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«Sana.»
ripeté la figura davanti a me.
E
chissà come e chissà perché, il mio
cuore cominciò a sanguinare. Ogni battito
mi costava una goccia di sangue, era una ferita che non si era mai
chiusa
completamente.
Ero
spaventata.
Perché
all’improvviso il cuore mi batteva così
velocemente e sentivo un grosso peso
nel petto?
Sembrava
quasi che volesse impedirmi di respirare.
«Chi
sei?» mormorai, a fatica.
Il
ragazzo fece qualche passo in avanti, in modo che la luce del lampione
gli
piovesse addosso, creando un chiaroscuro affascinante.
E
il mio cuore si fermò, per un piccolo, singolo istante.
Poi
riprese a battere, ripercorrendo la sua veloce corsa verso il vuoto,
interrotta
per qualche scherzo del destino.
Lo
conoscevo.
Era molto alto,
i capelli chiari, di un biondo quasi cenere, ora macchiato
dall’oscurità della
notte, gli rendevano il viso, dai lineamenti decisi, forte e bello. I
suoi
occhi erano profondi, molto profondi, di uno stupendo color miele.
I suoi
occhi... paralizzavano.
Ed
era davvero così: non riuscivo a spostarmi da quella
panchina in legno.
«Non
mi riconosci?» sulla sua voce, che mi era familiare, notai
una nota di
sorpresa.
Scossi
il capo, mi stavo sentendo male. Il dolore era quasi fisico, mi faceva
male la
visione di questo strano ragazzo.
«No.
Non ti conosco, vattene.» riuscii finalmente ad alzarmi dalla
panchina e ad
arretrare di qualche passo.
Mi
tremavano le gambe, sarei voluta scappare via da lì. Non
sapevo perché, ma non
era lui a farmi paura, quanto piuttosto le reazioni di dolore,
smarrimento e
confusione che la sua vista mi procurava.
Gli
lanciai un’ultima occhiata, prima di voltarmi e iniziare a
correre. Sentivo che
mi seguiva, e in meno di un secondo mi afferrò per il polso,
costringendomi a
voltarmi verso di lui.
Cercai
di liberarmi da quella stretta: cosa voleva quel dannato sconosciuto?
La testa
cominciò a farmi male, pulsava terribilmente.
«Lasciami
andare!» esclamai, cercando di liberarmi con uno strattone.
Ma non ce la feci,
la sua presa era molto forte.
Adesso
ero davvero spaventata. Sentivo le forze abbandonarmi, e gli occhi
cominciarono
a riempirsi di lacrime, che pungevano per venire allo scoperto.
«Sana...
sono Akito. Sono... Hayama.» il tono di voce del ragazzo ora
quasi disperato.
Lo guardai negli occhi e mi ci persi.
Erano
un abisso di ambra, ora scura a causa della notte. Sembrò
che tutto volesse
fermarsi attorno a noi.
A
quelle parole seguì un pesante silenzio. Non riuscivo
più nemmeno a sentire il
rumore delle auto sulla strada, era come se al mondo esistessimo solo
noi due.
Hayama.
«No!»
strillai, stringendo gli occhi. Le lacrime cominciarono a sgorgare e
con uno
strattone deciso mi liberai dalla sua stretta, barcollando
all’indietro.
Fece
per aiutarmi, ma digrignai i denti, dandogli uno schiaffo alla mano.
«Stammi...»
ansimai, fuori di me, al suono di quel nome il dolore alla testa e al
petto si
era acuito, «Stammi lontano.» Era poco
più di un sussurro, mai fu certa che
l’ebbe udito.
Non
mi rispose, ma lessi nei suoi stupendi occhi qualcosa come dolore.
Lo
stesso che mi sconquassava il petto in quell’istante?
E
all’improvviso, mentre i nostri occhi si
sfioravano con uno sguardo profondissimo, che mi parve durare
un’eternità, la
mia mente si appropriò di ricordi che non riconoscevo.
Spinsi
il mio compagno ed afferrai la
pistola ad acqua che era stata riempita d’inchiostro
colorato. Ennesima trovata
dei ragazzi per disturbare le lezioni.
Ero
davvero furibonda.
Gliel’avrei
fatta pagare.
La
puntai verso il ragazzino biondo
dallo sguardo truce che distava pochi metri da me. Premetti il
grilletto e dell’inchiostro
blu macchiò la fronte del ragazzo.
«Se
ora avessi in mano una pistola
vera... anche io avrei già ucciso una persona. Cerca di non
esagerare tu!» gli
inveii contro.
E
poi... il mio sguardo si posò sul gazebo.
Un
altro ricordo. Mi pulsava la testa.
Io e
quello stesso ragazzo eravamo
seduti nella panchina, coperti da un gazebo.
La sua
testa era poggiata sulle mie
gambe, e io fingevo di essere sua madre, recitando le parole dello
sceneggiato
al quale avevo partecipato. Volevo fare da mamma a quel ragazzo, per
fargli
provare almeno una volta cosa significasse sentirsi amato. Qualcosa che
molto
probabilmente lui non conosceva, non avendo la madre.
Gli
carezzavo i capelli con dolcezza.
«Acchan,
la tua mamma si è impegnata con
tutta se stessa. Perché lei ti ama, Acchan. Quindi... anche
per la tua mamma,
impegnati con tutto te stesso per vivere.»
Sgranai
gli occhi, portandomi la mano al petto.
«Se
ti viene voglia di piangere... puoi
venire da me.» me lo disse con una mano dietro la testa,
evitando accuratamente
il mio sguardo. Quelle parole mi resero immensamente felice...
Sapevo
che mi avrebbero dato sostegno.
Hayama.
«Hayama!
Tieni, questa è...» inciampai e
il bicchiere di limonata che avevo in mano si rovesciò sulla
testa del ragazzo,
lasciando che il liquido gli bagnasse i capelli e il viso.
Ero
mortificata, avevo paura che si
arrabbiasse. «Ecco... potresti ascoltarmi senza arrabbiarti,
per favore?»
farfugliai, mentre lui, senza una parola, si toglieva il bicchiere dal
capo.
«Non
avevo cattive intenzioni, mi hanno
detto che bevendo un succo freddo ci si sente meglio... speravo di
darti un po’
di sollievo...» cercai di spiegarmi, mentre gli ripulivo il
viso con un
fazzoletto.
«Mi
è entrato negli occhi...» mormorò,
strofinandosi gli occhi.
«Scusami
non volevo... Hayama, forse è
meglio se vaia lavarti la faccia, non puoi rimanere così ti
resterà tutto
appiccicoso... Dai, andiamo.» gli dissi, mentre lo ripulivo.
Fu un
secondo. I nostri nasi erano così
vicini da potersi sfiorare, e lui avvicinò ancora il suo
viso, sfiorando le mie
labbra con le proprie.
Ricordi...ancora
ricordi.
Dolore,
tanto dolore nel mio cuore infranto...
Era la
vigilia di Natale, il nostro “compleanno
di mezzo.”
Se
n’erano andati già tutti, ma lui era
rimasto fuori, mentre nevicava. Afferrando il giubbotto uscii anche io,
curiosa
di sapere cosa gli passava per la testa.
«Hayama?
Che stai facendo? Ti prenderai
un raffreddore!» esclamai. Lui si voltò e io
intravidi un buffo pupazzo di
neve.
Ridacchiai.
«Cos’è?»
«Beh,
non lo so neanche io. È per te.»
replicò, pulendosi la testa dalla neve che gli era caduta
addosso.
«Per
me? Ah! Questo sarebbe il mio
regalo? Grazie!» esclamai, entusiasta.
«Hayama,
ti sei divertito oggi?» gli
sorrisi.
«Così
così.» rispose, alzandosi in
piedi.
«Davvero?
Meno male!» ormai lo conoscevo
e sapevo che era il suo modo per dirmi che si era divertito molto. Pian
piano
riuscivo a capirlo...
«Sai
Hayama, spero che festeggeremo il
compleanno di mezzo anche l’anno prossimo!» era
stata una bella serata, e mi
ero divertita molto.
Lui non
rispose, ad un tratto divenne
serio. «Kurata.» mi chiamò.
Gli
sorrisi. «Mh?»
«Io...»
Si coprì il viso, ma dopo un
istante ritirò la mano, fulminandomi con lo sguardo.
Gli
occhi di Hayama... Ogni tanto
paralizzano.
Non so
come fece, ma mi afferrò le
spalle, avvicinandomi a sé. Le nostre labbra si fusero in un
dolce,
indimenticabile bacio...
Il
dolore alla testa mi impedì di ricordare altro. Caddi in
ginocchio, accanto al
ragazzo, così simile al ragazzino di quegli strani ricordi
che non credevo di
possedere.
Tremai
un poco, poi, come in preda ad una trance, mi alzai in piedi. Lui non
distoglieva lo sguardo dai miei occhi, come per cercare una risposta ad
un
quesito.
«Hayama...»
mormorai.