Pian piano riaffiorai verso la
coscienza.
Mentre il flusso dei ricordi
portava con sé una certa
lucidità, mi accorsi di sentire un fortissimo fastidio in
testa, come un rumore
crescente, che presto identificai con un gran mal di testa. La seconda
cosa che
notai fu la pesantezza e il calore che avvertivo sugli occhi, che non
davano
segno di volersi aprire.
Così la mia mente,
mettendo insieme tutti quei dettagli,
riuscì a ricostruire quello che era avvenuto prima che mi
svegliassi, e man
mano mi fece sempre più tornare verso la
lucidità.
I raggi del sole colpirono i miei
occhi aperti,
vivificando la realtà. Edward era davanti a me e ancora non
smetteva di fissarmi.
Mi guardava come se si aspettasse che da un secondo all’altro
scoppiassi
nuovamente in un pianto a dirotto.
Sbattei le palpebre, allontanando
lo sguardo per un
attimo. Mi sentivo davvero intontita, come se tutti i miei pensieri
fossero
rallentati. Pian piano riaffiorarono alla mente i ricordi, lenti,
incomprensibili, estranei. Come tutte le sensazioni che avevo vissuto.
Pensai
di poter dire con assoluta certezza che non mi riconoscevo in niente di
ciò che
mi era successo. Non era mio quel desiderio morboso, istintivo, di
avere Edward
accanto. Non era il mio dolore. O meglio, era il mio dolore, ma non
provato da
me.
Non riuscii a concentrarmi
abbastanza su questi
pensieri, perché altri, nuovi, più pressanti,
pulsavano nella mia testa
dolorante.
Senza dire una parola, e senza
guardarlo, mi sollevai
silenziosamente in piedi, respingendo ogni forma di vertigini. Feci
istintivamente tre passi, dandogli le spalle, facendo perdere la mia
espressione nel vuoto.
Mi sentivo terribilmente in colpa.
Vedevo lo sguardo preoccupato di
mio marito e subito
mi rimbombava nella mente quello terrorizzato del giorno prima. Sentii
frantumarsi del mio cuore il desiderio di aiutarlo, di farlo stare
meglio, di
convincerlo che Jacob non poteva più farci del male.
Sentii un dolore e una tristezza
che non aveva nulla a
che fare con quella provata il giorno precedente. Questa, almeno, la
riconoscevo.
Una fresca presa leggera si
posò sulla mia spalla.
«Bella» poco più di un mormorio.
Sospirai, desolata. Lui
c’era sempre e c’era sempre
stato per me. Perché non riuscivo in alcun modo ad aiutarlo?
Avrei dovuto
essere sempre la causa della sua preoccupazione?
«Mi dispiace»
mormorai, non potendo fare a meno di far
scontrare i miei occhi con i suoi. «Mi dispiace
infinitamente, Edward. Io… non
so come sia potuto accadere».
La sua espressione divenne tenera,
aprendosi in un debole
sorriso. Mi prese per il capo e mi stinse forte a sé,
facendomi sentire il
contatto con la sua pelle. Poi mi baciò sui capelli,
staccandosi da me. «Tesoro,
tu non hai fatto nulla di cui doverti scusare, non… nulla».
Abbassai il capo, mortificata. Mi
sentivo così inutile
nei confronti di mio marito che, con una sola parola o con un solo
sguardo,
poteva cambiare il mio nero umore.
Mi sporsi verso di lui,
abbracciandolo ancora, non
alla ricerca di un conforto, ma per sentire e far sentire la mia
vicinanza. Notai
che indossava ancora la camicia celeste, macchiata da un grosso alone
di acqua
salata. Lo sfiorai con le dita, osservandolo, cercando ti trovare una
motivazione.
«Cos’è
successo?» chiesi, dando vita ai miei pensieri,
cercando di scacciare la nebbia che mi offuscava la mente.
Non mi rispose, così
sollevai lo sguardo verso la sua
espressione pensosa e lontana. «Che ne dici di cambiarci
prima?» disse infine,
piuttosto atono. «Di là ci sono gli altri, credo
che potremmo parlarne».
Non riuscii ad allontanare gli
occhi dal suo sguardo
serio. Mi faceva paura quando faceva così. Avevo paura dei
suoi pensieri. Paura
di perderlo.
«Amore» lo
richiamai, tentando di arrestare il
tremolio nella voce.
Immediatamente si voltò
verso di me, con la stessa
espressione fredda.
Timorosa posai una mano sulla sua
guancia. «Va… tutto
bene?» mormorai.
Lui chiuse gli occhi sfiorando la
mia mano con la sua.
Aspettai in silenzio che parlasse.
«Bella» disse,
dopo qualche istante. «Sono solo
preoccupato. Lo so che non vuoi che mi preoccupi, ma non
chiedermelo, perché non posso».
«Io» mormorai,
abbassando lo sguardo e tentando di
pensare velocemente a un modo per rispondere a quelle parole,
pronunciate con
un tono così fermo. «Sì»
concessi infine, sconsolata, avviandomi verso il
bagno.
Dopo tre passi mi bloccai,
voltandomi indietro verso lui,
ancora immobile.
Mi imposi di non pensare e feci a
passo svelto quei
tre passi che ci dividevano, unendo velocemente le mie labbra alle sue.
All’inizio rimase rigido
per la sorpresa, poi, dopo un
istante, rispose al bacio.
Quello era, ancora,
l’unico modo che conoscevo per
farmi sentire vicina a lui. E per adesso avrei usato quello.
«Ti amo» dissi
ansante, umettandomi le labbra fredde.
«Anch’io»
rispose Edward, mettendomi una mano alla
schiena e riunendo con più calma e delicatezza le nostre
labbra.
Uscimmo insieme dalla camera da
letto, mano nella
mano. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata, assicurandomi
delle sue emozioni
attraverso la sua espressione.
«Tesoro, ti sei
svegliata» mi salutò Esme, vendendomi
incontro e abbracciandomi, per poi passare con gentilezza una mano
sulla mia
pancia. «Come ti senti?».
«Bene. Sto
bene» farfugliai arrossendo. La testa mi
pulsava ancora ma mi sembrava di riuscire a pensare più
lucidamente.
Jasper e Carlisle, prima intenti a
discutere sul
divano del soggiorno, ci vennero incontro.
Jasper fissò me, e poi
Edward. «Siamo pronti, quando
vuoi…».
«Spostiamoci di
là, abbiamo preparato la colazione per
Bella» fece Alice, comparendo insieme a Rose alla nostra
vista e scortandomi
via.
Ci sistemammo in sala da pranzo,
intorno al grande
tavolo. Io stavo accanto a Edward, mangiando la mia colazione. In
realtà,
stranamente, avevo lo stomaco chiuso. Forse per la tensione accumulata
o per
gli psicofarmaci che mi avevano somministrato, che mi lasciavano sempre
debole,
apatica e inappetente. Ma non volevo farlo ulteriormente preoccupare,
così
mangiai.
«Bella, abbiamo
sviluppato delle ipotesi per ciò che
ti è accaduto. La questione, in linea di principio,
è piuttosto semplice»
cominciò Jasper, impaziente quanto Carlisle, che pure
tentava di contenersi, di
esporre la sua tesi. «Nell’ultimo periodo, fin dopo
il rapimento di Jacob -
fece senza perifrasi - ho notato un certo mutamento nella perfezione
della tua
aura emozionale».
Lo fissai perplessa, rinunciando
completamente alla
possibilità di finire il mio latte.
«Mi spiego
meglio» disse, notando lo sguardo curioso
di tutti gli altri, men che di Edward e Alice, ovviamente.
«Non “vedo” l’aura
emozionale. Ma la percepisco come se fosse un cerchio
piuttosto grande o piccolo - a seconda delle emozioni
provate - che gravita pressappoco intorno alla posizione del cuore.
Ebbene,
nell’ultimo periodo, il cerchio di Bella è a poco
a poco diventato un’ellisse».
Aprii la bocca, sorpresa,
voltandomi a fissare
l’espressione di Edward. Evidentemente, non era questa la
parte che lo
sconvolgeva, perché giocava, concertato, con i miei capelli.
«Ecco»
continuò Jasper «ho pensato che tutto
ciò
derivasse da una sorta di alienazione delle emozioni» si fece
più greve «mi è
capitato di percepire auree informi, di persone che avevano subito
gravissimi
traumi e che non riuscivano più a gestirle; come potevo
pensare che quel lieve
cambiamento non fosse dovuto la tuo disturbo da stress post traumatico?
Che in
realtà, la bambina, occupasse uno dei fuochi della tua aura?».
«Cosa?!»
esclamai, sorpresa, con voce stridula.
Mi voltai verso Edward, agitata, ma
lui mi fece un
sorriso rassicurante, stridente con l’espressione dei suoi
occhi. «È una bella
cosa, tranquilla. Ti piacerà».
Tornai, titubante, confusa, a
fissare Jasper, che mi
rispose con uno sguardo determinato.
«Bella, la bambina non ha
i miei stessi poteri. Ma
ieri, dovresti esserne consapevole, è riuscita a
“manipolare” le tue emozioni.
Questo perché la tua aura sta generando la sua e adesso sono
ancora
indissolubilmente legate e questo vuol dire che…».
«Io sento quello che
sente lei e lei sente quello che
sento io» mormorai fioca.
«Sì,
esatto».
Cercai di pensare a quella frase
nel suo vero senso e
non di pronunciarla come se la stessi leggendo e tentando di
regolarizzare il
turbine di pensieri. Io e la bambina… legate…
fino al parto? Legate. Nelle
emozioni, nelle sensazioni. Tutte le cose, le sensazioni di stranezza,
le
emozioni aliene, gli strani istinti di attaccamento nei confronti di
Edward…
Tutto veniva giustificato alla luce di quella rivelazione.
Sì, lui aveva
ragione, quella era una cosa stupenda, un miracolo inimmaginabile.
Molto più di
quanto mi sarei mai aspettata.
Ma allora perché sentivo
una fastidiosa voce che mi
impediva di essere felice?
Perché quello
significava che la bambina era triste.
Se le emozioni che avevo provato erano le sue, allora era dannatamente
triste.
«Credo…»
mormorai, fissandomi le mani. «Credo di aver
bisogno di un bicchiere d’acqua».
Mi concessi molti lunghi sorsi, poi
ricominciai a
prendere il filo dei miei pensieri. Tuttavia, l’unica
conclusione a cui ogni
volta approdavo era la stessa.
«Significa»
chiesi, lentamente, scrutando i volti di
Edward e Jasper «significa che la bambina è
triste?» chiesi spaventata.
«Non crediamo,
Bella» a rispondere e rassicurarmi fu
Carlisle. «Non possiamo pensare che la bambina provi emozioni
così complesse o
che abbia intenzionalmente fatto qualcosa. Piuttosto è
ragionevole convenire
che “sposti le emozioni” da lei a te, ma devono
essere, nella maggior parte, le
tue. E non crediamo lo possa fare intenzionalmente, non ancora.
È molto più
probabile che agisca per istinti. Ma la cosa grandiosa, a questo punto,
sta
proprio in questo!» esclamò, non riuscendo a
nascondere l’entusiasmo, «i
bambini crescono e maturano, ricevendo stimoli dall’esterno e
modificando una
serie di istinti che hanno per loro natura innata. In questo caso la
bambina
sta già ricevendo molti di questi stimoli!».
«Io l’ho detto
che la mia nipotina è una intelligente»
fece Emmett, ghignando.
Sospirai, confusa.
«Si, è proprio
così!» fece Carlisle, stupendomi
«È
rudimentale dirlo in questo modo, ma è così.
Questa bambina sarà più
intelligente degli altri perché già da ora
comincia a beneficiare degli
stimoli, percependo le emozioni e i contatti con il mondo esterno
attraverso
te».
«Quindi i bambini umani
non percepiscono allo stesso
modo le emozioni della madre?» chiese Esme.
Jasper riprese la parola.
«No, perché in quel caso le
auree si sovrappongono, ma non sono legate.
Per questo gli scambi ci sono, ma sono davvero sporadici e
minimi».
Mi portai le mani alla testa,
tentando di capacitarmi
di tutto. La bambina… le emozioni… il motivo di
quella dannata tristezza di
Edward, che non sembrava accomunare nessun altro della famiglia!
Sentii una mano fredda sulla
spalla. «Finisci la
colazione Bella, e sta tranquilla. Man mano capirai tutto» mi
disse gentilmente
Alice. Il suo sguardo, però, era carico e pensoso. Aveva
visto qualcosa che
stava per succedere.
Annuii, ricominciando a
mangiucchiare e tentando in
ogni modo di analizzare con lucidità i fatti.
Io e la bambina condividevamo le
nostre emozioni. Quello
che era successo ieri era dipeso da questo, ma la bambina non era
triste. Da
dove veniva, allora, la tristezza?
Sollevai lo sguardo, e incontrai
quello sereno di
Carlisle e Jasper. Poi, mi voltai alla mia sinistra, verso Edward,
bisognosa di
cercare conforto e spiegazioni. O magari solo di vederlo.
«Che cosa è
successo ieri?» chiesi, fissandolo in
volto.
La sua espressione si contrasse, e
abbassò lo sguardo
prima di passare protettivamente un braccio sulla mia spalla.
«Bella»
cominciò Rosalie, «hai studiato un po’
di rudimenti
di psicologia? Freud?».
Allontanai lo sguardo dal volto di
Edward,
stringendomi con tutta la mia forza a lui e annuendo.
Mi sorrise. «Bene, allora
saprai che l’uomo usa una
minima parte del suo cervello. E nella parte che non viene utilizzata,
secondo
Freud, ci sta l’inconscio. L’inconscio dove vanno a
finire, per esempio, i
traumi non rimossi». Fece una pausa, per consentirmi di
pensare, forse. «Bella,
quello che voglio dire è che quello che è
successo ieri non è dipeso dalla
bambina, non completamente».
Mi sentii raggelare, mentre la
presa di Edward
rimaneva immobile e salda. Mi voltai verso di lui, tremante e timorosa,
e lessi
la stessa espressione fredda di quella mattina.
Era
colpa mia.
Mi imposi di respirare
regolarmente, di mantenere la
calma.
Sussultai, sentendo una mano sulla
mia.
«Vuoi un altro bicchiere
d’acqua tesoro?» mi chiese
con gentilezza Esme.
Annuii, abbassando il capo.
«Vuoi che ti
spieghi?» mi chiese Rosalie, guardandomi
intensamente negli occhi.
«Sì»
biascicai.
«Ecco, ricordi
perché hai cominciato a piangere?» mi
chiese, e mi ricordò tanto il bruttissimo periodo in cui
facevamo i nostri
esercizi.
«Sì…
io… mi ricordo che mi è caduto il piattino con la
torta» farfugliai, attenta a non fissare neppure per un
istante gli occhi di
Edward, per paura di quello che avrei potuto leggerci.
«E ricordi cosa hai
sentito?».
Abbassai il capo, persa nei
pensieri. Qualcosa stava
tentando di riemergere verso a mia coscienza, ma mentre tentavo di
afferrarlo
mi pareva di perderlo.
Poi, improvvisamente, capii.
Insieme a quella, tante
altre cose, a cui non avevo mai fatto caso, o che erano cadute
nell’oblio della
memoria. Perché odiassi così tanto il caldo.
Perché non sopportassi di vedere
film drammatici. Perché non riuscissi a non tremare quando
qualcuno mi coglieva
di spalle, perché preferissi starmene rannicchiata in un
angolo… Erano un
mucchio di dettagli insignificanti, eppure, solo ora mi rendevo conto
di quello
che significassero.
Erano cose che avevo sempre saputo,
ma che
evidentemente, l’immenso potere dell’oblio aveva
distrutto.
Solo ora capivo.
«Il piattino»
mormorai «il suono del piattino che si
rompeva… io… io…» rallentai,
ricordando altri dettagli, «l’ho sentito,
ma… la
bambina» dissi infine, posando una mano sul ventre.
«Cosa?» mi
chiese Carlisle, confuso.
Deglutii. «Io ho sentito
quel suono, ma poi era come
se lo avessi ascoltato un’altra volta. Come… se
stessi riascoltando un suono
che avevo già sentito, ma… così
diverso».
Rosalie annuì,
voltandosi verso il padre. «È quel
suono che ha dato alla bambina l’accesso al suo
inconscio» poi si voltò
nuovamente verso di me «la bambina è
“entrata” nel tuo inconscio. È vero,
è
stata lei a farti piangere, è stata lei a farti comportare
come ti sei
comportata, è stata lei che ti faceva sentire quello che
sentivi. Ma sei stata tu a
cominciare a piangere e sempre tue,
erano le emozioni a cui attingeva.
Non sarebbe mai riuscita a sopraffarti se tu non fossi stata
così vulnerabile».
Incassai il colpo. Non avevo il
coraggio di voltarmi
verso Edward, non ora che avevo capito appieno il motivo della sua
preoccupazione. Mi accorsi di stare tremando visibilmente solo quando
si staccò
da me. L’avevo stretto con tutta la mia forza.
Mi imposi di parlare, di dire
qualcosa in risposta a
questi sguardi gentili. Erano stati così carini con me,
tentando in ogni modo di
mettermi a mio agio. Perché, anche quando speravo di
essermene liberata, i
fantasmi del mio passato tornavano a tormentarmi?
«Accadrà
ancora?» chiesi, fissando prima loro e poi
Edward, ancora immobile.
Rosalie fece per parlare, ma
Carlisle la bloccò,
posando una mano sul suo braccio. «Io credo che dovreste
parlarne, voi due.
Edward sa tutto quello che vuoi sapere. E Edward, credo che Bella
voglia sapere
qualcosa da te» disse tranquillo. Sul suo volto non
c’era la stessa espressione
tesa di Edward, ma lo sapevo, Carlisle era un ottimo attore.
Mi alzai, come un automa,
avviandomi in camera, unica
stanza della casa completamente insonorizzata. Dopo pochi passi sentii
la
presenza di Edward al mio fianco. Mi faceva così male quella
distanza.
Entrai in camera in silenzio,
chiudendomi la porta
alle spalle e andando poi a sedere sul bordo del letto. Aspettai che
dicesse qualcosa.
L’attesa mi divorava, e sentivo delle scosse elettriche
nell’aria, che
rompevano quel naturale legame che c’era sempre stato fra
noi.
«Ieri mattina, quando ti
sei svegliata, eri triste?».
Presi un piccolo respiro,
sforzandomi con tutta me
stessa di mantenere la calma. Non potevo crollare, non ancora.
«No, Edward».
Fece un passo verso di me,
sollevando una mano. «Ne
sei sicura?».
«Come puoi
dirlo!» esclamai stridula «Lo sai che non
è
così. Stavamo bene, abbiamo riso e scherzato e mi sembrava
uno dei giorni più
belli della nostra vita» sputai affranta.
Abbassò le spalle, come
svuotato. «Perché allora?».
Sospirai, non veramente pronta a
dare una risposta. Mi
portai le mani sul volto, nascondendolo. «Io… Mi
dispiace così tanto, Edward!
Ti giuro, ti ho sempre detto quando sentivo che qualcosa non
andava!» esclamai,
tentando di calmare il tremolio nella voce. «Te lo giuro! Io
non mi sono resa
conto di questa cosa che stava accadendo! Non so neppure da dove sia
venuto»
mormorai, disperata, tentando in ogni modo di non piangere.
Ma lui era distante, freddo, e
nella mia mente
continuava a rimbombare l’idea disperata e irrazionale che lo
avrei perso, che
quella distanza mi avrebbe uccisa.
Sentii il materasso abbassarsi e
capii che si era
seduto accanto a me.
Scostai le mani dal volto, fino ad
incontrare il suo
sguardo teso e distante. Aveva la mascella serrata e le labbra strette.
«Bella»
sbottò infine «ho dannatamente paura di quello che
provi. Dannatamente paura di
perderti. Ieri mi sono sentito così impotente. È
stato così doloroso sentire
quelle emozioni attraverso Jasper, sentirti pregare di fare qualcosa
per farti stare
meglio mentre niente di ciò che facevo
funzionava!» esclamò serrando i pugni
«Ho passato tutta la notte senza staccarmi da te, con il
terrore che se ti
fossi svegliata ricominciando a piangere o non trovandomi al tuo fianco
saresti
stata così male che non avrei più potuto fare
niente per te!».
Tremai, in silenzio, fissando i
suoi occhi scuri e la
sua mascella tesa. I secondi parevano ore, sembravano non voler passare
mai.
«Mi dispiace»
mormorai infine, sull’orlo delle lacrime
«ti prego, non essere arrabbiato con me, io… non
so cos’altro fare».
Strinse le labbra, teso,
preoccupato da quello che
stava per dirmi. «Forse dovresti ricominciare a prendere gli
antidepressivi».
Presi un fiato, fremendo. Spostai
lo sguardo dal suo,
fissandomi le mani tremanti. Mi sentivo come se mi avesse appena
colpito. Come
se mi stesse dicendo che mi aveva dato un’occasione, o
più di una, ma non ne
ero stata all’altezza. O peggio, pensai, sentendo il suo
sguardo bruciare su di
me. «Non ce la fai più a starmi accanto
così?» soffiai fra le labbra, piena di
dolore.
«Bella»
sussurrò senza fiato, sconvolto dalla mia
conclusione «no, non è questo».
Mi voltai a fissarlo, deglutendo
più volte prima di
riuscire a parlare. «Nemmeno io riuscirei a starmi accanto
così. Volevo solo
farti stare meglio, lo giuro» balbettai affranta.
Chiuse gli occhi, addolorato,
stringendomi finalmente
a sé. «Scusa… scusa, scusa, perdonami
se puoi. Non avrei mai voluto che
pensassi una cosa simile. Non mi importa quanto possa essere difficile
starti
accanto, è per il dolore che provi tu che mi
preoccupo» riaprì gli occhi,
serrando con forza la mascella «perché io non posso…». Si
zittì, senza continuare. Poi prese un profondo
respiro e ricominciò. «Scusa Bella. Voglio solo
che tu e la bambina siate
felici e stiate bene».
«E anche tu»
aggiunsi io, tremante, scossa dalle sue
parole. «Non posso essere felice se non lo sei anche tu, ma
ti prego» mi feci
coraggio a dire «nemmeno a te piace l’effetto che
mi fanno gli antidepressivi.
Mi intontiscono, mi passa la fame, la voglia di fare le cose,
il...» balbettai
imbarazzata «il desiderio di te. Non mi sento più
io».
Mi carezzò la guancia
con una mano, addolorato.
Misi la mano sulla sua.
«Se pensi che sia la mia unica
possibilità lo farò. Ma se pensi che abbia anche
solo una piccola, minuscola
possibilità di farcela da sola lasciami provare, almeno una
volta. Ti prego».
Fece scontrare la fronte con la
mia, avvicinando così
i nostri respiri. «Continuerai la psicoterapia con Rosalie, e
ti farai aiutare
da Jasper?».
Presi un respiro, sollevata.
«Lo giuro».
«E mi dirai sempre quando
pensi che le emozioni stiano
per sfuggire al tuo controllo?».
«Sì Edward, te
lo prometto. Mi dispiace, non sai
quanto mi dispiace per quello che hai dovuto vivere ieri».
Scosse il capo, farfugliando
qualcosa fra sé.
«Cosa
c’è?» domandai preoccupata.
Ma lui sorrise, facendomi rilassare
lievemente.
«L’ennesima stranezza di questa gravidanza vampira.
E siamo solo all’inizio. Ho
paura di quello che ci aspetta».
«Questa volta non ha
tentato di dissanguarmi»
biascicai, rilassandomi un poco.
Ridacchiò appena,
lievemente. «No. Anzi, penso che sia
una cosa meravigliosa avere questo legame con lei» mi chiese,
posando una mano
sul ventre e accarezzandomi la pancia.
Sentii la tensione che avevo
addosso fino a qualche
istante prima scomparire man mano. «Beh, sì. In
effetti me ne devo ancora capacitare
a dire la verità. È così…
è complesso» dissi, pensando che probabilmente
anche
in quel momento le mie emozioni erano legate a quelle della bimba.
Tutto quello
che provavo, quello che sentivo, andava direttamente a contatto con le
sue
emozioni.
«Chissà
se…» mormorai poi, sistemandomi seduta a col
petto contro quello di Edward. Forse gli avrebbe fatto bene renderlo
partecipe
delle nostre emozioni. Avvicinai i nostri nasi, facendoli sfiorare
così come
tante volte lui aveva fatto con me.
«Cos’hai
intenzione di fare?» mi chiese perplesso, ma
divertito.
Posai un dito sulle sue labbra,
prima di scendere con
la bocca ad occupare il suo posto. Fu un contatto fugace, inizialmente,
poi lo
approfondii, prendendo fra i denti il labbro superiore e tirandolo
leggermente
verso l’alto.
Sentii delle emozioni felici che
non dovevano essere
le mie, ma non feci in tempo a ridacchiare che mi trovai con la schiena
schiacciata sul materasso e Edward lievemente posato su di me. Ero
contenta del
fatto che sembrava molto più sereno di prima.
Si teneva con una mano, accanto
alla mia testa, e con
l’altra mi accarezzava il viso, continuando a baciarmi.
Quando si staccò
ansimai, aggrappandomi con le braccia
alle sue spalle. «Ti voglio Edward, ti voglio così
tanto» gemetti.
Lui riprese a baciarmi, con
più impeto e forza. C’era
tanto desiderio fra di noi, e ancora non sapevo come si sarebbe potuto
esprimere e quanto avrei potuto osare, ma sapevo che lo desideravo.
«Ragazzi» fece
il vocione di Emmett, aprendo la porta.
La sua espressione mutò in succulenta meraviglia,
scoprendoci così avvinghiati.
«Ohh. Jasper e Alice mi avevano detto che avevate fatto la
pace, ma così è davvero
troppo».
Edward si spostò con le
labbra sul mio collo, non
dimostrando, però, alcuna intenzione di voler smettere.
Tentai di divincolarmi dalla sua
presa, rossa come un
peperone, ma ogni tentativo fu vano. Alla fine mi arresi. Non potevo
resistere
a quelle labbra così… fredde…
lisce… dure… sul mio collo.
«Emmett, va al
diavolo!» esclamai, gettandogli un
cuscino che acchiappò prontamente, pur scomparendo dietro la
porta.
«Allora, avete fatto
pace» insinuò Rosalie, mentre
tagliava la mia insalata.
Arrossi, gettando una rapida
occhiata a Edward,
dall’altra parte del soggiorno, in compagnia di Emmett,
Jasper e Carlisle. Lui
mi fece l’occhiolino e io arrossii ancora di più.
«Sì» mormorai infine,
imbarazzata.
«Lo sapevo! Avevo visto
tutto!» esclamò, contenta,
Alice.
Arrossii ulteriormente pensando a
tutto ciò che
potesse aver visto, o peggio, sentito…
«Su, ma non vedete che la
state mettendo in imbarazzo?
Non ti preoccupare tesoro» mi rassicurò Esme,
accarezzandomi i capelli.
Nessuno mi permise di alzarmi dalla
poltroncina su cui
ero seduta per raggiungere i ragazzi in soggiorno. Erano uno
più apprensivo
dell’altro. Ma, in fondo, gli volevo bene proprio per questo.
«Dai, dai,
basta!» risi, scalciando fra le braccia di
Edward «ormai il periodo di riposo è praticamente
finito, perché non mi
permetti di fare dieci metri?» chiesi accusandolo, mentre mi
posava sul divano.
«Edward ha ragione Bella.
Ieri è stata una giornata
molto stancante per il tuo corpo, approfittane per riposarti. Faremo
tutti i
controlli e se starai bene potrai ricominciare a fare tutto
ciò che vorrai» mi
spiegò gentilmente Carlisle.
Intrecciai le dita a quelle di
Edward, stringendomi al
suo petto e pensando a qualcosa, in particolare, che volevo fare.
«Non vedo
l’ora» mormorai, seppur imbarazzata, attenta a
farmi sentire solo da lui.
In risposta ricominciò a
baciarmi, infilando una mano
sotto alla maglietta, sulla pancia.
Qualcuno tossì,
così mi allontanai di botto,
ricordando di avere pubblico.
Emmett non perse occasione per fare
una delle sue
battute. «Carlisle, non mandarli mai più a parlare
da soli. In camera. Non ti
dico come stavano tutti…».
Edward ringhiò,
così si interruppe, fingendosi
spaventato.
«Scusate»
biascicai, abbassando lo sguardo e
concentrandomi sul cibo. Edward, al contrario, sedeva sicuro di
sé al mio
fianco niente affatto imbarazzato. Ogni tanto gli lanciavo, per
sicurezza,
un’occhiata, ma del suo malumore sembrava non esserci
più traccia. Sorrideva,
tenendomi stretta a sé con un braccio, baciandomi il capo
ogni tanto.
Intanto Carlisle, Rosalie e Jasper,
continuavano,
entusiasmati, a dibattere sulla grande scoperta che avevano fatto. Era
una cosa
unica secondo loro, tuttavia non riuscii a seguire la maggior parte del
discorso.
Sentii la mano di Edward insinuarsi
ancora una volta
sotto la maglietta, sulla pancia. Rabbrividii, sentendo una strana
emozione
nascere in me. Posai la mano sul suo braccio, scossa.
«Tutto bene?»
mi chiese lui.
Annuii lentamente.
«Sì. Sì. Credo che alla bambina
piaccia particolarmente».
Notai che tutti si erano voltati
verso di me,
osservandoci silenziosi.
«Ti era già
capitato di sentire le sue emozioni?» mi
chiese Carlisle, interessato.
«Sì,
io… beh, pensavo che fossero mie, non ci avevo
mai fatto così caso».
«E istinti?».
Sgranai gli occhi, imbarazzata. Sì, un morboso attaccamento a Edward. Ma
non so quanta colpa possa dare
alla bambina, perdonami. Anche perché non credo che lei
voglia fare “certe
cose” con il padre… Avrei dovuto
rispondere così? «Io… non
so».
Sorrise, captando il mio imbarazzo.
«Va bene».
Mentre il disagio scemava, lo
sentii tornare indietro.
«Accidenti» mormorai accarezzandomi la pancia. La
bambina si stava divertendo a
farmi quello?
Jasper rise, capendo ciò
che stava accadendo,
profondamente esaltato. «È stupendo. La bambina
sente quello che sente Bella e
ogni tanto le rimanda indietro le emozioni che non riesce a comprendere
o che
lei scaccia via troppo in fretta. Stupendo. Siete come una mescolanza
di
sensazioni. Davvero stupendo. Mi chiedevo» aggiunse,
fissandomi con interesse e
curiosità «potrei provare una cosa?».
«Jasper» lo
richiamò Edward.
Cosa voleva provare?
Si bloccò e per un
attimo l’euforia scemò dal suo
viso. «Oh, io ne userei pochissimo. Ma se tu non
vuoi» fece lui.
«Cosa?» chiesi
disorientata.
Jasper lanciò prima
un’occhiata al fratello, poi mi
spiegò. «Mi chiedevo quanto riuscissi ad
influenzarti usando il mio potere
sulla bambina anziché su di te. Ieri appena l’ho
calmata sei stata sopraffatta
dall’effetto dei farmaci. Quindi volevo provare. Ma, se non
vuoi…».
«Ma sì,
certo» risposi, fissando prima lui e poi
Edward. «Davvero, si può fare, non mi costa
nulla».
Lui mi fissò titubante,
poi acconsentì. «Va bene».
Jasper posò una mano
sulla pancia, facendomi rivivere la
sensazione di brivido provata qualche minuto prima. Dopo pochi secondi,
però,
giunse anche una sensazione di delizioso torpore.
Per pochi istanti credetti di
addormentarmi, ma poi
svanì come era venuta, lasciandomi intontita.
«Bella?» mi
chiamò Edward, che non aveva mai
abbandonato il mio fianco.
«Sto bene»
dissi, riscuotendomi. «Ha funzionato».
Sorrisi.
«Bene, sono contento. Ci
lavoreremo. Dovrai imparare a
non farti sopraffare da ciò che prova la bambina. Quando
scacci le sue
emozioni, fallo con lentezza, e se vai nel panico quando le senti ti
rendi solo
più vulnerabile».
Sospirai, sconsolata, stringendomi
nell’abbraccio con
mio marito. «Ma con il tempo le sue emozioni non saranno
sempre più forti? Come
farò?».
Jasper mi sorrise, come se non
aspettasse altro che
quella domanda. «Sì, se ora le vostre emozioni
sono un miscuglio più o meno
mischiato, con il tempo lei acquisirà sempre più
spazio e sempre più identità
personale. Contemporaneamente, però, devo presupporre che la
superficie di
contatto diminuirà moltissimo. Quindi è vero,
questi “scambi” saranno più
forti, ma anche più decisi e determinati e in minore
quantità».
Carlisle aggiunse
«Nonché, forse, regolati
razionalmente dalla bambina».
Rabbrividì, ancora.
Notai la mano di Edward sulla mia
pancia e le diedi un leggero schiaffetto. «Sta buono o questa
birbante non mi
lascerà in pace» lo richiamai.
Edward si avvicinò al
mio viso, posando il naso,
ghiacciato, sul mio collo.
Sentii il mio cuore battere a ritmo
sostenuto.
«Il birbante sono
io» sussurrò malizioso, divertendosi
del rossore che mi imporporava le guance.