non che sia difficile sentire Angela
ridere, ma ogni volta mi mette di buonumore.
La vedo
alzare la mano per pulire lo sbaffo sul mio viso provocato dal dito sporco
della sua matita nera, ma la batto sul tempo.
Non perché
non mi piacciano le sue premure, ma solamente perché non so se riuscirei a
sopportare ancora il suo tocco. Angela ha talmente tanta sofferenza dentro di
sé.
Ogni
contatto è troppo rivelatore, troppo sfiancante. È per questo che cerco in ogni
modo di evitare la vicinanza con le persone.
Dopo
essersi seduta vicino a me, cosa che va completamente contro la sua ipotetica
fretta di andare alla lezione di Banner, si sporge verso di me e ruba il mio iPod dal taschino che ho cucito in ogni mia felpa col
cappuccio per nascondere gli auricolari, che ormai fanno parte di me.
La vedo
sgranare gli occhi quando vede le scritte che scorrono veloci nel piccolo
schermo.
Insomma,
visto che il suo stile è talmente arrabbiato e la sua visione del mondo cosi
nera, la musica che ascolto dovrebbe stargli bene. Dovrebbe esclamare tutta
entusiasta il titolo della band e afferrare un mio auricolare per metterselo
lei. Invece non lo fa. Forse non ha ancora superato il periodo della musica country e ne è ancora influenzata. Infondo non è passato
tanto tempo: solo tre o quattro mesi.
“Oddio.
Non so davvero come fa ad ascoltare questa cosa. Non si può
neanche chiamare musica”, dice, facendo una smorfia di disgusto. “Fanno
talmente tanto casino che sento da qui”, continua, allontanandosi un poco come
a voler controllare se quei pochi centimetri cambiano la situazione.
Non so se
il cantante ha davvero attraversato i sette mari e trovato gloria eterna come
canta, ma comunque urla abbastanza da convincermi a non farmi domande stupide e
farmi bastare il fatto che il suo rumore offusca un po’ i miei sensi super
sviluppati.
“Sono i Kamelot. Vanno molto negli Stati Uniti,
dovresti conoscerli”, rispondo, facendo finta di spegnere l’iPod. In realtà ne
abbasso solamente il volume, come se potesse bastare a non farmi sentire ciò
che non vorrei. Almeno farà sentire Angela più apprezzata. Insomma, parlare con
una persona che ha le orecchie trapanate da quattro persone che fanno casino
non deve essere proprio il massimo.
“Mi
sorprende che tu sia riuscita a sentirmi”, sorride Angela.
Un altro di quei suoi sorrisi tranquillizzanti e speciali. Non sono una ragazza abituata a
sorridere. Cioè una volta lo facevo spesso, anche troppo. E il valore del
sorriso era perso, rovinato. Ora invece, è un evento da ricordare se una
battuta scatena le mie risa o cose del genere.
Ma i miei
amici si sono abituati ormai, non è una cosa di cui mi preoccupo troppo. Ci
sono cose ben più importanti che mi occupano la mente. Anzi, non la occupano.
La torturano.
Una
tortura che subisco ormai da troppo tempo e che ha ridotto la
mia sopportazioni al livelli sotto lo zero. Come i gradi di oggi. Quanto
diavolo fa freddo? È impossibile che sia già ora di tirare fuori il mio
giubbotto più pesante. Insomma, Angela va ancora in giro con le gonne. Anzi, la
gonna. Lunga, nera. Abbinata a un corpetto di pelle nera nascosto dal dolcevita obbligatorio nella mia scuola. Sarebbe una
specie di divisa, ma ormai tutti si limitano a indossarne solo una parte. E
poi, è talmente brutta che sarebbe una vergogna passeggiare per la città con
quella. L’unica cosa salvabile è appunto quella che indossa Angela. Ma io non
porto neanche quella. Troppo… troppo scoperta per i miei gusti. Le mie felpe
vanno più che bene.
La
campanella suona e io mi dimentico di rispondere al sorriso di Angela che però
non se la prende. È ormai abituata alle mie stranezze, anche troppo.
Mi chiedo
perché sia ancora al mio fianco, che cosa la trattenga. Mi rendo conto che lei
è una delle pochissime cose che mi sono rimaste.
Evito di
dirle che avrei potuto sapere qualsiasi cosa lei volesse dirmi anche solo
toccandola e mi limito a darle appuntamento per il pranzo.
Mi avvio
velocemente verso la lezione, ma vengo costretta a fermarmi quando percepisco
due ragazzi del secondo anno che le calpestano di proposito la lunga gonna di
Angela, quasi facendola cadere.
Sono
tentata dal tornare indietro, non so perché o per cosa, ma lei non ne ha
bisogno. Gli guarda con occhi gelidi, quasi volesse ucciderli con questi, dopo
avergli fatto un gesto che non ho ancora capito, anche se ha cercato mille
volte di spiegarmelo. So che dovrebbe portare molta, moltissima sfortuna.
Un’altra cosa che si porta dietro dal periodo in cui voleva essere una strega.
Questi si
allontanano leggermente intimoriti dalla sua reazione e camminano via
velocemente, tanto rapidamente da farmi capire che in realtà vorrebbero
solamente correre.
Seguo il
loro esempio e riprendo a camminare, di fretta almeno quanto loro, sapendo che
tra poco l’energia residua del tocco di Angela mi lascerà libera.
Appena
entro nell’aula un vociare forte mi fa barcollare. Mi sorreggo forte alla porta
e poi, facendo finta di niente, mi dirigo verso il mio banco, in ultima fila,
nell’angolo opposto alle finestre.
Evito la
cartella che ogni giorno Jessica Stanley mette nel mezzo del corridoio,
tentativo di farmi cadere rovinosamente a terra, e il coro che sussurra. È
sempre lo stesso, dalla prima settimana di scuola. “Sfi-ga-ta!”.
È forte, detto con tanta cattiveria e convinzione. Ma non fa più male ormai.
Il
professor Robinson arriva sempre in ritardo. La maggior parte delle volte è
perché fa una tappa nel bagno riservato agli insegnanti, quello sempre pulito e
provvisto di carta igienica a volontà, e si riserva un’abbondante
sorso di Gin. La sua fiaschetta è sempre piena e se per caso una volta
se ne dimentica, si ferma al supermarket vicino a scuola per fare provviste. La
sua macchina è piena di bottiglie di scorta, nel caso il supermarket in
questione fosse chiuso e non avesse tempo di andare in un altro più lontano.
Il suo
matrimonio è ormai finito da un pezzo e l’amore tra lui e sua moglie
probabilmente non c’è mai stato. O almeno da parte di lei. Forse lui ci ha
provato ad amarla. Ma senza collaborazione dall’altra parte è troppo difficile
che un rapporto abbia buon fine.
L’unico
motivo per il quale lui non è stato ancora sbattuto fuori di casa, almeno non
ufficialmente, è la figlia del professore. Una ragazza che ha un profondo
rifiuto per lui e che lo considera un fallito.
Tutto
questo lo so perché il primo giorno di scuola, mentre consegnavo il foglio che
testimoniava il mio trasferimento nella scuola, gli ho appena sfiorato la mano.
Era ancora
uno dei miei primi giorni da sensitiva e quindi il fiume di sofferenza, ricordi
e sbornie era stato molto pesante da sopportare. Ora le cose sono diverse, ma
sono sempre molto attenta a lasciare qualsiasi cosa che gli debba consegnare in
un angolo della cattedra, lasciando a lui il compito di prenderla.
Appoggio
la cartella sulla sedia del posto vuoto accanto a me e aspetto che arrivi il
professore.
Cambio
canzone e metto qualcosa di più tranquillo: ora che la lezione inizierà, le
loro menti saranno abbastanza occupate da non darmi più problemi. Almeno per il
momento.
Le grida e
le note dure dei Kamelot lasciano spazio a quelle più
dolci e armoniche dei Coldplay.
Nono sono
sempre stata un fenomeno da baraccone. Una volta ero una ragazza qualunque.
Una che
veste capi femminili e la mattina sta quei buoni dieci minuti davanti allo
specchio per controllare che sia tutto a posto e che sia pronta per la
mattinata di scuola.
Una con
una bella macchina appariscente e tirata a lucido con cui faceva ingresso nel
parcheggio della scuola e che si beava delle occhiate affamate dei ragazzi.
Una che si
vantava dei suoi lunghi e bellissimi capelli biondi e che non ci pensava
neanche a legarli in una coda di cavallo e nasconderli sotto un grosso
cappuccio di una felpa grande una taglia di troppo.
Avevo un
padre, una madre, una sorella di nome Riley e una dolcissima
labrador gialla di nome Buttercup. Stavo in una casa grande e lussuosa
in un quartiere agiato di Eugene, Oregon.
Avevo
tantissimi amici e un mucchio di ragazzi che mi correvano dietro, che si
scannavano per portarmi lo zaino, visto che apparivo troppo gracile e minuta.
Allora quelle attenzioni mi facevano veramente piacere, mi facevano sentire
importante.
Ero felice
e non vedevo l’ora di arrivare al penultimo anno di liceo, visto che ero stata
accetta nella squadra delle ragazze pompon.
Nella mia
vita c’era tutto. Il mio unico limite era il cielo. E benché quest’ultima possa
sembrare una frase fatta, per ironia della sorte è anche vera.
Comunque,
a dirla tutta, tutte queste cose mi sono solamente state raccontate. Perché
dopo l’incidente io non ricordo niente della mia vita passata. L’unica cosa che
so, e che mi tormenta in ogni incubo, è che sono morta.
Ho avuto
una di quelle cose che la gente chiama ‘esperienze premorte’. Ma questi
sbagliano alla grande. Perché non è un ‘pre’. Un attimo prima ero nel SUV nero di mio padre con il
resto della mia famiglia, con la testa di Buttercup posata sulle ginocchia di
Riley e la sua grande coda pelosa che mi sbatteva dolcemente sulle gambe, e un
attimo dopo c’erano gli airbag aperti e la macchina distrutta, mentre io
guardavo tutto da fuori.
Come se io
non fossi parte di quella famiglia, come se non c’entrassi niente.
Guardavo
quel disastro –la macchina ribaltata su un lato con la mano di mia madre
abbandonata fuori dal finestrino, le portiere accartocciate come carte scartate
da una caramella- e mi chiedevo che cosa fosse successo e soprattutto perché era successo.
Ma la
domanda che mi premeva di più era se anche gli altri stavano bene, se
guardavano tutto da fuori come me. Mi chiedevo stupidamente perché non mi
avessero già presa con loro e abbracciata, perché non mi stessero rassicurando
sul fatto che tutto sarebbe andato per il meglio, come sempre facevano.
Poi sentii
un latrato famigliare e mi voltai. Charlie e Renèe tenevano per mano Riley,
mentre camminavano per un sentiero illuminato da una luce innaturale, seguendo
Buttercup che gli precedeva, come per indicargli la strada.
Non ci
pensai neanche un secondo. Presi a correre con tutte le mie forze per seguirli.
Poi, rallentai, per godermi solo per qualche secondo quel campo fiorito, del
quale riuscivo a sentire le magnifiche fragranze. Il sole splendeva forte ma
pallido, sebbene in realtà fosse notte; eppure non me ne preoccupavo.
Mi
promettevo che sarei andata preso a cercarli, che un solo attimo di quel campo
sarebbe bastato e che poi sarei potuta tornare dalla mia famiglia.
Ma quando
riaprii gli occhi, loro non c’erano già più.
Iniziai a
correre, a urlare, chiamando i loro nomi. Gli vidi.
Erano al
di là di un massiccio ponte di legno scuro che passava sopra un fiumiciattolo.
Mi salutavano con la mano, regalandomi dei sorrisi magnifici.
Fui colta
dal panico. Iniziai a urlare, pregandoli di non andare ed aspettarmi, ma loro
continuavano a scuotere le mani e a sorridere, come se non potessero più
sentirmi.
Poi mi
prese un fortissimo dolore al petto. Mi contorsi, urlando ancora più forte,
facendo promesse che sapevo non avrei mai potuto mantenere.
Poi sentii qualcuno dire: “Isabella? È cosi che ti chiami? Apri gli occhi, guardami”. Allora fui costretta a uscire da
quel mondo e a trascinarmi di nuovo in superficie.
Obbedii a
quello che mi avevano detto e ripiombai in un luogo in cui tutto era sofferenza
e disperazione. Un dolore insistente e terribile mi tormentava la fronte.
Guardai
l’uomo chino su di me, fissai il suo volto preoccupato e i suoi occhi scuri e
mormorai: “Mi chiamo Bella”. Poi persi di nuovo i sensi.
Eccoci qui alla fine
di questo nuovo capitolo. Sto già scrivendo il secondo e mi sto rendendo conto
che sta venendo fuori davvero troppo lungo.
Vi starete chiedendo
dov’è Edward. Nel prossimo capitolo lo vedrete. Anzi, sarà lui il centro di
tutto.
Fatemi sapere che
cosa ne pensate e se avete dei dubbi. Infondo è un
capitolo un po’ enigmatico, qualche domanda può essere sorta.
Questo capitolo è
molto lungo. Il più lungo che abbia mai scritto. Sette pagine di word. So che
non è moltissimo per alcuni, ma per me si. Spero davvero di non annoiarvi. Leggete con
attenzione: ci sono molte cose che serviranno per il futuro.
Buona lettura.
Quando
sento i passi di Robins, facili da riconoscere perché pesanti e strascicati,
forse sintomo della recente sbronza, o forse anche di tutte le precedenti, mi
tolgo il cappuccio e spengo l’iPod, subendo le voci
insistenti dei miei compagni.
Il professore
entra dopo pochi minuti, portando con sé, fortunatamente, un gratificante
silenzio.
Senza neanche salutare annuncia: “Ragazzi, questo è Edward Cullen. Si è appena trasferito qui
dall’Alaska. Bene, Edward, puoi sederti… vicino a Bella in quel posto là in
fondo. Segui insieme a lei dal suo libro fin quando non ne
avrai una copia tua”. Lo congedò con un movimento frettoloso della mano,
come se fosse contento che le presentazioni fossero già finite. Sembra ansioso
di iniziare a far lezione, in modo da finire prima e potersene andare,
ignorando il fatto che la classe sarebbe rimasta senza un tutore.
Edward è
una favola. Lo so senza neanche sollevare lo sguardo. Mentre si avvicina,
continuo a fissare il mio libro, senza in realtà leggerlo davvero: so già fin
troppo bene dai pensieri dei miei compagni di classe. Per me, un ulteriore
momento di ignoranza mi dà un senso di beatitudine piena.
Tuttavia,
prendendo per veri i pensieri di Jessica Stanley, seduta due file davanti a me…
Edward Cullen è davvero un figo da paura.
Laurent,
la sua migliore amica, è completamente d’accordo con lei. E lo stesso vale per
Tyler, il ragazzo di Laurent. Ma questa è tutta un’altra storia.
Le due già
iniziano a lanciargli occhiate languide e sento dai pensieri di Jessica il suo tentativo
di far sembrare più carnose le sue labbra sporgendole un po’ verso avanti. Il
risultato è penoso.
Anche la
sua amica partecipa al piano di conquista per Cullen. Tira in dentro la pancia
e in fuori il seno, messo in risalto dalla profonda scollatura del suo
maglioncino rosa confetto. Non mi stupisce il fatto che il suo ragazzo non si
dimostri geloso o cose del genere: a quanto pare è troppo occupato a fissare il
lato B del ragazzo nuovo.
Un po’ mi
fa pena. Solo un po’. Perché ci sono passata anche io in quella fase: quella
dove tutti ti guardano e sei sempre al centro dell’attenzione del corpo
studentesco.
In fondo
Forks è talmente piccola da far venire il voltastomaco.
“Ciao”.
Edward si accomoda aggraziatamente nella sedia accanto alla mia, facendo cadere
la mia cartella con un piccolo tonfo. Mi dà fastidio che non abbia chiesto se
poteva spostarla. È ovvio che l’avrei fatto, ma
sarebbe stato più educato.
Annuisco,
rifiutandomi di cedere e guardare il suo volto. La sua voce melodiosa dice già
abbastanza. Sarà uno di quei figli di papà che mi piacevano tanto prima.
E mi basta
anche guardare le sue scarpe firmate Dolce e Gabbana, per capire che non
andremo affatto d’accordo. Non che mi interessi, naturalmente. I miei amici ce
li ho già. E mi bastano.
Quelle
scarpe non c’entrano niente con questa scuola. Tutti qui hanno scarpe mezze
rotte o scarponi per difendersi dalla pioggia. Un paio che costeranno più del misero stipendio di Robins mi sembrano molto inopportune.
Il
professor Robins dice con tono autoritario di aprire il libro a pagina 133.
Cosi, Edward si sporge impercettibilmente, ma non per me, verso il mio banco e
chiede: “Ti dispiace se leggo con te?”.
Esito,
nonostante sia stato più gentile di quando mi ha buttato lo zaino a terra. Temo
la sua vicinanza. Temo di scoprire un’altra storia che non ho proprio voglia di
leggere. Non mi interessa, non mi va.
Ma lascio
comunque scivolare il libro verso la sua parte di banco. Quando lo sento
avvicinarsi con la sedia, azzerando la breve distanza che ci divide, schizzo
sull’orlo della mia e alzo velocemente il cappuccio della mia felpa, lasciando
che mi copra anche il viso.
Lui fa una
breve risatina, ma non avendo ancora guardato il suo volto non ho idea di che
cosa esprima. So solo che mi è sembrata una risata leggera, divertita, ma anche
di quelle che sembrano voler dire anche qualcos’altro.
Mi faccio piccola piccola, stringendo le
spalle e nascondendo il volto con le mani, lo sguardo fisso sull’orologio.
Fortunatamente
Robins ha quasi fretta quanto me di finire questa stupida lezione. Sono decisa
a ignorare tutti i miei compagni che si girano costantemente verso il nostro
banco, lanciando uno sguardo amichevole, le più timide, o sensuale, come
Jessica, a Edward. Cerco di ignorare gli sguardi sarcastici dei ragazzi e i
loro pensieri. Questi sono quelli di Jessica, Laurent e
Tyler, ma anche quelli della maggior parte della classe: “Povero, il tizio
nuovo: figo, sexy, bellissimo, ed è costretto a starsene seduta accanto a
quella disagiata della Swan!”.
A pranzo,
tutti parlano di Edward Cullen. Anzi, mi correggo. Dei Cullen. Per a quanto pare, il signorino non è affatto solo. Anzi,
tutt’altro. Ha quattro fratelli. Cioè, fratellastri, ma per la maggior parte
degli studenti dirlo è brutto.
A quanto
pare, sono tutti e cinque bellissimi.
C’è Jasper
Hale, biondo e dall’aria tenebrosa, alla quale
nessuno si è ancora avvicinato. Pare che il suo sguardo glaciale abbia mandato
via la piccola massa di ragazzine che già gli fanno la corte.
E pare anche
che il motivo della scarsa voglia di fare conoscenza con le ragazze della
scuola superiore di Forks si chiami Alice.
Alice
Cullen è piccola e con corti capelli neri. Sembra che molti l’abbiano definita
come una strana. Per questo mi era
già un po’ più simpatica di suo fratello. Un po’.
Alice e
Jasper stanno insieme e, nella piccola e monotona Forks, questo è un vero e
proprio succulento pettegolezzo. Un pettegolezzo con i fiocchi, alimentato dal
fatto che anche gli altri due stanno insieme.
La
bellissima Rosalie Hale, gemella di Jasper, viene
vista dai ragazzi come una vera e propria dea. E pare che lei non abbia proprio
intenzione di passare inosservata. Il suo abbigliamento succinto dice tutto.
La ragazza
sta insieme a Emmett Cullen, un grosso omone che assomiglia più a una guardia
del corpo che a un fidanzato. Bello, naturalmente, come tutti gli altri.
A quanto
si dice per i corridoi della High School
di Forks, sono stati tutti adottati da signor Cullen e la moglie. Si vocifera
che lei non possa avere figli. Oddio, mi sento una pettegola come la Stanley.
E infine
lui, Edward.
“Hai visto
il nuovo tipo, Edward?”
“È
fichissimo”
“È
supersexy”
“Ho
sentito dire che viene dall’Alaska”
“No, credo
sia canadese”
“Vabbè, non fa differenza”
“Lo voglio
troppo invitare al ballo d’inverno”
“Ma se
neanche lo conosci”
“Puoi
stare certa che lo conoscerò”
“Ommioddio. Hai visto quel
tizio, Edward?”. Angela si è seduta accanto a me e mi
guarda con difficoltà dalla frangetta, che sta diventando troppo lunga.
Un po’ di tempo fa, quando Angela era ancora una ragazza tranquilla, non si
sarebbe interessata a Edward Cullen e ai suoi fratelli.
O forse
anche quella era semplicemente una delle sue tante fasi. Probabile, ma sicuramente
che secondo me le piaceva di più. Forse per una volta ha tentato di essere se
stessa e ha capito che è più facile sembrare qualcun altro. Come è più facile
per me sembrare una disagiata che una sensitiva che è morta ma stranamente è
ancora qui.
“Oh, ti
prego, non iniziare anche tu!”, sbotto. Mi dispiace prendermela con lei, ma i
pensieri di quattrocento ragazzi su come Edward
sia incantevole mi bastano. Anzi, non ne posso già più di questo tizio. E
poi dai, che razza di nome è Edward?
Addento
ferocemente la mia mela, come se potessi sfogare su di lei tutta la mia
frustrazione.
“Oh, non
essere scorbutica, Bella. Se lo diventi anche tu è la fine. E
comunque, dici cosi solo perché non hai avuto il privilegio di vederlo”.
Sai che
fortuna!, vorrei dire. Insomma, chi se ne frega di sto qui. Proprio a nessuno.
Angela
tira fuori il solito dolcetto dalla borsa, uno di quelli pieni di zucchero e
che fanno fare tanti soldi ai dentisti, e ne lecca la parte superiore, come
sempre. Per una che dovrebbe mangiare carne umana o che so io, i dolcetti non
vanno tanto bene. Altra cosa che si porta dietro dalla fase in cui Cristina
Aguilera era il suo idolo e se ne stava tutto il giorno a cantare “Candyman”. E non scherzo per niente.
Mike, il
secondo e ultimo dei miei amici, amici veri, arriva saltellando verso di noi.
“State parlando di Edward, vero? Troppo da sballo. E avete visto gli stivali? Roba
costosa bellezze. Penso che gli chiederò di diventare il mio
prossimo ragazzo”. I suoi occhi blu come il cielo ci scrutano furbi,
come se con questa sua affermazione fosse già deciso tutto. E chi se ne frega
se Edward è etero. Beh, non che mi interessi naturalmente. Può essere ciò che
vuole. Può anche buttarsi in un pozzo gelido dell’Alaska.
Angela lo
trucida con lo sguardo: “Mi dispiace, caro,
ma mi sono già prenotata io!”, dice acida, gettando i capelli neri all’indietro
con nonchalance. Gli occhi gialli, ai quali ancora non mi sono molto abituata,
le donano un’aria ancora più terrificante. Non che ce ne fosse bisogno. Quando
Angela ci si mette fa parecchio paura. Beh, ma penso che infondo
il suo intento sia quello di avere più l’aria cattiva, no?
“Scusa ma
non mi ero accorto che ti piacessero anche quelli che non sono goth”. Mike la
guarda come se avesse già la vittoria in pugno, come se avesse vinto il
diverbio tra loro. So che non è cosi.
Angela
scoppia in una risatina isterica. “Beh, non mi interessa se sono goth o no se sono fichi come lui. Può essere quello che
vuole”, dice, addolcendo la voce, e riprendendo, “ti giuro, Bella, devi
vederlo. È cosi arrapante… di un arrapante incendiario!”.
Ci manca poco
che non mi strozzi con il panino che ho fatto velocemente prima di venire a
scuola. E questa come le è venuta? Meglio non controbattere. Annuisco,
continuando a guardare fuori dalla finestra.
Mike mi
guarda allarmato, coprendosi la bocca spalancata con una mano, come se fosse
sconvolto. “Ancora non l’hai visto, Bella? Ma… ma… com’è possibile?”.
“È possibile, Mike. Semplicemente non l’ho seguito per
tutta la scuola come hai fatto tu”, dico, ridacchiando.
Lui
abbassa lo sguardo colpevole. Beccato.
Mi chiedo
se sia il caso di tralasciare il fatto che siamo seduti vicini alla lezione del
signor Robins. Forse non è cosi importante, potrei
farne a meno. Ne farebbero un affare di Stato e non mi lascerebbero in pace per
giorni. Forse settimane. Fin quando questa moda-Cullen
non finisce.
Sospiro,
rendendomi conto che la moda-Cullen probabilmente non
finirà, o se lo farà, ci metterà un bel pezzo.
“Ehm, siamo seduti vicini a letteratura. Lui non hai il
libro e siamo stati costretti a leggere dallo stesso”, ammetto, con lo sguardo
chino, come se avessi ucciso qualcuno.
“Costretti?
Costretti?Isabella Swan! Tu non ti rendi conto di ciò
che dici! Magari averla avuto io questa costrizione. Ma
ovvio, a me queste cose non succedono mai…”.
Ed ecco
che inizia con l’auto commiserazione. Cosa che si porta dietro dal periodo “emo”. Metto il cervello in modalità off e guardo Mike,
sperando che lui sia più comprensivo. So già che non sarà cosi.
Ignoro le
domande di Angela, fin quando non sento che si è fermata. Preoccupata, rivolgo
lo sguardo a lei e la vedo in attesa. Guardo Mike in difficoltà e lui mima con
le labbra “che libro era?”
“Ehm, cime
tempestose”.
“E il tuo cappuccio? Su o giù?”, chiede Angela.
Ci penso
un secondo e poi ricordo che quando Robins ha detto che avrebbe
seduto vicino a me…
“Su. Si, proprio su”, dico, decisa.
“Beh,
almeno in questo il Signore mi ha risparmiata”, borbotta lei spezzando a metà
il dolce zuccheroso, “L’ultima cosa che mi serve è una gara con la dea bionda”.
Curvo
ancora di più le spalle, mi faccio piccola e con lo sguardo chino, mi mordo il
labbro. Mi imbarazzo quando mi dicono cose del genere. Faccio presente ad
Angela che anche Mike è in gara, cercando di spostare l’attenzione da me a
qualcuno che la desideri.
“Oh, su
questo non c’è neanche da discutere. Mi dispiace, Mike, ma
per quanto bello tu possa essere, e lo sei tesoro, non dico questo, non hai
chance”.
“E
sentiamo, perché, tesoro?”, dice
Mike, punto nel vivo.
“Perché io i gay gli capto come un radar. E lui non è gay. Assolutamente. Sprizza sesso da tutti i
pori, quello li”, dice, leccandosi le labbra come se fosse pronta ad
assaggiarlo come fa con la sua caramella.
Non solo
Edward sta con me alla prima ora, quella di letteratura, ma anche a quella di
arte alla sesta. Non è seduto vicino a me ma è comunque una persecuzione. La
classe sembra urlare nella mia testa. Edward gli manda in agitazione, gli fa
sembrare tante molecole troppo cariche di elettricità che schizzano da tutte le
parti, impazzite. E sono proprio pazzi, per lui. Sbuffo, chiedendomi che cosa
mai possa essere di cosi speciali questo ragazzo.
Tutto
questo scalpore mi informa che Edward ha parcheggiato nel posteggio accanto al
mio. Impreco. Non dovrebbe farlo una ragazza, ma sembra proprio che la sfortuna
mi perseguiti.
Mike, che
accompagno sempre a casa, continua a blaterare, sgridandomi sul mio “stupido
comportamento”.
“Com’è possibile che tu non sia neanche minimamente curiosa di vederlo? Ne parla tutta
la scuola!”, dice ancora.
“È proprio
perché ne parla tutta la scuola”, dico, sbarrando poi gli occhi, rendendomi
conto di quanto per me quelle parole valgano più di quando Mike possa credere.
Per me una
cosa che interessa molti, diventa una tortura. Invece, ciò che viene ignorato,
considerato di poco conto, riesce a suscitare il mio interesse e la curiosità
che poche volte mi prende. Mi sento come fosse cent’anni che vivo. Come se
avessi visto troppe cose e ora fossi troppo stanca per andare avanti, per
continuare a lottare e a tentare di seguire quella giostra frenetica che è la
vita.
“Beh,
tanto prima o poi dovrai farlo e… allora ne riparleremo”. Sembra una minaccia.
Il suo sguardo malizioso dice tutto.
Alzo gli
occhi al cielo e decido definitivamente che ignorarlo è la soluzione migliore.
Nonché l’unica.
“Oh, ma
guarda un po’! Penso che il mio oroscopo di oggi ci abbia proprio beccato:
!
Ovvio, devo decidere come sfruttare questa soluzione. Potrei… cadergli
accidentalmente addosso. Ma quella goffa sei sempre stata te, Bella, il mio
portamento è impeccabile… no, non va bene. Ci sono! Potrei casualmente aprire la portiera con troppa forza e toccare la sua
macchina. E poi…”
“No, Mike, non pensarci neanche. Quando avrai una tua macchina, potrai fare quello che ti pare. Ma
fin quando ti farai scarrozzare da me in giro non farai niente di pericoloso
che includa me o la mia assicurazione”, lo sgrido, cercando di far in modo che
la mia voce risulti autoritaria.
“Non pensarci neanche Mike. Gnegnegne.”, mi fai il verso, “brava,
distruggi tutti i miei sogni. Spero almeno che tu stanotte non dorma per i
sensi di colpa. Sai essere proprio cattiva quando vuoi, non
l’avrei mai detto”, frigna, non guardandomi più.
“Mike…”,
sospiro, ma mi rassegno. Non c’è modo di farlo ragionare.
“Sta
venendo qui. Oddio oddiooddio”, saltella.
Certo che questo è proprio un buon metodo per non far capire a Cullen che è
interessato a lui.
“Stai calmo. Mettiti in una posa casuale e quando arriva attaccagli bottone. Io aspetto in macchina”, gli consiglio, cercando cosi di farmi
perdonare.
“Mmm, ho
un’idea migliore”, sghignazza. Si avvicina a me velocemente e, dopo avermi
tirato giù il cappuccio, rubato l’elastico per i capelli, lasciandoli sciolti,
e gli occhiali scuri, corre via.
Un brivido
di pura paura mi attraversa la schiena. Non mi capita mai di essere cosi esposta, cosi me stessa, cosi in vista. Ho i capelli
sciolti, non ho il cappuccio e neanche gli occhiali. La luce pallida del sole
mi sembra quasi accecante senza di loro.
Mike è
fuggito verso Edward. Questo lo so. È dietro di lui e si sta sbracciando per
farsi notare da me.
Vuole che
io guardi il ragazzo. Infondo, seppure il suo scherzo sia per me di pessimo
gusto, non ha tutti i torti. Non posso evitarlo per sempre. Tutta la scuola ne parla,
sarebbe impossibile. Per giunta frequenta due dei miei corsi.
Per questo
motivo, lentamente, alzo gli occhi verso di lui.
E per la
prima volta vedo Edward Cullen.
I miei
sensi super sviluppati mi sembrano inadatti e deboli per poterlo ammirare veramente.
Alto
almeno dieci centimetri più di Mike, che sfigura, cosa che non fa con
nessun’altro ragazzo, accanto a lui, Edward mi fissa. Il suo sguardo è confuso,
stupito e…ammaliato.
Da lui non
viene niente. Nessun pensiero stressante, nessuna emozione, niente.
I capelli
rossi, di un’incredibile sfumatura ramata, ricadono selvaggiamente sugli occhi
e se ne fregano della mano di lui che cercano ripetutamente di sistemarli.
Chissà se lo fa perché è turbato dal mio sguardo indagatore. Forse è solamente
vanitoso.
Gli occhi
sono grandi, teneri come quelli di un cucciolo, ma il colore, oro puro, gli
rende seducenti, ammalianti.
La bocca è
carnosa, come quella degli angeli di Botticelli, grande, tentatrice. Respingo
l’irrazionale impulso di bacialo immediatamente. Come
mi vengono in mente certe cose?
Il fisico
è asciutto ma scolpito, sembra che stia tutto il giorno in palestra. Ma a
quanto ne so Cullen non pratica nessuno sport e non si è iscritto a nessun
corso extra in palestra.
Ho
definito tutte le ragazze di questo istituto come oche, dentro di me. Ho
pensato che un ragazzo carino, solo perché nuovo, possa essere definito da loro
un “figo da paura”.
Ma non
sbagliavano. Io sono in errore. Non ho mai visto nessuno cosi.
Nessuno con i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli, le sue spalle forti, le
sue gambe muscolose…
Dopo tanti
mesi di isolamento, non solamente con gli altri, ma soprattutto con me stessa,
sento i miei muri cadere, crollare in un attimo. E io in quei muri ci credevo:
in loro avevo messo tutta me stessa. Dietro di questi era custodita la vera
Bella, quella da far vedere a pochi, quella da proteggere perché troppo fragile
per questo mondo cosi frenetico, terribile, cattivo.
Il mondo
non mi piace. Almeno non più, almeno non senza la mia famiglia. Tutto quello
che mi rimane non mi rende più felice.
Tutto è
fermo dentro di me e mi scordo che invece il mondo, naturalmente, non si è
fermato. Per niente. Edward Cullen ricambia il mio sguardo. Cioè, praticamente
mi sta facendo una radiografia come io la sto facendo
a lui.
Beh, a
lezione mi ha vista con lo sguardo chino e il cappuccio della felpa fino al
naso, quindi è come se mi stesse osservando per la prima volta. Con un gesto
nervoso passo la mano tra i miei lunghi capelli biondi per metterli a posto. È
strano sentili liberi di scompigliarsi per il vento; di solito o sono nascosti,
o legati. I capelli esprimono troppo di una persona. Troppo. E io non voglio
esprimere un bel niente.
Edward non
è attraente solo fisicamente: c’è qualcosa
in lui che lo rende terribilmente attraente, qualcosa che attira verso di
sé tutti, come se fosse una calamita. Più potente del miele per le api, più dei
soldi per gli uomini avari.
Dovevo
scoprire cosa fosse. E dopo averlo capito, dovevo fare di tutto per evitarla.
Mike ha smesso
di sbracciarsi: forse si è finalmente reso conto del disastro che ha combinato.
Sono caduta nella sua trappola anch’io. La sento, quell’assurda voglia, quasi
necessità, di avvicinarmi e di sentire la sua pelle sotto le mie dita. I suoi
occhi mi scrutano attenti, profondi, perspicaci, intelligenti e seducenti.
“Oh, Edward, mi devi scusare. Sai, la nostra Bella non è abituata alla vita. Di solito se ne
sta sotto il cappuccio”, ridacchia, nervoso. Non ha tutti i torti. Non
sono più abituata a vivere davvero. Ormai la mia esistenza è un continuo
susseguirsi di episodi terrificanti.
La cosa
più strana, quella che più di tutte mi convince del fatto che io non devo avere
niente a che fare con lui, è che Edward non ha un’aura.
O almeno,
io non la vedo. Ma lui non ce l’ha, perché io vedo l’aura di tutti, nessuna
eccezione. Fino ad oggi.
Il giorno
dopo la notte che mi ha distrutto la mia vita, quella dell’incidente, quando mi
ritrovai in ospedale capii di essere diversa, che tutto stava per cambiare.
Anzi, era già tutto segnato.
Non ho mai
avuto la possibilità di scegliere. Mi sembra giusto sottolinearlo.
Mi
svegliai in un letto di ospedale, con il terribile odore che caratterizza quel
luogo intriso nelle narici che ormai captavano aromi che nessun’altro umano sente.
Fu quando
dissi all’infermiera perché avesse intorno a se una strana luce rosa, che capii
che tutto sarebbe cambiato.
Anzi, in
realtà lo realizzai solamente quando non potevo più nascondere a me stessa che
sentire i pensieri della gente, saperne la storia solo con un tocco e avere
incontri regolari con mia sorella Riley, che è morta, non era una cosa normale.
Per niente normale.
Non vedere
l’aura di Edward, mi rifiuto che lui non ne abbia una, mi fa sentire un po’
meno strana, un po’ meno diversa. Il senso di tranquillità che mi infonde
questa cosa che dovrebbe invece preoccuparmi è straordinaria.
Mi
avvicino a Mike, sapendo che no posso rimanere un secondo di più impalata
vicino alla mia macchina, guardando Edward che guarda me.
In pochi
passi sono davanti a loro. Lo sguardo di Edward sembra amichevole.
“Isabella,
giusto?”, dice lui, sorridendomi calorosamente. Come se un fuoco si propagasse
dentro di me, il suo sorriso mi rende… stranamente serena.
“Bella”,
lo correggo, come faccio sempre. Odio il mio nome per intero.
Mike
tossisce teatralmente, come è solito fare quando si sente escluso da una
conversazione. Odia essere ignorato, lo so benissimo, ma l’assurdo senso di
familiarità tra me ed Edward mi da… pace.
Vorrei che
continuasse a parlare, vorrei poter sentire ancora una volta la sua voce
melodiosa.
“Ehm, giusto. Edward, lui è Mike. Mike… lui è Edward”, gli
presento, non riuscendo a sopprimere un sorrisino quando dico il nome del
ragazzo a Mike. È tutto il giorno che ne parla, è assurdo che sia io a dirglielo.
Edward
distoglie un solo attimo gli occhi da me per fare un cenno della testa a Mike.
Ma è in
quell’attimo, in quei pochissimi secondi, che succede la cosa più sbagliata di questo mondo.
Il senso
di vuoto, di solitudine che ho provato, non va bene. No che non va bene.
Perché?
Chi è questo ragazzo? Perché non riesco a vedere la sua aura, perché è venuto
proprio qui a Forks? Insomma, nessuno sano di mente ci vivrebbe se non
costretto. Io sono costretta. Lui ha una famiglia magnifica e un padre medico
di fama internazionale.
Cosa ci fa
qui?
Nell’attimo
in cui Edward torna a mettere gli occhi su di me, lasciandosi sfuggire un altro sorriso, al quale non so dare una spiegazione,
tutto torna al suo posto. Tutto è di nuovo caldo e accogliente. Come se fossi
tra le sue braccia. E invece un metro ci divide. Quanto vorrei che non fosse
cosi…
“Posso chiederti un favore? Mi presteresti la tua copia di cime tempestose? Devo rimettermi in pari e non ho
tempo di passare in libreria oggi”, dice, sorridendomi ancora. Desidero
che lo faccia ancora. Sorridi, Edward. Ancora, ancora,
ancora.
“Oh, si, non c’è problema, Edward”. Il suo nome esce come musica
dalle mie labbra. Vorrei poterlo cantare, lodare. È un nome bello, non stupido
come pensavo prima. Perché prima non potevo associarlo al suo volto, mentre
ora…
Ora i
capelli rossi mi piacciono. Prima li odiavo.
Prima non
pensavo che una persona potesse avere gli occhi di questa stranissima sfumatura
d’orata. Ora non riesco ad immaginare altri occhi se non quelli.
Prendo il
libro dalla cartella velocemente, con le mani che mi tremano senza alcun
motivo. Per un attimo penso che sarebbe meglio non darglielo. Ho letto quel
libro centinaia di volte, ho sottolineato le frasi che mi piacciono di più,
scritto versi di poesie che mi ricordavano qualche frase del racconto. Forse
sarebbe proprio meglio non darglielo.
Ma lui ha
già teso il braccio verso di me e io non posso far altro che cedere.
La sua
mano era li, a pochi centimetri da me, e toccandola avrei saputo tutto di lui.
Come se lo conoscessi da sempre.
Ma non
faccio in tempo a continuare con i miei pensieri, che Edward ha già preso con
delicatezza il libro dalle mie mani. Quando sento il tonfo della sua cartella nella sua Volvo grigio metallizzata, mi rendo conto che c’è davvero
qualcosa che non va.
Perché
oltre a una stranissima scossa, non ho sentito niente. Il suo tocco non ha
portato con sé…un bel niente.
Non faccio
in tempo a dire o fare alcunché, che lui è già fuori dal parcheggio della
scuola.
L’ondata
di panico non ci mette molto ad investirmi. Si, puro
terrore.
Perché le
uniche persone del quale non posso sentire i pensieri,
non vedo l’aura e non so la vita quando le tocco sono... morte.
Okay, tranquille, è finito XD. È stato noioso? Troppo
lungo? Troppo ripetitivo? Spero davvero di no.
Allora, anche in
questo capitolo potrebbero sorgere dei dubbi. Se me li spiegherete, ve li
risolverò, a meno che non venga spiegato in seguito.
Questa storia è tra i
preferiti di: 6 persone.
Questa storia è tra
le seguite di: 8 persone.
Rispondiamo alle
recensioni (vi ringrazio moltissimo):
VOGLIO ASSOLUTAMENTE SAPERE COM’è ANDATO L’APPUNTAMENTOOOO!
Giulia! Non ammetto ritardi! Comunque… tu sei come sempre troppo troppo buona con me *.*
non mi merito tutti questi complimenti. Grazie per seguire sempre le
cavolate che scrivo XD. Un bacio grande.
Ciao cara Vale! Beh, l’intenzione
di far notare questa cosa c’era eccome, anche se l’avete notata solamente
tu ed Alessandra (nightmare123); meglio di niente^^ comunque, anche tu mi
hai rassicurata sulla lunghezza del capitolo e spero di non aver fatto
pasticci. Che ne dici, era troppo lungo? Noioso? Aiuto, che paranoie che mi
faccio XD. Un abbraccio.
Ciao amore mio! Beh, ti ho già spiegato il perché delle tue
domande in msn, quindi non mi ripeto. Comunque…
tu hai già letto la prima parte di questo cappi,
perché ero insicura se cambiarlo o no. spero che
la seconda parte ti sia piaciuta come l’altra. Ti abbraccio fortissimo. Ti
voglio bene un bel po’.
Ciao carissima! Beh, se non hai
letto il libro il divertimento sarà doppio. Spero di riuscire a farti
piacere questo libro che mi ha stregato QUASI quanto Twilight
(ma mai ai suoi livelli). Che ne dici di questo capitolo? Ed Eddino? T’ispira? Un bacio.
Ciao! La trama su per giù sarà quella, ma comunque cercherò di
aumentare i momenti Edward/Bella, che nel libro scarseggiavano un po’…cioè,
quando stavano insieme Damen scappava sempre XD.
Grazie per la recensione, sei stata davvero carina! Un abbraccio.
Ciao! Allora, innanzi tutto grazie mille di aver recensito! Ho
gradito molto le tue “critiche/consigli”, perché sono state davvero
costruttive. Pian piano, cercherò di staccarmi sempre di più dalla storia
originale. All’inizio è più difficile perché Ever
(la ragazza del libro) ha una storia talmente particolare che è difficile
staccarsene. Comunque, hai ragione quando dici che devo fare mia questa
storia. Quindi, ti prometto che farò del mio meglio. Spero davvero di avere
un tuo parare anche su questo capitolo. Sono felice che ti piaccia come
scrivo ^^. Un abbraccio.
Ci vediamo al
prossimo capitolo gente. Vi abbraccio. E mi raccomando… RECENSITE!!!!!!
Salve a tutti! Ehm,
so benissimo che è un’eternità che non aggiorno. Mi scuso tantissimo. Alla fine
spiegherò il perché.
Ora vi lascio alla
lettura.
Seeyoulater.
Guido fino
a casa. Non penso. Non guardo neanche dove sto andando. Non credo ce ne sia bisogno.
È impossibile che io faccia un incidente.
Come
sempre mi sono dimenticata di chiudere il portone di casa: prima ci pensava mia madre, che era l’ultima ad uscire di casa. Non
è affatto valida come giustificazione, ma ho solo questa. Mi sembra assurdo
fare qualcosa che prima svolgeva lei quotidianamente. Come sbucciare la frutta
toccava a papà, come prendere il giornale nel vialetto di casa a Buttercup.
Vado in
cucina e prendo una bottiglietta di Coca-Cola. Il frigo sembra un piccolo
reparto del supermercato: non manca mai niente, tutto è sempre nella solita
posizione, tutto è in ordine. Ogni mattina una donna di colore di piccola
statura viene a mettere a posto la casa. Immagino che due o tre ore le bastino,
anche se la casa è molto molto grande.
Nella mia
camera è sempre tutto a posto e pulito: non tocco molti oggetti e, quando lo
faccio, risistemo tutto. Questa casa non è ancora mia. Questa non è la mia
famiglia. La mia famiglia non c’è più.
Chi è
Edward Cullen? Come diavolo fa a non avere un’aura e a fare tutte quelle altre
cose strane? Perché non sento i suoi pensieri? Perché non ho visto la sua
storia quando mi ha toccata?
E
soprattutto, come fa ad attrarmi a lui come un’orbita irresistibile?
Chi è
Edward Cullen? Cosa vuole da me? Perché è venuto qui?
La
tranquillità delle mie giornate, seppur vuote e dolorose, era
rassicurante. È tanto tempo ormai che non mi chiedo “e domani cosa
succederà?”.
Tutto era
sicuro, programmato. Ora mi sento persa, esposta, in pericolo.
Quel
ragazzo, talmente bello da far male, cosi inquietante
da costringermi a stagli lontano, ha sicuramente qualcosa di diverso, qualcosa
che non è normale.
Non ho mai
visto un’aura bianca.Vuol dire
equilibrio perfetto dei sentimenti, della ragione, del cuore.
Forse non
esiste nessuno su questa terra con un’aura bianca. Perché, se ne avesse una
cosa, probabilmente non potrebbe essere qui.
Qui c’è
troppa sofferenza, troppo odio, per un’aura bianca.
La maggior
parte del mio tempo lo passo in camera mia. O nel mio
appartamento, come lo definiscono Angela e Mike.
Sabine non
è mai a casa o, quando raramente c’è, lei sta da una parte, io da un’altra. Non
è una scelta sua e sicuramente non è una di quelle matrigne cattive che ti
fanno lavare casa tutto il giorno, impedendoti di andare al ballo della scuola.
Sabine mi
manderebbe anche tutti i giorni ai balli. Sono io che non voglio.
Probabilmente
ho rovinato la vita a mia zia. Prima era una bella donna in carriera, tutto
ufficio e cene di lavoro, uomini sposati che le facevano la corte e le regalavano
fiori e cioccolatini. Uomini falliti per notti infuocate, come diversivo.
Poteva avere tutto ciò che voleva. È bella, piena di soldi e con un lavoro che
le da soddisfazioni a valanghe.
Sabine non
ha avuto scelta. Quando tutta la mia famiglia è morta, ha dovuto prendermi con sé.
Cioè, in
realtà una possibilità l’aveva. Ogni giorno ci pensa per almeno un minuto.
Forse la sto distruggendo io. Forse
era meglio se…
Mi chiedo
se non avessi con me neanche Sabine le cose potessero andare ancora peggio. Mi
sembra praticamente impossibile. Non riesco neanche ad immaginare qualcosa
peggiore di questa vita… a parte ora che c’è Edward Cullen e tutte le sue
stupide stranezze.
Quando c’è
stato l’incidente, Sabine è stata la prima persona informata. I miei nonni sono
tutti morti, l’ultimo qualche anno fa. Mia madre era figlia unica e Sabine,
invece, è la sorella gemella di Charlie. Ogni volta che guardo mia zia in
volto, è come se prendessi un pugno nello stomaco.
Ha lo
stesso naso dritto e perfetto, gli occhi tremendamente uguali ai miei e a
quelli di mio padre.
È
difficile convivere con la gemella del mio defunto padre.
Sabine è
stata coraggiosa: ha scelto di non darmi in custodia a un gruppo di estranei e
tenermi con sé, rinunciando alla sua libertà.
Appena ha
ricevuto la telefonata della polizia, ha venduto il suo loft di lusso e ha
comprato questa grande casa in un quartiere di Laguna Beach pieno di belle
famigliole felici.
La mia
camera è arredata come quella delle ragazze di OC. Però più bella, più grande e
più rosa.
Rosa. Non
mi piace il rosa. Cioè, prima mi piaceva, ma adesso lo trovo un po’ troppo
frivolo. Inappropriato, ecco.
Al centro
della mia stanza si erge un favoloso letto a baldacchino a una piazza e mezzo,
con delle tende di tulle tutte intorno, per la calura estiva. Davanti a questo
vi è un grande televisore al plasma attaccato alla parete, con una Play Station
e qualsiasi tipo di gioco. Non l’ho mai usata.
Alla
sinistra, c’è un grande bagno in stile vittoriano dai colori lievi, con vasca
idromassaggio.
Nella
porta accanto vi è una gigantesca cabina armadio, piena di vestiti di seta
leggeri e colorati, scarpe col tacco e borse firmate.
Ci sono
altre due porte: una porta da a un fantastico balcone
con vista sul mare, dove c’è anche una piscina. L’altro verso una specie di
salottino personale, con un’altra televisione a schermo piatto, un po’ più
grande dell’altra e un frigo bar.
Un piccolo
piano cottura, un microonde, un forno, un frigo
stracolmo di schifezze che tanto mi piacciono, sedie a sacco, divani colorati,
un flipper e un baila.
È normale
che io non esca mai da qui: non c’è niente che mi manca.
In passato
avrei dato qualsiasi cosa per avere una stanza cosi.
Ora darei
qualsiasi cosa pur di tornare al passato.
Mi chiedo
spesso che cosa sarebbe successo se Sabine avesse già un figlio o una figlia:
forse sarebbe nato una specie di conflitto a senso unico. Non deve essere
piacevole per un’adolescente vedere i propri spazi violati da una ragazza
depressa e orfana.
Ma mia zia
non ha mai pensato ad avere figli. Forse è troppo occupata con le cene di
lavoro e le sue notti infuocate con uomini falliti, oppure non ha ancora incontrato
quello giusto. Forse non ha la più pallida idea di come inserire un figlio nella sua ruotine. Me inclusa.
Oppure è
un connubio di tutte e tre le cose. Probabilmente basto io come scocciatura. Un
altro figlio per lei, in questo momento, sarebbe più una maledizione che una
gioia. Che brutti pensieri.
Presumibilmente,
visto che sono sensitiva, queste cose dovrei saperle. Beh, non è affatto cosi.
Io non
vedo le motivazioni che spinge la gente a prendere determinate scelte.
Sono più
una sequenza di immagini che si succedono velocemente, come una serie di
diapositive.
Spesso
riesco a coglierne facilmente il senso. Certe volte sbaglio completamente.
Una volta
ho incontrato una vecchia signora con la casa piena di gatti: quando su
un’immagine ho visto un piccolo gattino nero dagli occhi gialli, avevo pensato
che si sarebbe semplicemente aggiunto alla già folta schiera di mici. Invece,
la donna aveva avuto un incidente con la macchina, perché era andata a finire
contro un albero per non investire il gattino.
Avevo
interpretato male il messaggio, ma la colpa era mia. Le immagini, in sé per sé,
non sbagliano mai.
Comunque,
non ci vuole né un genio, né una sensitiva, per capire che quando una donna
immagina un figlio, vede un fagottino rosa pieno di felicità e gemiti.
Non una
ragazza piena di dolore e tristezza, che dice poche parole e quando lo fa ha
tutta l’aria di volersi buttare dalla finestra del suo bellissimo balcone.
Per questo
motivo, cerco di starmene il più lontana e tranquilla
dal mondo verde dei soldi di Sabine. Io nel mio appartamento, lei nel resto
della casa.
È
necessario. Non piacevole, ma necessario.
Di certo
non aiuta il fatto che ogni giorno faccio due chiacchiere con la mia sorellina
morta.
La prima
volta che ho visto Riley da dopo l’incidente, è stato all’ospedale.
Mi ero
appena svegliata e avevo già fatto la scena da pazza con l’infermiera e la sua
aura rosa.
Lei mi
guardava dai piedi del letto, con sguardo divertito e leggermente, ma solo leggermente, impietosito. Mia sorella
non si è mai dimostrata molto comprensiva. Beh, è normale che non lo sia.
È lei
quella ad essere morta, non io. Almeno fisicamente. Forse dentro è più viva lei
di me.
Riconobbi
subito che non era umana, perché la
sua figura era lievemente opaca, irreale. Come se la
stessi vedendo da chilometri da distanza, invece che da mezzo metro.
Non mi
venne in mente di urlare, chiamare aiuto o cose del genere. Sapevo che non mi
avrebbe fatto del male. Come sapevo che Riley era morta e che quella era solo
una specie di visione, o qualcosa del genere. Ne sentivo la presenza nella
stanza. Come avevo sentito quella dell’infermiera dall’aura rosa.
Era più
leggera, la sua presenza. Per questa sapevo che non era veramente viva come
sembrava.
Aveva in
mano un girasole, lo stesso che c’era nel prato dove mi ero trattenuta dopo
l’incidente, e con l’altra mi salutava. Stava sorridendo. Un sorrisino
divertito, impertinente.
Da una
parte ero irritata, perché non capivo che cosa ci fosse di divertente in tutto
quello che mi era successo.
Dall’altra,
ero talmente felice di vederla, che non riuscivo a dire una parola.
Anzi,
qualcosa la dissi. “Dove sono mamma, papà e Buttercup?”.
Lei ha
fatto spallucce, una linguaccia, ed è svanita. Per un bel pezzo.
Per tutto
il mese in cui sono rimasta in ospedale non si è fatta più vedere. Ora, a mesi
di distanza, so che è stata una punizione. Con Riley è vietato parlare dei miei
genitori, dell’aldilà e di qualsiasi cosa mistica io voglia, o debba, per non
impazzire, sapere.
Lo stesso
giorno in cui venni dimessa dall’ospedale e potei tornare a casa, Riley era li.
Era li quando Sabine mi faceva fare il giro delle mie stanze. Si
avvicinava a ogni oggetto e faceva l’occhiolino, o alzava il pollice in segno
di assenso, o tutte e due le cose. Ma non parlava. Non diceva una parola.
Quella cosa mi irritava. Finché non avesse parlato,
tutto mi sarebbe sembrato irreale. Cioè, era impossibile che lei fosse reale
davvero. Ma mi avrebbe fatto sentire un po’ più sicura che potevo interagire
con lei e che non era tutto frutto del mio subconscio.
Quando
Sabine vide che il mio interesse per tutti quegli oggetti, i quali avrebbero
fatto impazzire qualsiasi teenager, non avevano attirato la mia attenzione,
uscì velocemente dalla stanza.
Quella
sera fu l’unica in cui sentii Sabine piangere.
Guardai
Riley arrabbiata.
“Che diavolo vuoi? Vieni all’ospedali, non parli,
mi guardi come se fossi un pagliaccio, e, appena ti chiedo dove diavolo sono
mamma e papà, sparisci per un mese?”, sbottai, arrabbiata.
Fece
spallucce, proprio come prima di andarsene dalla stanza d’ospedale.
Mi
avvicinai. Volevo prenderle quelle cavolo di spalle e
scuoterla fin quando non mi avesse detto dove erano mamma e papà.
Ma dopo
due passi mi fermai. E se non fossi riuscita ad afferrarle? Avrei dovuto
definitivamente convincere me stessa che Riley era solo una figura immaginaria,
che la mia sorellina era morta. Come mia madre e mio padre.
Feci un
respiro profondo. “Dove sei quando sei con me? Dove
sei stata in questo mese? Sei insieme a mamma e papà…
in una specie di paradiso?”. Mi sentivo una sciocca.
Lei alzò
le mani, come se stesse pregando. Riley non era mai stata religiosa. Come non
lo ero mai stata io, né Charlie.
Ma non
stava invocando nessun dio. Tra le sue mani apparve un grande quadro.
Aveva
colori vivaci e rappresentava un bellissimo paesaggio.
Il
paradiso.
Riley
sorrise e poi risparì.
Presi il
quadro e l’abbracciai, come se potessi entrare e farne parte.
Aprii la
seconda porta, quella che mia sorella aveva guardato prima di svanire.
E li, mi
resi conto che Riley mi stava proprio prendendo per il culo.
Perché,
davanti a me, avevo lo stesso paesaggio del quadro.
“Dannazione”.
“Ti sei
divertita, eh?”, le avevo detto.
Il giorno
dopo, Riley era tornata. Non aveva in mano nessun fiore, nessun quadro o niente
del genere.
Vestiva i
miei jeans preferiti e una mia maglia di lana. Tutto le stava grande di almeno
due taglie, quindi era stata costretta a fare di risvolti.
“Perché
diavolo ti sei messa la mia roba?”, continuai. Lei non rispondeva.
Eravamo
state qualche minuto a fissarci in cagnesco. Lei gli oggetti superflui della
mia stanza, che guardava con aria invidiosa, io i miei vestiti della vecchia
casa, addosso a lei.
Non potei
impedirmi di piangere. Non un pianto vero e proprio. Solo qualche lacrima
sfuggita al mio controllo.
“Oh, ma per favore. Hai visto per caso questo computer? È favoloso. E l’ipod? Cercherò assolutamente di
procurarmene uno e…”.
“Come? Tu puoi parlare?”. Ero sbigottita. Mi alzai dal letto e feci
qualche passo verso di lei, timorosa.
“Certo che
posso parlare, idiota. Sono morta,
mica tonta”, mi rispose, ridacchiando. Non mi guardava negli occhi.
Continuava a girare, toccando oggetti che non erano di nessuno, tastando il
materiale dei materiale dei mobili e lodandone la
bellezza.
“E perché
non mi hai mai parlato prima?”, le chiedi, singhiozzando.
“Uhm,
volevo solo divertirmi un po’. Però dovevi vedere la tua faccia. Davvero esilarante… Sai, mi sto annoiando parecchio”, si
giustificò, scrollando le spalle.
“Annoiando?
Mi hai preso in giro per un mese intero! E perché non ti sei
fatta più vedere?”, sbraitai.
“Ti
passerà presto”. Continuava a muoversi. Avrei voluto urlarle di stare ferma,
guardarmi negli occhi. Volevo che si scusasse con me.
Che si
scusasse per essere morta?
Che si
scusasse per non avermi portato con loro, per avermi abbandonata in questo
mondo pieno di sofferenze, mentre lei si annoiava?
Che si
scusasse per avermi presa in giro, per avermi trattata come un passatempo?
Ma quando
mi ero girata verso di lei, Riley era già scomparsa.
Probabilmente questo
capitolo è una noia. È stato abbastanza noioso anche scriverlo. Si, perché vorrei passare subito a Edward, ai suoi segreti e
a tutto il resto. Ma tutto questo era necessario. E datemi retta, o tagliato
anche un sacco di cose per non farlo venire troppo papiro egiziano.
Allora, spero che non
mi rifiuterete in massa e che magari mi direte comunque cosa ne pensate,
lasciandomi una recensione.
Beh, vi prometto che
nel prossimo capitolo ci sarà tanto tanto Eddy.
Ps: tutti in msn (il mio contatto
è fridagr93@hotmail.it aggiungetemi!)
sono rimasti sconvolti dal fatto che Mike è gay. Tutti: Ma Gre,
ma quello è gaaaaay? *.* IO: beh, si! Lo è! Vi
dispiace? Siete scioccate? hahaha
Ciao! Si,
fai benissimo! te lo consiglio! L’hai comprato?
Che te ne pare? Spero che questo capitolo non faccia schifo. Fammi sapere
che ne pensi. Kiss.
Ciao carissima! Le tue recensioni
non mancano mai in qualsiasi cosa io scriva e per questo ti ringrazio
tantissimo! Allora, voglio dirti grazie anche per i tuoi complimenti!
Davvero, non li merito! Spero che questo capitolo non ti abbia annoiato.
Bacio, cara.
Scrivo in maniera sublime? Io sarò anche modesta, ma tu sei
davvero troppo buona! Allora, mi scuso per non aver aggiornato Amore e
odio. Sono tipo in panico perché non so davvero che fare.
Non so come far evolvere la storia, chi far scegliere a Bella,
come farla comportare. Panico e poca ispirazione. Non so che fare, davvero.
Aiutoooooo! Devi aiutarmi,please! Intanto, che ne dici di questo capitolo?
Questo si che è noioso. Che palle. Uffa. -.- sono depressa! Tirami su,
BAMBILIBAMBAM! Ciao giu. Ho bisogno di una dose dei tuoi ormoni!
Ciao cara! No, come avrei
potuto prenderla male? Sei stata gentile, mica offensiva! Affatto! Mi hai solamente
dato dei consigli, per altro molto giusti, che non ho potuto fare a meno di
osservare. Spero che in questo capitolo io ti sia piaciuta, ma non sono per
niente soddisfatta di me stessa. Lo trovo tremendamente noioso, forse
perché non c’è Edward. Solo Sabine e Riley. Ma era
necessario per la svolta che prenderà la storia. Allora, beh, ammetto che
poche volte ricontrollo quello che scrivo. Assolutamente non ho una beta,
perché credo di poter far benissimo da sola (visto che non mi reputo
un’ignorante xD… non perché chi ne abbia una lo
sia, ma io ho il tempo di occuparmene io stessa). Ti ringrazio davvero per
tutti i tuoi bellissimi complimenti. Sono felice che la storia ti intrighi.
dimmi che ne pensi di questo cappi. Farò un salto
nelle tue storie il prima possibile. Ma anche tu
vai a vedere le mie, ok? Soprattutto “amore e odio” (che è il seguito di
amore e passione, quindi se hai tempo inizia da li) e “fuga dal
successo”!grazie mille ancora. Baci!
Mi scuso per la
lentezza con cui sto aggiornando. Vi lascio subito al capitolo.
Ci vediamo infondo.
Buona lettura.
Capitolo 4.
Anche se
avevo sempre considerato Riley come una delle peggiori sorelle che si potessero
avere, mi aiutò molto. Fu lei che tenne la mia mano nei sentieri scuri e
dimenticati della mia vita passata, guidandomi tra volti sconosciuti ed episodi
lontani.
Amici,
vecchie fiamme, ragazzi che mi avevano corteggiato. Tutto sparito nel nulla.
Certo, forse non è stato proprio un male. Dopo aver riportato tutto a galla, fu
ancora più difficile accettare che quella vita non era più mia.
Una vita
piena di giornate felici, risate con persone che mi volevano molto bene.
Ma Riley
non mi aiutò solamente in questo.
La mia
vita nel sud della California era come una tortura, una continua prigionia in
un luogo troppo caldo e con ragazze troppo abbronzate.
Erano cosi diverse da me, con i capelli biondo chiaro e gli occhi
marroni, la carnagione troppo chiare e le labbra perennemente rosse.
Mia
sorella mi seguiva ovunque: non come un fantasma che ti
perseguita, ma più come una mamma che ti traccia la via da seguire.
È riuscita
a farmi apprezzare questa realtà, la mia stanza lussuosa, la
mia cabriolet rossa e la mia scuola privata, pieno di giocatori di
football belli come fotomodelli.
La cosa
più bella è che Riley non è affatto cambiata. Continua a darmi continuamente
sui nervi, fare di tutto per farmi arrabbiare, a punzecchiarmi, criticare
qualsiasi cosa io faccia.
Ma è per
questo che io sono contenta. Perché è una cosa in meno che può mancarmi.
Le sue
visite sono la mia unica ragione di vita, questa è la verità.
Ogni
giorno, ogni stramaledetto giorno, una lacrima cade dai miei occhi. Per mamma,
per papà.
Ma per
Riley no! Perché lei è con me, so che prima o poi apparirà dal nulla e mi
racconterà qualche aneddoto divertente. È cosi da mesi ormai. Niente cambierà.
L’unico
problema è che lei lo sa.
E questo
non fa altro che avvantaggiarla. Quindi, ogni volta che faccio domande a cui
lei non vuole rispondere, o neanche sentir formulare, sparisce. Per due, tre
settimane.
Per quanto
io voglia strangolarla ogni volta che lo fa, che rifiuta il mio giustificato
bisogno di sapere dove sono i miei genitori, se anche loro verranno a trovarmi
un giorno a parlarmi, sono costretta a rispettare questa sua regola.
Ormai, la
consapevolezza che avrei visto solo Riley aveva messo a tacere tutto il resto.
I primi tempi era una delusione poter parlare solo con lei, ma ora sono
consapevole della fortuna che ho. Non ho perso mia sorella. Almeno, lei no.
“Rimarrai
zitella a vita se continui a vestirmi come nonna Iride”, mi dice, acida.
“Riley, prima di tutto non devo, e non voglio, conquistare proprio
nessuno. E poi, non ho la possibilità di prendere tutti i vestiti firmati e
ultracostosi da un armadio celeste”, le rispondo, sorridendo amaramente.
“Ma se Sabine farebbe a pugni con il mondo pur di vederti vestita come
una qualsiasi teenager! E poi, hai un sacco di bei vestiti nel tuo di armadio, eppure continui ad ignorarli e ad indossare quelle
orribili felpe. Hai in programma di ingrassare di una quindicina di kili? Perché le hai comprate cosi grandi?”, mi sgrida.
Vorrei
risponderle come meriterebbe: possibile che non abbia un minimo di comprensione
per sua sorella? Io per lei ne ho a tonnellate.
Non voglio
che la gente mi noti. Non voglio che la gente mi guardi.
Se devo
per forza vivere questa vita, tanto vale far in modo che passi il più veloce
possibile.
Ignorandola.
Si, io ignoro la mia vita.
Continuo a
lasciarmi trasportare, vittima del tempo, degli
imprevisti, del dolore e delle lacrime.
“Lascia
stare, Riley”, mi limito a dirle, “che fai, vieni?”.
Sono in
ritardo, perciò afferro velocemente il materiale scolastico per la giornata e
l’iPod, lasciando li mia sorella e dirigendomi verso
la porta.
“Mmm, va bene. Però tieni il tettuccio scoperto. Mi piace la
sensazione del vento tra i capelli”.
Ogni
tanto, portare con me Riley fuori dalle mura domestiche è problematico.
Non posso
dire che in questo lei mia aiuti, anzi: è dispettosa,
indiscreta.
Tocca i
capelli di tutti, gli tira. Prende le cose dalle tasche dei miei amici e le
butta a terra.
Io la
guardo sempre a bocca aperta, imponendomi di non parlare, di non sgridarla.
Lei mi
guarda con quell’aria da furbetta e quando il malcapitato si china per
raccogliere le sue cose, solitamente mi fa una boccaccia.
Mike si fa
attendere come al solito cinque minuti. Esce da casa sua, una villetta a
schiera, con in mano un croissant e nell’altra la
cartella.
Ha la
bocca sporca di zucchero a velo e ciò provoca l’ilarità di Riley: la sua risata
simile a un trillo, mi impedisce per tutto il viaggio di seguire i discorsi sui
nuovi arrivati.
Pare che
Mike abbia sognato Edward, stanotte.
Mi
stupisco che non abbia gli occhi a forma di cuoricino.
“Dovevi
vederlo, era cosi bello anche in sogno! Mi sono svegliato proprio felice, tanto che mia madre quando è
entrata…”.
“Mia mamma quando è entrata, blablabla! E-chi-se-ne-fre-ga!”, scandisce
Riley. Trattengo un risolino e, facendo finta di niente, tocco il braccio di
Mike, in modo da sapere ciò che mi sono persa del suo chiacchiericcio.
È una cosa
a cui sono abituata, oramai: un discorso di Mike o Angela, non finisce mai
immediatamente, ma continua ad essere di vitale importanza per tutta la
giornata. Perciò, so che a pranzo l’argomento ritornerà fuori senza dubbio.
Meglio essere preparati, no?
Non guido
velocemente, quindi ci mettiamo più del solito per arrivare a scuola.
All’entrata del parcheggio, vedo immediatamente che Angela è appoggiata al
cancello.
Ha
entrambe le mani sui fianchi, un piede che sbatte furiosamente contro il
cemento scuro, l’espressione imbronciata e gli occhi, oggi di un viola scuro,
accesi da pura ansia.
“Che
diavolo ha quella ragazza oggi?”, chiede Mike, facendo intanto un bel sorriso,
assolutamente finto, alla nostra amica e agitando la mano in segno di saluto.
“Sii paziente, Mike. È in trepidazione per il nuovo ragazzo. Proprio come lo sei tu, d'altronde”, gli dico, ignorando la sua
occhiataccia.
Angela ci
viene incontro, agitando le braccia furiosamente e fermandosi a pochi passi
dalla mia portiera.
Appena
scesa, mi afferra per le spalle e mi dice: “la
campanella suonerà tra poco e lui non
è ancora arrivato. Guarda! Nessuna macchina fichissima in circolazione, nessun strafusto tra questi
adolescenti puzzolenti… oddio, svengo!”.
“Angela, perché mai dovrebbe mollare? È qui solo da
un giorno e nessuna ragazzina lo ha attaccato a un muro”, o almeno spero…
Spero? Oh, Bella, non dirmi che ci
sei cascata anche tu!
Certo che
non ci sono cascata. E come potrei? È solo il ragazzo più bello che abbia mai visto,
misterioso e affascinante…
Non
attendo una sua risposta, impedendomi categoricamente di arrivare in ritardo
alla lezione d’Inglese, non stupendomi però di vederli venirmi dietro.
Mike si
tiene il mento con una mano e l’aria pensierosa che ha assunto non mi rassicura
affatto.
Quando
Mike macchina qualcosa, non è mai nulla di buono.
“Io penso che si sia accorto che siamo tutte troppo scialbe per lui. Magari è andato nella scuola
privata di Port Angeles, o magari a New York, dove le
ragazze sono pronte a tutto pur di aver accanto a sé un bel faccino. Non che io non voglia fare di tutto per avere il suo di bel faccino accanto a me, ma
questa è tutta un’altra storia…”.
Angela
parla sempre a vanvera.
“Edward Cullen verrà a scuola, Angela. Bella le ha prestato la sua copia
strausata di Cime Tempestose. Deve venire; a meno che non chiami Bella e le chieda di venire a
casa sua per riprenderselo”, dice, ammiccando verso di me.
Angela si
strozza con la sua stessa saliva, girandosi verso di me e puntandomi contro un
dito.
Grazie tante, Mike. Ora ci vorrà un
secolo per calmarla.
“Che cosa? Perché
io non ne sapevo niente, razza di amici privi di
riconoscenza!? Ti devo ricordare che mi sono prenotata,
Bella? Non si rubano i ragazzi alle amiche! Dovresti
vergognarti…”.
Guardo
Mike, anzi, cerco di fulminarlo. Grazie
tante. Stronzo.
“Tu non
eri quella che non lo aveva neanche guardato e ti eri limitata alle sue scarpe
firmate?”, sbotta irritata Angela.
“Oh, beh, quella è storia vecchia. Quando l’ha visto quasi ci è rimasta secca.
Sembrava spiritata, giuro. Mancava solo la bava e poi il quadretto
era perfetto!”, trilla Mike.
“Giuro
che…”, lo minaccio, puntandogli un dito contro.
“Oddio!
È andata davvero cosi, Bella?”, chiede, con voce
terribilmente stridula, Angela.
“Non
proprio…” rispondo, imbarazzata.
Oh, maledizione, è andata proprio
cosi.
La rabbia
e la gelosia hanno reso l’aura di Angela di un orribile verdognolo.
La
situazione è cosi ridicola e assurda da farmi ridere.
Ma, naturalmente, non rido.
Se Mike e
Angela non fossero gli unici della scuola ad aver accettato la “stramba Swan” e
avermi preso con sé, a quest’ora gli ricorderei quando fossero ridicoli, a
volte.
“Angela, ma quante volte te lo devo dire? Io non voglio rubarti proprio
nessuno, anzi. Più quel Cullen mi sta lontana e più sono contenta! Può essere
fichissimo, può sprizzare sesso da tutti i pori, come dici tu, le cose non
cambiano. Ma la verità è che Edward
Cullen, a me, non piace.Che cosa devo fare per fartelo
entrare in testa?”, sbotto.
“Oh, non
ti preoccupare, sei stata chiarissima”, sussurra Angela, con gli occhi fissi a
guardare un punto dietro di me. Sembra… imbarazzata?
Mi giro,
lasciandoli li e pronti per andare alla mia lezione,
quando capisco il perché dello sguardo della mia amica.
Edward
Cullen è a qualche passo da noi, le braccia incrociate e un sorrisetto strano,
quasi da sbruffone, stampato su quel bel faccino.
I capelli
ramati spettinati, oggi ancora più del solito, sembrano una fiamma ardente.
Faccio
finta di niente, passandogli accanto senza degnarlo di uno sguardo.
Lui
cammina veloce, fino a superarmi e aprirmi la porta della classe.
“Buongiorno, Bella. Prego, dopo di te”, dice, facendo un
piccolissimo inchino.
Non siamo nel novecento, Cullen. Ma
sei adorabile ugualmente.
Uh, ma che
dico? Scuoto leggermente il capo ed entro, ignorando le varie
occhiataccia che puntano verso di me.
Soprattutto
di Jessica e Laurent, dato che Edward cammina sorridendo dietro di me.
Vado verso
il mio posto, sperando con tutta me stessa che ce ne sia un altro libero, che
lui non sieda ancora vicino a me.
Butto la
cartella a terra, sedendomi svogliatamente sulla piccola e scomoda sedia di
legno.
Edward è
invece calmo e aggraziato. Appoggia la tracolla sul banco,spostando
la sedia e sedendosi con leggiadria.
Preghiere
vane. Si è seduto proprio vicino a me.
Sono stata
maleducata.
Non ho
neanche fatto un cenno di scuse, o uno sguardo imbarazzato. Cosi penserà che lo odio a morte.
Ma tanto a
lui che gliene importa? Io, sciocca ragazzina vestita
con maglie troppo grandi per il mio corpo esile, aria perennemente imbronciata
e timida: cosa può interessargli di me? Il fatto che sono una pazza che sente
le voci e che non può permettersi di toccare nessuno?
Edward non
ne sarà rimasto deluso. È per questo che mi ha aperto la porta, no? Magari
stava a dire che non gliene interessa e che non me ne devo preoccupare.
Afferro l’iPod dalla borsa, tiro su il cappuccio e premo play. Il
volume è già al massimo.
Edward
Cullen è il sogno di ogni ragazzina di questa città che lo abbia visto almeno
una volta.
Per quale
assurdo motivo dovrebbe interessarsi a me?
Non è
possibile. Quindi, perché dovrei preoccuparmi? Ho fatto una figuraccia, forse
non mi parlerà mai più per il resto dell’anno.
Ma è
meglio cosi, no?
È proprio
quello che volevo, infondo. Pace e tranquillità. Calma e monotonia.
Fino a
quando le cose rimarranno cosi, posso sapere che cosa mi aspetterà e vivere
meglio.
Le novità
non mi piacciono. Va bene cosi, va bene cosi.
Niente
Edward Cullen, niente novità, niente cambiamenti.
Ma proprio
mentre sto incominciando a convincermi di ciò, ripetendomi “va bene cosi” come
una litania, mi sento investire da una tremenda scossa.
È più
forte di un fulmine, una scarica elettrica che mi pervade la pelle, arrivando
fino al mio cuore, scorre nelle vene e mi riempie il corpo di uno strano
formicolio.
Tutto perché
Edward ha messo una mano sulla mia.
Non ho
sentito nessun suo pensiero e, anche se era successo anche la volta precedente,
non posso fare a meno di essere sconvolta e impaurita.
Chi è
questo ragazzo per avere un effetto simile su di me? Come può annullare i miei
poteri?
È
difficile, praticamente impossibile, sorprendermi.
Da quando
sono una sensitiva, da quando la mia vita è completamente cambiata, solamente
mia sorella riesce a cogliermi in fallo.
E per
questo si diverte tantissimo ad ingegnarsi per stupirmi.
Fisso
sconcertata la sua mano, grande e dalle dita lunghe, da pianista, guardandola
coprire completamente la mia.
Sento il
suo sguardo addosso, perciò alzo gli occhi e li punto nei suoi, di uno
strabiliante color oro.
“Volevo
restituirti questo”, dice, porgendomi il libro che gli avevo prestato, e
sorridendo.
Non
rispondo al sorriso, ancora troppo sconcertata dal suo tocco.
Togli la
mano, togli la mano. Ti prego.
Dico cosi
perché nell’esatto istante in cui Edward mi ha toccata, tutte le voci nella mia
testa hanno taciuto. Nessun pensiero strappato senza il loro permesso, nessun
vociare sommesso.
Niente.
Completo silenzio.
Però,
capendo che ciò che dico non ha senso, che il difetto dei miei poteri non può
dipendere dal ragazzo, scuoto la testa e dico: “guarda
che puoi tenerlo ancora un po’, non c’è problema. Perché a dire il vero a me
non serve. Quel libro l’ho letto cento volte”. Cerco
di accennare un sorriso e di rimando i suoi occhi si illuminano come due
stelle.
Perché fa
cosi? Perché sembra cosi felice che io sia stata
gentile?
Tutto
questo non ha assolutamente senso.
Edward
toglie la mano e l’effetto del suo tocco, anche se sono sicura che lui non
c’entri per niente, svanisce dopo qualche istante.
Magari è…
perché sono in qualche modo attratta dal lui? Dai, chi non sarebbe attratta da
un ragazzo cosi bello, affascinante, intelligente, galante?
Forse se
mi toccasse la mano Johnny Depp sarebbe la stessa cosa!
“Anche io
so come finisce”, risponde, come se la cosa fosse ovvia.
All’improvviso
il suo sguardo cambia, diventando talmente intenso, infiammante, intimo, da
costringermi a guardarmi le mani.
Perché fa
cosi?
Decido che
ignorarlo è il metodo migliore per non impazzire prima del suono dell’arrivo
del professore, perciò afferro le cuffie e mi preparo per immergermi ancora tra
le note di una delle tante band chiassose e tremendamente necessarie per non
impazzire tra i pensieri degli altri studenti.
Edward
riprende la mia mano, impedendomi cosi di indossare gli auricolari e chiede: “cosa ascolti?”.
Per la
seconda volta, nell’aula tutto tace.
Per la
seconda volta, insieme alla stranissima sensazione di pace e tranquillità
provocata dal suo tocco, mi sento… normale.
Prima
poteva essere stata un mia distrazione, o un errore.
Ma ora non può essere cosi. Stessa situazione, stessi risultati. C’è qualcosa
che non va.
I miei
compagni sono ancora li, alcuni che chiacchierano tra loro, altri che guardano
fuori dalla finestra con fare pensoso.
Eppure non
sento le loro parole sommesse, né i pensieri dei distratti.
Solo la
voce carezzevole e gentile di Edward, che domanda ancora: “Bella, ti ho chiesto
cosa stai ascoltando”. Sorride di nuovo, in un modo tanto intimo e privato da
farmi arrossire.
Il mio
corpo è teso, elettrico. Non capisco il perché: insomma, non è affatto la prima
volta che un ragazzo tiene la mia mano, ma non mi è mai successa una cosa del
genere. Assolutamente.
“Oh, si… uhm, è una playlist che ha fatto per
me Angela, la mia amica. Più che altro ci sono vecchi gruppi Goth anni 80, hai presente? Tipo Cure, Siouxsie, And The Banshees, Bauhaus”, rispondo, stringendomi nelle spalle e
cercando di distogliere lo sguardo dai suoi occhi e, inevitabilmente, non
riuscendoci affatto.
È
possibile che i suoi occhi siano di quella incredibile sfumatura oro miele?
“Mmm. Quindi ti piace il Goth?”, chiede, inarcando le sopracciglia con
aria scettica.
Passa lo
sguardo sulla mia lunga coda di capelli biondissimi, la felpa
blu scuro e il viso pulito e senza una filo di trucco.
“Veramente non proprio. È Angela che lo adora”. Cerco di
fare una risatina, ma ne esce un suono talmente nervoso da farmi rabbrividire.
Eppure, Edward ne sorride.
“E a te?
A te cosa piace?”. Il suo sguardo è ancora puntato verso
di me.
Dire che è
divertito sarebbe un eufemismo.
Mi prendo
qualche secondo per rispondere, cercando di perdere tempo e, fortunatamente, proprio
in quel momento entra il professor Robins, con le guance arrossate e la
camminata un po’ ondeggiante. Il resto della classe pensa che sia aggraziato,
mentre in realtà è solamente ubriaco.
Edward
sospira, togliendo la cartella da sopra il banco, vedendo che oramai tutta la
mia attenzione è verso la lezione. O almeno cosi sembra.
Calo di
più il cappuccio sulla fronte e giro la rotellina dell’iPod.
Avvolta e
frastornata dalle note martellanti dei gruppi Goth di Angela, torno alla
normalità.
Problemi
di stupidi adolescenti, complessi sui loro corpi, dilemmi sentimentali, stress
per test incombenti, i sogni falliti del professor Robins e i litigi con la
moglie, e Jessica, Laurent e Tayler che si domandano
cosa potrà mai trovare in me quel ragazzo cosi favoloso.
Allora, care. Spero
tanto che questo capitolo vi sia piaciuto.
Non ci sono molti
chiarimenti da fare perché penso che sia tutto abbastanza semplice fin ora. I
problemi inizieranno tra poco, anche se già ora c’è qualche
segnale spia.
Vediamo chi ci
arriva!
UNA RECENSIONE, PLEASE?
Ringrazio chi ha
messo questo storia tra i preferiti: 38
Ringrazio chi ha
messo questo storia tra le seguite: 28
Benvenuta nuova lettrice! Sono contenta che i nuovi capitoli ti piacciono e spero vivamente che continuerai a
seguirmi e a lasciare recensioni! Grazie tante, un abbraccio.
Cara giù, tu non mi doni solamente un sorriso! Oltre il fatto
che le tue recensioni sono sempre costanti e non mi abbandoni mai in
qualsiasi delirio io scriva, sono anche sempre molto molto
dolci! E simpatiche…già, mi doni anche tanta allegria! Ti ringrazio quindi
per tutto.
Ah, ti faccio uno spoiler. Nel prossimo capitolo di A&O Bellina farà una gran bella sfuriata a tutti i
Cullen… come dici tu, la mia Bella (quella che scrivo io) ha le palle e si
vedranno! YEAH!
Ciao! Anche se non hai letto il libro stai tranquilla perché cercherò
sempre di far in modo che le cose non siano troppo complesse e che non ci
siano troppe domande senza risposte. Quindi non ti preoccupare e continua a
seguirmi! A presto.
Ancora leggermente frastornata e
decisamente molto confusa da ciò che è successo con Edward, mi avvio verso la
mensa.
Stare in una stanza cosi piccola con
tante persone che non fanno altro che chiacchierare tra loro, non è facile per
me. È come se tutte le emozioni dei presenti si scaricassero su di me.
Alcuni sono invidiosi per il voto del
compagno, altre della nuova fiamma di qualche ragazzo, o di un videogioco, o di
una maglia. Qualsiasi cosa.
Agli adolescenti basta poco per
essere invidiosi. I sentimenti negativi mi destabilizzano, mi rendono debole.
Cammino svelta tra i tavoli, evitando
le occhiate stranite, le frecciatine dette sottovoce; non ho bisogno di cercare
Angela e Mike con lo sguardo. Abbiamo sempre seduto allo stesso tavolo, so che
gli troverò lì.
Sposto le sedia cercando di non fare
rumore e cerco il mio panino, rovistando nello zaino.
“Eccoti, Bella. Ma come diavolo fai
ad arrivare sempre per ultima?”, mi chiede Mike.
Alzo gli occhi verso di lui, cercando
una risposta evasiva. Mi si mozza il respiro però, perché al tavolo non siamo
in tre, ma in quattro.
Edward è seduto con noi. Appena si
accorge che l’ho notato, mi sorride sghembo.
È un sorriso strano, strafottente
quasi, ma a suo modo carino.
Cacchio. Mi sono dimenticata cosa
volevo dire. Inventati qualcosa. Inventati qualcosa o farai l’ennesima figura
della stupida davanti a lui.
“Beh, diciamo che sono impegnata”.
Evasiva. Stupida, ma evasiva.
“Impegnata? Qualche ragazzo a cui
piacciono i tuoi bellissimi capelli biondi? O magari qualcuno che è riuscito a
vedere quei magneti che ti ritrovi al posto degli occhi, abbassandoti il
cappuccio?”, scherza Angela.
Sento le guance imporporarsi,
soprattutto quando noto che Edward mi sta fissando intensamente. Come se
volesse che anche io lo guardassi negli occhi. Da quando esistono gli occhi
oro? Come fa ad essere cosi perfetto e allo stesso tempo cosi fuori dalla
normalità?
Neanche io sono proprio normale, ma
non sono perfetta. Sono troppo bassa, gracilina e la mia pelle è troppo bianca.
Scuoto la testa, a metà fra il
diniego e la rassegnazione, allo sfottò di Angela.
Vorrei chiedere all’intruso che cosa
ci fa qui seduto con noi, vorrei farlo sentire fuori luogo e farlo andar via.
Vorrei che non fosse qui, in questa scuola, in questa città.
Vorrei che i suoi occhi non mi
accarezzassero continuamente e non vorrei sentire quelle stupide ragazzine
sputare veleno su di me per cose che io non ho neanche fatto, o pensato, o
detto.
Forse
è una strega. Gli avrà fatto una specie di sortilegio per costringere il povero
Edward a seguirla.
Perché
non è venuto da me? Gli avevo dato il mio numero e anche il mio indirizzo.
Maledizione.
Chissà
se ha già visto quel nuovo film che c’è al cinema. Dovevo andarci con Jeremy,
ma cosa me ne frega di quello sfigato quando posso avere lui?
Lui. Perfetto, intrigante,
sconosciuto. È questa la chiave del suo fascino?
Ha tra le mani una bottiglietta di
vetro con uno strano liquido rosso. Vorrei chiedergli che cos’è e dove l’ha
presa, ma rivolgergli parola è tabù.
“Allora Edward, per quanto ci
degnerai della tua presenza in questa squallida scuola? Ho sentito che hai
viaggiato molto”, gli chiede sbattendo le ciglia Mike.
Dio, sembra una gallina! Sorrido,
coprendomi però la bocca con la mano per non farmi beccare.
“È vero, ho vissuto in molte città,
ma sono stufo dei cambiamenti”, dice sogghignando, “ho intenzione di rimanere
qui per un po’. Il posto mi piace e la gente mi sembra carina”.
Quando dice carina, gira per una frazione di secondo il volto verso di me, e io
sento il cuore cominciare a battere furioso.
Oh, Dio. Come faccio a stargli vicino
se solo il suo sguardo mi fa tremare le gambe?
Magari tremano per la paura. Il suo sguardo
mi invita ad avvicinarmi, ma la sua aura, completamente invisibile, mi urla
“scappa”.
È un enigma per me. Non so cosa
pensare di lui. Il suo volto perfetto, troppo perfetto per essere vero, mi
suggerisce qualcosa che non riesco a cogliere.
Mi sembra cosi familiare …
“Dove abitavi prima di venire qui?”,
domanda Angela a Edward, accarezzandolo con la voce.
“Nell’Oregon. Portland. Un bel posto,
ma non abbastanza attraente da trattenermi più di un anno”.
“Oregon? Davvero? Ma guarda un po’ le
coincidenze della vita... vero, Bella?”
Coincidenze. Forse è per questo che
mi sembra di conoscerlo già?
Alla faccia confusa di Edward, un
delizioso broncio sul suo volto, Mike non resiste.
“Anche Bella abitava in quella zona”,
rivela sorridendo ad entrambi.
L’aura di Angela è verde scura. Mi
vede ancora come una minaccia, anche se Mike le ha raccontato la tremenda
figuraccia che ho fatto con il nuovo arrivato il giorno precedente. Ma non
basta a rassicurarla. Qualsiasi cosa di me, della mia postura, della mia timidezza,
le fa intendere che nascondo qualcosa.
Non è che mi voglia male, questo lo
leggo nei suoi pensieri, è solamente gelosa delle strane occhiate che mi manda
Edward; non riesce a capire cosa faccia per meritarmi le sue attenzioni, quelle
attenzioni che lei sente di non ricevere da lui.
Eppure a me sembra che Edward stia in
qualche modo cercando di mettersi in buona Mike e Angela, sorridendo ad ogni
battuta, anche alle più tristi, raccontando sempre aneddoti divertenti del suo
passato. Cerca di mostrarsi interessante ai loro occhi. Non sono forse
attenzioni queste?
Quegli sguardi che mi lancia, per lui
non sono niente. Chissà con quante altre lo farà. Probabilmente mi sta solo
prendendo in giro, si diverte a illudermi.
Non che io mi stia illudendo,
naturalmente. Ricordo bene ciò che mi aspetto dalla mia vita. Calma, monotonia,
tranquillità. E un ragazzo misterioso non può che portare mistero.
“Davvero? E dove precisamente,
Bella?”, mi chiede Edward con un sorriso. Scopre leggermente i perfetti denti
bianchi. Scappa.
“Eugene”, biascico velocemente,
talmente piano che dubito mi abbia sentita. Ma lui annuisce e mi sorride
ancora.
Non mi piace quando lo fa. Quando
parla direttamente con me, tutte le voci spariscono, come in classe.
Quando mi sorride sento troppo caldo,
improvvisamente mi sento come andare in fiamme.
Mi tocca una gamba con un piede. So
che è il suo perché tutto tace
ancora, tutto sembra cosi calmo…
Non mi piace. Sto impazzendo. Mi sta
facendo uscire di testa, più di quanto lo fossi già.
“E come sei passata dall’Eugene a
qui? Proprio Forks, cosi…
cosi piccola”, mi domanda, con uno
sguardo cosi intenso da farmi credere che gli interessi davvero saperlo.
Non mi va di parlare di me. Non mi è
mai piaciuto e non mi piace soprattutto da dopo l’incidente.
Sarebbe doloroso per me raccontare e
tremendamente noioso per lui ascoltare.
Dovrei lasciar stare poi i dettagli
cruenti e quelli sovrannaturali.
Ne uscirebbe che la mia famiglia è
morta in un incidente stradale. Ma sarebbe come sminuire tutto quello che è successo,
come mancargli di rispetto.
Perciò mi limito a sviare, come
sempre, la domanda. “ È una lunga storia”, e non mi va di raccontarla, quindi
fatti gli affari tuoi.
Ma lui mi fissa, cosa a cui non
riesco proprio ad abituarmi, e i suoi occhi sembrano quasi incendiarsi.
Mi sembrano quasi neri, ma non è
possibile. I suoi occhi sono dorati.
Cosa vuole fare? Cosa pensa di
ottenere guardandomi cosi?
Pare voglia quasi stregarmi,
convincermi a rivelargli i miei innumerevoli segreti. Illuso. Non lo farei mai,
con nessuno!
Mi muovo nervosa sulla sedia,
cercando di spezzare il filo che sembra attrarmi verso di lui, e
involontariamente urto la mia bottiglietta d’acqua.
La vedo cadere a terra, ma non mi
allungo per cercare di prenderla. Aspetto di sentire il tonfo, ma quando alzo
gli occhi, Edward ce l’ha già in mano e la posa proprio davanti a me.
Nessuno si è accorto di quanto si sia
mosso velocemente? Sono l’unica ad aver notato che il contorno del suo corpo
pareva sfocato?
Edward alza gli occhi verso di me.
Sono leggermente più aperti del solito, quasi si fosse accorto di aver commesso
un errore. Questa volta lo fisso anche io, con fare accusatorio, come a fargli
capire che qualcosa ho intravisto. Ho capito che lui è strano quasi quanto me.
Mike spezza quell’imbarazzante
silenzio che si è venuto a creare e gli chiede qualcosa su Parigi, un’altra
città in cui è stato.
Quante ragazze avrà avuto? Ma
soprattutto, quante lingue saprà? Dio, è solo un ragazzo. Come fa ad avere cosi
tanta libertà da poter gironzolare per il mondo da solo?
Non riesco più a seguire la
conversazione. Un groviglio senza senso di pensieri e domande mi occupa la
testa.
Chi
diavolo sei, Edward Cullen?
Cosa
sei venuto a fare qui? Tornatene a New York, a Parigi, a Londra o a Venezia.
I rumori di tre sedie che si postano
mi fanno rinsavire.
Edward ci saluta e si avvia verso la
sua lezione.
“Che cosa avete combinato voi due?
Perché quello li era seduto con noi?”. Mi stupisco della mia voce stridula e
dal tono arrabbiato, non da me.
“Non è stato nessun piano malefico a
portarlo qui con noi. Voleva stare in una zona tranquilla, con persone
tranquille e disponibili a dargli
asilo. Chi meglio di noi?”, mi risponde stizzito Mike.
Vorrei scusarmi, dire qualcosa per giustificarmi,
ma non ci riesco.
Faccio per girarmi e andar via, ma
Angela mi prende per una mano, abbastanza forte da fermarmi.
“Vedi di essere carina con lui,
Bella. È un bravo ragazzo, non farlo sentire un alieno indesiderato ogni volta
che cerca di ravvivare la conversazione”.
“E poi stasera sarà a casa tua,
quindi direi che devi fartelo stare simpatico per forza”, ride Mike.
“Che
cosa?”, quasi mi strozzo con la mia stessa saliva. Lui a casa mia?
“Nel breve interrogatorio che Angela
gli ha fatto prima che arrivassi tu, abbiamo scoperto che anche Edward detesta
tremendamente il football. E visto che stasera c’è la nostra solita serata alle
O.C. nella tua splendida camera/loft, abbiamo pensato
che questa fosse un’occasione irripetibile per legarlo indissolubilmente a noi
e impedirgli cosi di fare nuove amicizie”, ghigna malefico.
Non lo voglio a casa mia. Non gli
darò il permesso di entrare. Farò finta di essere sotto la doccia, o di non
aver sentito il campanello…
Ecco perché tutti quei pensieri
incoerenti! Ecco perché Angela ha pensato per tutto il pranzo a cosa mettere
stasera. Ecco perché Mike pensava a come sarebbe stato Edward con gli slip.
Oddio, che imbarazzo. Oggi è anche la
serata Jacuzzi!
“Io prenoto il posto vicino a lui”,
dice Angela, alzando la mano e saltellando un pochino come per arrivare più in
alto.
“Ehm, veramente ragazzi, mi sono
dimenticata di dirvi che stasera…”.
“Non provare a guardarci la festa,
Bella! Non è cosi che ci si comporta fra amici. Vuoi per caso spezzarci il
cuore? Come pensi che reagiremmo se domani fosse seduto con Jessica e Laurent?”, si lamenta Mike, con voce stridula.
“Va bene, va bene…
ma io non prometto nulla! Potrebbe scappare dalla finestra appena scoprirà
quanto siete morbosi”, scherzo,
ghignando.
“Stasera arriverò verso le otto,
giusto il tempo di arrivare a casa dall’incontro e rendermi presentabile per lui. Arrivederci, ragazzi miei!”,
l’ultima frase è un mezzo grido, visto che si è già allontanata da noi.
“Che incontro ha oggi?”, chiedo a
Mike.
“Il giovedì è dei bulimici”, risponde
sorridendo.
Se qualcuno chiedesse ad Angela qual
è il suo hobby, lei risponderebbe “frequentatrice assidua di gruppi anonimi”.
Non che abbia i problemi tipici di
questi gruppi, assolutamente. Angela non fuma, non beve, non si droga. L’unica
cosa da cui dipende sono i suoi dolcetti tremendamente zuccherosi, nient’altro.
È alta un metro e settanta e peserà
poco più di cinquanta chili, insomma, chi potrebbe definirla bulimica?
Non ha nessun problema col cibo.
È solo che Angela cerca in questi
gruppi tutto l’affetto e le attenzioni che le sono mancate in casa.
I genitori si sono dedicate a lei
nell’infanzia, ma quando sono arrivati quelle due piccole pesti dei gemelli,
alla quale lei vuole un bene dell’anima, hanno dovuto dividersi tra loro tre e
il lavoro.
Angela è la più grande, in casa la
più responsabile, quindi lei è stata un po’ trascurata.
Non ne fa una colpa ai suoi, ma ha
queste strane valvole di sfogo che riescono a farla stare più tranquilla.
Chi può criticare le sue scelte se
cosi è felice?
Nella mia vecchia vita non avevo a
che fare con ragazzi come Angela o Mike.
Mi circondavo di persone di successo,
belle, ricche, popolari e intelligenti, o anche tutte queste cose insieme.
La mia migliore amica era Rachel, il
capo delle ragazze pon-pon, delle quali anche io
facevo parte.
Portavamo vestiti colorati e
coniavamo detti che diventavano famosi in tutta la scuola. Le mode passavano
quando una delle due si stancava di una certa cosa, e altre mode nascevano
quando andavamo a spulciare nei giganteschi armadi delle nostre madri.
Eravamo belle e ben volute, e tutti
volevano stare al nostro fianco.
Avevo anche un ragazzo, un belragazzo.
Era il quarterback della squadra di football della scuola, e io agitavo i pon-pon solo per lui, facendo un tifo da pazzi.
Era un amore infantile, basato solo
sull’aspetto fisico. Jacob fu il terzo ragazzo che baciai, ma il primo era per
una scommessa alle medie e gli altri non sono neanche degni di nota.
A scuola non mi curavano di quelli
che avevano dei problemi, o che venivano definiti strani.
Non era per cattiveria, ma solamente
non mi sembrava di aver niente in comune con loro.
E per ciò gli ignoravo.
Ma ora sono strana quanto loro, anzi
molto di più.
Ho iniziato già ad esserlo quando ero
in ospedale dopo l’incidente, e Rachel e Jacob vennero a farmi visita.
Erano più vicini del solito e
facevano di tutto per sembrare compassionevoli, ma anche normali e spontanei.
Facevano di tutto per non guardare i
tubi che mi tenevano in vita, i tagli profondi su braccia e gambe, gli arti
ingessati.
Evitavano di guardare i miei occhi
gonfi e rossi. Mormorarono qualche parola di conforto e un “mi dispiace per la
tua famiglia”. Avevo capito che si erano avvicinati tra di loro.
Quanto lo erano stati prima che tutto
quello succedesse non l’ho mai voluto sapere.
Non ho mai voluto sapere se il mio
primo amore mi tradisse con la mia migliore amica.
Perciò, quando arrivai alla Forks High School, evitai il test
d’ingresso per il gruppetto di Jessica e Laurent, e
filai dritta verso Mike e Angela.
Forse appariamo, e probabilmente siamo, molto più strani di quelli che vi
erano nella mia scuola nell’Oregon, ma a me sta bene cosi.
Sono gli unici amici che ho e sento
che su di loro posso contare. Di loro posso fidarmi.
Non posso fidarmi tanto da dirgli
tutto quello che succede nella mia testa, ma abbastanza da fargli capire che
sono molto strana. E che ho dei problemi con me stessa.
La loro amicizia è per me vitale,
senza di loro non avrei nessuno. Sarei sola,
ancor di più.
E questo è un altro motivo per cui
non posso avvicinarmi a Edward.
Non voglio neppure rischiare di
perdere Angela per un ragazzo. Anche se questo ragazzo riesce quasi a farmi
sentire finalmente normale.
Per questo non posso avvicinarmi a
lui.
Grazie mille a tutti quelli che seguono questa storia. Fatevi sentire.
E scusatemi per l’assenza. Meriterei di essere abbandonata,ma…non lo fate, okay?:)
Questa storia è tra le preferite di: 35 persone
Questa storia è tra le seguite di: 47 persone
Un grazie speciale alle 11 persone (magnifiche) che hanno recensito.
Ciao Sara,
questa storia continuerà. Anche se lentamente, anche se gli aggiornamenti non
saranno costanti, continuerà. Sai cosa spinge uno “scrittore” (anche se io
non lo sono assolutamente) a continuare a scrivere? Le persone che lo
sostengono. I commenti come il tuo, per esempio, sono d’aiuto. Allora, anche
se so che certe volte non si sa cosa scrivere, se questa storia ti piace
ancora, scrivimi quello che hai provato, pensato leggendo questo capitolo. Un
abbraccio.
(perché tu
azzecchi sempre la trama in un secondo?). Grazie mille per la recensione
carissima. Anzi, grazie per avermi aiutata a entrare in questo sito e tutto
il resto. Ti voglio bene.
Ciao! Avevi
scritto che avevi intenzione di leggere il libro. L’hai fatto? Spero che
questo capitolo ti sia piaciuto. Grazie per la recensione. Un abbraccio.
Ciao Bell! È
bello sapere che qualcuno ha letto il libro originale, cosi può darmi un
parere diverso. Come ti sembra rispetto alla storia? Troppo simile? Troppo noioso?
Dimmi TUTTO quello che pensi. :)
cacchio,
niente sorprese per te! Ci hai preso alla grande. Avevo in mente proprio
quello. Seguirò abbastanza l’andamento del libro, ma ho in mente qualcosa di
diverso. Soprattutto nel libro non vengono descritte le giornate di Ever e Damen insieme. Io
cercherò di scriverne di più. Che ne pensi?
Riempio la mia testa della
martellante musica che sono solita ascoltare per il resto delle lezioni.
Ho due lezioni in comune con Edward,
letteratura e arte, ma solo alla prima sono obbligata a stargli vicino.
Arte è alla sesta ora, l’ultima prima
della fine delle lezioni, e sono felicissima che sia seduto lontanissimo da me,
dall’altra parte dell’aula, che per altro è una delle più grandi della scuola.
Se mi sta lontano posso stare
tranquilla nella mia stranezza, mentre quando mi è vicino tutto di quello che
fa e tutto di come è riesce sempre a sconvolgermi.
È più facile far passare la lezione
se lui è lontano di me. Riesco a non pensare, a farmi gli affari miei.
Mentre a letteratura sono costretta a
tenere gli occhi e le mani continuamente occupate, perché ho paura di tutto ciò
che potrebbe succedere se lo guardassi, o se mi toccasse ancora.
So che in lui c’è qualcosa che non va
e che soprattutto in me ci sono molte
cose che non sono normali quando mi è vicino.
Tiro un sospiro di sollievo quando
finalmente suona la campanella; non sono riuscita a inventare niente per
rimandare, anche se sarebbe meglio cancellarla per sempre, la serata di
stasera.
Non voglio che venga a casa mia! Non
voglio che sappia dove abito.
Mi alzo velocemente, visto che la
classe si sta svuotando ed Edward è ancora dentro.
Lui sembra quasi riflettere i miei
movimenti; appena muovo un passo, lo fa anche lui.
Mi anticipa alla porta e mentre sto
per afferrare la maniglia, lo fa lui, aprendomela e facendo un sorrisino
strafottente, come per dire “ah ah, sono
arrivato prima di te”.
Ho i battiti del cuore accelerati.
Cosa faccio ora? Non voglio neanche guardarlo.
I suoi occhi sono…
troppo per me.
Cammino svelta, lontano da lui. Tutto
ciò che voglio è che questa assurda attrazione che sento nei suoi confronti
smetta. Perché è venuto a Forks? Cosa vuole da me?
Voglio che mi lasci stare, voglio stare sola. Voglio che vada via, che vada da
Jessica, che lasci stare i miei amici e chiunque abbia dei legami con me.
Tutti mi vedono come un matta in
questa scuola. Perché non lo fa anche lui e mi lascia in pace?
Sento gli occhi pizzicare, quindi
allungo il passo più che posso.
“Bella!”, lo sento chiamare, “Bella,
aspettami!”.
“Scusami, ma vado proprio di fretta”.
Il tono della mia voce è acido e lo so. Ma cerco di sputare più veleno
possibile in quelle poche parole. Voglio che pensi che sono pericolosa. Non lo
sono assolutamente, ma tutto ciò che è sconosciuto e fuori dal comune è
pericoloso per la gente.
E io per lui sono una sconosciuta
fuori dal comune. Una pazza sconosciuta. Come per tutti gli altri.
“Non voglio rubarti tempo, solo dirti
che i tuoi amici mi hanno chiesto di venire a casa tua stasera”, il tono della
suo voce è assurdamente carezzevole.
Tengo gli occhi attaccati al
pavimento, ferma come una pietra. Sono troppo a disagio.
“Si, me l’hanno accennato”, dico con
rammarico evidente.
“Mi dispiace, ma non riuscirò a
passare”.
“Ah!”, strillo, tremendamente
entusiasta, forse troppo. “Cioè, insomma, mi dispiace. Sei sicuro?”.
Mi aspetto che se la prendi, gli ho
appena fatto capire che sono felice che non venga. Mentre lui ride solamente, e
la sua risata arriva fino ad illuminargli gli occhi come due bellissimi fari
nella notte. La mia notte.
“Si, sono sicuro”, mi risponde,
sorridendo ancora. Se ne va, girandosi un’ultima volta e sorprendendomi a
guardarlo andar via.
Abbasso gli occhi quando i suoi gli
cercano. Perché lo fa?
Mi rendo conto che mentre parlavamo
ci stavamo muovendo e che ora sono praticamente fuori da scuola, nel
parcheggio.
Mike è già nella mia macchina,
guardandomi con gli occhi ridotti a fessura. So che ha capito qualcosa. E so
benissimo che si arrabbierà con me.
Sono io quella che lo sta trattando
male. Ma non ho fatto niente per fargli intendere che non lo vorrei a casa mia
(cosa tremendamente vera).
Salgo in macchina riluttante,
cercando nella mia testa qualcosa da dire per parlare d’altro.
“È inutile che fai quello sguardo da
gattina spaurita, Bella”, sibila Mike, “che cosa hai combinato?”.
“Non ho fatto assolutamente niente!
Edward ha detto che stasera non può venire, tutto qui”, sussurro, a testa
bassa. Ma perché poi? Non è colpa mia!
“Tutto
qui? Ti sembra cosa da niente? Angela ucciderà prima te, poi me e poi se
stessa. Hai appena bruciato la sua possibilità di conquistarlo”, dice, a metà
tra il divertito e il melodrammatico.
“Beh, mi dispiace per lei. Ma io non
ho fatto niente per convincerlo a non venire. Non ci siamo proprio parlati”,
rispondo.
“Forse è proprio per questo. Non ci
parli mai, fai di tutto per evitarlo e quando sfortunatamente te lo trovi
davanti, non lo guardi neanche per un secondo!”.
“È solo che non mi interessa proprio
niente di lui, Mike. Anzi, mi sta antipatico”, mento, abbassando gli occhi.
“Antipatico? Ma se fa di tutto per
essere gentile con noi! Sai, Bella, io non ti riesco a capire. Non riesco a
capirti eppure sono tuo amico, l’unico insieme ad Angela. Certe volte penso che
neanche tu ti capisca. Sei di una bellezza mozzafiato, stravolgente, unica,
almeno penso, visto che sono rare le volte in cui ti vediamo senza quegli
orribili cappucci sugli occhi. Insomma, perché ti nascondi? Se solo volessi
potresti essere la ragazza più bella della scuola e avere tutti ai tuoi piedi.
Invece no, fai la reietta”.
“Non faccio la reietta! È solo che
non mi piacciono le attenzioni”, mormoro sempre più piano.
“E poi c’è questo ragazzo
assurdamente bello, a cui si vede da un chilometro che gli piaci”, mi sembra
quasi imbarazzato ora, “a meno che… a meno che tu non
sia lesbica. Allora le cose cambierebbero”.
Sbando con la macchina, colta di
sorpresa, ma grazie alle mie capacità
fuori dal comune, evito di finire fuori strada.
“Cioè, io sono gay. Sono il primo con
cui potresti parlarne. Non ti discriminerei mai! Anzi, direi che sarebbe
proprio fico”, dice, sorridendo però tremendamente imbarazzato. Succede
raramente che lo sia.
“Non sono lesbica, Mike. Chiudiamo
subito questa storia, eh? Solo perché Edward non mi piace, questo non vuol dire
che non mi piacciano tutti i ragazzi.
Non c’è solo la bellezza nel mondo; ci deve essere attrazione, complicità, per
far scattare la scintilla”.
Come due occhi unicamente color oro
che riescono a farmi tremare, un tocco freddissimo che riesce a far zittire il
mondo e tirarmi fuori dai miei problemi, come un salvagente che mi salva da
acque scure e troppo profonde per me.
“Allora cos’è che ti frena?”, chiede
quasi a se stesso, prendendosi il mento fra due vita e iniziando a pensare
furiosamente. “Ah! È per via di Angela?”.
“No”.
Stringo furiosamente il volante,
maledicendo il semaforo. Perché il rosso dura cosi tanto? Voglio arrivare
velocemente a casa di Mike e farlo scendere, cosi questa storia finirà.
Ma poi lui continua e io capisco di
essermi tradita da sola, rispondendo cosi velocemente.
“Dovevo capirlo subito! Quella
cazzata dell’attrazione era davvero grossa. Bella, stammi a sentire. Hai la
possibilità di perdere la verginità con il ragazzo più bello e affascinante
della scuola, o forse dell’intero pianeta. Ieri ho cercato su internet delle
foto di modelli, e nessuno era bello come lui. Ti rendi conto da cosa stai
scappando? Per cosa poi? Perché Angela si è prenotata?
È una cosa da bambini, cara”, cerca di convincermi.
“È ridicolo”, bisbiglio, scuotendo la
testa.
“Vorresti dirmi che hai già perso la
verginità? Con qualche spogliarellista sexy?”, mi prende in giro, e si vede da
un miglio che si sta divertendo un mondo.
Alzo gli occhi al cielo e rido, mio
malgrado.
Si gira verso di me e mi guarda in
modo strano; “spero con tutto me stesso che Angela si renda conto di che amica
speciale sei”.
**
Alla fine la serata salta
completamente.
Uno dei gemelli prende la febbre,
costringendo cosi Angela a rimanere a casa con lui, visto che i genitori
lavorano tutto il giorno.
Mike viene trascinato dal padre a
vedere la partita di baseball. Obbligato a indossare la maglia della squadra
preferita dal padre e a urlare nomi che non conosce e che legge su un depliant
che davano all’ingresso. Per aiutarlo a superare senza traumi quelle due ore
allo stadio, gli prometto che avrei massaggiato con lui tutto il tempo che
voleva, cosi da distrarlo.
Appena dico a Sabine che non
sarebbero venuti i miei amici, lei si mette a fare un sacco di telefonate per
annullare i suoi programmi e prenotare in un lussuosissimo ristorante appena
fuori città.
So che Sabine farebbe qualsiasi cosa
per vedermi indossare uno dei tanti abiti che mi regala quasi quotidianamente.
Perciò, quasi come un silenzioso ringraziamento per ciò che ogni giorno fa per
me, entro nel gigantesco armadio, fatico a dire che sia mio, mi metto un vestitino azzurro regalatomi da lei e i sandali
che ci ha abbinato. Svuoto il mio zaino e metto le poche cose che mi porto
sempre dietro nella piccola pochette oro.
“Sarebbe ora che iniziassi a vestirti
sempre cosi, sorella”.
Faccio un salto di mezzo metro e mi
volto verso Riley.
“Mi hai spaventata a morte”.
“Lo so, ma è troppo divertente
coglierti di sorpresa”. Scuoto la testa, soprattutto quando la vedo indossare
il mio stesso vestito e le mie stesse scarpe; il tutto le sta decisamente
troppo grande, visto che è tre anni più piccola di me e molto più bassa.
“Credi che Jacob ti avrebbe voluta se
ti fossi messa quelle orrende felpe? Ah, a proposito di Jacob, sai che ora sta
con Rachel? Hanno fatto quasi tutto, ma ora stanno litigando di brutto. Ogni
tanto lui la chiama col tuo nome e lei va su tutte le furie. È ovvio che lui
pensi ancora a te, ma come si dice, il
passato è passato, no?”. Chissà come fa a sapere sempre tutto di tutti. E
poi perché mi dice queste cose? Non mi interessa niente del mio passato.
Vado davanti allo specchio, sciolgo i
capelli e metto un po’ di lucidalabbra, l’unico cosmetico che ho, un cimelio della
mia vecchia vita.
“Non che non ne sia felice, ma come
mai questo drastico cambiamento”, mi chiede, squadrandomi dalla testa ai piedi.
“Sabine mi porta fuori a cena; l’ho
fatto per farle un piacere e farle credere che i suoi regali mi piacciono. Mi
pare si chiami ‘La vecchia Italia’, o qualcosa del genere”, bofonchio.
“Uh, che posto sciccoso! Vedrai che
ti piacerà. O almeno, la mia vera sorella sarebbe andata fuori di testa”.
Vecchia sorella. Quando smetterà di
criticarmi, cercare di farmi impazzire? Sento la testa che mi scoppia.
“Come fai a conoscere già il posto,
eh?”, le urlo, improvvisamente furiosa.
Pretende di entrare di soppiatto
nelle mie giornate, rendermi felice e arrabbiata allo stesso tempo,
spiattellarmi aneddoti che non mi interessano affatto sui miei vecchi amici.
Perché mi fa questo?
“Allora, quand’è che inizierai a far
parte dei V.I.P del paradiso? Quand’è che mi
dimenticherai e inizierai a divertirti?”, le chiedo, con tono ironico.
Ma sul suo volto spunta una faccia
cosi arrabbiata da farmi fare un passo indietro.
Ho detto qualcosa di cattivo
volontariamente, come lei lo fa con me. Non sono una persona particolarmente
vendicativa. Ma quant’è ormai che va avanti questa storia?
Da quando si sta divertendo con me?
Mentre sto per scusarmi, il suo
sguardo improvvisamente cambia.
“Mamma e papà ti salutano”.
E non la vedo più.
**
Il viaggio per arrivare al ristorante
dura circa mezz’ora e io non faccio altro che pensare a Riley.
Ho sempre chiesto notizie dei miei
genitori, ma lei è sempre scomparsa prima che io riuscissi a sapere qualcosa.
Mi stava solo prendendo in giro? Si
stava solo continuando a divertire?
Ricordo tutte le litigate quando mi
urlava che non mi avrebbe detto niente su di loro.
Ogni volta che la pregavo di poter
vedere mamma e papà come vedevo lei, si rabbuiava e se ne andava, sparendo per
settimane.
Quando Sabine parcheggia la macchina
e vedo dove ceneremo, mi rendo conto che lo ‘sciccoso’ di Riley
è decisamente un eufemismo.
Questo posto è lussuoso a dir poco.
Il ristorante si trova dentro un
hotel a cinque stelle nel centro di Port Angeles. Non
che la città in sé sia una metropoli, ma evidentemente è abbastanza grande e
frequentata da avere questo posto.
Insomma Sabine, stai portando tua
nipote depressa a mangiare fuori per farle sentire l’aria di città, non stai
per ricevere una proposta di matrimonio!
Ci sediamo in un tavolo al centro
della sala; la tavola (con tutte le tremila cose che ci sono sopra) è oro.
Tutto sprizza lusso, bellezza, soldi.
Mia zia ordina una bottiglia di vino
per sé e una d’acqua per me.
Insieme scegliamo cosa mangiare,
scambiandoci solo poche parole, e appena posiamo il menù, puntualmente arriva
un cameriere, molto simile ad un pinguino, per ordinare.
Quando va via, Sabine si mette una
mano fra i corti capelli biondi e gli sistema poi dietro le orecchie.
Sembra molto mio padre mentre quando
lo fa; lui era solito ravvivarsi i capelli cosi e ha passato questa cosa anche
a me.
Abitare insieme a Sabine, vedere i
tratti comuni che ha con mio padre, mi costringe a ricordare continuamente la
mia vecchia vita. È come un promemoria perpetuo, o una tortura perpetua.
È impossibile con lei davanti non
fare un paragone con la mia vecchia vita, quando a tavola eravamo in quattro e
non si stava mai un secondo zitti, tanto che la mamma era obbligata ad alzare
il volume delle tele per poter sentire le notizie.
Erano tempi felici. Io ero felice.
“Allora, Bella. Come vanno le cose?
La scuola? Gli amici? Tutto bene?”, mi chiede lei, sorridendo.
Vederla sorridere è il colpo di
grazia. Eppure lei e mio padre non erano gemelli, ma mi sembra quasi lo siano.
Forse sono io che cerco in lei mio
padre.
Sabine è una bravissima avvocatessa e
su questo non c’è dubbio, soprattutto per lo stile di vita che può permettersi,
che possiamo permetterci, ne è la prova indiscussa.
Il suo problema è con non è proprio
capace di chiacchierare. Sa tenere a bada dodici persone in tribunale, ma non
un’adolescente.
Allora le sorrido, e dico solamente:
“Tutto bene, grazie”.
Okay, forse faccio schifo anch’io in
queste cose.
Vedo che abbassa gli occhi e sospira;
mi prende la mano, ma prima che riesca solo ad aprire bocca mi sono già alzata
dalla sedia.
“Vado un secondo in bagno”.
Quasi faccio cadere una sedia, mentre
corro via per il lungo corridoio da cui siamo venuti, sfioro volontariamente
una cameriera, cosi da sapere perfettamente dove si trova il bagno.
È venerdì sera e l’hotel è pieno,
visto che viene festeggiato un matrimonio.
Passo al fianco di una decina di
invitati totalmente ubriachi e le loro aure sono cosi asfissianti, cosi
intaccate di alcool, che inizia a girarmi la testa.
Cerco di non pensare ai capogiri,
alla nausea; passo davanti a una decina di grossi specchi incorniciati d’oro,
nei quali in ognuno vedo mostrare Edward Cullen.
Per aprire la pesante porta del bagno
sono costretta ad appoggiarmi completamente sopra di essa e spingere con tutte
le poche forze che mi rimangono.
Negli ultimi mesi sono rimasta chiusa
nel mio guscio, gli occhi protetti dalle felpe e le orecchie dalla musica.
Ma se esco allo scoperto sono
vulnerabile, terribilmente vulnerabile.
Finora ho cercato di non pensare alla
situazione in cui sta vivendo Sabine.
Però quando poco fa ho toccato la sua
mano, sono stata investita dalla crudele verità.
Sabine è sola. È sola quanto lo sono
io e, ancora come me, non ha superato il trauma di perdere il fratello e parte
della sua famiglia nell’incidente.
Come lei è un continuo promemoria per
me, io lo sono per lei.
È stato facile non pensare a lei,
visto che non ci vediamo molto spesso. Lei ha il lavoro, io la scuola.
Durante il week-end io sono rinchiusa
in camera mia con i miei amici o fuori casa.
Forse l’egoismo mi ha sommerso,
impedendomi di vedere come io non sia l’unica a soffrire di questa situazione.
Appena concepisco la cosa, mi riavvio
verso la sala, determinata a far sentire Sabine un pochino meglio.
Non posso legarmi troppo a lei,
naturalmente.
Sono e rimango un fenomeno da
baraccone. Parlo con i morti e sento i pensieri altrui.
Sono troppo strano, troppo rovinata.
Non posso permettermi di portare qualcuno con me nel fondo della vita.
Mi siedo lentamente, sorridendole,
cercando di trasmetterle tranquillità: dovrò esserle sembrata matta ad
andarmene via cosi.
“Allora, hai per le mani qualche caso
interessante?”, le chiedo.
E da li, la serata procede
tranquilla. O almeno procede.
**
Mentre Sabine paga la cena e va verso
il parcheggiatore per sistemare le cose e riprendere la macchina, io rimango ad
aspettarla all’entrata dell’hotel.
Sono cosi concentrata a sentire il
disastro che si sta tenendo tra la sposa e la damigella d’onore, che faccio un
salto di mezzo metro quando sento una mano ghiacciata toccarmi.
Appena lo guardo negli occhi sento le
gambe tremare e il corpo andare in fiamme.
“Stai benissimo”, mi dice,
guardandomi con occhi strani, fermandosi sui fianchi, sul seno e sulle gambe.
Guarda anche i capelli, è la prima volta che li vede sciolti, la mia bocca e
gli occhi.
Sento le guance andare in fiamme; non
so cosa rispondere, quindi abbasso gli occhi e sorrido timidamente.
“Quasi non ti riconoscevo senza
cappuccio. Ma direi che è un piacevole cambiamento. Ti è piaciuta la cena? Ti
ho vista prima, ma sembravi molto di fretta, non volevo disturbarti”, continua.
Sento il suo sguardo addosso.
Allora, quasi sentendomi in diritto
di farlo, lo guardo anch’io. Lo
guardo nel vero senso della parola. Mi sento come affogare in lui, nella sua
bellezza, nel suo profumo strepitoso che riesco a sentire anche da un metro di
distanza. È come se fosse fatto a posta per me: è un mix di quelle fragranze
che mi fanno impazzire.
Cosa ci fa in questo hotel, di
venerdì sera, tutto solo e vestito come un modello?
Il suo modo di vestire è troppo
ricercato per un diciassettenne, ma allo stesso tempo sembra perfetto.
“Ho ospiti da fuori città”, risponde,
proprio mentre stavo per dare voce ai miei pensieri.
Mentre mi sto scervellando per
pensare a cosa dire dopo, arriva Sabine e stringe la mano a Edward,
presentandosi. “Io ed Edward andiamo a scuola insieme”, le dico, sperando di
placare parte delle sue domande.
Potrei aggiungere tantissime cose, ma
dovrei aggiungere dettagli come formicolii alle mani quando mi tocca, poteri
spenti di colpo… meglio tralasciare.
“Si è appena trasferito qui dal Nuovo
Messico”, aggiungo, sperando che basti fino all’arrivo dell’auto.
“E dove stavi precisamente nel Nuovo
Messico?”, sorride lei, guardandolo. Che sia caduta anche Sabine nel calore del
suo sguardo?
“Santa Fe”, risponde Edward,
sorridendole di rimando.
“Ho sempre voluto andarci; mi dicono
sia un posto fantastico”.
“Mia zia fa l’avvocato e lavora
tantissimo”, mormoro, concentrandomi nella direzione in cui dovrebbe arrivare
la nostra auto. Dieci secondi. Nove, otto, set…
“Stiamo tornando a casa, ma se vuoi
venire con noi ci farà molto piacere”, gli propone Sabine.
È impazzita? E soprattutto, come ho
fatto a non rendermi conto che stava per dirlo?
Ho la lingua pietrificata. Guardo
Edward con occhi sbarrati, pregandolo silenziosamente di rifiutare. Lui
risponde: “Grazie davvero dell’invito, ma devo andare anch’io”.
Indica qualcosa alle sue spalle con
il pollice; automaticamente mi giro e la vedo.
Una ragazza bellissima, con una lunga
lingua di capelli color fuoco. Ha un vestito nero provocante e un paio di
sandali con un tacco vertiginoso.
Mi sorride, ma senza alcuna
gentilezza.
È buio, ma riesco a vedere
chiaramente le sue labbra rosse e lucide piegarsi leggermente. La sua posa, il
modo in cui tiene il mento leggermente in avanti, la fronte piana, mi danno la
sensazione che vedermi accanto a Edward la diverta molto.
Mi sento insignificante pensando che
sia la sua fidanzata, quindi mi giro verso di lui, sorprendendomi però di
trovarlo a pochi centimetri dalle mie labbra, con la bocca leggermente schiusa.
Il suo profumo è ancora più fantastico di quando credessi.
Mi sfiora una guancia, poi mi sistema
i capelli dietro l’orecchio, prendendo da lì un tulipano rosso e porgendomelo.
Il mio ricordo successivo è di me
nella mia camera, intenta ad accarezzare i morbidi petali del tulipano. Mi
serve per farmi capacitare che misteriosamente un tulipano è spuntato da dietro
il mio orecchio e che, soprattutto, la primavera è passata da due stagioni.
Solo quando esco da quella specie di
trans, che mi rendo conto che neanche la rossa aveva un’aura.
Incapace di continuare a pensare e
farmi domande, appoggio la testa sul cuscino. Mi basta un attimo per cadere in
un profondissimo sonno, tanto profondo che quando sento dei rumori nella mia
stanza, non apro nemmeno gli occhi.
“Riley,
senti, so di averti trattato male e di aver urtato la sua sensibilità di
ragazzina, ma ora vorrei veramente dormire. Non è stata una giornata facile e
non ho voglia di giocare. Perché non ti presenti a un’ora più decente, invece
che piombare in camera mia alle…”, apro gli occhi
solo per guardare il display della sveglia, “alle 3.45? Potrai presentarti con
il vestito da fata che avevo l’halloween dell’anno scorso, quando mi sono
baciata con Jacob per la prima volta. Ma ora lasciami solo dormire”.
L’unico problema è che dopo aver
detto tutte queste cose sono praticamente sveglia.
Quindi apro definitivamente gli
occhi, mi tiro su, fulminando con gli occhi la figura che si è comodamente
seduta sulla poltrona azzurra che ho davanti al letto.
“Ho detto che mi dispiace, va bene?
Che altro devo dire per mandarti via?”.
“Riesci a vedermi?”, chiede,
allontanandosi da lì.
“Certo che ti ve…”.
Mi interrompo subito, rendendomi conto che la voce è affatto quella di Riley.
Questo capitolo doveva
essere diviso in due. Ma poi sarebbero venuti troppo corti, quindi ho deciso di
gestire cosi la cosa. Spero che non vi abbia annoiate, ma visto che molte di
voi hanno chiesto di scrivere di più, magari la cosa vi può far piacere.
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da 1 persona
Grazie mille ai 7 che hanno
recensito (possiamo fare di meglio, no?).
Non ce la posso fare a scrivere quella storia! Non so
perché! Mi blocco in una maniera assurda… :S Scusa davvero… ma non so che fare per superare la cosa. Non mi
viene neanche da aprire la sua pagina di word. Far parlare Edward e Rosalie… forse è che non so come far andare avanti le
cose, non so come potrebbero venire fuori dalla (posso dirlo?) merda che quei
due hanno creato. Help.
Grazie per aver recensito ogni capitolo, ho apprezzato
davvero tantissimo. Anche leggere le domande che spontaneamente si formano
nella vostra testa una volta letto il capitolo mi entusiasmano. Grazie. Un
abbraccio.
Cara, ho deciso che aspetterò sempre che tu recensisca
prima di aggiornare xD può sembrare una specie di
ricatto ma non lo è; mi piace troppo leggere cosa pensi, non posso farne a
meno! Ho fatto il capitolo trppo lungo? È stato
noioso?Sbizzarrisciti e dimmi tutto
quello che pensi. Un bacione.
Forse il fatto che nessuno abbia mai pensato a un Mike
spiritoso e affidabile lo ha reso antipatico. Ma se ci pensi, anche nella
saga, se non fosse per il fatto che è cotto di Bella, sarebbe potuto essere
un personaggio simpatico. Grazie per tutti i complimenti, davvero. Spero
recensirai anche questo capitolo e mi scriverai cosa ne pensi . un abbraccio.
Spero che questo lungo capitolo abbia placato almeno
in parte la tua curiosità. Ma sospetto che ti siano saltate in mente ancora
più dubbi! Mistero!:) un abbraccio.
Cercherò di non sparire di nuovo. Però ti assicuro che
non abbandonerò questa storia, quindi anche se per un po’ non vedrai gliaggiornamenti, tu aspettami. Tornerò
sempre! Un abbraccio.