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Autore: BaschVR    07/06/2010    5 recensioni
“E’ così strano?” domandò Cissnei, fissandolo a suo volta nei luminosi occhi azzurri. “Difficilmente rivivrò un’esperienza del genere. Me lo sento. Però… non so, ma il sole, il mare, la gente che ride… qui si respira un’altra atmosfera rispetto a quella che c’è alla ShinRa. E poi, il poter stendersi qui, senza preoccupazioni, a guardare il cielo attraversato dalle nuvole, o le stelle, la notte… è tutto diverso. A Midgar non si riescono a vedere nemmeno le stelle. O almeno, non dall’interno della città. Troppe luci, credo”.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli scuri, sorridendo. “Non è strano per niente. Anzi, sai che ti dico? Questo è il luogo dove ritorneremo, insieme, quando le cose alla ShinRa si saranno sistemate!”

[Remake di After Crisis]
Genere: Dark, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cissnei, Cloud Strife, Scarlet, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Crisis Core
Capitoli:
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Capitolo 2

Polvere. Nella vaga penombra della stanza, la polvere eterea era l’unico elemento che traspariva attraverso i pallidi raggi di luna che entravano dalla finestra. Sembrava brillare, fugace, per poi disperdersi impetuosa tra le ombre, come resti di una nave naufragata che svaniscono tra i flutti perpetui dell’oceano.
Si mosse lentamente nel buio della sua camera. Arrivò davanti alla finestra e poggiò una mano contro la fredda superficie lievemente incrinata, che da anni era la sua protezione contro l’oscurità della Midgar notturna. L’unico modo per lasciare fuori le ordinarie  storie di massacri, le sofferenze, le colpe di una città antica come il mondo e che tesseva la propria realtà a spese di coloro che vi vivevano. Nel silenzio aprì la finestra, lasciandola cigolare.
La mezzanotte era passata da un pezzo e, già da tempo, il sole era tramontato oltre le colline vicino Midgar. Ci mise un po’ per abituarsi all’oscurità che permeava ogni vicolo dei bassifondi, ma alla fine i dettagli di quelle strade, che conosceva così bene, riemersero pur restando nell’ombra, celati dalla mano di un artista che ne tracciava sbiaditi contorni. Riconobbe le strade, i viali, le varie forme dei detriti accumulati dal tempo; percepì la gente, o la sua assenza, pur non riuscendo a vederla.
Più avanti si intravedevano le luci di alcuni lampioni, fari nell’oscurità, che illuminavano le strade principali che collegavano i vari Settori di Midgar tra loro. E poi, oltre le luci, c’era il reticolato di strade e di case che, come una macchia d’olio, si estendeva fin dove arrivava lo sguardo; e infine, in lontananza, le onde del mare sulle quali si rispecchiava confusa la figura della luna.
Distrattamente si passò una mano tra i capelli, per ravviarli, poi guardò il letto sfatto sul quale non era riuscita ad addormentarsi nelle ore precedenti. Impetuosi pensieri l’avevano distratta, togliendole il sonno. Si affacciò alla finestra, ripercorrendo con lo sguardo le vie che abitualmente attraversava nella sua vita quotidiana.
Poggiò il gomito sul davanzale, taciturna, osservando la città che in ogni istante si rinnovava davanti ai suoi occhi, simile al flusso dei suoi pensieri.
In quegli ultimi anni s’era spesso stupita di come non fosse mai riuscita davvero a liberarsi dalla sensazione di attesa che quotidianamente l’attanagliava. Lentamente, i ricordi di quei giorni erano cominciati a sbiadire, come pagine consunte di un capitolo ormai chiuso della sua vita. Ogni tanto, mentre camminava per le vie della città, le sembrava quasi di vederlo: ma la verità era che il dolore della perdita non si era mai attenuato, ma anzi, era stato alimentato dalla stessa speranza che gli impediva di credere che Zack fosse morto.
Pensava spesso a lui. Pensava alle ottantanove lettere che gli aveva mandato, e alla novantesima, che aveva avuto tra le mani quel pomeriggio, e che sperava lo avrebbe raggiunto, riuscendo dove tutte le altre avevano fallito. Pensava a come non avesse ancora sue notizie, e si chiedeva cosa gli fosse successo, cosa l’avesse trattenuto lontano da lei per così tanto tempo. E nonostante i mesi, le stagioni e gli anni che passavano, lei continuava a pensare a quando sarebbe tornato, magari alle soglie di una tranquilla estate, in cui, con passo stanco, avrebbe oltrepassato la porta di quercia della chiesa e, come al solito, le avrebbe sorriso.
Lui sarebbe tornato un giorno. Lo sentiva.
O forse, più semplicemente, lo sperava.
Si alzò e prese la novantesima lettera che aveva scritto poche ore prima, in cui fiumi di parole scorrevano impetuosi sul foglio. Si disse che quella sarebbe stata l’ultima che gli avrebbe scritto, ma dentro di lei sapeva già che non avrebbe mantenuto quel semplice proposito che ogni volta si raccomandava di seguire.
Attraversò a passi lenti la stanza, cercando di non far rumore per non svegliare la madre nella camera accanto; aprì la porta e la richiuse alle spalle silenziosamente, facendola aderire allo stipite. Scese con prudenza le scale, quasi corse verso la porta d’ingresso e, spalancandola, si ritrovò all’esterno, a respirare l’aria fresca della notte fonda.
Dovunque il suo sguardo si posasse, non vedeva altro che l’oscurità di quei vicoli malfamati e spogli, tetri a quell’ora della notte. Diede inavvertitamente un calcio ad una lattina, e il rumore secco risuonò per decine di metri intorno a lei, amplificato dal silenzio.
Forse non era stata un’idea così geniale uscire a quell’ora, si ritrovò a pensare mentre si guardava intorno circospetta. Tuttavia, il tragitto che doveva compiere non era molto lungo. O almeno, così pareva di giorno.
La notte, a Midgar, era carezzevole, ammaliatrice, suadente; una nuova città sorgeva, al tramonto, ed anche se le strade, le vie e le baracche rimanevano le stesse, qualcosa cambiava: la luce spariva, e con essa anche le persone e la vita di quei quartieri; e senza la sua anima, la città che si levava sul far della sera appariva spoglia, vuota, esanime. Ed era in quel momento che la città sorgeva, o forse svaniva, inghiottita dalle tenebre.
Fece qualche altro passo, aguzzando la vista oltre quei vicoli, finché non fu irradiata dalle luci dei lampioni della via principale. Chiuse gli occhi, istintivamente, per schermarli da quell’improvvisa aggressione; dopo qualche secondo li riaprì, e a passo svelto percorse il lungo viale che portava alla fine del Settore 5. Già da lì riusciva a intravedere le alte e semidiroccate  guglie della sua destinazione, che svettavano sugli edifici bassi delle costruzioni accanto a lei. Quando si ritrovò davanti alla chiesa, lasciò che le sua mani aderissero alla maniglia e che, aprendosi, il portone di quercia scivolasse sui suoi cardini, cigolando. Richiuse la porta alle sue spalle, con un piccolo tonfo, e si incamminò verso l’abside semidistrutto di quello che da anni era diventato il suo santuario e rifugio. Raggi di luna illuminavano fiocamente il luogo, filtrando dalle parti in cui il tetto era ceduto;  in basso, i fiori che aveva coltivato durante quell’anno si estendevano rigogliosi, pieni di vita, muovendosi al soffio degli spifferi che attraversavano le fredde mura.
Si sedette in mezzo al crocevia, là dove il parquet della chiesa finiva ed il dislivello nel quale coltivava i fiori iniziava; in mano aveva ancora la novantesima lettera, canale di speranza o forse solo di illusione, e nella testa una grande quantità di pensieri, che si materializzavano in ricordi lontani che una volta, in quel luogo, erano stati realtà.
Spesso gli pareva quasi di intravederlo, nell’ombra dietro agli alti pilastri in marmo, mentre sorrideva, o esplorava la chiesa, strascicando i piedi e tenendo lo sguardo sull’alto soffitto semi diroccato. Non parlava, poiché Aerith si era ormai dimenticata che suono avesse la sua voce, e dopo un po’ semplicemente si dileguava inghiottito dall’oblio, ogni volta sempre più sfocato, come se la sua memoria, giorno dopo giorno, lo stesse allontanando, facendolo scivolare dalla sua mente e dai suoi ricordi.
E mentre rifletteva su Zack, alle sue spalle udì dei passi. Calibrati, lenti, con un ritmo costante che non veniva mai variato. In quella notte così silenziosa e al tempo stesso invadente, quei passi avevano spezzato la catena di pensieri che si diramava da quando il sole era tramontato dietro i monti che circondavano ad ovest la città.
Si voltò, e riconobbe subito il volto del suo visitatore. Dopotutto, avrebbe dovuto immaginarselo.
“Non sei a casa” asserì lui, avvicinandosi e mettendosi di fianco a lei, osservando l’erba che cresceva ai loro piedi.
“Non sono la sola” rispose Aerith, accennando un sorriso sul volto che fino a pochi attimi prima era invaso da una smorfia pensierosa. “Sei in servizio?”
“Ovviamente” confermò Tseng, atono, senza scomporsi.
Passò un momento di silenzio, in cui nessuno dei due proferì parola.
“Come va con la ferita?” chiese infine Aerith, dopo un po’.
L’uomo si portò automaticamente le mani al volto, nel punto in cui, ormai quasi ventiquattro ore prima, Cissnei l’aveva sfregiato. Percorse con le dita il tratto nel quale si estendeva il profondo taglio, con leggerezza, percorrendo la linea dei punti di sutura.
“Va bene” rispose con sincerità, perché effettivamente parte del bruciore si era affievolito durante il corso della giornata.
Aerith lo osservò attentamente, stringendo gli occhi. “Perlomeno non sei più coperto di sangue!” concluse dopo qualche secondo. Gli lanciò ancora qualche fugace occhiata, poi aggiunse, divertita: “Posso sapere come…?”
“No” rispose Tseng, imperturbabile.
“Ma se non mi hai neppure fatto finire la frase!”  esclamò Aerith, delusa.
“La risposta è comunque no!”
“Beh, ma…”
“No” la interruppe di nuovo l’uomo.
“D’accordo, d’accordo!” rise Aerith, alzandosi e muovendosi per alcuni passi lungo la navata della chiesa. Guardò ancora una volta la lettera che teneva tra le mani, e si costrinse a non pensare nuovamente a lui.
“E’ una storia buffa?” riprese, cercando di non dare peso al pezzo di carta che stringeva tra le dita.
Tseng la guardò come se fosse matta. “No!” rispose, come se avesse pronunciato chissà quali assurdità.
“Ma “No” è l’unica parola che conosci?”
“No!”
“Eddai, è buffa?”
“Non credo.”
“Io dico di si, altrimenti me l’avresti raccontata!” disse Aerith, imbronciata.
“Ti ho già detto che non lo è!” gli rispose Tseng atono.
“E allora che motivo hai per nasconderla?”
“Affari miei.”
“Non potresti inventare una bella scusa almeno?”
“No!”
“Va bene…” esclamò la ragazza, chiudendo la conversazione. Ritornò accanto a lui, sedendosi sul polveroso parquet della chiesa e osservandolo.
“E adesso cosa c’è?” chiese Tseng, sospirando e pentendosi di non aver dato un taglio netto alla conversazione fin da subito. Purtroppo, Aerith era fatta così, e sapeva che, una volta imbarcatasi in un’impresa, difficilmente demordeva.
Fuori s’era alzato il vento. Lo sentirono ululare, caustico e sferzante.
Aerith sorrise, e non rispose alla domanda dell’uomo.








Nonostante fosse ancora notte fonda, la chiesa non era poi così buia. Si era allontanato dall’abside dell’edificio, e adesso si aggirava silenzioso tra le colonne, ammirandone le fattezze. Gettò distrattamente uno sguardo ad Aerith, per controllare che fosse ancora dove il suo sguardo l’aveva lasciata l’ultima volta. Rassicuratosi, lasciò vagare la vista sulle travi portanti semidistrutte, smarrito nei suoi pensieri.
Non aveva avuto nessuna notizia di Reno durante il giorno che era appena trascorso, ma l’ultima volta che l’aveva visto, quasi ventiquattro ore prima, sembrava essere quasi fuori di sé. Sospirò, ripensando alla missione che era stata affidata da Scarlet al giovane Turk.
Trovare Cissnei. Riportarla indietro.
Passò una mano sulla ferita, ancora fresca. Si chiese dove fosse la ragazza. Subito dopo essere stato attaccato aveva perso i sensi, e non era stato capace di fermarla.
Aveva aperto gli occhi, tremando, sbattendoli più volte. Quando si era accorto di cosa fosse successo, si era alzato di colpo, procurandosi un’acuta fitta alla tempia. S’era passato una mano sul volto, percorrendo il solco che lo Shuriken di Cissnei aveva lasciato su di lui. Poi, alzando lo sguardo sull’orizzonte su cui stava sorgendo l’alba, aveva compreso di non aver compiuto la missione che la nuova direttrice, Scarlet, gli aveva assegnato.
Non era stata un’amichevole chiacchierata, quella che lui e la donna avevano avuto al cellulare subito dopo.
“Sai perché non sono minimamente stupita?” aveva domandato sardonica lei, non appena l’aveva informata sugli ultimi sviluppi della faccenda.
Non aveva risposto.
“Ho sempre pensato che i Turk non fossero altro che un branco di mollaccioni incapaci. Il più indisciplinato tra i gruppi d’assalto della ShinRa, il primo che compare in percentuale agli imprevisti durante le missioni…”
Tseng era rimasto in silenzio, stringendo la presa della mano attorno all’apparecchio.
“Insomma, una vera e propria palla al piede per la ShinRa Corporation” aveva continuato lei, non riuscendo a non nascondere un ghigno di soddisfazione attraverso la sua voce. “Ma ora che mi trovo temporaneamente a ricoprire l’incarico di comandante della sezione , capisco che il mio giudizio era errato. Non è solamente un mio pensiero, perché i Turk sono” e sottolineò il verbo con enfasi “un branco di mollaccioni incapaci. La mancanza di disciplina è in effetti anche la vostra rovina.”
Anche questa volta non aveva risposto, mentre la donna si compiaceva del proprio giudizio con una risata. Ricordava di aver sentito l’odode della terra bagnata. Probabilmente era piovuto da poco.
“Tseng?” lo chiamò Aerith, voltandosi.
L’uomo si destò dalle sue riflessioni. Era quasi l’alba.
“C’è qualcosa che non va?”
Sospirò. “Stavo solo pensando” rispose, atono. Sentiva ancora la voce della direttrice sibilargli in testa.
“Sembravi molto serio” constatò Aerith, fissandolo con attenzione e avvicinandosi. “Sei sicuro che vada tutto bene?”
Tseng ci mise un po’ a rispondere. La tempie gli pulsavano ancora terribilmente per via della risata stridula che si perpetuava all’interno della sua testa. “Sì, è solo un periodo difficile per tutta la ShinRa” disse poi, lasciando che la sua mano ancora una volta scivolasse lungo la ferita chiusa.
Aerith non rispose. Sapeva che l’uomo non le avrebbe mai detto più di tanto, quindi non indagò oltre nei suoi pensieri. Mise una mano in tasca e la strinse intorno alla lettera, lasciando che scivolasse lungo il foglio ruvido. Lo tirò fuori per osservarla ancora una volta, lo sguardo chino, incerta se consegnarlo o meno all’uomo.
“Un’altra lettera?” la anticipò Tseng.
Alzò gli occhi, ma non fu abbastanza forte per incrociare il suo sguardo. Poteva quasi sentire le implicite accuse che il Turk le rivolgeva con il suo prolungato silenzio, in attesa di una risposta che da parte sua non sarebbe arrivata. Si disse che doveva essere più forte, e fece per nascondere la lettera tra le pieghe del suo vestito, con naturalezza, cercando di celarla agli occhi dell’altro.
“Non è nulla…” si affrettò a pronunciare, rimettendola in tasca.
Tseng le si avvicinò, lentamente. “Ho accettato le altre ottantanove senza problemi, perché non dovrei prendere questa?”
Non seppe cosa rispondere, e si limitò ad osservare la mano spalancata che l’uomo le aveva teso davanti, aperta e disponibile alle sue richieste non pronunciate. Dischiuse le dita intorno al foglio di carta opaco e lo lasciò cadere nel palmo dell’altro, che lo afferrò e lo ripose all’interno della sua giacca.
“Grazie…” emise lei d’un soffio, sottovoce. Tseng non rispose e si allontanò dai suoi occhi, svanendo nell’oscurità dell’abside privo di finestre. Le sue mani tornarono più volte sulla lettera che si era fatto affidare, sottile e leggermente increspata, inutile eppure così significativa.
Lasciò che le tenebre che avvolgevano quella zona della chiesa lo nascondessero agli occhi di Aeris. Nessuno l’aveva ancora informata sugli avvenimenti degli ultimi giorni, e sulla reale entità dello squilibrio che lentamente si stava diffondendo lungo i piano alti della ShinRa. Il ritrovamento e la morte di Zack Fair era solamente stato l’ennesimo chiodo sul coperchio della loro bara.
Guardò Aeris, distesasi su una delle panche di legno della chiesa ad occhi aperti, mentre osservava le alte finestre da cui filtrava la prima luce dell’aurora. In quel momento, capì che prima o poi sarebbe toccato a lui infrangere le speranze che ella aveva accumulato in tutti quegli anni. S’immaginò di scattare in avanti, verso di lei, deciso, serio, irremovibile nella sua decisione; di urlarle contro, di sbatterle in faccia che Zack era morto, che non sarebbe tornato, e che le sue novanta stupidissime lettere erano state tutte inutili. Immaginò lo sguardo della ragazza, serio, affranto, disperato o composto che fosse, e le sue reazioni alla sconvolgente notizia. Fu sul punto di uscire dall’ombra e lasciare che quel peso non gravasse più solo su di lui, cercando di emulare la decisione che ostentava nei suoi pensieri. Ma non ci riuscì, e rimase ad aspettare che i tiepidi raggi del sole illuminassero l’abside prima di fare un passo verso l’uscita del grande edificio.
L’aria era mite, la mattina presto, e Tseng la assaporò per un istante, prima di volgere la sua attenzione alla lettera affidatagli da Aeris che aveva riposto nella tasca interna della sua giacca. Per un lungo attimo lasciò che gli scivolasse tra le dita, carezzandone la ruvida fattura. Poi, preso da un impeto di rabbia o forse solo schiavo delle sue emozioni, la strappò una volta, e ancora, e ancora, disperdendone i pezzi nel vento.








Osservando distrattamente il cielo attraverso le fronde scure degli alberi, capì che la lunga notte nella foresta era finalmente finita. Ansante, stremato, sfinito dalla lunga marcia, lasciò che la sua schiena aderisse contro il ruvido tronco di una quercia, respirando l’aria gelida del mattino imminente.
Confuso e agitato, posò lo sguardo sulla Buster Sword che teneva tra le mani, tratteggiandone i solchi con le dita e osservando il suo riflesso opaco che la lama rifletteva. Era riuscito a scrostare il sangue che gli insudiciava il volto, presso un ruscello raggiunto qualche ora prima, ed adesso il suo viso appariva più giovane e meno teso. Osservò il riflesso dei suoi occhi, stanco, disperato, lucente a causa dell’esposizione all’energia Mako, e si chiese per quanto ancora avrebbe continuato a vagare senza meta, ignorando la sua posizione. Lì, nell’infinita penombra del sottobosco, sembrava che la natura non avesse mai conosciuto la mano dell’uomo, tanto era prospera e rigogliosa.
Non voleva ammetterlo a se stesso, ma probabilmente per gran parte della notte aveva vagato a vuoto: nonostante infatti gli fosse sembrato di aver percorso diversi chilometri, aveva udito comunque il sommesso fruscio del breve corso d’acqua presso il quale si era rinfrescato, come se non avesse mai abbandonato il pendio terroso sul quale il fiumiciattolo sorgeva.
Gli uccelli adesso cantavano, preannunciando il bagliore rosato di cui lentamente si tingevano sprazzi di cielo oltre gli alberi. L’atmosfera divenne, nel giro di pochi attimi, meno greve e cupa, rischiarata dai primi raggi del sole che, deboli ma accecanti, già rischiaravano le foglie morte cadute dagli alberi.
Alzatosi in piedi, riuscì a procedere più velocemente rispetto a quanto avesse già fatto a tentoni nell’oscurità. Notò che, nonostante le apparenze, tracce inequivocabili del passaggio umano apparivano saltuariamente tra le radici nodose degli alberi: rami spezzati, tranciati da un’ascia o da altri oggetti contundenti, liberavano i sentieri più ardui da percorrere, agevolando di molto il cammino. E, mentre la flebile luce dell’alba cedeva il passo a quella più sicura e decisa della mattinata, ed il sole si levava già nel cielo alle sue spalle, cominciò a notare alberi più radi e meno affusolati nella forma, le cui radici si diramavano in maniera più omogenea percorrendo minore distanza rispetto a quelli secolari all’interno della grande foresta. Ma fu solamente parecchie ore più tardi, quando il sole, raggiunto lo zenit, cominciava a tramontare davanti ai suoi occhi, che riuscì finalmente ad intravedere la grande pianura che si estendeva nei pressi della Chocobo Farm.
Stanco per il lungo viaggio, si lasciò scivolare lungo il tronco di un abete, così come aveva fatto durante l’alba, sedendosi sulla terra umida bagnata da un temporale passeggero.
La grande luce delle pianure, così violenta rispetto a quella che filtrava all’interno del bosco, inizialmente lo assalì brutalmente, costringendolo a serrare gli occhi e a ripararsi con il dorso della mano. Poi, cominciò ad abituarsi alla luce violenta, e al bagliore arancione che si tingeva sulle montagne che recidevano la linea retta dell’orizzonte, in lontananza.
Cloud si disse che, probabilmente, per quel giorno aveva già solcato abbastanza sentieri e, alzatosi da terra, decise di accendere un fuoco per tenere lontane le bestie a causa delle quali durante la precedente notte non aveva chiuso occhio. Si alzò e rovistò nello zaino che portava alle sue spalle, setacciandolo alla ricerca di una materia adatta ad accendere un fuoco. Ne trovò una incrinata su più punti, vecchia e dimessa, che doveva avere con sé da moltissimo tempo, perché non ricordava neppure come l’avesse ottenuta. Dopo un paio di tentativi, riuscì ad accendere un fuoco di piccole dimensioni la cui fiamma venne spenta dopo pochi secondi da un lieve soffio di vento.
Sospirò e ripeté il gesto, ottenendo una fiamma di dimensioni maggiori il cui crepitare riempì l’aria del crepuscolo nascente. La alimentò con diversi rami secchi e infine, quando fu certo che non si sarebbe più spenta, cercò qualcosa da mettere sotto i denti, ma con scarsi risultati.
Quando la sera scese alle porte della pianura, si ritrovò nuovamente seduto ai piedi dell’abete, di fianco al fuoco che saltuariamente scoppiettava, lanciando scintille che si erano spente ancor prima di toccare terra.
Perse il suo sguardo nella luce che le fiamme emanavano e nel loro continuo rinnovarsi, di attimo in attimo, rischiarando le brune cortecce degli alberi. La luna sorgeva luminosa anche quella notte, rischiarando le lontane colline aldilà della pianura. E mentre osservava la grande luna in cielo, sulle colline e aldilà di quelle, notò il grande bagliore luminoso che, come una scintilla nell’oscurità, rischiarava la nera notte. Il grande bagliore luminoso di una città che conosceva bene, e che, come aveva imparato durante tutti gli anni che vi aveva trascorso, non dormiva mai.








E mentre la luna si levava alta nel cielo, mai più splendente che in quella notte, e l’aria si tingeva dell’aroma di un temporale appena passato, Cissnei si ritrovò a fermarsi per riprendere fiato, nel bel mezzo della grande radura che Cloud aveva ammirato dall’uscita del bosco. Ogni tanto si voltava indietro, impassibile, ad osservare la grande città che lentamente sfumava via dalla sua vista; e ad ogni passo, quella grande luce che rischiarava le colline e il cielo si allontanava e svaniva inghiottita dalle tenebre, sempre di più.
La notte era soave e delicata, in quel campo, come uno dei tanti fiori che crescevano rigogliosi in quella zona. Ne osservò la maestosa corolla che era il cielo indaco, ammaliata dall’enorme quantità di stelle che da lì erano visibili, di gran lunga maggiore a quelle che era solita ammirare dall’alto della sua collina fuori Midgar. Si sentì libera, per la prima volta dopo tanto tempo, dai legami che gli uomini della città avevano stretto intorno a loro, nella vana speranza di cercare una sicurezza che lei aveva conosciuto solo adesso che si era allontanata da quel mondo a loro tanto caro. E mentre udiva i grilli cantare per lei, in quella notte così chiara e adamantina, allontanò per qualche ora il pensiero di Zack che tanto l’aveva perseguitata durante tutto il giorno precedente, e continuò il cammino solo per il puro gusto di andare avanti, e di scoprire nuovi luoghi come quello, capaci di rasserenare e acquietare i turbamenti dell’animo.
Quando il display del suo PHS segnava ormai la mezzanotte da un pezzo, decise di sostare per un po’ in una radura presso la quale alcuni alberi isolati proiettavano sfocate ombre alla luce della luna. Ma nel momento esatto in cui si sedette a terra, tutta la stanchezza accumulata durante le ore che aveva trascorso in fuga le si riversò addosso, come un fiume in piena che irrompe furiosamente dagli argini. D’un tratto sentì il rimorso e il dolore per la perdita di Zack nuovamente e con maggiore rammarico, e gli parve di rivivere la conversazione che aveva sostenuto con Tseng come se fosse avvenuta appena qualche minuto prima.
Strinse le gambe al petto, mentre il cielo si macchiava di nubi gonfie giunte da est che sembravano preannunciare una nuova tempesta imminente.
Venne assalita dalla solitudine che serpeggiava dentro di lei, e si chiese a cosa servisse quel disperato viaggio senza meta che aveva deciso di affrontare. Aveva lasciato la ShinRa e non aveva alcuna intenzione di tornare tra i suoi ranghi, ma adesso si sentiva sola, sperduta, smarrita nell’immensità di un mondo che non aveva mai affrontato da sola.
Lasciare la ShinRa, lo capiva solo ora, era un po’ come perdere se stessi. E lei, senza se stessa, fino a quel momento, non lo era mai stata.
Persa nei suoi pensieri, gettò uno sguardo disinteressato al cielo soffocato dalle nubi; e fu in quell’istante, mentre osservava i rimanenti limpidi spazi di cielo, che notò un insolito e scintillante bagliore che si muoveva nel cielo. Ed in quel momento, allontanato ogni altro pensiero su Zack e sul suo futuro, cominciò a correre velocemente, cercando riparo nelle grandi foreste che si estendevano ai margini della pianura.








A Midgar la serata era stata uggiosa e buia, preannunciando un temporale che di lì a poco avrebbe scatenato la sua furia sulla città inerte. La luce della luna, offuscata dalle nubi, non raggiunse nemmeno una volta le solitarie strade, battute unicamente dai rivoli di pioggia che si radunavano in pozzanghere di sempre maggiori dimensioni. Al contrario, invece, l’acquazzone sempre crescente manifestò la sua furia sulla città addormentata, piegandola al suo volere e illuminandola saltuariamente quando i lampi squarciavano il cielo.
Gocce di pioggia si infrangevano contro le ampie vetrate del suo attico, situato nei piani alti dell’edificio ShinRa. Da quell’altezza, ammirò come la natura manifestasse la sua tremenda forza sull’uomo, e su come quest’ultimo fosse indifeso di fronte ad essa. Mosse alcuni passi verso il vetro, ed il rumore dei tacchi alti sul marmo scandì elegantemente il suo cammino.
Poggiò una mano sulla finestra, perdendo lo sguardo tra le oscure vie desolate della grande metropoli. Midgar si estendeva davanti ai suoi occhi, costretta ad un letargo forzato imposto ingannevolmente dalla pesante pioggia. In nottate del genere, quasi nessuno si avventurava per le vie, rese impraticabili dal tempo. E quando nessuno solcava le strade della città, sembrava quasi che quest’ultima perdesse la sua anima, e divenisse un mero fantasma sbiadito, slavato e incolore.
Ora che ci pensava, in effetti, in quel momento le condizioni atmosferiche non sarebbero potute essere migliori.  
Da quando era riuscita a dirigere provvisoriamente anche il reparto Turks, era stata incaricata di risolvere parecchie seccature inutili; ma ciò, stranamente, non l’aveva infastidita, perché sapeva che era solo il primo passo al fine di mettere in moto qualcosa di più grande. Aveva lavorato per parecchio tempo a quel determinato piano, instancabile, pregustando la gloria che prima o poi ne sarebbe conseguita, certa che un giorno i suoi sforzi sarebbero stati ripagati. E adesso, osservando la ShinRa che cadeva sotto gli insistenti colpi dei nemici, aveva deciso che probabilmente non avrebbe trovato un’altra occasione per attuare le sue macchinazioni.
Sorrise alla tempesta, salutando la pioggia che si infrangeva sulle vetrate come colei che portava via gli ultimi residui di quel governo poco mirato che aveva ridotto Midgar in malora. Una volta che lei sarebbe divenuta la nuova Presidente, era certa che il destino della compagnia si sarebbe rivoltato, e che una nuova età dell’oro avrebbe investito la ShinRa e tutto le terre a lei alleate.
Fu in quel momento che udì qualcuno bussare alla porta, lievemente, battendo due volte le nocche sul lucido mogano. Si riscosse dai suoi pensieri, e il ghigno sul suo volto svanì.
“Chi è?” chiese, calibrando il tono della voce affinché non sembrasse troppo soddisfatto.
“Sono Michael.” rispose una voce dall’altra parte della porta.
Scarlet sorrise, pregustando una pungente chiacchierata. “Entra pure, Michael.”
La porta si aprì lentamente, cigolando sui cardini antichi. Davanti ai suoi occhi apparve un uomo di circa trent’anni, in giacca e cravatta, che rimase immobile sull’uscio, osservandola.
“Allora, Michael” cominciò la donna, ponendo parecchia enfasi su quel nome. “Credevo di averti dato la serata libera.”
“Questo è vero” esordì l’uomo, avanzando disinvolto per la stanza. “Tuttavia, non credo di avere molta scelta su dove trascorrere la mia vacanza, data la grande tempesta che si è abbattuta sulla città. Davvero simpatico, da parte sua, concedermi del tempo libero oggi.”
“Beh, la tua dedizione è ammirevole” rispose Scarlet, ironica, ignorando la sua ultima frase con un sorriso sarcastico. “C’è un motivo particolare per cui mi hai disturbato, o si tratta solo dell’ennesimo tentativo malriuscito di farmi perdere le staffe?”
“Per la verità, mi manda il Presidente ShinRa” annunciò l’uomo, con voce ferma. “Gradirebbe parecchio poter avere una chiacchierata con lei, il ché, a mio avviso, è davvero straordinario, poiché di solito ogni persona sana di mente preferisce starle a debita distanza.”
“Riferiscigli che aspetto la sua visita con ansia” rispose la donna, seria, scartabellando alcuni documenti sulla sua scrivania. “E quanto a te... beh, sentiti pure libero di stare a debita distanza da questo ufficio. Ti assicuro che nessuno sentirà la tua mancanza.”
“Naturalmente” decretò lui, sorridendo. “Bene, andrò a contattare il presidente subito.”
Scarlet non rispose, e lasciò che l’uomo abbandonasse la stanza. Ascoltò il rumore dei suoi passi spegnersi lungo il corridoio, poi si preparò in vista dell’incontro con il presidente e ai possibili nuovi pezzi che l’uomo avrebbe potuto schierare in campo. Era certa che non sospettasse nulla del suo piano: l’unico che ne era a conoscenza, in effetti, era Michael. I suoi pensieri deviarono per un momento su di lui, mentre lo sguardo si posava sulla porta che pochi secondi prima l’uomo aveva attraversato. In effetti, nel momento in cui si sarebbe appropriata del comando, il posto che avrebbe occupato Michael sarebbe stato quello che adesso apparteneva a lei. Nonostante non perdesse occasione di biasimarlo, sapeva della sua profonda lealtà nei suoi confronti, ed era per questo che dopotutto si fidava di lui. Persino quel cinico senso dell’umorismo di cui era fornito era un punto a suo favore: nonostante talvolta lo ritenesse tremendamente sfacciato, era certa che questa sua dote, in futuro, gli sarebbe risultata utile.
Il presidente si annunciò con un finto colpo di tosse, osservandola serio dall’entrata dell’attico.
“Presidente ShinRa!” esclamò lei, voltandosi verso di lui e chinando lievemente la testa.
“Salve, Scarlet” la salutò quello, avvicinandosi alla scrivania dove quest’ultima era seduta. “Pessima serata, non trova?”
“Piuttosto uggiosa, in effetti” si ritrovò a rispondere lei, indicando il vento che ululava fuori dall’edificio. “Prego, si accomodi” aggiunse poi, indicando una delle due poltrone situate in un angolo dell’attico.
“Grazie” disse quello, stanco, sedendosi compostamente. Fece una lunga pausa, smarrendo lo sguardo tra le pesanti gocce di pioggia che si riversavano sulla città.  Poi aggiunse, con un sospiro sfiancato: “Dobbiamo discutere del futuro di questa compagnia. In effetti, non scherzo nell’affermare che siamo di fronte alla situazione più difficile che la ShinRa abbia mai dovuto affrontare, e, francamente, non saprei nemmeno dire come possa uscirne indenne: per questo ho bisogno del suo aiuto, Scarlet, della sua audacia nel campo degli affari, e della sua attitudine al comando, per un consiglio fidato su quelle che sono le sorti del mondo intero. E spero che sarà così gentile da non negarmelo, perché mai come adesso la compagnia ha avuto bisogno del suo aiuto.”
Scarlet si sedette di fronte all’uomo, assumendo una maschera seria sul volto. “Naturalmente può contare su di me”.
Il Presidente le rivolse un accenno di sorriso, grato. Poi, tossendo, osservò nuovamente il violento temporale, facile preda dei suoi pensieri. “Speriamo che la tempesta esaurisca la sua furia presto” sussurrò infine, mentre la luce di un lampo illuminava improvvisamente le iridi dei suoi occhi spenti.

Fine Capitolo 2


Ehm. Allora. Non aggiornavo questa fic da circa… un anno. Mica male, eh? xD
Seriamente, scusate il mostruoso ritardo. D’ora in poi cercherò di mantenere un andamento più regolare per questa storia, in modo tale che giunga alla fine più o meno entro una cinquantina d’anni, invece dei cento che sarebbero passati con l’andatura da bradipo che ho ingranato durante questi ultimi mesi.
Spero vi piaccia, perché, sinceramente, a me non sembra un granché (specie per la parte finale, che si discosta davvero molto dal resto del capitolo).
Ringrazio vivamente Bankotsu, Lirith e Valy_Chan per aver commentato il capitolo precedente (Grazie a tutti per i complimenti, sono felice che via sia piaciuta tanto ^^) e soprattutto quest’ultima per aver inserito la fan fiction tra le preferite. Grazie, grazie, grazie :D
Infine, vorrei spendere ancora un minuto in questa nota finale di capitolo, per sottolineare un importante fattore che mi ha spinto a recuperare questa fic: fino a venerdì sera, infatti, il capitolo contava appena tre paginette scarse. Tuttavia, ho deciso di scrivere le successive sei pagine in così poco tempo perché, dopotutto, volevo onorare la memoria di un amico che, due anni fa circa, aveva letto la prima versione di questa fan fiction (che all’epoca si chiamava solo After Crisis) e che l’aveva da subito amata. Adesso, a due anni di distanza, sono cambiate molte cose: ma io gliela dedico comunque, perché credo che sarebbe contento di vedere che (almeno in parte) sono migliorato e che ho affinato ulteriormente il mio stile.
Quindi, con la speranza che il prossimo capitolo arrivi entro il prossimo decennio (e qualcosa mi dice che sarà così), vi lascio qui. A presto!

   
 
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