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Autore: keska    29/06/2010    28 recensioni
Tutto sommato stavo bene. Avevo solo bisogno di quello. Ormai, ne dipendevo.
Una volta soddisfatto il mio bisogno, sarei stata meglio, ne ero certa. O forse, no.
Una Bella e un Edward, al loro primo incontro. I personaggi rimangono identici, ma questa volta, hanno in comune, qualcosa in più.
Bella ha un problema grave, la bulimia, ma Edward le darà una mano a recuperare la salute.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Tutto passa, e il tempo scorre

Tutto passa, e il tempo scorre.

Cose che parevano impossibili si fanno vicine senza che neppure ci sia il tempo di accorgersene. L’animo guarisce. Il corpo si rigenera. La vita va avanti, veleggiando verso la sua fine.

Il giorno in cui lasciai l’ospedale, avevo paura. Paura di lasciare quel posto che sapevo, altrimenti, mi avrebbe protetta, impedendomi fisicamente di fare ciò di cui avevo paura. Mi avrebbe protetta da me stessa.

Eppure l’animo si arma di incredibile coraggio di fronte alla possibilità di un rinnovamento, aprendosi all’opportunità di ottenere qualcosa di migliore, quello a cui sempre l’uomo agogna. Qualcosa di migliore.

Edward mi strinse la mano, e mio padre mi posò la sua sulla spalla. Ricevette il mio sguardo perplesso e imbarazzato, e, no, non fui certa che quel gesto mi facesse stare meglio. Ma sembrava proprio che dovesse essere così, e si sa, l’uomo ha anche la capacità di rendere reale ciò in cui crede.

Tutti mi riservarono una calorosa accoglienza. Mia madre si era temporaneamente stabilita a casa di mio padre, e la cosa, inizialmente, mi destabilizzò non poco. Non osavo accarezzare e contemplare l’immagine di loro due insieme.

Cominciai, invece, a rendermi conto di quanto dovessi accettare quello che era così com’era. Phil venne a trovarci, due volte, e mamma cominciò a tornare più spesso a casa. Ingoiai il magone, la prima volta, e pensai pure a quanto fosse interessante osservare mio padre che si relazionava con loro.

«Phil, vuoi vedere la partita? Oh, è quasi cominciata…».

Li osservavo dalle scale, raggomitolata sui gradini.

«Conosci una tavola calda qui vicino? Sai Charlie» e la sua voce si abbassò «Reneè ha una spiccata fantasia in cucina…».

Il suono delle loro risate mi fece sussultare, e li fissai con ancor più sorpresa. Sembravano rilassati mentre parlavano di mamma. «Oh, i primi anni era anche peggio».

Eppure, quando decisi di scendere le scale, si tirarono su, lanciandomi occhiate cariche di contegno. E mi chiedevo perché facessero così. Mi sentivo male pensando che la mia presenza potesse indurre un tale cambiamento del loro comportamento. Come facevo a capire quali fossero i loro sentimenti? Perché tutto non poteva essere più semplice?

Lo avrei potuto chiedere a Edward, l’unica persona con cui mi aprissi così tanto. Ma lui non c’era, in quel momento, e il pensiero della sua assenza mi fece stringere in un nodo lo stomaco e girare la testa.

«La cena è quasi pronta tesoro, di là c’è Reneè…».

Annuii, dirigendomi in cucina. Nessuno mi chiedeva mai se avessi o meno intenzione di mangiare. Evidentemente, non rientrava nel programma dato loro dalla mia psicologa, con la quale avevo frequenti e puntuali contatti.

Mangiavo ad orari prefissati, cinque pasti al giorno. Non c’era mai molta gente mentre lo facevo, ma non ero mai neppure sola. Il dolore post operatorio era quasi scomparso ormai, e riuscivo a consumare tranquillamente i pasti.

Un modesto piatto di riso al pomodoro comparve dinanzi ai miei occhi. Tutto il cibo di cui mi nutrivo era semplice e privo di particolari condimenti. Mia madre si sedette accanto a me e ne prese una porzione anche per lei.

«Va tutto bene piccola?» mi chiese con una punta d’ansia nella voce.

Non le dissi una sola parola, ma mi feci volentieri stringere fra le sue braccia. Il calore umano, il contatto con un altro essere, era il primo necessario passo per annullare quella solitudine che di tanto in tanto mi aggrediva da dentro.

Tutto passa, e il tempo scorre.

Cose che parevano impossibili si fanno vicine senza che neppure ci sia il tempo di accorgersene. L’animo guarisce. Il corpo si rigenera. La vita va avanti, veleggiando verso la sua fine.

Ero guarita. Il mio corpo stava guarendo. La mia vita andava avanti. Eppure, a volte, non troppo spesso quanto non troppo raramente, sentivo ricomparire la voragine che mi albergava in seno. Nessuno poteva guarirla. Né io, né nessun altro.

Basta un attimo. Un pensiero troppo lento, un vuoto troppo lungo. Un gesto, e la malinconia trasforma in amarezza. Un altro, e l’amarezza diventa tristezza.

Salii silenziosa per i gradini delle scale, e non entrai neppure in camera, ma andai direttamente verso il bagno, chiudendo fuori Minush che miagolava per stare con me.

Mi guardai allo specchio. Eppure, faticai a riconoscermi nella mia immagine. Avevo un groppo in gola, e una vibrante amarezza e tristezza mi avvolgeva da dentro. La mia mente vorticava confusa, ma non riuscivo a trovare nulla, proprio niente di niente, che potesse farmi stare meglio.

Era come se le lacrime si fossero affacciate ai miei occhi senza voglia di scendere sulle mie guance. Il senso di pesantezza e amarezza scese dalla gola alla pancia, e mi tolse il respiro, tanto da costringermi a prenderne uno, profondo e intenso, e a reclinare il capo all’indietro, come se altrimenti non sarei mai riuscita a farlo passare.

Annaspai.

Sentii la nausea avvolgermi intensamente, e automaticamente mi voltai verso il water.

Mi avvicinai alla ceramica bianca e vi posai i palmi delle mani, appoggiandomi di peso. Chiusi gli occhi, sentendomi soffocare, sentendo la nausea impadronirsi di me. Provai a prendere altri respiri, e sollevai le palpebre.

Mi volevo liberare da quella sensazione asfissiante, che era arrivata così, senza senso, senza un motivo, trascinandosi dietro solo tanta tristezza. Volevo liberarmene.

Ma quello, mi avrebbe solo fatto stare peggio. Edward, i miei familiari, me stessa. Ci avrebbe fatti stare peggio. Male. Non volevo stare male.

Poiché dopo tanta pena l’avevo capito. La vita è fatta di alti e bassi. E dovevo solo aspettare che “i bassi” passassero, possibilmente senza disperarmi e soffrire troppo. Portai le mani sulla testa, che non aveva smesso un secondo di girare, e presi un respiro.

Fare quello che mi aveva fatto stare così male. Ora. Che ero così poco lucida per capire quello che stavo facendo.

Non me lo potevo permettere. Non potevo fare diventare quel basso ancora più basso.

Con calma calcolata mi tolsi i vestiti di dosso, sfilandoli e facendoli ricadere in una pila ordinata. Mi sentivo la mente vuota, lo stomaco leggero, e il formicolio alla gola non mi aveva abbandonata. Compivo i gesti ordinari con calma e lentezza, esasperandoli quasi.

Entrai nella doccia, e aprii il getto d’acqua tiepida, lasciando che mi bagnasse completamente il corpo e i capelli. Feci vagare ovunque i miei pensieri, verso il nulla. Quell’agitazione mi stringeva le viscere non mi abbandonava.

Aspetta Bella, aspetta, mi dissi. Passerà, aspetta solo che passi, e tutto andrà bene.

Gemetti. Mi piegai su me stessa, rannicchiandomi, lasciando solo che il getto d’acqua mi colpisse la schiena.

Volevo restare così, a non pensare a niente. Restare rannicchiata su me stessa, con il rumore dell’acqua sulla mia pelle, il tepore che mi provocava in contrasto con i brividi che percepivo in ogni altra parte del corpo. Poggiai gli stinchi e gli avambracci contro le assi in legno del pavimento della doccia, e rimasi, così, a tentare di non pensare a nulla.

Ma i miei pensieri vorticavano, e ben presto me ne trovai ancora sopraffatta.

Gemetti, ancora, sentendomi soffocare.

Volevo piangere, piangere e liberarmi di quel dolore immotivato che era sopraggiunto così in fretta. Non senza un certo sforzo presi ancora un respiro, e sentii gli occhi pizzicare, e un formicolio intenso solleticarmi dalle ciglia al naso.

Un altro gemito mi sfuggì dalle labbra. Il mio corpo cercava automaticamente di liberarsi di quel male. Presi un respiro più agevole quando una lacrima mi percorse il viso.

La lasciai scivolare, senza interrompere il suo passaggio, fino al mento e poi fino al collo.

Tutti i miei successivi movimenti furono sempre lenti e calcolati. Mi fermavo spesso, procedevo senza fretta. Mi sentivo in una strana dimensione, ed ero sola. Mi potevo concedere di vivere con la mente esattamente dove avrei voluto essere.

Con lentezza esasperante abbassai la maniglia della porta del bagno, percorsi i passi, a piedi nudi sulla moquette soffice, fino alla porta chiara della mia camera. Sollevai la mano, le dita increspate per la lunga permanenza nella doccia, e aprii la porta.

Edward era lì, steso sul mio materasso in una posizione apparentemente tranquilla.

Sentii automaticamente la tensione accumulata dissiparsi in un istante. Come se la mia dimensione strana e mentale dovesse essere celata a qualsiasi occhio estraneo.

Quando mi infilai fra le sue braccia, ancora bagnata e con indosso solo l’accappatoio, sentii il calore della sua anima. Perché quando non si è soli, basta un infimo gesto d’affetto per scaldare il cuore. Perché la mente è in quella condizione in cui cerca di svuotarsi e sfugge al vuoto, e trova ben accetta ogni novità come salutare distrazione. Basta sapere che il mondo che ci attende e ci vuole con sé, anche solo per un po’, e sapere di essere nella vita di qualcuno oltre che nella propria dà la gioia più grande che esista.

Un abbraccio.

E nella mia mente non ci fu più posto per i cattivi pensieri, per i turbamenti, per la tristezza che stringe il cuore. Un abbraccio, un segno d’affetto. La muta ripristinazione del giuramento della dedizione reciproca.

Mi accarezzò i capelli, baciandoli. «Sei bellissima così» disse senza pudore.

Non era la prima volta che mi vedeva in accappatoio. Anche più nuda, di un accappatoio. Sentire il suo giudizio sulla mia pelle, sul mio corpo, mi faceva sentire bene. Sapevo quanto le sue parole fossero di parte, eppure essere così importante agli occhi di uno rende meno importante il giudizio altrui.

Arrossii. «Grazie», mormorai, baciandolo.

«Com’è andata oggi?». Domanda comune e quotidiana. Ma in questo caso non affatto disinteressata…

Annuii, e pensai che dovesse bastargli. Non senza alcune lamentele dalla sua parte, lo convinsi a fargli sfilare la sua camicia. Non era la prima volta che restavamo nel letto ad accarezzarci e baciarci. Mi faceva sentire bene, mi faceva sentire viva. C’era una parte di me che adorava quello che stavo costruendo in quella che chiamavo “la mia vera vita”.

Un sorriso di autocompiacimento sorse sulle mie labbra. Edward se ne accorse. Avevo il viso poggiato sul suo petto freddo e scoperto. «A cosa pensi?» chiese, accarezzandomi i capelli.

É proprio come ho pensato. I  brutti momenti vanno via, senza neppure darci tempo di accorgercene.

Scrollai le spalle. «A niente».

Così, venuta fuori da un periodo catastrofico della mia vita, avevo maturato un sapore diverso verso il mondo. Non mi curavo più dei momenti tristi, e cercavo di vivere appieno quelli felici. Avevo capito che era davvero impossibile sbarazzarsi di quella tristezza, quell’angoscia che ogni tanto mi attanagliavano. Eppure, stavo riuscendo ad accontentarmi di quello che la vita mi aveva dato.

Un giorno Edward mi caricò in auto, senza darmi una spiegazione.

«Dove andiamo?» avevo chiesto infinite volte, senza ottenere una risposta.

«Il posto del campeggio?» avevo chiesto insistentemente. «La pineta? Quello…» arrossii «del primo bacio?».

«Sai Bella» mi rispose con un sorriso. «Sei così umana, quando fai così. La mia famiglia è via, sono tutti a caccia. E volevo portarti a casa mia per stare assieme, da soli».

Rimasi sinceramente lievemente delusa dalla dichiarazione.

Lui se ne accorse, e ridacchiò. «Ogni oggetto, ogni luogo, ogni azione compiuta, è importante solo in una singola dimensione umana, per una singola persona. Bella» disse dolcemente, accarezzandomi una guancia, «posso portarti dove vuoi. Ma penso che riusciresti anche ad apprezzare ogni altra opportunità, seppure ti sembri di minore attrattiva. Devi solo pensarci».

E lo disse con un tale tono frammezzato fra persuasione e quella che mi pareva una punta di imbarazzo, che rimasi davvero, molto tempo, a pensarci su.

Quando fummo a casa sua, poi, fui colta da un improvviso e raggelante pensiero. Nell’ultimo periodo eravamo stati molto insieme, e lui mi era stato davvero vicino. La mia psicologa mi aveva esplicitamente chiesto quanto approfonditamente conoscessi Edward dal punto di vista fisico, quanto conoscessi me stessa, dal punto di vista fisico, e da quel momento avevo cominciato intenzionalmente a pensare alla nostra vicinanza.

Inizialmente spronato da me, su mia iniziativa, avevo sollevato la questione con Edward.

«É troppo pericoloso» aveva detto, spiegandomi a quali rischi saremmo potuti andare incontro. Mi aveva guardato con uno strano guizzo, e scosso veementemente la testa. Eppure… La questione era rimasta così sollevata, senza una soluzione.

E in seguito ci eravamo sfiorati, accarezzati, toccati, conosciuti. Niente di programmato, solo eccessi di effusione.

Cosa voleva dire tutto questo? Avevano forse un senso le parole che mi aveva rivolto mentre eravamo ancora in auto?

Deglutii, andandomi a sedere sul divano. Era andato a prendermi qualcosa da bere. Aveva ragione, quindi. Anche qualcosa di apparentemente ordinario poteva rivelarsi in realtà molto più interessante.

Il cuore mi batteva furioso nel petto.

Ricomparve da me, porgendomi il bicchiere di spremuta d’arancia. «Tutto bene?» chiese, corrugando le sopracciglia.

Sospirai, prendendogli il bicchiere dalle mani e facendone un lungo sorso. Avevo le guance calde, lo sentivo. Avevo immaginato, come ogni adolescente, la mia prima volta. Dolce, delicata. Romantica. Avevo immaginato l’imbarazzo che avrei provato nel dover esporre il mio corpo nudo e doverne osservare un altro, altrettanto nudo.

Si venne a sedere accanto a me, prendendomi la mano fra le sue. Lasciai il mio bicchiere sul basso tavolino e posai la testa sulla sua spalla.

Eppure, aveva ragione Edward. Ogni cosa assume tanta importanza quanta gliene viene data. E come potevo desiderare qualcosa che fosse simile a delle candele, delle coperte rosse di seta, a tutta la più perfetta romanticheria e dolcezza del mondo. Come potevo, quando avevo l’uomo che amavo accanto a me?

Mi voltai a baciarlo, partendo dall’orecchio arrivando fino alle labbra, come sapevo l’avrebbe fatto impazzire. Mordicchiai, per quanto riuscissi, la mascella, gustandomi il sapore della sua pelle.

Godere dei momenti felici. Io, Edward, nudi sul divano, sul tappeto o sul letto di casa sua. Mentre facevamo l’amore. Non importava come. Non importava niente, quanto di meglio o peggio avrei potuto chiedere o trovare. Non avevo nessuna aspettativa, ed ero pronta a godere della sorpresa del suo corpo suo mio.

Sorrisi sulle sue labbra, lasciando che le sue mani si avventurassero fra i miei capelli. E così fecero anche le sue, sulle mie.

Si abbassò tanto da farmi posare la schiena sul cuscino, continuando a baciarmi. «Ti amo».

«Ti amo anch’io». Non lo dicevamo spesso. Eppure, facendolo, eravamo convinti del nostro sentimento, in quel momento, in quell’istante.

Questo, il vero significato del carpe diem per me.  

«Non hai paura?» chiesi ansando, osservandolo mentre, tenendo il mio volto fermo fra le mani, succhiava con avidità fra la piega del mio collo.

Si sollevò con il viso. I suoi occhi erano lucidi ed eccitati. Una fitta di pura estasi e gioia mi fece scuotere. «Da morire» confessò.

Sorrisi, e sollevai il viso per riprendere a baciarlo.

Fui contenta. Dopo un’ora e mezza, eravamo stesi, nudi, davanti al camino acceso. Niente di quello che avevamo programmato era andato in porto. Al primo tentativo Edward aveva avuto paura, e vedendolo immobilizzato dal terrore di farmi del male, gli avevo detto di fermarsi. Così ci eravamo accarezzati e amati lo stesso, godendo ognuno del piacere dell’altro.

Ero contenta. Aveva messo a dura prova il suo autocontrollo solo per me, solo per dimostrarmi il suo amore. Solo, speravo, per il desiderio che aveva di amarmi.

Perché non gioire di quella felicità? Perché pensare a quello che avrei potuto avere, e non, invece, a quello che di meraviglioso avevo avuto?

Accarezzai ogni riflesso ramato dei suoi capelli, osservandoli attentamente e scrutandone le ciocche. Ero stesa su di lui, prona, e giocherellavo con le incantevoli punte della sua chioma. Le orecchie fischiavano e il cuore batteva.

Posò una mano sul mio petto. Rabbrividii. Era così freddo.

«Va tutto bene?» disse, premendola più forte.

L’incanto di un momento fu rotto, e la mia mente tornò a non essere vuota. Si riferiva agli episodi di tachicardia, certamente. Annuii. «Mi succede meno spesso».

Mi accarezzò una guancia, e allora decisi di lasciarmi rotolare sul fianco, perché quella posizione mi stava mozzando il respiro. Mi feci abbracciare.

«Carlisle dice che se farò tutto quello che mi ha detto potrò tenere la situazione sottocontrollo».

Mi sorrise. «Bene» disse, avvicinando le labbra per farle prigioniere delle mie.

Ancora gustavo quella dolcezza che viene dal ricordo di una felicità appena provata, quando Edward, sul calare della sera, mi riportò a casa.

Godevamo di uno di quegli attimi eterni in cui tutto sembra perfetto.

Edward era stato il mio redentore. Non attribuivo completamente a lui tutto il merito della nuova prospettiva di vita che avevo acquisito, ma certamente dovevo dargli quello di essere riuscito a metterci ordine. Era stato lui che rettificando il mio comportamento, aiutandomi nei momenti più bui, e facendomi confrontare con qualcun altro all’infuori del mio animo tormentato, aveva ordinato la mia vita.

Era tutto così perfetto. Che cosa meravigliosa conoscere così a fondo la vita e compiacersi di fare le sue beffe.

«Dovresti prendere la giacca, fa un po’ freddo», disse, posandomela sulle spalle e aiutandomi ad uscire dall’auto.

Afferrai la sua mano e mi ritrovai sbilanciata, tanto da scontrarmi contro il suo petto.

I nostri occhi si incontrarono. Prese una mano fra le sue e se la portò alle labbra, baciandone la punta delle dita. Parlò con serietà e pacatezza. «Mi dispiace per come sono andate le cose oggi… Sicuramente ti…».

«Non dirlo» lo fermai, posando un dito sulle sue labbra. I suoi occhi scintillavano. «É stato meraviglioso. Vorrà dire che forse, presto o tardi, avremmo l’opportunità di godere di qualcosa di ancor più meraviglioso…» dissi, con un cenno d’imbarazzo appena calato dietro un abbozzo di sorriso.

Sorrise anche lui, avvicinando dalla nuca il mio capo al suo, sfiorandomi prima col respiro, e poi con le labbra.

Lo presi per mano, le farfalle nella testa e nello stomaco, conducendolo verso il vialetto di casa. Una ragazzina innamorata. Sentivo tanti brividi a definirmi così, e le guance calde di rossore.

Quando sollevai il capo, vidi tre ombre distanti circa sessanta metri lungo la strada. Avevo il sole negli occhi, e di quelle persone vedevo solo le sagome. Eppure, mi pareva fossero proprio Charlie, Reneè e Phil. Li osservai perplessa. Parevano parlare concitatamente.

Automaticamente i miei passi si mossero verso di loro, e non feci che veni metri prima di vedere in viso mio padre. Subito mi sentii strattonare e bloccare da due braccia fredde. Troppo tardi. I miei occhi erano corsi verso il basso. Il mio cuore nel petto.

«Sta dormendo» sibilai senza fiato, sentendo l’aria uscire dai polmoni.

Mia madre venne velocemente verso di noi, facendo un cenno a Edward.

«Sta dormendo» ripetei, e in quel secondo non provavo dolore. Solo distacco e incredulità. No, non sta succedendo davvero, pensai.

Ma mia madre aveva il viso inondato di lacrime.

Ansimai. E tutto crebbe esponenzialmente. «No!» gridai, scoppiando immediatamente in lacrime. Non avevo neppure avuto il tempo di controllarle. Impossibile. Impossibile farlo.

Urlai. E Edward mi strinse più forte, sollevandomi di peso e trascinandomi verso casa. Altre persone si stavano radunando lì intorno. Richiamate forse dalle mie urla. Tutte, per vedere il corpicino della mia Minush.

«Bella, Bella, calmati», mi ripeté Edward, provando a bloccare i miei gesti inconsulti.

Dovette lasciarmi andare appena fummo in casa, e senza neppure degnarlo di uno sguardo corsi via, su per le scale, urlando, sentendo un dolore immenso nel petto.

Impossibile, impossibile davvero.

Mi lasciai andare contro la parete della mia camera, singhiozzando e gemendo. La sensazione di incredulità era ancora così vivida in me, da cozzare contro la cruda verità in maniera estremamente dolorosa.

Continuai a piangere, gemere, urlare, quando Edward venne da me, sedendomi accanto e prendendomi fra le braccia. Non è possibile, non è possibile. Non è giusto. Continuavo a gemere.

E quando la prima ondata di dolore scomparve, mi ritrovai con la testa leggera per le lacrime a vagare su ogni cosa, su qualsiasi cosa strana e assurda. I pensieri più sciocchi e disparati.

E mi pentii amaramente di essermi fatta beffe delle vita.

Edward mi accarezzò i capelli, baciandomi la fronte. Mi sentivo intontita per via delle lacrime, ed ero scomoda per essere stata in quella posizione. Eppure non volevo muovermi. La consideravo come un ineluttabile espiazione delle mie colpe.

«Non c’è più» mormorai, arrochita e stanca. I miei occhi si perdevano nel vuoto. «E non la sentirò più miagolare. E non sarà più con me» dissi, con le lacrime agli occhi «e lei non ci sarà più… era così piccola…» piansi ancora.

«Mi dispiace» disse, abbracciandomi a sé. Mi prese fra le braccia e mi portò a letto. E mentre avevo il capo posato sulla sua spalla, sentii che una parte di me cominciava ad accettare quello che era successo. E inondata dalla vicinanza del corpo di Edward, dai suoi gesti affettuosi, mi sentii egoisticamente meglio.

Tutti, il giorno seguente e per una settimana ancora, esercitarono un controllo serrato su di me. Non mi lasciavano mai sola, mai.

Non che il pensiero di tornare alle mie vecchia abitudini, in alcuni degli attimi di depressione più profonda, non mi avesse toccato, ma vederli così indaffarati nell’impedirmi di farmi alcun male e così preoccupati per me, mi fece irritare e definitivamente desistere.

«Dovremmo farle un… funerale. Qualcosa di simile?» propose Reneè a mio padre.

Mi portai alla bocca il cucchiaio di cereali. «Nessuna scemenza. Era un gatto, ed è morto. Nessun gatto sarà come lui. Ma era un gatto… ed è morto» ripetei, alzandomi dalla mia sedia per rifugiarmi in un angolino più appartato.

Così la parte più razionale di me venne a galla. Non pretendevo che il mondo cominciasse a pensarla come me, cha tutti, come me, assumessero questo controllo della proprio vita. Ma pochi giorni dopo la morte di Minush avevo capito come catalogare l’appena accaduto. Un altro degli imprevedibili e tristi momenti bui, niente di più, niente di meno.

La mano di Edward risalì dall’incavo dietro al ginocchio sulla natica scoperta, e da lì lungo la spina dorsale. Il mio petto nudo contro il suo, stesa su di lui.

Mi portai una mano al petto, stringendo forte gli occhi per contrastare il dolore. Mi strinse con una mano i capelli, facendo per ribaltare le posizioni per aiutarmi a respirare. «No» ansimai, provando a riprendere il controllo. Allacciai le gambe alle sue, e mi voltai per strofinare la guancia sul suo petto.

Passò.

Paradossalmente quando il cibo era al pieno centro della mie attenzioni, non ci avevo fatto caso. Ma ora si, ora conoscevo il sapore. Il sapore dell’amore.

Amore per i miei genitori, per Edward, per me stessa. Per Minush che non c’era più.

Amore per la vita.

«Come stai?» mi chiese, i suoi occhi dorati e lucidi nei miei.

Tracciai alla cieca un ghirigoro sul suo petto. «Il mio cuore batte».

La sua fronte s’increspò.

Automaticamente, le mie labbra si tesero in un sorriso. Farsi beffe, forse, non era la cosa migliore. La consapevolezza invece, sapeva d’ironia.

«Vivo».

 

Fine.

 

 

 

 

 

Vi prego, fatemi parlare. É l’ultima volta in cui ho l’opportunità di farlo, e vi terrò impegnati per diverse righe.

 

Forse non è la fine che vi sareste aspettati. Cosa c’è in questa fine?

Ho provato a mettere tanta umanità, oltre a tutte le mie pretese “filosofiche” sulla vita e sul mondo.

Forse, avrei dovuto dedicare più spazio e tempo alla guarigione. Il problema è che per me non si può mai guarire davvero del tutto. Non si può cancellare passato e dolore, e non si può ignorare quello che verrà. Per questo, preferisco concludere così, un po’ a metà.

Edward non si sarebbe mai lasciato andare così” protesterà qualcuno. Ma, a costo di scrivere un Edward poco vampiro, voglio scrivere di un Edward molto umano.

Ho scritto di cuore, e ho scritto di testa.

Ho messo tutte le mie idee, ho messo tutti i miei sentimenti sul mondo.

Il rapporto con i genitori? Sarà come dev’essere. Non perfetto. Ma c’è amore, c’è sempre amore, ed è questo ciò che conta.

Edward? Perdonatemi se non l’ho definito come l’assoluto redentore. Anche Bella ha fatto la sua parte, il suo dolore l’ha fatta maturare. Edward non è l’amore assoluto che è in Twilight, ma lo ama, per quello che per me significa amare.

 

Ed ora, veniamo a me.

Ho detto di non essere bulimica e non esserlo mai stata. Ho detto anche che presumo che la maggior parte delle ragazze possa pensare a un gesto tanto avventato. L’ho pensato, ma non l’ho fatto. Dopo aver scritto questa storia, spero davvero e posso con buona certezza credere che non lo farò mai.

Ho detto che è stata difficile da scrivere. É stata una catarsi.

C’è molto di me stessa in questa storia. La schiena all’acqua, le lacrime immotivate, il tempo a dondolarsi sedute sul letto canticchiando perché c’è troppo silenzio…

Ho scritto di testa, ho scritto di cuore.

 

Posso dire di aver scritto veramente per me stessa.

Non posso fare a meno di ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me.

Grazie.

Infinitamente grazie.

   
 
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