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Autore: yesterday    27/04/2010    24 recensioni
Non è mai una scelta vantaggiosa condividere una stanza di quattro metri per quattro con il tuo ex ragazzo. Soprattutto se l'ex ragazzo in questione è Akito Hayama, e siete più o meno in pessimi rapporti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Fuka Matsui/Funny, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.32: Breathless: to have difficulty in breathing properly. PART TWO.


Schiacciai il pulsante verde, su cui troneggiava la parola “play”, nella tranquillità della mia stanza.
Una persona colta li avrebbe chiamati “interessi diversi ed inconciliabili”, io avevo solo perso la pazienza: volevo vedere quel maledetto film in santa pace, mentre Aya e Tsuyoshi erano di tutt’altro avviso.
Loro volevano parlare.
Così avevo spostato di peso - sapevo essere molto poco femminile, su questo non potevo dare tutti i torti ad Hayama - la televisione - che non pesava poi molto, a dir la verità - e se loro volevano parlare, il divano ed il salotto intero erano a completa disposizione.
In fondo, per parlare non era necessaria la presenza di tre persone: due erano più che sufficienti.
E talvolta si poteva parlare persino da soli..
Oltretutto, non vedevo perché avessero dovuto rinunciare alla loro uscita per tenere compagnia a me - insomma, avevo quasi diciannove anni, stare in casa da sola non era poi una tragedia.
Se non altro avevano giurato di tenere all’oscuro Hayama di questo particolare; Akito perciò mi credeva intenta a fare chissà che con chissà chi mentre lui stesso faceva chissà che con un soggetto ben definito.
Allegro.
Quindi gli storici fidanzatini avrebbero passato la serata a parlare tra di loro dei miei presunti problemi con Hayama, a scervellarsi per risolverli - quando né a me né tantomeno a lui sembravano interessare - ed io mi sarei gustata la visione di “Make me believe”.
Spensi la luce e mi accoccolai sotto alle coperte; i titoli iniziali cominciarono a scorrere velocemente.

“La realtà, avevo sempre tentato di nasconderlo, era che non avevo la più pallida idea di cosa stavo per fare. Io ero certa di fare la cosa giusta. E quella maledetta cosa giusta, quell’istante di debolezza, di dubbio, è stato l’inizio della fine”.

La voce fuori campo terminò la sue breve introduzione, e lo schermo passò dal nero al grigio scuro.
E il grigio scuro si trasformò in un parco. Un parco con una panchina.
Sulla panchina sedeva un ragazzo, che aveva tutta l’aria di aspettare qualcuno, teso.

 

« Scusa il ritardo! »


Una ragazza lo raggiunse, trafelata - la voce era la stessa che aveva pronunciato le parole fuori campo - sedendosi accanto a lui.
Imbarazzati i due si spostarono l’uno vero l’altro, a chiedere con gli occhi quel che, ne ero certa, erano soliti scambiarsi.
Aggrottarono entrambi le sopracciglia, tesi; si scambiarono un veloce bacio sulle labbra e ritornarono ai loro posti, dritti come fusi.
Quella scena portava con sé la fastidiosa sensazione di ricordo già vissuto sulla mia stessa pelle.


« Quindi.. Dobbiamo parlare, dicevi »


Il ragazzo espirò parole e fiato, lei annuì.
Ebbi come l’impressione che entrambi già sapessero cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Tutto di loro sembrava mostrarlo: la postura, le mani tremanti, gli occhi bassi.
E aumentava la spiacevole sensazione, e aumentava l’interesse per quel film che sembrava raccontare tutto al contrario, dalla fine e non dal principio.


« Sì. Michael, io.. Io non lo so più»
« Non- Non sai cosa? »
« Non so cosa voglio. Non so se è giusto. Non so se è quello che voglio.»
« Ci siamo, eh? »


Mi ritrovai io stessa con le mani tremanti, nervosa, a guardare - sentire, leggere - quell’addio che non mi apparteneva.
O forse sì?
La frase di lui, la frase di lui.
Come avevo potuto dimenticare?
“Ci siamo, eh?” le aveva dette anche Hayama, quelle parole.
Una delle tante cose che credevo di aver rimosso - come del resto l’intera giornata della fine - e che invece era rimaste lì, latenti.
Un brandello di conversazione.
Hayama che sorrideva quasi.
Il fatidico momento.
Al contrario.


« Non mi piace, detto così »
« Come vorresti dirlo? »


Lui se l’aspettava.
Lei, le sopracciglia sollevate, si sciolse un po’ alla vista di quell‘atteggiamento preparato, rassicurata.
Se credeva che così sarebbe stato più facile, era totalmente in errore.
Garantivo io per lei.


« Il problema è che io non so se voglio davvero dirlo.
Io non so più nulla, Michael.. Io..»
« Ehi » le prese il viso con una mano, obbligandola a guardarlo « non succede niente. Se siamo qui, e avevi qualcosa da dirmi, è giusto che tu me la dica. »

 

Gli occhi arrossati di lei tradivano la paura, un coraggio che non aveva.
Sorrisi, un altro piccolo ricordo che tornava al suo posto, il fatidico momento, al contrario.
La scena che avevo vissuto in prima persona vedeva due persone che sorridevano lievemente.
Era forse una decisione presa di comune accordo? O l’ennesimo malinteso?
Fuka, quando venne a sapere che io ed Akito ci eravamo lasciati - non avevo ancora trovato il coraggio di dirglielo, come la protagonista del film - disse che eravamo solo degli stupidi orgogliosi pieni di paura.
Poi traviò il senso delle mie inevitabili lacrime e comprese - sbagliando - che c’erano un aguzzino ed una vittima. Un omicida ed una ferita quasi mortale all’altezza del cuore.



« Io voglio tempo. Io voglio tempo per riflettere. »


Lo schermo tornò ad essere nero, ma per causa mia.
Osservai l’indice che quasi meccanicamente aveva spento il televisore dal bottone rosso.
In fondo era solo uno stupido film.
Il trailer garantiva un film a lieto fine - a lieto fine, diamine! - non volevo di certo sorbirmi un addio.
E il paradosso di una storia che iniziava dalla fine per far trionfare l’amore, tra l’altro.
Dove altro potevo trovarlo, se non in un film?
Osservai con dispiacere lo schermo del cellulare che segnava solo le dieci, e sbuffando mi stesi sul letto, la luce ancora accesa, nel petto qualcosa che batteva forte contro le costole minacciando di uscire.


***

Scivolai velocemente nel dormiveglia, a pancia in giù, abbracciata al cuscino come facevo sempre.
In quel (maledetto) dormiveglia mi passò davanti il momento - al contrario, nuovamente, visto da un’inquadratura esterna, come fosse stato quel film che iniziava dalla fine, esterna e reale come non avrei mai potuto viverla - che nella veglia non avevo mai il coraggio di ricordare o la forza di rimuovere e superare, e liquidavo sempre con “uno dei nostri ultimi soffocanti pomeriggi insieme”. (*)
E fu proprio in quell’istante (maledetto), che riassaporai sulla pelle ogni singolo istante, che mi accorsi di ricordare perfettamente data, giorno, ora, tempo atmosferico, temperatura del cuore e parole.
E, inevitabilmente, iniziai a tremare.
Ma era qualcosa di normale, vero?
Quando due stanno insieme così tanto.. O meglio, quando la ragazza S. ed il ragazzo A. ripensano a quando le ore - i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, i respiri - erano soltanto loro, è normale tremare.
Sì. (?)


***

Quattro aprile, pomeriggio.
Temperatura esterna: circa quindici gradi.
Temperatura interna: ebollizione causa Hayama. Tutto nella norma, insomma.


Pensare alla mia storia con Akito, avevo sempre creduto, portava inevitabilmente ad un gazebo.
Un gazebo a cui forse,
forse, potevamo attribuire l’inizio - una serata di febbre e una madre per due minuti - o meglio l’ammissione di un sentimento contrastante, sconosciuto, che per la maggior parte del tempo avevamo preferito ignorare. (**)
Un sentimento di certo ingombrante, per due bambini, a volte anche pericoloso - pericoloso forse come un oceano e un tarlo che consuma i sorrisi? - ma
costante. (***)
Non c’era stato un momento, da quella serata al gazebo, in cui quel sentimento ancora senza nome avesse abbandonato le cellule che componevano il corpo - e i sospiri che componevano l’anima - di quei due bambini tanto simili quanto diversi, forti ma vulnerabili che eravamo sempre stati io e lui.
E non c’era proprio modo per liberarmi da quella convinzione. Non c’era mai stato, neppure quel giorno.
Ma non era quello, il dubbio.
« Ciao » mi salutò dopo che salii gli scalini che portavano al gazebo rialzato.
« Ciao » rimasi impalata, la borsetta stretta tra le mani, sorpresa di trovarlo lì.
Eravamo arrivati al punto in cui non sprecavamo nemmeno più telefonate per dirci quando e dove incontrarci, ci incontravamo lì, ogni giorno. E basta.
Lui si alzò, venendomi incontro, sfiorandomi una mano ed appoggiando le sue labbra sulle mie per un istante soltanto.
Ma un istante era sufficiente, per far crollare la borsetta a terra e troncarmi il respiro.
Sbuffai.
« Mi chiedo quando la smetterai di farmi
questo »
« Spero non tanto presto » raccolse la borsa al posto mio, un’ombra divertita dentro le iridi dorate.
« Dimmi, che si fa oggi? »
Accolse l’invito di un intero pomeriggio insieme alzando gli occhi al cielo.
Sapeva che proporgli di scegliere significava bisticciare, come ogni volta dal nostro primo appuntamento - un cimitero. Certo
per lui era una cosa importante, ma alle volte ancora ridevo. (****)
« Diciamo che per evitare problemi decidi tu, eh? »
« Vorresti forse dire che sono una ragazza problematica e troppo esigente? »
Si strinse nelle spalle, leggermente esasperato. « Non potrei mai »

E in effetti, era stato un pomeriggio come gli altri. Un pomeriggio dei nostri, niente di tanto particolare eppure così speciale.
Passato tra occhiate esasperate - le sue - all’aggiungersi di borsette su borsette, accumulate durante la passeggiata per il centro e l’inevitabile shopping.

« Dici che mi dona? » ci scherzai su, girandomi come una trottola per mostrare un vestito che per la prima volta era stato
lui a volermi comprare.
Si strinse nelle spalle. « Non mi dispiace, ma meglio senza »
Mi fermai, trattenendo a stento una risata.
Inarcai un sopracciglio. « Hayama, ti offenderesti se ti dicessi che non sei proprio in grado di fare battute alla Gomi? »
Gomi, giusto per aggiornare, era diventato il libertino del gruppo. Ovviamente sempre insieme alla sua Hisae, ma era
esattamente il tipo di ragazzo in grado di creare l’imbarazzo con qualche frase fin troppo maliziosa. Amichevole certo, ma maliziosa.
Incrociò le braccia al petto, guardandomi di sbieco. « Le può fare solo Gomi, scusa? »
Scossi la testa. « No, dico solo che tu non ne sei capace »
Mi afferrò per gli avambracci, costringendomi ad avvicinarmi a lui.
« Tu, Sana, dovresti staccarti da questi preconcetti » sembrava anche serio, ma con me ormai non prendeva più.
Era soltanto
terribilmente di buonumore, niente più e niente meno.
« Certo, certo. Quindi » mi allontanai, scivolando controvoglia dalla sua presa « mi dona »
Indicai il vestito.
Si strinse di nuovo nelle spalle.
« Ecco, questa è una reazione
da te »
« Significa forse che non parlo? »
« Solo un po’ » risi.


« Tu ci hai mai pensato? » la sera stessa, ancora abbracciati sul divano.
Io appoggiata sul suo petto, lui a giocare con un ciuffo dei miei capelli.
Mi ero sorpresa io stessa della domanda che gli avevo posto - ancor di più del pensiero che l’aveva preceduta. Non aveva filo logico, qualcosa di materiale a cui mi fossi ispirata, aggrappata, il quesito era nato così.
« A cosa, di preciso? » si rigirò i miei capelli tra le dita.
« A come sarebbe.. Se un giorno non stessimo più insieme »
Silenzio dall’altra parte.
La ciocca immobile di capelli tra le sue dita.
« No. Tu te lo sei chiesta? » un sussurro.
« Non seriamente. Ma pensa se fosse tutto diverso. Se noi non fossimo più qui così » accoccolati uno all’altra, volevo aggiungere, ma non ero così tanto romantica « se.. Ci fosse qualcun altro per me, qualcun’altra destinata a te » lasciai la frase in sospeso.
« Insomma.. Come farei a stare con uno che non fossi tu, per intenderci »
Il mio ciuffo di capelli riprese ad attorcigliarsi tra le sue dita.
« Non potresti farlo, andiamo »
Mi sollevai per guardarlo negli occhi. « Stai diventando uno spaccone, lo sai? »
Non rispose, guardando il soffitto anziché me.
« Ma non potrei nemmeno io » disse con la timidezza che, quando si trattava di ammettere e parlare, non aveva vinto mai.
Picchiai piano un pugno contro il suo petto. « Direi bene! »
Mi guardò, facendomi morire l’ironia in gola, assieme al respiro.
« Certo che noi smontiamo le frasi romantiche con una facilità estrema. » commentò scuotendo la testa e concentrandosi sui miei capelli con cui aveva ricominciato a giocare già da un po’.
Mi limitai ad annuire prima di rifugiarmi nel suo abbraccio.
« E Sana, sei manesca. Passi le giornate a picchiarmi. »
« Non dirmi che ti ho fatto male, Karateka da quattro soldi! » lo schernii, chiudendo gli occhi.
« Come passare dal sentimentalismo alle offese in » alzò il braccio per guardare l’orologio « otto secondi netti »

 

***


Dodici aprile, pomeriggio.
Temperatura esterna: sedici gradi - grado più, grado meno.
Temperatura interna: da una massima di trenta gradi (il cervello, che scoppiava) ad una minima di meno dieci (il cuore, che congelava).


Quegli otto giorni - numero in comune ai secondi necessari per passare dalle dichiarazioni ufficiali alle scherzose offese - mi avevano
frastornata.
Era come se mi fossi svegliata da un coma, avessi tolto tappi dalle orecchie e come se i miei sensi avessero cominciato a percepire il doppio.
Tutto insieme.
Possibile che solo otto giorni - partendo da una conversazione ipotetica e del tutto campata per aria - fossero in grado di stravolgere le cose
per entrambi?
Come la prima boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea.
Bruciava.
Bruciava di gioia per aver ritrovato l’ossigeno o di mancanza di quel torpore del fondale?
Io avevo concluso che la motivazione fosse la
prima: gioia per il ritrovato ossigeno.
E probabilmente doveva pensarla così anche lui, Hayama, dato che gli era calata di nuovo addosso quella cappa che mi impediva di capire completamente cosa gli passava per la testa.

« Dimmi a cosa stai pensando » aveva cominciato lui a parlare, lasciandomi sorpresa e senza fiato.
Un po’ al contrario, visto che quella col vizio di conversare ero io.
Ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altra, al
nostro gazebo, senza darci appuntamento né dirci “dobbiamo parlare”.
Cercai aria bruciante. « Io.. Non lo so. »
« Vediamo se siamo sulla stessa lunghezza d’onda. » iniziò a parlare, svelto, e non era da lui.
Al contrario.
Si soffermò un attimo sul mio abbigliamento - un vestito, niente di che - ma per lui fu abbastanza da fargli scuotere la testa e sorridere amaramente.
« Ti ascolto. »
« Tu.. Tu ed io, poco più di una settimana fa, avevamo fatto un discorso, chiamiamolo così. »
Annuii.
« E poi io ho cominciato a pensarci seriamente »
« .. Anche io, Hayama. »
« E » la voce gli vibrò, mentre si apprestava a dire quelle cinque parole pesanti come macigni, che potevano dire tutto e potevano dire niente « a che conclusioni sei arrivata? »
Akito che parlava ed io che non sapevo cosa rispondere?
Inspirai, e mi decisi a rendere quel momento
un po’ meno al contrario.
« Ho pensato che io
non so come potrei stare senza di te. Perché sto con te da così tanto che pensare a come sarebbe senza non mi è mai passato per la mente »
Sorridemmo entrambi dello sciocco gioco di parole.
« Ci siamo, eh? »
Non avevo capito che lui aveva già tirato le somme di quella conversazione.
Avevo tradotto quell’uscita come un “anche io la penso così, siamo d’accordo”.
E annuii.
« E cominciando a valutare “il resto” che non ti era mai passato per la mente.. »
« .. Ho perso la sicurezza » conclusi io al posto suo.
Ma era un “
abbiamo perso la sicurezza”. Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, no?
« Sana » espirò, chiudendo gli occhi « forse è meglio se ci »
Se ci cosa?
Avevamo saltato i convenevoli a piè pari, e non ero assolutamente pronta ad ascoltare quella frase.
Deglutii. « Non dirlo così, ti prego »
Che scena, dall’esterno - proprio al contrario : due idioti che si dicevano addio sorridendo sotto un gazebo che aveva fatto loro da culla per
almeno sei anni.
Tremavo, anche in quel momento.
Lui sorrise, tirato. « volevo dire che è meglio se ci pensiamo un po’ »
« Se
ci prendiamo un po’ di tempo per pensare? »
« Qualcosa del genere »
« Che poi è esattamente quello che non volevo sentire. Perché sarà un tempo infinito » lasciai sciogliere la tensione accumulata, quella stessa tensione che mi faceva tremare le mani ed il cuore, ghiacciati, che mi faceva stare dritta come un fuso e tenere gli occhi incollati alle piastrelle del pavimento.
Sollevai lo sguardo e trovai i suoi, di occhi, a fissarmi.
Il cuore perse un battito, ed i polmoni un secondo d’aria, quando compresi che dentro a quegli occhi che conoscevo meglio di me stessa qualcosa si era cristallizzato.
Spezzato.
Erano tornati ad essere gli occhi duri - duri, non cattivi - del bambino che all’inizio tanto detestavo, alle elementari.
E come potevo leggerla?
Hayama aveva preso la sua decisione.
« perché io ti conosco e tu conosci me. Non torneremo indietro. » mi affrettai ad aggiungere.
Non sarei mai stata in grado di tornare da lui, tantomeno lui da me. Non per due persone fedeli alla regola, seppur in modi apparentemente diversi, di andare sempre e
solo avanti.
Annuì.
« E quindi ci siamo, eh? » ripetei la stessa frase di poco prima - al contrario perché la dicevo io e non lui - mentre dentro me la dicevo come un mantra.
Distese le labbra, gesto che stonava con l’espressione, e quello strano cipiglio fece sorridere anche me.
Ci siamo.
« Non l’avrei mai detto »
Annuii.
Nemmeno io.
« Perciò buona fortuna » risolse solamente, dopotutto lui non amava conversare.
Sentii gli occhi pizzicarmi e solo allora mi accorsi dei lacrimoni che scendevano sulle guance. Li asciugai col dorso della mano.
« Non devi piangere » Hayama aveva qualche difficoltà, a conosolarmi,
da quando non stavamo più insieme.
Fu la mia prima considerazione.
« Intendo dire che per ogni cosa sono ancora qui »
Era forse una promessa?
Annuii, cercando un conforto che in effetti non trovavo.
« Anche io sarò sempre qui, per qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno. »
Qui, senza respiro, sotto al nostro gazebo.
Suonava come una promessa.
Che nessuno di noi due - ed era passato il tempo necessario per parlarne a posteriori, vista dall’esterno non più come un film ma come un ricordo, quella scena al contrario - avrebbe mantenuto.


 

 

 

 

___________________

(*) ripresa da 1.00 : Drunk.
(**) Beh, penso sia una scena che tutti ricordano, quando Sana finge di essere la madre di Akito.
(***) allusione alla partenza di Akito e alla malattia di Sana.
(****) Kodocha, volume nove.

   
 
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