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Autore: keska    03/11/2009    39 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Pian piano riaffiorai verso la coscienza.

Mentre il flusso dei ricordi portava con sé una certa lucidità, mi accorsi di sentire un fortissimo fastidio in testa, come un rumore crescente, che presto identificai con un gran mal di testa. La seconda cosa che notai fu la pesantezza e il calore che avvertivo sugli occhi, che non davano segno di volersi aprire.

Così la mia mente, mettendo insieme tutti quei dettagli, riuscì a ricostruire quello che era avvenuto prima che mi svegliassi, e man mano mi fece sempre più tornare verso la lucidità.

I raggi del sole colpirono i miei occhi aperti, vivificando la realtà. Edward era davanti a me e ancora non smetteva di fissarmi. Mi guardava come se si aspettasse che da un secondo all’altro scoppiassi nuovamente in un pianto a dirotto.

Sbattei le palpebre, allontanando lo sguardo per un attimo. Mi sentivo davvero intontita, come se tutti i miei pensieri fossero rallentati. Pian piano riaffiorarono alla mente i ricordi, lenti, incomprensibili, estranei. Come tutte le sensazioni che avevo vissuto. Pensai di poter dire con assoluta certezza che non mi riconoscevo in niente di ciò che mi era successo. Non era mio quel desiderio morboso, istintivo, di avere Edward accanto. Non era il mio dolore. O meglio, era il mio dolore, ma non provato da me.

Non riuscii a concentrarmi abbastanza su questi pensieri, perché altri, nuovi, più pressanti, pulsavano nella mia testa dolorante.

Senza dire una parola, e senza guardarlo, mi sollevai silenziosamente in piedi, respingendo ogni forma di vertigini. Feci istintivamente tre passi, dandogli le spalle, facendo perdere la mia espressione nel vuoto.

Mi sentivo terribilmente in colpa.

Vedevo lo sguardo preoccupato di mio marito e subito mi rimbombava nella mente quello terrorizzato del giorno prima. Sentii frantumarsi del mio cuore il desiderio di aiutarlo, di farlo stare meglio, di convincerlo che Jacob non poteva più farci del male.

Sentii un dolore e una tristezza che non aveva nulla a che fare con quella provata il giorno precedente. Questa, almeno, la riconoscevo.

Una fresca presa leggera si posò sulla mia spalla. «Bella» poco più di un mormorio.

Sospirai, desolata. Lui c’era sempre e c’era sempre stato per me. Perché non riuscivo in alcun modo ad aiutarlo? Avrei dovuto essere sempre la causa della sua preoccupazione?

«Mi dispiace» mormorai, non potendo fare a meno di far scontrare i miei occhi con i suoi. «Mi dispiace infinitamente, Edward. Io… non so come sia potuto accadere».

La sua espressione divenne tenera, aprendosi in un debole sorriso. Mi prese per il capo e mi stinse forte a sé, facendomi sentire il contatto con la sua pelle. Poi mi baciò sui capelli, staccandosi da me. «Tesoro, tu non hai fatto nulla di cui doverti scusare, non… nulla».

Abbassai il capo, mortificata. Mi sentivo così inutile nei confronti di mio marito che, con una sola parola o con un solo sguardo, poteva cambiare il mio nero umore.

Mi sporsi verso di lui, abbracciandolo ancora, non alla ricerca di un conforto, ma per sentire e far sentire la mia vicinanza. Notai che indossava ancora la camicia celeste, macchiata da un grosso alone di acqua salata. Lo sfiorai con le dita, osservandolo, cercando ti trovare una motivazione.

«Cos’è successo?» chiesi, dando vita ai miei pensieri, cercando di scacciare la nebbia che mi offuscava la mente.

Non mi rispose, così sollevai lo sguardo verso la sua espressione pensosa e lontana. «Che ne dici di cambiarci prima?» disse infine, piuttosto atono. «Di là ci sono gli altri, credo che potremmo parlarne».

Non riuscii ad allontanare gli occhi dal suo sguardo serio. Mi faceva paura quando faceva così. Avevo paura dei suoi pensieri. Paura di perderlo.

«Amore» lo richiamai, tentando di arrestare il tremolio nella voce.

Immediatamente si voltò verso di me, con la stessa espressione fredda.

Timorosa posai una mano sulla sua guancia. «Va… tutto bene?» mormorai.

Lui chiuse gli occhi sfiorando la mia mano con la sua.

Aspettai in silenzio che parlasse.

«Bella» disse, dopo qualche istante. «Sono solo preoccupato. Lo so che non vuoi che mi preoccupi, ma non chiedermelo, perché non posso».

«Io» mormorai, abbassando lo sguardo e tentando di pensare velocemente a un modo per rispondere a quelle parole, pronunciate con un tono così fermo. «Sì» concessi infine, sconsolata, avviandomi verso il bagno.

Dopo tre passi mi bloccai, voltandomi indietro verso lui, ancora immobile.

Mi imposi di non pensare e feci a passo svelto quei tre passi che ci dividevano, unendo velocemente le mie labbra alle sue.

All’inizio rimase rigido per la sorpresa, poi, dopo un istante, rispose al bacio.

Quello era, ancora, l’unico modo che conoscevo per farmi sentire vicina a lui. E per adesso avrei usato quello. «Ti amo» dissi ansante, umettandomi le labbra fredde.

«Anch’io» rispose Edward, mettendomi una mano alla schiena e riunendo con più calma e delicatezza le nostre labbra.

Uscimmo insieme dalla camera da letto, mano nella mano. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata, assicurandomi delle sue emozioni attraverso la sua espressione.

«Tesoro, ti sei svegliata» mi salutò Esme, vendendomi incontro e abbracciandomi, per poi passare con gentilezza una mano sulla mia pancia. «Come ti senti?».

«Bene. Sto bene» farfugliai arrossendo. La testa mi pulsava ancora ma mi sembrava di riuscire a pensare più lucidamente.  

Jasper e Carlisle, prima intenti a discutere sul divano del soggiorno, ci vennero incontro.

Jasper fissò me, e poi Edward. «Siamo pronti, quando vuoi…».

«Spostiamoci di là, abbiamo preparato la colazione per Bella» fece Alice, comparendo insieme a Rose alla nostra vista e scortandomi via.

Ci sistemammo in sala da pranzo, intorno al grande tavolo. Io stavo accanto a Edward, mangiando la mia colazione. In realtà, stranamente, avevo lo stomaco chiuso. Forse per la tensione accumulata o per gli psicofarmaci che mi avevano somministrato, che mi lasciavano sempre debole, apatica e inappetente. Ma non volevo farlo ulteriormente preoccupare, così mangiai.

«Bella, abbiamo sviluppato delle ipotesi per ciò che ti è accaduto. La questione, in linea di principio, è piuttosto semplice» cominciò Jasper, impaziente quanto Carlisle, che pure tentava di contenersi, di esporre la sua tesi. «Nell’ultimo periodo, fin dopo il rapimento di Jacob - fece senza perifrasi - ho notato un certo mutamento nella perfezione della tua aura emozionale».

Lo fissai perplessa, rinunciando completamente alla possibilità di finire il mio latte.

«Mi spiego meglio» disse, notando lo sguardo curioso di tutti gli altri, men che di Edward e Alice, ovviamente. «Non “vedo” l’aura emozionale. Ma la percepisco come se fosse un cerchio piuttosto grande o piccolo - a seconda delle emozioni provate - che gravita pressappoco intorno alla posizione del cuore. Ebbene, nell’ultimo periodo, il cerchio di Bella è a poco a poco diventato un’ellisse».

Aprii la bocca, sorpresa, voltandomi a fissare l’espressione di Edward. Evidentemente, non era questa la parte che lo sconvolgeva, perché giocava, concertato, con i miei capelli.

«Ecco» continuò Jasper «ho pensato che tutto ciò derivasse da una sorta di alienazione delle emozioni» si fece più greve «mi è capitato di percepire auree informi, di persone che avevano subito gravissimi traumi e che non riuscivano più a gestirle; come potevo pensare che quel lieve cambiamento non fosse dovuto la tuo disturbo da stress post traumatico? Che in realtà, la bambina, occupasse uno dei fuochi della tua aura?».

«Cosa?!» esclamai, sorpresa, con voce stridula.

Mi voltai verso Edward, agitata, ma lui mi fece un sorriso rassicurante, stridente con l’espressione dei suoi occhi. «È una bella cosa, tranquilla. Ti piacerà».

Tornai, titubante, confusa, a fissare Jasper, che mi rispose con uno sguardo determinato.

«Bella, la bambina non ha i miei stessi poteri. Ma ieri, dovresti esserne consapevole, è riuscita a “manipolare” le tue emozioni. Questo perché la tua aura sta generando la sua e adesso sono ancora indissolubilmente legate e questo vuol dire che…».

«Io sento quello che sente lei e lei sente quello che sento io» mormorai fioca.

«Sì, esatto».

Cercai di pensare a quella frase nel suo vero senso e non di pronunciarla come se la stessi leggendo e tentando di regolarizzare il turbine di pensieri. Io e la bambina… legate… fino al parto? Legate. Nelle emozioni, nelle sensazioni. Tutte le cose, le sensazioni di stranezza, le emozioni aliene, gli strani istinti di attaccamento nei confronti di Edward… Tutto veniva giustificato alla luce di quella rivelazione. Sì, lui aveva ragione, quella era una cosa stupenda, un miracolo inimmaginabile. Molto più di quanto mi sarei mai aspettata.

Ma allora perché sentivo una fastidiosa voce che mi impediva di essere felice?

Perché quello significava che la bambina era triste. Se le emozioni che avevo provato erano le sue, allora era dannatamente triste.

«Credo…» mormorai, fissandomi le mani. «Credo di aver bisogno di un bicchiere d’acqua».

Mi concessi molti lunghi sorsi, poi ricominciai a prendere il filo dei miei pensieri. Tuttavia, l’unica conclusione a cui ogni volta approdavo era la stessa.

«Significa» chiesi, lentamente, scrutando i volti di Edward e Jasper «significa che la bambina è triste?» chiesi spaventata.

«Non crediamo, Bella» a rispondere e rassicurarmi fu Carlisle. «Non possiamo pensare che la bambina provi emozioni così complesse o che abbia intenzionalmente fatto qualcosa. Piuttosto è ragionevole convenire che “sposti le emozioni” da lei a te, ma devono essere, nella maggior parte, le tue. E non crediamo lo possa fare intenzionalmente, non ancora. È molto più probabile che agisca per istinti. Ma la cosa grandiosa, a questo punto, sta proprio in questo!» esclamò, non riuscendo a nascondere l’entusiasmo, «i bambini crescono e maturano, ricevendo stimoli dall’esterno e modificando una serie di istinti che hanno per loro natura innata. In questo caso la bambina sta già ricevendo molti di questi stimoli!».

«Io l’ho detto che la mia nipotina è una intelligente» fece Emmett, ghignando.

Sospirai, confusa.

«Si, è proprio così!» fece Carlisle, stupendomi «È rudimentale dirlo in questo modo, ma è così. Questa bambina sarà più intelligente degli altri perché già da ora comincia a beneficiare degli stimoli, percependo le emozioni e i contatti con il mondo esterno attraverso te».

«Quindi i bambini umani non percepiscono allo stesso modo le emozioni della madre?» chiese Esme.

Jasper riprese la parola. «No, perché in quel caso le auree si sovrappongono, ma non sono legate.  Per questo gli scambi ci sono, ma sono davvero sporadici e minimi».

Mi portai le mani alla testa, tentando di capacitarmi di tutto. La bambina… le emozioni… il motivo di quella dannata tristezza di Edward, che non sembrava accomunare nessun altro della famiglia!

Sentii una mano fredda sulla spalla. «Finisci la colazione Bella, e sta tranquilla. Man mano capirai tutto» mi disse gentilmente Alice. Il suo sguardo, però, era carico e pensoso. Aveva visto qualcosa che stava per succedere.

Annuii, ricominciando a mangiucchiare e tentando in ogni modo di analizzare con lucidità i fatti.

Io e la bambina condividevamo le nostre emozioni. Quello che era successo ieri era dipeso da questo, ma la bambina non era triste. Da dove veniva, allora, la tristezza?

Sollevai lo sguardo, e incontrai quello sereno di Carlisle e Jasper. Poi, mi voltai alla mia sinistra, verso Edward, bisognosa di cercare conforto e spiegazioni. O magari solo di vederlo.

«Che cosa è successo ieri?» chiesi, fissandolo in volto.

La sua espressione si contrasse, e abbassò lo sguardo prima di passare protettivamente un braccio sulla mia spalla.

«Bella» cominciò Rosalie, «hai studiato un po’ di rudimenti di psicologia? Freud?».

Allontanai lo sguardo dal volto di Edward, stringendomi con tutta la mia forza a lui e annuendo.

Mi sorrise. «Bene, allora saprai che l’uomo usa una minima parte del suo cervello. E nella parte che non viene utilizzata, secondo Freud, ci sta l’inconscio. L’inconscio dove vanno a finire, per esempio, i traumi non rimossi». Fece una pausa, per consentirmi di pensare, forse. «Bella, quello che voglio dire è che quello che è successo ieri non è dipeso dalla bambina, non completamente».

Mi sentii raggelare, mentre la presa di Edward rimaneva immobile e salda. Mi voltai verso di lui, tremante e timorosa, e lessi la stessa espressione fredda di quella mattina.

Era colpa mia.

Mi imposi di respirare regolarmente, di mantenere la calma.

Sussultai, sentendo una mano sulla mia.

«Vuoi un altro bicchiere d’acqua tesoro?» mi chiese con gentilezza Esme.

Annuii, abbassando il capo.

«Vuoi che ti spieghi?» mi chiese Rosalie, guardandomi intensamente negli occhi.

«Sì» biascicai.

«Ecco, ricordi perché hai cominciato a piangere?» mi chiese, e mi ricordò tanto il bruttissimo periodo in cui facevamo i nostri esercizi.

«Sì… io… mi ricordo che mi è caduto il piattino con la torta» farfugliai, attenta a non fissare neppure per un istante gli occhi di Edward, per paura di quello che avrei potuto leggerci.

«E ricordi cosa hai sentito?».

Abbassai il capo, persa nei pensieri. Qualcosa stava tentando di riemergere verso a mia coscienza, ma mentre tentavo di afferrarlo mi pareva di perderlo.

Poi, improvvisamente, capii. Insieme a quella, tante altre cose, a cui non avevo mai fatto caso, o che erano cadute nell’oblio della memoria. Perché odiassi così tanto il caldo. Perché non sopportassi di vedere film drammatici. Perché non riuscissi a non tremare quando qualcuno mi coglieva di spalle, perché preferissi starmene rannicchiata in un angolo… Erano un mucchio di dettagli insignificanti, eppure, solo ora mi rendevo conto di quello che significassero.

Erano cose che avevo sempre saputo, ma che evidentemente, l’immenso potere dell’oblio aveva distrutto.

Solo ora capivo.

«Il piattino» mormorai «il suono del piattino che si rompeva… io… io…» rallentai, ricordando altri dettagli, «l’ho sentito, ma… la bambina» dissi infine, posando una mano sul ventre.

«Cosa?» mi chiese Carlisle, confuso.

Deglutii. «Io ho sentito quel suono, ma poi era come se lo avessi ascoltato un’altra volta. Come… se stessi riascoltando un suono che avevo già sentito, ma… così diverso».

Rosalie annuì, voltandosi verso il padre. «È quel suono che ha dato alla bambina l’accesso al suo inconscio» poi si voltò nuovamente verso di me «la bambina è “entrata” nel tuo inconscio. È vero, è stata lei a farti piangere, è stata lei a farti comportare come ti sei comportata, è stata lei che ti faceva sentire quello che sentivi. Ma sei stata tu a cominciare a piangere e sempre tue, erano le emozioni a cui attingeva. Non sarebbe mai riuscita a sopraffarti se tu non fossi stata così vulnerabile».

Incassai il colpo. Non avevo il coraggio di voltarmi verso Edward, non ora che avevo capito appieno il motivo della sua preoccupazione. Mi accorsi di stare tremando visibilmente solo quando si staccò da me. L’avevo stretto con tutta la mia forza.

Mi imposi di parlare, di dire qualcosa in risposta a questi sguardi gentili. Erano stati così carini con me, tentando in ogni modo di mettermi a mio agio. Perché, anche quando speravo di essermene liberata, i fantasmi del mio passato tornavano a tormentarmi?

«Accadrà ancora?» chiesi, fissando prima loro e poi Edward, ancora immobile.

Rosalie fece per parlare, ma Carlisle la bloccò, posando una mano sul suo braccio. «Io credo che dovreste parlarne, voi due. Edward sa tutto quello che vuoi sapere. E Edward, credo che Bella voglia sapere qualcosa da te» disse tranquillo. Sul suo volto non c’era la stessa espressione tesa di Edward, ma lo sapevo, Carlisle era un ottimo attore.

Mi alzai, come un automa, avviandomi in camera, unica stanza della casa completamente insonorizzata. Dopo pochi passi sentii la presenza di Edward al mio fianco. Mi faceva così male quella distanza.

Entrai in camera in silenzio, chiudendomi la porta alle spalle e andando poi a sedere sul bordo del letto. Aspettai che dicesse qualcosa. L’attesa mi divorava, e sentivo delle scosse elettriche nell’aria, che rompevano quel naturale legame che c’era sempre stato fra noi.

«Ieri mattina, quando ti sei svegliata, eri triste?».

Presi un piccolo respiro, sforzandomi con tutta me stessa di mantenere la calma. Non potevo crollare, non ancora. «No, Edward».

Fece un passo verso di me, sollevando una mano. «Ne sei sicura?».

«Come puoi dirlo!» esclamai stridula «Lo sai che non è così. Stavamo bene, abbiamo riso e scherzato e mi sembrava uno dei giorni più belli della nostra vita» sputai affranta.

Abbassò le spalle, come svuotato. «Perché allora?».

Sospirai, non veramente pronta a dare una risposta. Mi portai le mani sul volto, nascondendolo. «Io… Mi dispiace così tanto, Edward! Ti giuro, ti ho sempre detto quando sentivo che qualcosa non andava!» esclamai, tentando di calmare il tremolio nella voce. «Te lo giuro! Io non mi sono resa conto di questa cosa che stava accadendo! Non so neppure da dove sia venuto» mormorai, disperata, tentando in ogni modo di non piangere.  

Ma lui era distante, freddo, e nella mia mente continuava a rimbombare l’idea disperata e irrazionale che lo avrei perso, che quella distanza mi avrebbe uccisa.

Sentii il materasso abbassarsi e capii che si era seduto accanto a me.

Scostai le mani dal volto, fino ad incontrare il suo sguardo teso e distante. Aveva la mascella serrata e le labbra strette. «Bella» sbottò infine «ho dannatamente paura di quello che provi. Dannatamente paura di perderti. Ieri mi sono sentito così impotente. È stato così doloroso sentire quelle emozioni attraverso Jasper, sentirti pregare di fare qualcosa per farti stare meglio mentre niente di ciò che facevo funzionava!» esclamò serrando i pugni «Ho passato tutta la notte senza staccarmi da te, con il terrore che se ti fossi svegliata ricominciando a piangere o non trovandomi al tuo fianco saresti stata così male che non avrei più potuto fare niente per te!».

Tremai, in silenzio, fissando i suoi occhi scuri e la sua mascella tesa. I secondi parevano ore, sembravano non voler passare mai.

«Mi dispiace» mormorai infine, sull’orlo delle lacrime «ti prego, non essere arrabbiato con me, io… non so cos’altro fare».

Strinse le labbra, teso, preoccupato da quello che stava per dirmi. «Forse dovresti ricominciare a prendere gli antidepressivi».

Presi un fiato, fremendo. Spostai lo sguardo dal suo, fissandomi le mani tremanti. Mi sentivo come se mi avesse appena colpito. Come se mi stesse dicendo che mi aveva dato un’occasione, o più di una, ma non ne ero stata all’altezza. O peggio, pensai, sentendo il suo sguardo bruciare su di me. «Non ce la fai più a starmi accanto così?» soffiai fra le labbra, piena di dolore.

«Bella» sussurrò senza fiato, sconvolto dalla mia conclusione «no, non è questo».

Mi voltai a fissarlo, deglutendo più volte prima di riuscire a parlare. «Nemmeno io riuscirei a starmi accanto così. Volevo solo farti stare meglio, lo giuro» balbettai affranta.

Chiuse gli occhi, addolorato, stringendomi finalmente a sé. «Scusa… scusa, scusa, perdonami se puoi. Non avrei mai voluto che pensassi una cosa simile. Non mi importa quanto possa essere difficile starti accanto, è per il dolore che provi tu che mi preoccupo» riaprì gli occhi, serrando con forza la mascella «perché io non posso…». Si zittì, senza continuare. Poi prese un profondo respiro e ricominciò. «Scusa Bella. Voglio solo che tu e la bambina siate felici e stiate bene».

«E anche tu» aggiunsi io, tremante, scossa dalle sue parole. «Non posso essere felice se non lo sei anche tu, ma ti prego» mi feci coraggio a dire «nemmeno a te piace l’effetto che mi fanno gli antidepressivi. Mi intontiscono, mi passa la fame, la voglia di fare le cose, il...» balbettai imbarazzata «il desiderio di te. Non mi sento più io».

Mi carezzò la guancia con una mano, addolorato.

Misi la mano sulla sua. «Se pensi che sia la mia unica possibilità lo farò. Ma se pensi che abbia anche solo una piccola, minuscola possibilità di farcela da sola lasciami provare, almeno una volta. Ti prego».

Fece scontrare la fronte con la mia, avvicinando così i nostri respiri. «Continuerai la psicoterapia con Rosalie, e ti farai aiutare da Jasper?».

Presi un respiro, sollevata. «Lo giuro».

«E mi dirai sempre quando pensi che le emozioni stiano per sfuggire al tuo controllo?».

«Sì Edward, te lo prometto. Mi dispiace, non sai quanto mi dispiace per quello che hai dovuto vivere ieri».

Scosse il capo, farfugliando qualcosa fra sé.

«Cosa c’è?» domandai preoccupata.

Ma lui sorrise, facendomi rilassare lievemente. «L’ennesima stranezza di questa gravidanza vampira. E siamo solo all’inizio. Ho paura di quello che ci aspetta».

«Questa volta non ha tentato di dissanguarmi» biascicai, rilassandomi un poco.

Ridacchiò appena, lievemente. «No. Anzi, penso che sia una cosa meravigliosa avere questo legame con lei» mi chiese, posando una mano sul ventre e accarezzandomi la pancia.

Sentii la tensione che avevo addosso fino a qualche istante prima scomparire man mano. «Beh, sì. In effetti me ne devo ancora capacitare a dire la verità. È così… è complesso» dissi, pensando che probabilmente anche in quel momento le mie emozioni erano legate a quelle della bimba. Tutto quello che provavo, quello che sentivo, andava direttamente a contatto con le sue emozioni.

«Chissà se…» mormorai poi, sistemandomi seduta a col petto contro quello di Edward. Forse gli avrebbe fatto bene renderlo partecipe delle nostre emozioni. Avvicinai i nostri nasi, facendoli sfiorare così come tante volte lui aveva fatto con me.

«Cos’hai intenzione di fare?» mi chiese perplesso, ma divertito.

Posai un dito sulle sue labbra, prima di scendere con la bocca ad occupare il suo posto. Fu un contatto fugace, inizialmente, poi lo approfondii, prendendo fra i denti il labbro superiore e tirandolo leggermente verso l’alto.

Sentii delle emozioni felici che non dovevano essere le mie, ma non feci in tempo a ridacchiare che mi trovai con la schiena schiacciata sul materasso e Edward lievemente posato su di me. Ero contenta del fatto che sembrava molto più sereno di prima.

Si teneva con una mano, accanto alla mia testa, e con l’altra mi accarezzava il viso, continuando a baciarmi.

Quando si staccò ansimai, aggrappandomi con le braccia alle sue spalle. «Ti voglio Edward, ti voglio così tanto» gemetti.

Lui riprese a baciarmi, con più impeto e forza. C’era tanto desiderio fra di noi, e ancora non sapevo come si sarebbe potuto esprimere e quanto avrei potuto osare, ma sapevo che lo desideravo.

«Ragazzi» fece il vocione di Emmett, aprendo la porta. La sua espressione mutò in succulenta meraviglia, scoprendoci così avvinghiati. «Ohh. Jasper e Alice mi avevano detto che avevate fatto la pace, ma così è davvero troppo».

Edward si spostò con le labbra sul mio collo, non dimostrando, però, alcuna intenzione di voler smettere.

Tentai di divincolarmi dalla sua presa, rossa come un peperone, ma ogni tentativo fu vano. Alla fine mi arresi. Non potevo resistere a quelle labbra così… fredde… lisce… dure… sul mio collo.

«Emmett, va al diavolo!» esclamai, gettandogli un cuscino che acchiappò prontamente, pur scomparendo dietro la porta.

 

«Allora, avete fatto pace» insinuò Rosalie, mentre tagliava la mia insalata.

Arrossi, gettando una rapida occhiata a Edward, dall’altra parte del soggiorno, in compagnia di Emmett, Jasper e Carlisle. Lui mi fece l’occhiolino e io arrossii ancora di più. «Sì» mormorai infine, imbarazzata.

«Lo sapevo! Avevo visto tutto!» esclamò, contenta, Alice.

Arrossii ulteriormente pensando a tutto ciò che potesse aver visto, o peggio, sentito…

«Su, ma non vedete che la state mettendo in imbarazzo? Non ti preoccupare tesoro» mi rassicurò Esme, accarezzandomi i capelli.

Nessuno mi permise di alzarmi dalla poltroncina su cui ero seduta per raggiungere i ragazzi in soggiorno. Erano uno più apprensivo dell’altro. Ma, in fondo, gli volevo bene proprio per questo.

«Dai, dai, basta!» risi, scalciando fra le braccia di Edward «ormai il periodo di riposo è praticamente finito, perché non mi permetti di fare dieci metri?» chiesi accusandolo, mentre mi posava sul divano.

«Edward ha ragione Bella. Ieri è stata una giornata molto stancante per il tuo corpo, approfittane per riposarti. Faremo tutti i controlli e se starai bene potrai ricominciare a fare tutto ciò che vorrai» mi spiegò gentilmente Carlisle.

Intrecciai le dita a quelle di Edward, stringendomi al suo petto e pensando a qualcosa, in particolare, che volevo fare. «Non vedo l’ora» mormorai, seppur imbarazzata, attenta a farmi sentire solo da lui.

In risposta ricominciò a baciarmi, infilando una mano sotto alla maglietta, sulla pancia.

Qualcuno tossì, così mi allontanai di botto, ricordando di avere pubblico.

Emmett non perse occasione per fare una delle sue battute. «Carlisle, non mandarli mai più a parlare da soli. In camera. Non ti dico come stavano tutti…».

Edward ringhiò, così si interruppe, fingendosi spaventato.

«Scusate» biascicai, abbassando lo sguardo e concentrandomi sul cibo. Edward, al contrario, sedeva sicuro di sé al mio fianco niente affatto imbarazzato. Ogni tanto gli lanciavo, per sicurezza, un’occhiata, ma del suo malumore sembrava non esserci più traccia. Sorrideva, tenendomi stretta a sé con un braccio, baciandomi il capo ogni tanto.

Intanto Carlisle, Rosalie e Jasper, continuavano, entusiasmati, a dibattere sulla grande scoperta che avevano fatto. Era una cosa unica secondo loro, tuttavia non riuscii a seguire la maggior parte del discorso.

Sentii la mano di Edward insinuarsi ancora una volta sotto la maglietta, sulla pancia. Rabbrividii, sentendo una strana emozione nascere in me. Posai la mano sul suo braccio, scossa.

«Tutto bene?» mi chiese lui.

Annuii lentamente. «Sì. Sì. Credo che alla bambina piaccia particolarmente».

Notai che tutti si erano voltati verso di me, osservandoci silenziosi.

«Ti era già capitato di sentire le sue emozioni?» mi chiese Carlisle, interessato.

«Sì, io… beh, pensavo che fossero mie, non ci avevo mai fatto così caso».

«E istinti?».

Sgranai gli occhi, imbarazzata. Sì, un morboso attaccamento a Edward. Ma non so quanta colpa possa dare alla bambina, perdonami. Anche perché non credo che lei voglia fare “certe cose” con il padre… Avrei dovuto rispondere così? «Io… non so».

Sorrise, captando il mio imbarazzo. «Va bene».

Mentre il disagio scemava, lo sentii tornare indietro. «Accidenti» mormorai accarezzandomi la pancia. La bambina si stava divertendo a farmi quello?

Jasper rise, capendo ciò che stava accadendo, profondamente esaltato. «È stupendo. La bambina sente quello che sente Bella e ogni tanto le rimanda indietro le emozioni che non riesce a comprendere o che lei scaccia via troppo in fretta. Stupendo. Siete come una mescolanza di sensazioni. Davvero stupendo. Mi chiedevo» aggiunse, fissandomi con interesse e curiosità «potrei provare una cosa?».

«Jasper» lo richiamò Edward.

Cosa voleva provare?

Si bloccò e per un attimo l’euforia scemò dal suo viso. «Oh, io ne userei pochissimo. Ma se tu non vuoi» fece lui.

«Cosa?» chiesi disorientata.

Jasper lanciò prima un’occhiata al fratello, poi mi spiegò. «Mi chiedevo quanto riuscissi ad influenzarti usando il mio potere sulla bambina anziché su di te. Ieri appena l’ho calmata sei stata sopraffatta dall’effetto dei farmaci. Quindi volevo provare. Ma, se non vuoi…».

«Ma sì, certo» risposi, fissando prima lui e poi Edward. «Davvero, si può fare, non mi costa nulla».

Lui mi fissò titubante, poi acconsentì. «Va bene».

Jasper posò una mano sulla pancia, facendomi rivivere la sensazione di brivido provata qualche minuto prima. Dopo pochi secondi, però, giunse anche una sensazione di delizioso torpore.

Per pochi istanti credetti di addormentarmi, ma poi svanì come era venuta, lasciandomi intontita.

«Bella?» mi chiamò Edward, che non aveva mai abbandonato il mio fianco.

«Sto bene» dissi, riscuotendomi. «Ha funzionato». Sorrisi.

«Bene, sono contento. Ci lavoreremo. Dovrai imparare a non farti sopraffare da ciò che prova la bambina. Quando scacci le sue emozioni, fallo con lentezza, e se vai nel panico quando le senti ti rendi solo più vulnerabile».

Sospirai, sconsolata, stringendomi nell’abbraccio con mio marito. «Ma con il tempo le sue emozioni non saranno sempre più forti? Come farò?».

Jasper mi sorrise, come se non aspettasse altro che quella domanda. «Sì, se ora le vostre emozioni sono un miscuglio più o meno mischiato, con il tempo lei acquisirà sempre più spazio e sempre più identità personale. Contemporaneamente, però, devo presupporre che la superficie di contatto diminuirà moltissimo. Quindi è vero, questi “scambi” saranno più forti, ma anche più decisi e determinati e in minore quantità».

Carlisle aggiunse «Nonché, forse, regolati razionalmente dalla bambina».

Rabbrividì, ancora. Notai la mano di Edward sulla mia pancia e le diedi un leggero schiaffetto. «Sta buono o questa birbante non mi lascerà in pace» lo richiamai.

Edward si avvicinò al mio viso, posando il naso, ghiacciato, sul mio collo.

Sentii il mio cuore battere a ritmo sostenuto.

«Il birbante sono io» sussurrò malizioso, divertendosi del rossore che mi imporporava le guance.

   
 
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