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Autore: Dark Magician    17/01/2010    1 recensioni
Seconda classificata pari merito al contest "Due Parole [III edizione del Contest *Magical Tales*]" di niobe88.
Aaron è un comune adolescente, Till un novizio che attende di diventare Sacerdote della Trinità. È il caso a farli incontrare ed il ricordo che Aaron ha del fratello Zane – scelto da bambino per diventare Sacerdote – ad avvicinarli.
“«Till, tesoro mio…» la donna sorrise e gli carezzò i capelli «È appunto perché lo ami che devi farlo.[…]”
Genere: Romantico, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti xD no, non sono morta, non ancora… so che è tantissimo che non pubblico un nuovo capitolo di TEWoM, per questo ora vi allieterò con altro xD

Salve a tutti xD no, non sono morta, non ancora… so che è tantissimo che non pubblico un nuovo capitolo di TEWoM, per questo ora vi allieterò con altro xD

Ho scritto queste trenta pagine di fic per un concorso (e sono arrivata seconda pari merito, uhuh ^w^) in un impeto di masochismo. È divisa in tre parti, ne posterò una a settimana.

Per chi stesse leggendo TEWoM… è spoiler. Molto. Troppo. Pur essendo ambientata in un altro mondo xD

Ma dato che TEWoM di ‘sto passo non la finirò mai e questa storiella è caruccia… ecco a voi.

E speriamo che il Caos non me ne voglia xD

 

~PARTE I~

 

«Batuffolo sta male».

Il bambino allungò le dita paffute fra le sbarre delle gabbietta, sfiorando il pelo bianco e morbido del coniglio.

Il corpicino rotondo scosso da spasmi, Batuffolo non diede segno d’aver percepito il contatto.

«Batuffolo sta male», ripeté il bambino «Mamma, perché fa così?».

«Dopo lo portiamo dal dottore, Till», lo rassicurò la donna, passandogli una mano fra i capelli scuri «Vieni, siamo in ritardo».

Till girò attorno al tavolino su cui stava la gabbietta, in modo da poter fissare gli occhi rossi di Batuffolo. Erano chiusi.

«Non avere paura», rassicurò il coniglio «Torno fra poco».

Batuffolo continuò a tremare.

 

Batuffolo tremò tutto il giorno successivo, e tremava ancora quando il veterinario lo esaminò.

Tremava fra le braccia di Till, la sera dopo la visita, e il bambino lo confortava con carezze impacciate.

Sua madre lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul divano.

«Mamma» la voce di Till tremò «Perché Batuffolo non guarisce?».

«Tesoro mio…».

La donna lo abbracciò con delicatezza, e con l’altra mano carezzò il coniglio.

«Batuffolo sta male, tanto male».

«Ma ci sono le medicine».

«Sta troppo male per guarire, tesoro mio. E soffre molto».

Till sollevò di scatto la testa, puntando le iridi color pece in quelle scure della madre.

«No!», esclamò «Le medicine funzionano sempre!».

«In questo caso no, piccolo mio. L’unica cosa-».

«E se prego la Trinità di guarire Batuffolo?», la interruppe, tornando a fissare il coniglio.

«La Trinità è troppo impegnata a proteggerci tutti. Non ha tempo per curare gli animali».

La donna baciò la fronte del bambino e gli alzò delicatamente il capo, in modo da vederlo in viso.

«L’unica cosa che possiamo fare per Batuffolo… è far sì che non soffra più così tanto».

«E come?».

«Il dottore gli farà una piccola puntura e Batuffolo si… addormenterà per sempre. Vedrai come sarà felice nello Heva dei conigli!».

«Ma io non voglio!», strillò Till, gli occhi pieni di lacrime «Io gli voglio bene! Non voglio che muoia!».

«Till, tesoro mio…» la donna sorrise e gli carezzò i capelli «È appunto perché lo ami che devi farlo. Non vuoi che stia male, no?».

«No che non voglio! Però…».

Till tirò su col naso ed osservò il coniglio.

«È il regalo migliore che puoi fargli. Davvero».

«Devo ucciderlo perché lo amo», borbottò Till, confuso «Mi sembra così strano, mamma».

La donna non rispose. Si limitò a baciargli una guancia.

 

Aaron odiava la linea autobus 6b. Oltre a lasciarlo a più di mezzo chilometro da scuola – mezzo chilometro terribile per il suo ginocchio destro – lo costringeva ad un percorso obbligato.

Doveva passare davanti all’Achre, e lui odiava l’Achre.

Al di là dell’alto muro di cinta, l’imponente edificio cubico svettava contro il cielo grigio, silenzioso.

Aaron alzò lo sguardo verso le piccole finestre del lato posteriore, cercando di scorgere un qualche movimento, ma non vide assolutamente niente.

Rabbrividì, e sollevò il colletto della felpa a coprirsi il mento.

Tutta quella immobilità era inquietante. Non si avvertiva nemmeno un uccellino, nonostante l’edifico fosse circondato da un vasto giardino.

«Chissà come sta Zane», borbottò, ed avvertì un brivido freddo percorrergli la colonna vertebrale.

Odiava l’Achre perché bastava la sua vista a riportargli in mente suo fratello, nonostante tutti gli sforzi che faceva per non pensare a lui.

Riprese a camminare a passo spedito, ma non aveva percorso che quattro o cinque metri quando il ginocchio gli cedette.

Cadde sull’asfalto con un gemito, e rimase a terra per un paio di minuti.

«Ginocchio di merda!», sbottò. Ora era costretto ad aspettare che il dolore gli passasse.

Sarebbe arrivato in ritardo, sicuro.

«Schiacci un pisolino?», chiese una voce acuta sopra di lui, e Aaron alzò gli occhi azzurri verso la sommità del muro. Le iridi nere di un ragazzo dai capelli bianchi ricambiarono lo sguardo.

Aaron si sentì immediatamente di malumore.

Capelli bianchi, quindi Sacerdote della Trinità.

L’altro motivo per cui odiava l’Achre era perché odiava i Sacerdoti e loro vivevano lì.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua?», chiese ancora il ragazzo, dopo qualche secondo di silenzio.

Aaron lo fulminò con lo sguardo. Il ginocchio gli doleva ancora, ma piuttosto che stare in presenza di un Sacerdote si sforzò di rimettersi in piedi. Provò allora un passo, ma il dolore che avvertì poggiando il piede fu tanto intenso da mozzargli il respiro e costringerlo a sostenersi al muro.

Il muro. Doveva essere alto tre, forse quattro metri.

Alzò lo sguardo di scatto, verso il ragazzo che lo fissava incuriosito.

«Sei su una scala?», gli chiese, e questi rise e scosse la testa.

«Magiiia», aggiunse, e gli rivolse un sorriso enigmatico «Come ti chiami?».

«Non si dà confidenza agli estranei».

«Carino. E il cognome?».

«Ma che spiritoso…», sbuffò Aaron. Si lasciò scivolare a terra e massaggiò il ginocchio dolorante.

«Aaron Reid», gli rispose «Tu, invece?».

«Non si dà confidenza agli estranei!», ribatté il ragazzo, e rise di nuovo «Scherzo. Mi chiamo Till».

«Dimmi una cosa, Till. Conosci un ragazzo di nome Zane Reid? Dovrebbe avere… diciannove anni, ora».

«È un tuo parente?».

«Mio fratello».

Till ci pensò su qualche istante.

«No, mai sentito».

 

«Ciao».

Till volse lo sguardo verso il bambino che sedeva accanto a lui, nella piccola stanza azzurrina.

«Parli con me?», gli chiese, e lui annuì.

Aveva folti capelli castani appena mossi e occhi color del mare, e Till decise che quel bambino gli piaceva.

Gli altri bambini presenti – almeno una trentina – facevano un gran chiasso, e dovette alzare la voce per farsi sentire.

«Ciao! Tu chi sei?».

«Mi chiamo Zane. Tu?».

«Till», rispose, ed allungò una manina. Zane gliela strinse e gli sorrise.

 

«Peccato», borbottò Aaron. Si passò una mano fra i capelli color pece e chiuse gli occhi, tentando di rilassarsi.

Erano anni che non sentiva Zane. Continuava a sperare che fosse vivo e in salute, ma non ne avrebbe mai avuta la certezza.

I Sacerdoti non lasciavano trapelare informazioni, mai. Nemmeno ai familiari.

«Posso provare a chiedere in giro, se ti va», disse Till «Anche se sono solo un novizio, non mi dicono mai molto».

Aaron lo ringraziò con un gesto del capo, e rimasero entrambi in silenzio per diversi minuti.

«Dove vai di bello?», gli chiese infine Till, issandosi sul muretto e sedendovisi sopra «Scuola?».

«In teoria. Stupido ginocchio».

«Hai già fatto colazione?».

Aaron alzò lo sguardo, perplesso «Non ancora. Perché?».

«C’è una caffetteria carina, dietro l’angolo. Ti va di farmi compagnia? Offro io».

Prima che gli giungesse una risposta, Till batté una mano sul lato esterno del muro. Al suo tocco comparvero delle sporgenze, come degli scalini, e le sfruttò per scendere.

«Credevo che voi Sacerdoti poteste abbandonare l’Achre solo per le funzioni religiose e le emergenze», osservò Aaron, e Till gli sorrise candidamente.

«La mensa dei novizi fa schifo. Questa è un’emergenza», gli rispose, coprendosi i capelli col cappuccio della felpa grigia che indossava.

Ora che lo vedeva da vicino, Aaron poté constatare che Till aveva tratti insoliti. Insolitamente androgini, come un po’ tutti i Sacerdoti. Sua sorella l’avrebbe trovato bello, forse.

«Allora? Vieni con me o giochi al barbone ancora un po’?».

«Perché no?», sorrise Aaron, e si alzò in piedi.

Il ginocchio gli faceva ora un po’ meno male.

 

«Che hai fatto alla gamba?», gli chiese Till non appena si furono seduti ad un tavolino in un angolo ed ebbero ordinato.

L’interno della caffetteria era deliziosamente caldo ed accogliente; Aaron si sentì confortato.

«Mi sono rotto il ginocchio», gli rispose, scrollando le spalle «Due anni fa. Un incidente. Quando il tempo è brutto mi fa male».

«Capisco», annuì Till. Incrociò le dita sotto al mento e gli sorrise.

Aaron distolse lo sguardo, imbarazzato.

«Ma dimmi qualcosa su di te», disse, cercando di sciogliere la tensione che avvertiva «Da quant’è che vivi nell’Achre? Quanto ti manca per diventare Sacerdote?».

«Faccio i vent’anni fra qualche mese», rispose Till, alzando gli occhi a fissare il soffitto, e Aaron pensò che vent’anni non li dimostrava.

E che anche Zane avrebbe compiuto vent’anni nel giro di un paio di mesi.

«E sono entrato nei novizi aaa… sette anni, mi pare».

«Anche Zane», borbottò Aaron perplesso «Sei sicuro di non conoscerlo?».

Till annuì «Sono l’unico della mia età. Magari l’hanno trasferito in un’altra città».

 

«Ti manca la tua famiglia?», gli chiese Zane, rivolgendogli un sorriso dolce.

«Mamma non era tanto triste», rispose Till, e lanciò uno sguardo cupido al peluche a forma di gatto che l’altro bambino stringeva tra le braccia «Quando papà è andato via è diventata strana. Mi manca la mamma di prima».

«Oh», borbottò Zane. Come sentendosi in colpa, si grattò la testa e gli porse l’animale di pezza «Tieni. Tanto io sono grande per questi».

Till lo ringraziò con un sorriso luminoso «Quanti anni hai?».

«Sette».

«Anch’io».

Si voltarono entrambi ad osservare gli altri bambini, intenti a rincorrersi o a chiacchierare.

 

«Mi spiace», disse Till, e rivolse ad Aaron un sorriso gentile.

 

«E a te manca la tua famiglia?».

«Mamma e papà sì. Mio fratello e mia sorella per niente, piangevano tutto il tempo! Mio fratello, in particolare, che scatole mi faceva sempre! Voleva giocare con me ma ogni volta si faceva male!».

«Dev’essere bello avere dei fratelli», commentò Till, ma Zane dissentì scuotendo la testa.

«Non quanto credi».

 

Aaron scrollò le spalle «Non importa».

In quel momento arrivò la cameriera, che posò sul tavolo due tazze di the ed una brioche. Till afferrò la pasta e cominciò a mangiarla a piccoli morsi.

«Come mai mi hai offerto la colazione?», chiese Aaron, soffiando sul the per raffreddarlo.

Till si leccò le dita sporche di marmellata e gli sorrise.

«Così», disse, facendo spallucce «Mi piace parlare con qualcuno della mia età, di tanto in tanto. Il più vecchio fra i novizi ha undici anni, e i Sacerdoti vivono in un’altra ala» scosse la testa «È una noia».

Bevvero poi le loro bevande, in silenzio.

Aaron finse di concentrarsi sul the, ma in realtà di tanto in tanto lanciava qualche occhiata all’altro ragazzo.

Poter parlare con un Sacerdote – o, per lo meno, con qualcuno destinato a diventarlo a breve – era un’occasione unica, visto che i loro rapporti col mondo esterno erano ridotti al minimo.

Sarebbe stato un peccato sprecarla, chissà quando gli sarebbe ricapita–

«Facciamo così», disse improvvisamente Till, interrompendo i suoi pensieri «Se il ginocchio non ti fa male, fai questa strada anche domani. E il giorno dopo, se non mi vedi, c’è il caso che mi mettano in punizione. Io mi informerò su tuo fratello, va bene?».

Il viso di Aaron si illuminò «Sarebbe… perfetto».

«Così possiamo chiacchierare ancora».

Till gli sorrise dolcemente, e si cacciò in bocca lo spicchio di limone che giaceva sul fondo della tazza. Posò poi i soldi sul tavolo e si alzò in piedi.

«È stato un piacere conoscerti, Aaron Reid», lo salutò, e si avviò fuori dal locale.

Aaron rimase seduto ancora qualche istante, a riflettere.

Che botta di culo stratosferica, pensò, ma gli sovvenne poi che un colpo di fortuna ogni tanto lo si poteva anche avere.

 

«Cosa leggi?».

Zane alzò lo sguardo dal libro che teneva poggiato sulle ginocchia «Un mito. Vuoi leggere anche tu?».

Till lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul tappeto al centro della camera di Zane.

Osservò le pagine per qualche secondo, poi scosse la testa. Non c’erano libri per bimbi, all’interno dell’Achre, e tutte quelle parole gli sembravano molto complicate.

«Faccio fatica», pigolò, ma Zane, invece di deriderlo come si aspettava, gli sorrise e mise il libro in mezzo.

«Allora segui il mio dito, leggo anche per te».

Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, poi indicò con l’indice un punto in mezzo alla pagina e cominciò: «“Per tre giorni e tre notti, senza concedersi riposo, Mahadev, la Vista, girò il mondo alla ricerca del Caos. I suoi occhi erano migliori di quelli del più acuto dei falchi, eppure Esso continuava a sfuggirgli. E Mahadev, la Vista, si sentiva sempre più stanco, e sempre più stanco avanzava per il mondo. Finché, all’alba del quarto giorno, sua sorella Izdihaar, la Mente, ebbe compassione di lui e lo soccorse. Ripresero il cammino uniti, e passarono altre tre notti ed altri tre giorni”».

«Aspetta!», lo interruppe Till, illuminandosi «Ho capito! È quello di cui ha parlato il maestro di dottrina l’altro giorno, vero? Quello in cui il Caos uccide tutti gli Dei ma poi la Trinità lo ferma e lo caccia dal mondo?».

Zane annuì «Era una delle storie preferite da mio fratello. Ormai la so a memoria. Vuoi sentire la parte che mi piace di più?».

«Qual è?».

Zane scorse velocemente le pagine, finché non trovò quella che cercava «Eccola! È quando il Caos si mostra alla Trinità. In genere a questo punto mio fratello si metteva a piangere».

«“Quando ritrasse la spada, Chlomo, lo Spirito, nonostante il coraggio fosse il suo miglior pregio, non poté che tremare come una foglia scossa dal vento. L’armatura di tenebra del Caos si crepò, frantumò ed infine dissolse, cadendo al suolo come sabbia scura. E finalmente il Caos si rivelò nel suo essere, e gli occhi di Mahadev, la Vista, rimasero abbagliati, e la ragione di Izdihaar, la Mente, si oscurò, e la forza di Chlomo, lo Spirito, si affievolì.

Il Caos sorrise, e i suoi denti aguzzi come lame scintillarono sotto il sole. La sua carnagione era chiara, come se mai avesse visto la luce, simile quasi a quella dei morti, e i suoi occhi due orbite vuote, dentro cui potevano scorgersi i segreti del Tutto.

Ma i suoi capelli, i suoi capelli! Fili di seta del colore del cielo”».

«Del colore del cielo…», ripeté Till, assaporando lentamente le parole «Ma del cielo con il bel tempo o con le nuvole?».

Zane scoppiò a ridere.

«Bel tempo, credo».

«Non capisco perché fa un giro di parole così per dire solo che ha i capelli azzurri», osservò Till crucciato, e Zane rise di nuovo.

Capelli azzurri… certo che dovevano essere belli.

Osservò i capelli di Zane. All’inizio credevano entrambi che le esposizioni al Potere della Trinità non avessero effetto, ma dopo un anno potevano scorgere i primi cambiamenti fisici.

I loro capelli stavano lentamente diventando bianchi, come il pelo di Batuffolo.

 

«Lo sai che il Caos ha i capelli azzurri?».

Aaron alzò lo sguardo verso Till, disteso sul muro dell’Achre con un braccio a penzoloni.

«Cosa c’entra?».

Till si strinse nelle spalle «Niente, era per fare conversazione».

Si issò a sedere e si voltò verso l’altro, che lo osservava perplesso.

«Com’è andata la scuola, ieri?».

«Benissimo. Tu ti sei fatto beccare?».

«Può darsi, ma me le fanno sempre passare», rispose Till con sufficienza. Si guardò poi attorno e qualcosa parve disturbarlo, perché sul suo volto comparve un’espressione crucciata.

«Dato che potrebbe vederci qualcuno, facciamo così. A che ora esci da scuola?».

«Alle due».

«Benissimo. Torna qui, così ti faccio entrare e chiacchieriamo con tutta calma, ok?».

«Ma io non voglio entrare nell’Achre!», esclamò Aaron sgranando gli occhi «Questo posto mi fa schifo! E mi fate schifo pure voi Sacerdoti».

«Quanto sei prevenuto», borbottò Till, poi gli sorrise.

Aaron sentì cedere parte delle proprie convinzioni, davanti a quel sorriso. Era tanto ingenuo, dolce, delicato…

A me non piacciono i maschi, osservò mentalmente, e questa constatazione lo riscosse.

«Ho informazioni su Zane», disse Till, e scomparve dietro il muro con uno scatto fulmineo.

Impietrito, Aaron non riuscì neanche ad offenderlo.

 

Till aprì la porta della propria stanza lentamente e mise fuori la testa, circospetto.

Il lungo corridoio era vuoto e silenzioso, illuminato solo dalla debole luce della luna che entrava dalla finestrella in fondo. Insomma, non vedeva niente.

Si lanciò qualche altra occhiata attorno, poi uscì e richiuse attentamente la porta. Camminando rasente il muro, lasciò scivolare la mano all’altezza delle maniglie e alla quarta si fermò.

Aprì allora la porta con delicatezza e si intrufolò nella stanza.

«Zane?», squittì, stringendo le braccine al petto.

Avrebbe voluto un peluche, da abbracciare, ma non era loro permesso avere giocattoli.

Raggiunse velocemente il letto di Zane e vi si affiancò, mentre lui si tirava su a sedere e si stropicciava gli occhi.

«Ho paura», disse Till, gli occhi pieni di lacrime. Zane gli sorrise e gli fece posto, invitandolo sotto le coperte.

«Come fai ad essere così rilassato, tu?».

Zane tirò su il piumone in modo da coprirli entrambi.

«Non lo sono», gli rispose, lasciando scappare una risatina nervosa «È che cerco di non pensarci».

«Io non voglio fare l’operazione!», piagnucolò Till. Si strofinò un braccio sugli occhi bagnati ed aggiunse: «Non voglio, è una brutta cosa!».

«Non preoccuparti troppo», tentò di rassicurarlo Zane «Tocca a tutti. Non sentirai niente».

Gli passò un braccio attorno alla vita e lo trasse a sé.

«Io non smetterò certo di volerti bene».

«Nemmeno io!», si affrettò a precisare Till. Si accoccolò poi contro di lui e lo abbracciò, ed immediatamente si sentì confortato.

Non c’era nulla che doveva spaventarlo. Zane ci sarebbe stato sempre.

«Non lasciarmi mai», lo implorò, sollevando il capo per fissarlo negli occhi.

Zane gli sorrise.

«Non lo farò finché non sarai tu a lasciarmi».

 

La matita scivolò di mano ad Aaron, rotolando sotto la sedia della sua compagna di banco.

Quando suo fratello era stato scelto per diventare Sacerdote lui aveva solo cinque anni, quindi non lo ricordava molto bene, ma c’erano tre cose di Zane che non aveva dimenticato: che amava il personaggio del Caos, nei miti della Trinità, che adorava un po’ troppo i peluche e che aveva un modo tutto suo di sorridere – e sorrideva pure un sacco.

Ecco, all’improvviso gli era venuto spontaneo sovrapporre i sorrisi di suo fratello a quelli di Till.

Si chinò a raccogliere la matita e si premurò pure di lanciare una lunga occhiata al sedere della compagna di banco, lasciato semiscoperto dai jeans a vita bassa.

No, decisamente i maschi non mi piacciono.

I sorrisi di Till gli ricordavano quelli di Zane, ecco perché lo scioglievano.

Sospirò sollevato.

Ora aveva tutto un senso!

 

«Till?».

«Dimmi».

«Hai visto che qui non c’è neanche una bambina?».

Till aprì gli occhi, e si ritrovò a fissare quelli azzurri di Zane. La luce era sì poca, ma bastava per illuminarli.

«Credi sia per via dell’operazione?».

Zane si strinse nelle spalle «Forse. Non ti rattrista pensare che non avrai mai una fidanzatina?».

«E che me ne faccio?», sbottò Till serio «Le donne fanno solo guai. Finché siamo solo io e te è meglio. E poi…».

Fece una breve pausa, tornando a chiudere gli occhi.

«Io voglio stare con te. Ti ho mai detto che avevo un coniglio che si chiamava Batuffolo?».

«Sì», rispose Zane, con un tono di voce insolitamente basso «Ma raccontamelo di nuovo, mi piace la storia del tuo coniglio».

E gli posò un lieve bacio sulla fronte.

 

«Io non voglio entrare», si oppose debolmente Aaron.

Till aveva già fatto apparire gli scalini e lo fissava con aria ingenua, dall’alto del muro.

«Non voglio».

«Quanti anni hai, cinque?», borbottò il novizio «Fa come ti pare. O entri o non ti dico niente», e scomparve dal campo visivo di Aaron.

Il ragazzo sospirò.

«Che palle, non vale», sbottò, e s’arrampicò. Dall’altra parte del muro trovò una scala a pioli.

«Ma allora ce l’avevi sul serio la scala!».

Till, seduto a terra con la schiena contro i mattoni, gli rivolse un sorriso divertito.

 

«Cosa stai scrivendo?», chiese Till, sbirciando da sopra la spalla di Zane. Tentò per qualche secondo di decifrare l’orribile grafia dell’amico, ma non riuscì a cogliere che qualche parola qua e là «Certo che scrivi proprio da schifo, eh».

Zane gli fece una linguaccia. Si guardò poi attorno, scrutando il resto della biblioteca, e Till lo imitò.

«Non c’è nessuno», lo rassicurò «Cosa scrivi?».

«Una lettera».

Till inarcò un sopracciglio, perplesso «Ma non ce le fanno spedire».

«Troverò un modo per farla uscire da qui», replicò Zane, e si strinse nelle spalle.

 

Aaron scese velocemente i pioli, lanciandosi attorno qualche occhiata furtiva.

Il giardino che circondava l’Achre non era poi così grande come sembrava da fuori.

«Cazzo, se mi beccano qua dentro mi arrestano!», sbottò, ma Till gli fece segno di sedersi accanto a lui.

«Non esce mai nessuno, non preoccuparti. E poi, al massimo...».

Gli rivolse un sorriso fra il malizioso e il divertito, ma Aaron lo trovò agghiacciante.

Ci sta provando. Ci sta provando veramente.

«Non mi piacciono i maschi», si sentì in dovere di puntualizzare, e Till rise.

«Perché ridi?».

«Perché il problema non sussiste».

Sollevato, Aaron si diede mentalmente dello stupido. Non doveva esagerare, se Till non aveva mai a che fare con suoi coetanei era logico che si comportasse in maniera strana.

Era logico, sì.

Logicissimo.

«Bene, ora dimmi ciò che hai scoperto che me ne vado», disse, dopo essersi auto-convinto che era tutto normale e razionale «Questo posto mi fa venire la pelle d’oca».

E pure tu, aggiunse mentalmente, ma preferì tacere.

Till raccolse le ginocchia al petto e tacque qualche istante, prima di parlare.

«Ho sbirciato negli archivi», disse, fissando l’erba che cominciava a rinverdire «Ho trovato qualche traccia di un certo Zane, ma ignoro se si tratti di tuo fratello o meno. E comunque... tutte le notizie si interrompono all’incirca sette anni fa».

«Sette anni fa? Significa che è-».

«Morto?», lo precedette Till «Non ne ho idea. È possibile che lo abbiano trasferito. Qui nell’Achre di Meena c’è un tale via vai di persone...! Magari si trova in una delle province qui accanto».

Aaron scosse la testa. Non sapeva che fare, se sperare che il fratello fosse vivo o accettare che probabilmente era morto.

Quel che era certo era che non l’avrebbe più rivisto.

«Ma com’è possibile che tu non l’abbia mai conosciuto? Ne sei sicuro?».

Till si strinse nelle spalle «Magari l’ho dimenticato».

 

Zane aprì con le forbici la copertina di tessuto ruvido del libro su uno dei bordi, vi infilò dentro la lettera e poi richiuse il taglio con la colla.

Till osservò attentamente l’operazione seduto sul letto dell’amico, sul viso un misto fra eccitazione e scetticismo.

«Non funzionerà», gli disse, scuotendo la testa.

«Io dico di sì», replicò Zane. Attese qualche istante e rimise al libro la sovraccoperta «Ecco! Ti sfido a notare la differenza!».

«E ora? Come la farai avere alla tua famiglia?».

«Ci penserò. Intanto sono sicuro che anche se ci faranno il lavaggio del cervello non dimenticheremo niente».

Till sospirò «Di certo l’operazione non rischiamo di dimenticarla».

Zane poggiò il libro sulla scrivania e raggiunse l’amico sul letto, sedendoglisi accanto.

«Mancano venti mesi alla Prima Cerimonia», disse con un tono di voce più basso del solito. Till ormai aveva imparato ad interpretarlo, significava che Zane era vicino al pianto.

«Sono tanti».

Zane sorrise e gli accarezzò i capelli «Passeranno anche troppo in fretta. E se poi...».

Lasciò cadere la frase, e Till non volle concludere il discorso. Era meglio così, non pensarci.

«Till?».

«Mh?».

Si fissarono qualche istante negli occhi, finché Zane non distolse lo sguardo e saltò giù dal letto.

«Non importa. Accompagnami in biblioteca».

 

«C’è altro?», chiese Aaron, impaziente di andarsene da lì «Rischio di perdere l’autobus».

«No», sospirò Till. Sembrava quasi dispiaciuto.

«Bene, allora vado. Mi fai riapparire i gradini?».

Till batté una mano sul muretto, e Aaron risalì la scala a pioli. Giunto in cima rimase fermo qualche secondo, saggiando le condizioni del ginocchio. Se gli avesse ceduto mentre scendeva per quegli strani gradini…

Mentre rifletteva, un gatto dal pelo bianchissimo gli si avvicinò e lo salutò con un miagolio.

«Ciao, micio», disse Aaron, e rispose al saluto del felino con una grattatina sulla testa. Si voltò poi verso Till, ed aggiunse: «Senti, grazie per quel poco che hai scoperto. Non è tanto, maa… meglio di niente».

«Figurati».

Aaron fece al gatto un’altra carezza, poi scese. Appena i suoi piedi ebbero toccato terra, notò che Till era tornato sul muretto.

Per guardarlo?

Perché mi guarda?

«Allora, ehm… ciao».

Mosse un passo, ma la voce chiara di Till lo richiamò.

«Aaron?».

Il ragazzo si voltò «Sì?».

«Perché non passi di qui anche nei prossimi giorni? Potremmo… fare due chiacchiere».

Aaron rimase in silenzio, non riuscendo a capire se Till ci stesse provando sul serio o si sentisse soltanto molto solo.

Lo scrutò per qualche secondo e decise che sì, doveva essere la seconda. E doveva smettere di farsi trip mentali inutili.

Till non ci stava provando. No.

«Fra quanti mesi diventerai sacerdote?», gli chiese, e l’altro alzò cinque dita.

Allora Aaron sorrise e si strinse nelle spalle «Beh, perché no? Ci vediamo, allora. Ciao, micio».

Lo salutò con un gesto della mano e si allontanò.

Che palle, sono troppo buono, pensò mentre voltava l’angolo, Dovrei farmi dare lezioni di stronzaggine da mia sorella.

 

«“Perché non passi nei prossimi giorni”?», ripeté il gatto, emettendo poi un suono simile ad una risata sommessa.

Till si voltò verso l’animale, sgranando gli occhi.

«Till, Till» con eleganza, il felino si leccò placido una zampa e se la passò sul musetto. Aprì poi gli occhietti e fissò le iridi grigie in quelle color pece del ragazzo «Ma che combini?».

Till corrucciò la fronte e distolse lo sguardo, senza rispondere.

 

La porta si aprì senza il minimo rumore, e Till scivolò silenzioso nella stanza.

Seduto alla scrivania, l’ingresso alle spalle, Zane canticchiava fra sé e sé a mezza voce; o ciò su cui stava pastrocchiando – aveva una scatola di pastelli a portata di mano – lo distraeva o Till era diventato più abile nel non farsi sentire, non si accorse della presenza dell’amico finché questi non gli coprì gli occhi con le mani.

«Buh!».

«Till!», esclamò Zane. Si liberò dalla presa e si voltò verso l’altro, avvampando «Che… che ci fai qui?».

«Il maestro di matematica è caduto e si è rotto una gamba, quindi niente ripetizioni oggi. Che fai di bello?».

«Niente!», strillò Zane, e si affrettò ad infilare i fogli in un cassetto «Niente, niente!».

Till lo squadrò, perplesso dalla reazione.

«Stai male? Che disegnavi?», gli chiese, e tentò di aprire il cassetto. Con sua grande sorpresa, Zane glielo impedì.

«Cosa fai?», sbottò Till, infastidito dal gesto «Non devono esserci segreti fra noi, no?».

«Sì, però», tentò di ribattere Zane, ma l’altro lo ignorò.

Tirò allora fuori un pacco di fogli disegnati – o meglio scarabocchiati – e lanciò all’amico un’occhiata interrogativa.

«Cosa non dovevo vedere?», gli chiese «Questo di te e tuo fratello che giocate a palla?».

Ridacchiò e passò a quello dopo.

Rappresentava due bambini dai capelli a chiazze che si tenevano per mano.

«Questi siamo noi, direi», disse divertito lanciando uno sguardo alla capigliatura di Zane, ormai castana a ciocche bianche. Si soffiò via un ciuffo di capelli dagli occhi e passò al disegno successivo.

Zane si coprì gli occhi con una mano.

«Questo…» Till avvertì lo stomaco fargli una capriola ed alzò gli occhi verso l’amico «Siamo sempre io e te?».

Mentre gliela porgeva, non poté che sentirsi disgustato dall’inutilità di quella domanda. Certo che erano loro, con capelli simili.

Tornò a fissare il piccolo Zane del disegno, che dava un bacetto al piccolo Till. Ma non un bacio sulla fronte o sulle guance, come quelli che gli dava la mattina per salutarlo o la sera per augurargli la buonanotte; era un bacio sulle labbra, di quelli che si danno i grandi.

Till rimase in silenzio, la mente che saltava da un pensiero sconnesso all’altro ed una strana sensazione allo stomaco.

Gli sembrava quasi una di quelle storie che leggeva prima di addormentarsi.

Sorrise, ed osservò Zane di sottecchi. Ancora si copriva la faccia, paonazzo.

«Zane», lo chiamò, calibrando attentamente il tono della voce in modo da essere il più neutrale possibile «C’è mica qualcosa che devi dirmi?».

E quando vide che Zane lo fissava, fra le fessure delle dita, distese le labbra in un sorriso fra il dolce ed il malizioso che non credeva avrebbe mai potuto fare.

 

«Mamma» Aaron poggiò i piatti di ceramica sul tavolo ed alzò lo sguardo verso la madre, in piedi ai fornelli «Secondo te Zane come sta?».

Le esili spalle della donna ebbero un fremito.

«Che domande mi fai, tesoro?», borbottò senza voltarsi «Non c’è gioia maggiore che servire la Trinità».

«Ma secondo te è felice?», chiese ancora Aaron.

«Ovviamente».

Perplesso, il ragazzo aggrottò le sopracciglia.

 

«“Il Caos distese le labbra violacee in un sorriso gelido come l’inverno, e mai paragone fu più appropriato, poiché l’intera sua figura richiamava il freddo ed il gelo. E Mahadev, la Vista, stesso avvertì il freddo invadergli l’intero corpo, e le gambe gli impedirono di muoversi”.»

Zane voltò pagina ed osservò per qualche istante l’illustrazione del Caos senza armatura che vi troneggiava al centro.

«Ti prego, continua», lo implorò eccitato Till «Io amo questa scena. Leggi!».

«Allora...», Zane si schiarì la voce con un colpetto di tosse e riprese «“Dalla sua disumana altezza il Caos lo sovrastava, e forse era la visione a paralizzarlo, o forse un qualche misterioso incantesimo del Caos, ma Mahadev, la Vista, non riusciva a sottrarsi al suo fascino velenoso. Disperato come un animale in trappola, Mahadev, la Vista, commise l’errore di alzare i due occhi umani, e quando questi rimasero incatenati alle orbite vuote del Caos fu troppo tardi.

“Tu sei chiamato ‘la Vista’”, lo apostrofò il Caos, e si carezzò i denti con la lingua violacea “Ma se io dovessi privarti degli occhi… saresti costretto a mutare appellativo?”. Mahadev, la Vista, tremò, ma prima che potesse anche solo muovere un passo, più rapido del lampo il Caos gli conficcò gli artigli nelle orbite.”».

«Me-ra-vi-glio-sa», sillabò Till, e rotolando su stesso si girò a fissare il soffitto.

Zane, seduto sul letto accanto a lui, chiuse il libro e gli sorrise «È ora di cena, signorino. Continuiamo dopo».

«Nooo, non mi va di riunirmi agli altri!», si lamentò Till, dirigendo lo sguardo verso Zane «Fanno troppo casino».

«Vuoi morire di fame?», gli chiese ironico l’altro.

«Mh, perché no. Anticipo i tempi».

Zane aggrottò le sopracciglia.

«Non dirlo più», borbottò, chinandosi crucciato su di lui «Non pensarlo neanche».

Till non rispose. Con un sorriso stiracchiato, Zane gli diede un lieve bacio a fior di labbra.

«Alzati, su, andiamo a mangiare».

«Non ho fame. Zane?».

«Mh?».

«Ti amo. Non morire».

Zane gli sorrise dolcemente.

 

«Aaron!», lo salutò Beth, la sua compagna di banco, grande appassionata di vestitini succinti «Oggi sei in anticipo, come mai?».

«Non ho perso l’autobus», rispose lui abbandonandosi sulla propria sedia. Si portò poi una mano al ginocchio e lo massaggiò «Cazzo, che male».

Gli erano bastati i duecento metri a piedi fino alla fermata dell’autobus per farlo zoppicare, con quel diluvio in corso.

Il rombo di un tuono fece tremare i vetri delle finestre, e Beth lanciò un urletto.

Mi spiace per Till, ma non posso proprio fare tutta quella strada tutti i giorni, osservò, fissandosi l’articolazione dolente.

Un poco si sentì in colpa, in fondo Till doveva essere molto solo… ma il ginocchio gli faceva troppo male per pensarci.

«Hai impegni domani sera?», gli chiese Beth, e Aaron scosse la testa «Allora tieniti libero, Michael, Liz e Robert pensavano di andare a…».

Aaron osservò la sua bocca aprirsi e chiudersi, annuendo di tanto in tanto per farle credere di starla seguendo.

Volente o nolente, la mente continuava a tornargli a Till.

 

«Mi sa che oggi… niente», borbottò Till, spiando la strada da dietro al muro «Peccato».

Mosse un po’ le dita per sgranchirle. Ormai teneva il palmo puntato verso l’alto da un’ora e cominciava a dolergli, ma non poteva fare altrimenti o la barriera sarebbe svanita e lui si sarebbe annegato, con tutta quell’acqua.

Non si sarebbe ammalato manco volendo, ma gli scocciava infradiciarsi.

Una bambina di forse sei o sette anni, vestita con uno sgargiante grembiulino rosa, percorse l’intera strada di corsa, saltellando da una pozzanghera all’altra con i suoi stivali di gomma gialli.

Till la osservò perplesso. Non passava mai molta gente per quella strada, e una bimba così piccola tutta sola…

La bambina alzò lo sguardo verso di lui e lo salutò agitando l’ombrellino rosa, e Till avvertì la barriera dissolversi senza che lui l’avesse voluto.

«Mi tieni sotto controllo?!», esclamò, issandosi sul muro mentre la pioggia lo investiva. Una mano gli scivolò e quasi cadde dall’altra parte.

La bambina batté i grandi occhi scuri e lo fissò perplessa.

«Parli con me, signore?», chiese, indicandosi con l’indice paffuto.

«Oh» Till inarcò le sopracciglia, confuso «Scusa, forse mi sono-», ma non poté finire la frase, perché la bimba lo interruppe con una risata.

«Non ho resistito. Peccato, mi sono giocato la copertura. Giocato, giocata… perché la vostra lingua del cazzo non ha il neutro?».

Till sospirò e rivolse nuovamente il palmo verso l’alto, a formare una seconda barriera.

«Che ci fai qui?», chiese alla bambina. Lei distese le labbra in un sorrisetto furbo e si carezzò i denti con la lingua.

«L’amichetto oggi non è venuto?».

«No».

«Oh, gliel’hai detto?».

Lo sguardo rivolto allo strato di nubi scure, Till scosse la testa e sospirò ancora.

«Ma perché non glielo racconti? È divertente quella parte».

«Non meriti nemmeno una riposta», sbottò il ragazzo, e la sua aria infastidita parve divertire la piccola.

«Certo che hai avuto un bel culo ad incontrare proprio il fratellino di Zane».

«Sei una bambina, potresti moderare il linguaggio? Mi urti».

«Non cambiare discorso», lo riproverò lei agitando l’indice «Dicevo… hai avuto proprio culo. Il caso è simpatico. C’è un dio del caso? O era fra quelli crepati?».

«Smettila di prendermi in giro», sibilò Till, e tornò nel giardino dell’Achre.

Ci fu qualche attimo di silenzio, poi la voce acuta della bambina superò lo scrosciare della pioggia.

«Fossi in te ne approfitterei per assaggiare i piaceri della carne, Till caro! Ma magari prima drogalo, così non rischi che ti respinga perché gli fai schifo. O perché è etero. No, è etero sicuramente, ho visto come ti guarda. Ma non è che tu abbia poi tutte queste possibilità di scelta, eh?».

Till non rispose, e si diresse verso l’Achre senza voltarsi indietro.

 

Till si destò di scatto e si rizzò a sedere, la fronte madida di sudore.

Accanto a lui Zane dormiva tranquillo, dandogli la schiena, e il bambino rimase ad osservarlo per qualche secondo.

Voleva svegliarlo. Disperatamente.

«Zane», pigolò con voce tremante «Dormi?».

In risposta gli giunse solo un mugolio assonnato. Avrebbe potuto insistere, ma davvero se la sentiva di svegliarlo?

L’indomani sarebbe stato un giorno pesante.

“Pesante”...

«Zane!», ripeté alzando la voce. Lanciò poi un’occhiata all’orologio digitale appeso al muro, proprio sopra l’ingresso: segnava le tre.

Avevano meno di sette ore di vita, ancora.

«Zane!», lo chiamò per la terza volta, e scoppiò in singhiozzi.

«Mmh… Till…», mugolò l’altro, la voce impastata dal sonno. Si stropicciò gli occhi e si mise a sedere, accompagnando al gesto un sonoro sbadiglio.

Si voltò poi a fissare il compagno, e il suo viso assunse un’espressione preoccupata «Till, che succede? Hai avuto un incubo?».

Till annuì, asciugando le lacrime con una manica del pigiama «Ho… fatto un sogno stranissimo».

«Raccontamelo», lo incoraggiò Zane con voce dolce. Gli prese una mano e gli baciò le dita, per rassicurarlo «Che succedeva?».

«C’era... il mio coniglio. Cioè, non era proprio lui, ma per me era Batuffolo».

Zane gli sorrise «Era un po’ che non lo nominavi. E poi?».

«Era dentro la gabbietta, con gli occhi chiusi. Non respirava, però quando ho aperto la porticina è saltato fuori».

Tacque qualche istante, cercando di richiamare alla mente le immagini più nitide.

«Allora ho cercato di prenderlo... e lui mi ha guardato e mi ha parlato. Non aveva gli occhi rossi, erano... diversi».

«Cosa ti ha detto?».

Till scosse la testa, e si lasciò ricadere contro Zane «Non me lo ricordo. Zero. Però aveva una voce molto triste».

«Beh, non mi sembra un sogno tanto terribile», commentò Zane baciandogli dolcemente i capelli, ma l’altro sollevò una mano.

«Non è finita qui. C’era una seconda parte, che non mi ricordo tanto bene... ma mi sembra morissimo tutti e due».

«Allora ci hai allungato la vita!», ironizzò Zane «O almeno così si dice».

«Sì, però...», tentò di ribattere Till, ma si interruppe.

Non aveva senso passare le probabili ultime ore di vita angustiandosi.

«Zane... rimaniamo svegli», propose,  ed alzò lo sguardo verso di lui «Facciamo qualcosa».

«Qualcosa... tipo?».

Till si strinse nelle spalle «Boh. Coccole?».

Zane rise e gli prese il viso fra le mani.

«Per me va bene», mormorò, posandogli un lieve bacio sul naso «Domani saremo un po’ stanchi, però».

«Tanto domani moriremo», borbottò Till serio.

«Non dire così, non è vero».

Till aprì la bocca per ribattere, ma Zane non gliene diede il tempo e gliela chiuse con un bacio.

Mentre ricambiava e gli stringeva le braccia attorno alla vita, Till non poté evitare di pensare quanto sarebbe stato bello poter amare Zane come tutte le persone normali.

 

 

   
 
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