L’insolita
Grifondoro 5 – Sulle tracce dell’assassino
1.New York, New York
Era una bellissima mattina a New York; il sole splendeva nel cielo e si
specchiava nei grattacieli di Manhattan. Un leggero venticello rinfrescava
ancora di più l’aria primaverile. In quella stagione la città era veramente
meravigliosa. Central Park era sempre più frequentato da bambini che giocavano,
coppiette a passeggio e corridori. Le strade però erano affollate, come sempre,
da taxi gialli e automobilisti innervositi dai semafori.
Paul era uno di questi; bloccato nel traffico delle dieci. Odiava dover
fare quella strada, ma era la più veloce per arrivare all’aeroporto JFK. Aveva
un incarico importante da portare a termine, così aveva deciso di passare nella
corsia riservata alle ambulanze e, senza nemmeno controllare che non ci fossero
poliziotti nei paraggi, aveva premuto sull’acceleratore ed era sfrecciato lontano
da quel trambusto di clacson e bestemmie.
Ripassava mentalmente gli ordini che gli erano stati impartiti, quando un
cartellone aveva attirato la sua attenzione: pubblicizzava l’ultimo film di una
saga con Daniel Radcliffe. Non gli era mai piaciuto il cinema e non aveva
nemmeno mai avuto il tempo di andarci, ma quel film sembrava davvero
interessante. Aveva girato la testa e una ragazza bionda da una decappottabile
rossa gli aveva sorriso e fatto l’occhiolino.
Paul faceva sempre colpo con la sua aria da bello e dannato: alto,
muscoloso, leggermente abbronzato, testa rasata e un espressione corrucciata
che faceva impazzire le donne. In quel momento però nemmeno la bella bionda
avrebbe potuto distrarlo. Voleva solo arrivare all’aeroporto e portare a
termine il suo incarico. Era ancora a metà strada, ma grazie alla sua
noncuranza delle norme stradali, era riuscito a fare dieci chilometri in pochi
minuti. Aveva indossato un berretto da baseball e un paio di occhiali da sole e
aveva parcheggiato.
L’aereo proveniente da Londra era atterrato. Dopo sette ore di volo, Jane
era felice di poter essere di nuovo coi piedi per terra. Era da un sacco di
tempo che non viaggiava in quel modo.
Mentre si avviava verso l’uscita, dove una macchina di Victoria la stava
aspettando, ripensava a quello che le era accaduto ai controlli di sicurezza a
Heatrow: la guardia aveva notato la bacchetta magica nella giacca e le aveva
detto che non era autorizzata a trasportare un’altra arma senza avere un
permesso. Per la pistola Jane aveva mostrato il distintivo, ma per la bacchetta
non aveva nulla da mostrare; aveva provato a spiegare che quella non era
un’arma ma un semplice portafortuna; la guardia però aveva ribadito che un
oggetto di quella forma sugli aerei non si poteva portare. Jane era stata
costretta a usare la maledizione Imperius.
Non ne andava molto fiera, ma almeno era riuscita a portare la bacchetta con
sé. La detective aveva riso al ricordo della faccia della guardia. Iniziava già
a sentire la mancanza di John, forse si stava davvero innamorando di lui; forse
tra lei ed Harry era proprio finita. Sarebbe stato terribile doverlo dire ai suoi
figli, anche se Miley aveva già intuito qualcosa; non era mai facile per i
bambini avere i genitori divorziati, ma non poteva fare altrimenti. John le era
stato molto vicino in quel periodaccio; era un uomo meraviglioso, affettuoso,
dolce, sicuramente un ottimo padre.
Mentre cercava di farsi largo nella calca di viaggiatori, qualcosa aveva
attirato l’attenzione di Jane: un gruppo di giapponesi, ma non i soliti
giapponesi mingherlini e con le macchine fotografiche appese al collo; questi
erano alti, robusti, con un completo nero, gli auricolari alle orecchie e con
una faccia che faceva leggermente paura. Erano in cinque, disposti in cerchio,
camminavano serrati intorno a qualcuno che stavano sicuramente proteggendo.
L’uomo al centro nemmeno si vedeva per quanto erano grosse le sue guardie del
corpo.
Jane aveva voltato lo sguardo e aveva notato un uomo con un cappellino da
baseball, degli occhiali da sole scuri e una mano nella tasca della giacca che
si avvicinava ai giapponesi quasi correndo, poi tre fruscii inconfondibili per
un poliziotto e tre delle guardie erano crollate a terra immobili. Jane era
accorsa così velocemente che non aveva nemmeno pensato a estrarre la pistola o
la bacchetta. Nessun altro si era accorto di quello che era accaduto perché c’era
talmente tanta gente e tanto rumore che solo un occhio esperto avrebbe potuto
farci caso.
Altri due fruscii e le altre guardie erano cadute esamini. Era rimasto in
piedi solo l’uomo che stavano proteggendo: un ometto canuto, in giacca e
cravatta, con un espressione terrorizzata. L’uomo col cappellino l’aveva
freddato con un colpo alla testa. Una donna lì vicino aveva urlato attirando
l’attenzione di tutti sul killer. Lui stava per fare una strage quando Jane l’aveva
colpito fortissimo alla gamba con un calcio; per un attimo l’uomo si era
accasciato e aveva fatto cadere la grossa pistola col silenziatore che aveva in
mano, poi si era voltato e aveva afferrato la testa di Jane, stava per
spezzarle il collo, ma si era fermato. L’aveva guardata nei suoi grandi occhi
verdi e non era riuscito a metter fine alla vita di una creatura così
meravigliosa; non solo era bellissima, ma l’aveva anche disarmato, impresa non
facile. Si era limitato a darle un colpo in testa e a farle perdere i sensi. Aveva
ripreso la pistola e aveva portato via con sé quella splendida donna. L’aveva
presa in braccio e aveva corso senza sosta fino alla macchina che aveva
lasciato in un lato nascosto del parcheggio sotterraneo.
L’aveva caricata sul sedile anteriore, allacciandole la cintura di
sicurezza molto stretta in modo tale che non si muovesse e sembrasse
addormentata. Si era messo alla guida e si era allontanato da lì il più in
fretta possibile.