C’è
una cosa che desidero mostrarti
Nice to meet you, my pain.
Nausea.
Un profondo senso di nausea,
lo stomaco quasi contorto da essa.
Odore fetido.
Qualcosa di pesante, impastato
nonostante sia liquido, che scivola fra le dita.
Sinuoso. Si appiccica e al
tempo stesso ti dà quella sensazione di qualcosa che non riesci ad
afferrare.
Sfuggente, un po’ come
il vento.
Un po’ come la vita.
Rosso. C’è rosso
ovunque.
Un profondo, inquietante ed intossicante rosso scuro che macchia il pavimento,
allargandosi come una macchia di colore ad olio sulla tela candida.
L’inconsapevolezza di
toccare qualcosa che non dovresti vedere.
Che non dovresti sfiorare. Non
ancora.
Per te c’è tempo.
Un volto affascinante: pelle
candida e perfetta, lineamenti nobili e virili, labbra perfette,
naso perfetto; le palpebre nascondono gli occhi come in un gioco –
chissà che espressione celano.
Abiti regali, scuri, eleganti.
In un cupo presagio di morte,
forse.
Sembra dormire, le mani dalle
dita affusolate mollemente a contatto con il pavimento di moquette scura, bordeaux – che tuttavia, va scurendosi, si impregna e
puzza, puzza da morire.
Non proprio da morire.
Odora di morte.
Odora di morto.
Le dita della piccola mano si imporporano di sangue, non colpevoli; lo sguardo la
inquadra, la nota.
Quella lama che trafigge il
petto.
«Cosa…? Padrone! Padron Glen! Padron Glen!»
urla atterrite di fronte ad un’immagine inattesa.
Alzi lo sguardo perché
non capisci, allunghi una mano minuta macchiata di sangue non tuo.
Quella cameriera si avvicina,
tasta il polso e spera chissà cosa, e quando inorridisce
lascia andare la mano del padrone come se toccarla l’avesse bruciata.
La mano cade a terra inerme.
Il sangue schizza un
po’.
Ne senti il calore e la
pesantezza, quasi, sulla guancia e chissà perché solo in quel
momento lo pensi.
C’è un uomo morto
lì a terra.
C’è un uomo morto
in una pozza di sangue, trafitto da una spada.
C’è un uomo
morto, e tu sei macchiato di quel sangue che è ovunque, ti circonda, ti
bagna le vesti, ti macchia il corpo.
Orrore.
Paura.
Terrore.
Qualcuno è morto…
e tu sei lì.
Qualcuno entra, lo senti
perché tanti passi si affrettano per il corridoio e si fermano
d’improvviso in quella stanza; non alzi lo sguardo, incatenato alla
figura di Glen Baskerville che giace senza vita.
Ma qualcuno nota te.
«Elliot, vieni
via!»
«Allora
vado.» pronunciò rivolto a Noah, occhieggiandolo.
L’amico,
steso sul materasso, annuì dopo uno sbadiglio che aveva coperto
all’ultimo minuto con la mano: «Va bene, io invece farò
violenza al letto.» comunicò con fare scherzoso, al quale Oz sorrise divertito.
«Potevi
dormire prima, avrei trovato il modo di passare il tempo, sai?» lo prese
bonariamente in giro, meritandosi il lancio di un calzino – ormai non si
stupiva del fatto che ne avesse sempre a portata di mano, considerando il caos
umano che gli abiti di Noah rappresentavano lì nella stanza.
«Maledetto
ingrato, e io che ti ho fatto compagnia fino
all’ora della tua scappatella!» lo rimbeccò fingendosi
profondamente offeso, tra l’altro senza risultare più credibile
ormai.
Oz
gli fece la linguaccia: «Sai che affare, vado a parlare con Break.»
gli fece presente, ricordandogli che sì, visto cosa andava a fare
avrebbe di gran lunga preferito rimanere a dormire
lì, specie considerando che era mezzanotte e che non prevedeva una
chiacchierata breve.
Noah
alzò le spalle: «Io non ho ancora capito
perché Break ti chiede di andare da lui a quest’ora. Ok, lo
sappiamo che non è un docente normale, e lui non fa molto per
nasconderlo tra l’altro, ma i colloqui si fanno o prima o dopo le
lezioni.» osservò anche con una certa logica, tale almeno da far
apparire quell’intervento abbastanza serio per
essere di Noah.
Peccato
l’aggiunta.
«…Mica
ti svenderai per un voto in più a matematica?!»
se ne uscì fingendo panico nel tono di voce.
Il
calzino fu brutalmente lanciato indietro al suo proprietario, nel tentativo di
prenderlo in un occhio volendo – con nessun risultato, purtroppo.
«Guarda
che quando torno voglio dormire, non avere degli
incubi!» rimbeccò Oz perché sì, sognarsi di sedurre Break
sarebbe stato un trauma irreversibile.
«Comunque
è perché non si tratta di argomenti scolastici
suppongo.» aggiunse, anche se era superfluo perché ne aveva
parlato a Noah.
Dopo
quanto avvenuto con Gilbert – sì, beh, a parte il bacio ecco
– e dopo aver parlato con Sirjan soprattutto, si era reso
necessario parlare con Xerxes Break o Rufus Barma.
Dal momento che con Barma sembrava esserci ancora quella specie di accordo secondo il
quale Oz sarebbe dovuto tornare da lui appena avesse avuto un’idea
più precisa sul contenuto del diario di Jack che si riallacciasse alla
morte di Glen Baskerville, aveva preferito puntare su Break.
Lo
aveva fermato a fine lezione con la scusa di un chiarimento sulla stessa, e
aveva quindi accennato al vero argomento della conversazione.
Era
stato in quel momento che Break aveva assunto un’espressione piuttosto
interessata, molto diversa da quella semplicemente scanzonata – o da
faccia da schiaffi – e aveva detto che avrebbe preferito parlarne a
quattr’occhi in un posto più consono. E gli aveva dato appuntamento per quella sera, ad un orario in cui era
piuttosto ovvio che nessuno girasse per i corridoi.
Uscire
senza farsi notare da Noah sarebbe stato impossibile, perciò Oz aveva
trovato più sensato dirgli direttamente cosa andava a fare, anche se
aveva accennato ad una chiacchierata su degli
“affari di famiglia”, senza raccontargli tutti gli avvenimenti per
filo e per segno.
Questo
dopo aver osservato che se anche fosse uscito senza farsi beccare, Noah avrebbe
potuto seriamente minacciarlo di fargli ingoiare gli ormai famigerati calzini
se lo avesse scoperto al rientro o simili, magari
alzandosi per andare al bagno durante la notte.
E a
parte la minaccia di quegli indumenti, Oz aveva semplicemente pensato per una
volta… di voler mentire il meno possibile. Almeno a Noah, almeno per
questa volta, in un personalissimo modo di ringraziarlo riguardo quanto gli
aveva detto per cercare di farlo reagire alla morte di Alyster.
«Ah
Oz, a proposito» ne richiamò l’attenzione Noah, facendogli
alzare lo sguardo in sua direzione: «per questo mio silenzio riguardo
questo fugone notturno lo sai, vero, che vorrò un dettagliato resoconto
degli ultimi avvenimenti con Gilbert Nightray?» gli fece notare con un
sorriso furbo.
Oz,
che non se lo era minimamente aspettato, si
ritrovò ad arrossire prima di imporsi di non farlo e apparire naturale:
«Con Gil? Che…?» tentò di
dissimulare, ma Noah aveva un vantaggio.
Su
certe cose aveva troppo intuito.
«Per
favore, cosa credi che guardi io quando siamo a colazione?»
«…Marcus
e il tuo piatto?» azzardò Oz, facendo ridacchiare l’altro.
«Anche
sì, ammetto che l’accoppiata Marcus-bacon
sono il mio primo pensiero la mattina in mensa, ma oltre a quello osservo te, caro mio. Te e Nightray e senti, parliamone. Mi aspetto da una
mattina all’altra che tubiate come colombi. Perciò non rifilarmi
un “non so di che parli”, perché non vuoi sapere cosa
succede quando mi impegno per scoprire qualcosa che mi
interessa.» consigliò tra il divertito, il divertito e il
divertito.
E l’estremamente
divertito, sì.
«Sento
di avere un moto d’odio nei tuoi confronti, sai Noah?»
osservò in maniera falsamente casuale, rivolgendogli un sorriso
palesemente costruito. L’unica risposta del compagno fu agitare una mano
come se stesse scacciando un insetto, quasi a dirgli “va bene, va bene, vai che ne riparliamo quando torni”.
Oz
sospirò rassegnato, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.
Noah
era una dannata pettegola, ecco cos’era.
Raggiunse
la porta dell’alloggio di Break e tacque, senza bussare subito.
Personalmente
avrebbe preferito l’ufficio del docente come luogo d’incontro, ma
aveva dovuto dargli ragione quando l’altro aveva fatto notare che sarebbe
apparso più sospetto un ufficio con le luci accese a quell’ora di
notte che non un alloggio privato. Sospirò, bussando finalmente e
ricevendo quasi subito un “avanti” in
risposta.
Aprì
la porta, entrando velocemente e richiudendosela alle spalle.
Break
si era degnato di aspettarlo con abiti consoni e non in pigiama almeno, cosa
che pensava potesse essere vista come un buon punto di partenza: non aveva le
vesti dei docenti con cui il biondo era abituato a vederlo, ma qualcosa di
inaspettatamente sobrio.
«Rimani
sulla porta, Oz?» lo prese bonariamente in giro mentre prendeva
posto su una poltroncina dall’aria piuttosto comoda, facendogli segno di
imitarlo e indicandogli quella libera di fronte a lui. Sebbene Oz si fosse
quasi convinto che andando a parlare con Break vi avrebbe trovato anche Rufus
Barma, questo non era avvenuto almeno apparentemente.
Si
sedette.
«Sirjan
mi aveva accennato che probabilmente saresti venuto.» chiarì
subito, senza troppi preamboli, sporgendosi verso il tavolino basso che
c’era fra loro: esso ospitava un vassoio con due tazzine, una teiera con
del tè e un piccolo bricco di latte. Accanto a quest’ultimo quella
che era senza dubbio la zuccheriera. Vicino alla teiera, un piattino che
conteneva una generosa porzione di biscotti.
«Prego,
prego.» lo esortò Break con quel sorrisetto tipico che aveva anche
a lezione, e che Oz dal loro ultimo colloquio aveva osservato spesso, giungendo
ad una conclusione che in un primo momento non era
stata altrettanto ovvia.
Il
motivo per cui Break leggeva attraverso le sue bugie così facilmente,
era che mentiva molto più di lui.
Break
mentiva sempre.
«I
biscotti sono tuoi, eh. Io mi limiterò alle
caramelle.» aggiunse, portando un lecca lecca
alle labbra, quasi ad enfatizzare le proprie parole.
«Allora»
esordì quindi mentre Oz si stava versando del tè:
«cos’è che vorresti chiedere?» disse, il tono che non
appariva frettoloso. Come se avessero, anzi, tutto il tempo del mondo.
Oz
tacque, quasi prendendo tempo: c’erano diverse cose che avrebbe voluto chiedere, anzi, così tante che non
erano altro che una matassa ingarbugliata nella sua mente.
«Sirjan ha parlato di tante cose. Per esempio… di Glen Baskerville e
mio fratello.» rivelò, portando gli occhi chiari sul docente:
«Lei cosa sa?» domandò quindi.
«Più che ai Bezarius, all’epoca i Baskerville erano legati ai
Nightray. Ho idea che tuo fratello fosse proprio un’eccezione. Il livello
sociale della sua famiglia e di quella di Glen erano molto diversi, e furono
davvero in pochi a non stupirsi di quell’amicizia, sai?»
replicò Break. Aveva l’aria di qualcuno che raccontava una storia
banale e noiosa.
Nonostante
la cosa non lo entusiasmasse, Oz tacque: non sembrava una grande idea mettere
fretta all’altro, soprattutto considerando che era lui a volere delle
informazioni da Break, fino a prova contraria.
«Glen Baskerville ha studiato qui esattamente come tuo fratello, ed è
qui che si sono conosciuti. Avvicinare Glen non era cosa da tutti: il signorino
era selettivo a dir poco, o più semplicemente a suo avviso nessuno era
alla sua altezza. Un ragazzino irritante, come te per certi versi Oz. Se la sua
fosse arroganza o meno, nessuno lo sapeva dire con certezza. Baskerville non ti
permetteva di conoscerlo tanto da scoprirlo. Però Jack divenne una sorta
di eroe qui a scuola: “quello che parla con
Glen”, lo chiamavano. È stato così per mesi.» dichiarò divertito, il parlare un po’
impastato dal lecca lecca tenuto in bocca durante
tutto il discorso.
Oz
parlò prima che l’altro riprendesse: «…conosceva
Jack? A scuola intendo.» domandò
perplesso e anche un po’ incredulo, suscitando un’espressione in
Break che somigliava molto al sadico divertimento – sebbene mascherato da
ingenuo interesse.
«Eravamo di anni diversi, ma lo avevo ben presente. Diciamo che scordarsi
uno come Jack era difficile.» commentò
con falsa casualità.
Benché
l’istinto di chiedere a Break aneddoti dei tempi scolastici di Jack fosse
estremamente forte – quasi quanto la pressante
curiosità di cosa fosse capace di fare Xerxes Break studente
considerando l’adulto che era ora – Oz si impose di non
interromperlo per una cosa simile, concentrandosi sulle rivelazioni che aveva davvero bisogno di conoscere.
«Ha
detto che i Baskerville erano legati ai Nightray?» domandò,
rimuginando su quanto ascoltato fino a quel momento, nonostante Break
l’avesse soltanto accennato.
Lo
vide mordicchiare il lecca lecca,
giochicchiandoci, e tacque in nervosa attesa.
Break
sembrava intenzionato a parlare ai propri ritmi, incurante della fretta o della
curiosità del suo allievo: «Sì, i
Baskerville e i Nightray erano legati. O meglio, i due
capofamiglia si conoscevano da anni e avevano qualche affare in comune. Non
immaginare due famiglie che fanno crescere i propri figli insieme nello stesso
giardino a giocare, però. Ad avere legami,
peraltro di tipo strettamente amministrativo, erano solo il padre di Glen e
quello dei nostri Nightray preferiti.» comunicò quasi ammiccante, ed Oz ebbe la pessima sensazione che ci fosse qualcosa che
Break sapesse e che stesse insinuando.
Si
disse che era paranoico, perché tutto ciò che era successo con
Gilbert – cioè, “tutto”, non che fosse accaduto nulla
più di quel bacio! – era avvenuto nella sua stanza e non
c’era modo che Break lo potesse aver scoperto, o visto.
Sospirò,
cercando di darsi una calmata, ricordando che il docente aveva fatto quel tipo di insinuazione già quando si erano incontrati per
caso in città, accompagnati lui da Gilbert e l’altro da Rufus
Barma.
«Dimmi,
Oz» riprese il docente, allungando una mano a prendere la tazzina del tea
per berne qualche sorso, distogliendo il più giovane da quelle
congetture inutili: «hai letto il diario di Jack, o no?»
domandò a bruciapelo, lo sguardo penetrante dell’unico occhio
visibile puntato su Oz.
Quasi
ad impedirgli di sfuggire alla domanda.
Oz
non si era minimamente aspettato la cosa, anche se
considerando il rapporto che sembrava esserci fra Xerxes e Rufus, avrebbe
dovuto immaginare che il docente di Storia avesse detto qualcosa
all’altro.
Strinse
impercettibilmente i pugni: «Non tutto.» borbottò sulla
difensiva, mentre Break continuava a bere tea totalmente a suo agio.
«E
quali parti hai letto?» insistette, sebbene velatamente.
«Fino a quando Jack accennava alla morte di Glen Baskerville. Saltando
alcune parti però.» chiarì. Aveva
letto saltuariamente, quasi casualmente in realtà.
Forse
perché ogni volta che aveva iniziato, andare avanti pagina dopo pagina – giorno dopo giorno, respiro dopo respiro di
suo fratello – era stato troppo difficile e troppo doloroso.
Come
se ogni parola scritta d’inchiostro fosse stata una goccia del sangue di
Jack, ed ogni pagina un prezioso minuto della sua vita
che veniva mangiata da una malattia.
«Allora
ti sarai chiesto…» indugiò, una pausa voluta, lo sguardo che
si posava su Oz serio. Senza la derisione che normalmente lo caratterizzava e facendolo
risultare quasi… inquietante, a suo modo.
Gelido, per certi versi: «“mio fratello era forse un
assassino?”» recitò come se avesse raggiunto la battuta
chiave del protagonista di quella favola che fiaba per bambini decisamente non era.
Oz
alzò lo sguardo di scatto quasi, l’espressione basita e
arrabbiata: «Jack non era affatto un assassino!»
esclamò subito, senza la minima esitazione, eppure con un’evidente
traccia di panico nel tono.
«Ovviamente.»
replicò Break con calma quasi palpabile, snervante: «Persino
io non potrei considerare Jack Bezarius un assassino se anche lo vedessi nell’atto
di uccidere. Tuo fratello era così buono
che non potevi fare a meno di pensare che sarebbe morto giovane. E non vuole
essere un’ironia di dubbio gusto, la mia.»
chiarì, atono.
Sembrava
che d’improvviso, avesse non perso interesse in quello scambio di informazioni – anche se in realtà il docente
era l’unico a darne per ora – ma che avesse perso quella vena di
intrinseco divertimento nel dosarle quasi con crudeltà.
«Ma se non era un assassino» riprese con estrema
tranquillità: «perché Jack Bezarius si considerava alla
stregua dell’omicida del suo migliore amico?» ipotizzò, ma
falsamente. Era più che evidente che avesse già la risposta: si
capiva dal modo in cui aveva posto la domanda, e dal fatto che non stesse più
guardando in direzione di Oz ma il proprio lecca lecca.
«Sai
com’è morto Glen Baskerville?» domandò quindi,
alzando pigramente lo sguardo sul suo allievo.
Oz
non riuscì a nascondere nulla, non ci riusciva
da quando aveva messo piede lì dentro, come se l’alloggio di
Xerxes avesse chissà quale facoltà particolare o influenza
precisa su di lui.
Perciò
nemmeno in quel caso riuscì a fingere di non essere interessato –
non che fosse nelle sue intenzioni – e soprattutto di non essere in
qualche modo smosso dall’eventualità di addentrarsi in qualcosa
che fino a quel momento aveva cercato di capire.
Esattamente
come un tassello mancante; gli tornarono in mente le parole di Sirjan – Break cercherà di metterti alla
prova, tu prendi da lui le informazioni che ti servono, ma per il resto stai
lontano da ciò che riguarda Glen Baskerville e che non ti serve.
Ma era
difficile: come poteva riconoscere cosa gli potesse servire e cosa invece fosse
superfluo senza ascoltare tutto indistintamente?
E una
volta che l’avrebbe ascoltato… non avrebbe certo potuto dimenticarla
a proprio piacimento.
Scosse
la testa in risposta alla domanda di Break, che a quel
cenno sembrò ritrovare interesse e quel suo sorrisetto irritante che
tornò ad incurvargli le labbra.
«Il
professor Barma ha detto che si è suicidato.» rettificò Oz,
chiedendosi l’attimo dopo che cosa ci fosse da ridacchiare, visto che Xerxes qualcosa sembrava averla trovata.
«Rufy
è veramente privo di tatto, eh?» scherzò su, in maniera
totalmente inopportuna vista la serietà del momento: «Posso
dirti qualcosa di più, ma sarebbe un po’ noioso. Facciamo un
gioco, ne Oz?» se ne uscì cogliendolo
alla sprovvista nonostante gli avvertimenti del capo dormitorio.
Lo
fissò quasi incredulo, sebbene riuscì a
mascherarlo almeno sul momento.
«Facciamo una domanda a testa. Se tu non rispondi alla mia, io posso
scegliere di non rispondere alla tua. Che ne dici?»
propose, anche se era fin troppo evidente che non gli lasciava davvero scelta.
Era un patto disonesto – perciò, a quanto pareva, era fatto
apposta per uno come Break.
Almeno
per come aveva avuto modo di inquadrarlo fino a quel momento.
«Cosa vuole sapere?» chiese quindi, un broncio
involontario visibilissimo sul viso giovane.
Break
sorrise, ma non di un sorriso genuino: «All’inizio ho pensato che
il tuo interesse fosse dovuto da una sorta di senso di
impotenza. Insomma, il fratello minore che indaga sulla morte del fratello
maggiore. Però ho anche pensato che in fondo Jack è morto di
malattia, e mi sono detto “non è un po’ strano che un semplice
sedicenne indaghi sulla morte del fratello senza motivo, considerando che per
quanto ne sa è stata naturale?”»
ripeté la domanda come se stesse rimuginando per la prima volta su tutto
quello ad alta voce, come se Oz non fosse lì.
«Chiederti
chi ti ha insinuato il dubbio sarebbe sprecare una domanda, perché
è qualcosa a cui posso arrivare da solo.»
chiarì, guardandolo in maniera quasi subdola.
«Perciò
dimmi, signor Bezarius» disse, tornando a quel “signor” come
se la domanda fosse ufficiale solo ora: «perché ti
interessa tanto tutta questa vicenda di Glen Baskerville?»
Oz
tacque, valutando quanto sinceramente dovesse rispondere; tuttavia, prima
ancora di arrivare ad una decisione, si ritrovò
già a parlare con completa franchezza. Non perché avesse deciso
di cambiare atteggiamento, né tanto meno perché Break gli
ispirasse completa fiducia – decisamente no.
Semplicemente…
Break aveva qualcosa che lui, Oz, voleva.
E se
questa era la prova a cui Sirjan aveva accennato, lui
l’avrebbe superata ottenendo le risposte che voleva.
Dopotutto
poteva anche avere senso: una verità per una verità.
Si fece strada sul viso del biondo il sorrisetto spesso e
volentieri arrogante che non faticava ad irritarti, quello con cui quasi per
abitudine aveva preso a rapportarsi al docente: «Forse perché da
quando sono qui ho visto più stranezze che cose normali. Guardie del
corpo che mi seguono, capi dormitorio che nascondono
il passato scabroso delle famiglie dell’alta società, spiriti non
completamente umani che mi attaccano senza un perché dicendomi di
andarmene, ed altri umani che mi avvicinano al solo scopo di confondermi. Qui
tutti sembrano sapere tutto di me, ma perché? Senza contare le persone
reali, vive, che mi chiudono in un angolo minacciandomi e oltre
tutto questo… cosa farebbe lei se Glen Baskerville la contattasse
di persona, dicendole di non ficcare il naso?» chiese, ma era retorica la
domanda.
Nonostante
ciò, Oz vi diede risposta, il sorriso furbo e che ostentava anche
più sicurezza di quanto non avrebbe dovuto: «Le viene esattamente voglia
di ficcanasare.» concluse.
Break
lo fissò, l’espressione persino buffa mentre osservava Oz; si
sciolse quasi subito in una risatina divertita delle sue, proprio di quelle che
le senti e ti chiedi che cosa ci sia da ridere esattamente.
«Risposta
soddisfacente.» gli concesse, recuperando una caramella e scartandola con
tutta calma: «Ora tocca a te fare la domanda.» gli ricordò,
quasi a voler sottolineare che lui era uno che
rispettava le regole di quel loro insensato gioco improvvisato.
Era
conveniente, pensò Oz. Dopotutto, vincevano entrambi qualcosa.
«Voglio
sapere di Glen.» ripeté, pur immaginando che chiedere fosse una mera formalità visto quanto fosse già
chiaro l’argomento che gli interessava.
Break
non indugiò oltre.
«Glen
Baskerville fu trovato morto nella sua stanza.» iniziò: «A terra, in una pozza di sangue. Non fosse stato per
quello e per la spada che lo trafiggeva, sarebbe sembrato placidamente
addormentato. Un’immagine quasi poetica, ne?» osservò,
ripensandoci riguardo la caramella e portando una mano
a raggiungere uno dei biscotti, al solo scopo di rigirarselo tra le dita mentre
continuava a parlare, senza mangiarlo.
«Si
sarebbe potuto pensare ad un assassinio, se soltanto
la spada non fosse stata proprio quella di Glen Baskerville. E se Jack Bezarius
non lo avesse praticamente confermato.»
concluse, addentando finalmente il biscotto.
Oz
– era ormai più freddo che caldo, il tea nella sua tazzina –
guardò il docente con l’espressione di chi è lì lì per dire qualcosa ma si sta trattenendo, forse
per prendere tempo.
Tacevano
entrambi ormai da diversi minuti, quando Oz pronunciò un
«Cosa?» che fece alzare lo sguardo annoiato di Break, che
gli lanciò un’occhiata interrogativa: «Cosa confermò
mio fratello?» chiarì il biondo, rimanendo in attesa.
Per
quella che gli parve l’ennesima volta, l’espressione di Break si
trasfigurò: le labbra sottili si incurvarono in
un sorriso che mescolava soddisfazione e senso di vittoria quasi.
Per
che cosa, Oz non riuscì ad indovinarlo.
«Quando
dissero a Jack della morte di Glen, tuo fratello fu enormemente addolorato,
certo, ma non sembrò affatto sorpreso. O
meglio: non era sorpreso.
Perché Jack lo sapeva già, che Glen sarebbe morto. Fu una
conferma così palese che dissipò anche
il più piccolo dubbio possibile. Salvo che Glen Baskerville vedesse il
futuro, cosa chiaramente impossibile, poteva esserci solo un modo di conoscere
con precisione quando sarebbe morto al punto tale da non stupire con il suo
decesso nemmeno il suo migliore amico. Quell’unico modo, era decidere di
suicidarsi.» chiarì, alzandosi in piedi
per aggirare il tavolino e farsi più vicino alla poltrona dove sedeva
Oz.
Quando
gli fu alle spalle, parlò nuovamente: «Sai chi trovò Glen
Baskerville?» domandò, le mani poggiate allo schienale della
poltrona.
Si
chinò appena in avanti, il volto affiancato a quello di Oz,
infantilmente.
«Chi…?»
fece per chiedere il giovane, ma Break lo
anticipò.
«Elliot
Nightray.»
Sospirò
rumorosamente, abbandonando definitivamente l’idea di concentrarsi sul
libro che teneva aperto sulla scrivania. Se non altro perché dubitava
che si sarebbe rivelato molto utile rileggere per la
decima volta cosa aveva segnato l’anno del 1716, visto che non arrivava a
fine frase senza perdersi di nuovo in pensieri suoi.
Si
chinò in avanti, andando a poggiare la fronte sulla scrivania, fissando
le proprie gambe alla ricerca di chissà cosa che potesse dargli un
minimo di concentrazione o di voglia di studiare.
Aveva
passato da solo qualche ora la traumatica fase dell’imprecazione verso se
stessi e la propria stupidità: era passato dall’argomentazione
secondo cui era assolutamente fuori questione che un servitore baciasse il
proprio padrone a quella per cui doveva essere del tutto impazzito –
questo perché si era ricordato che, tecnicamente, non era più il
servitore di Oz.
E
alla fine, dopo quasi due ore che si era messo
lì con il preciso intento di studiare Storia per il giorno successivo,
era di nuovo fermo a guardare un
punto a caso dei suoi pantaloni.
«La
crisi del 1716 è così drammatica e difficile, fratellone?»
domandò con tono divertito Vincent, una mano poggiata sulla scrivania.
Gilbert gli rivolse un’occhiata di sbieco, sospirando nuovamente e
imbronciandosi senza nemmeno rendersene conto, un po’ come quando erano
bambini – ma questo il moro non lo ricordava probabilmente.
«Ah, quindi c’è stata una crisi? Perché nella riga che
sto rileggendo da due ore ancora non lo
accenna.» borbottò come se fosse colpa del libro.
Persino
uno come Vincent non poté non stupirsi di quella risposta: Gilbert era
sempre stato riflessivo, e su quello non c’erano dubbi, ma era pur vero
che suo fratello trovava una soluzione più o meno
a tutto. Vi pensava molto, forse anche troppo per lo standard di Vincent, ma
mai al punto da ridursi a quel modo: soprattutto, suo fratello una volta messo
sui libri era una specie di mostro.
Non
lo distraeva mai nulla.
«Come
rileggi la stessa riga da due ore?» gli fece infatti
eco il biondo, lo sguardo su di lui.
Fu
chiaro che la situazione era piuttosto grave quando in
risposta ci fu il rumore sordo della fronte di Gilbert contro la scrivania
– un colpetto leggero, più significativo per il gesto in sé
che non per la sua entità.
«Gil?»
tentò nuovamente Vincent, sempre più perplesso.
Gilbert
alzò finalmente la testa, chiudendo il libro e arrendendosi definitivamente,
per poi incrociare le braccia sulla scrivania e posarvi il mento; a Vincent
ricordò un episodio di quando erano bambini, anche se non lo disse.
Era
successo quando erano da poco entrati ufficialmente a far parte della famiglia
Nightray.
Rientrando
nella stanza che in quel periodo condividevano – si era categoricamente
rifiutato di dormire da solo e soprattutto lontano da Gil – aveva trovato
il fratello proprio come in quel momento lì, a distanza di anni: chinato
sulla scrivania, sospirante e con il broncio. O forse sarebbe stato più
appropriato dire che aveva l’espressione corrucciata di chi continua a
ripensare allo stesso problema senza riuscire a trovarvi una soluzione
adeguata.
«Fratellone,
che è successo?» aveva chiesto a Gilbert quella volta,
osservandolo preoccupato, perché non lo aveva mai visto così e
soprattutto non riusciva a capire cosa gli passasse per la testa.
«Ho
litigato con Elliot.» aveva borbottato, senza spostare lo sguardo sul
biondo, ma anzi evitando quello indagatore del minore affondando la faccia fra
le braccia.
«Non
capisco perché, ma sembra odiarmi davvero.» aveva mormorato
afflitto, e Vincent gli aveva posato una mano fra i capelli rivolgendosi a lui
con un sorriso gentile, anche se il moro da quella posizione non lo aveva
visto. Ma, poiché si trattava di Gilbert, di
certo lo aveva comunque percepito dal tono con cui Vincent aveva parlato.
«Non è colpa tua, fratellone. Tu sei gentile con Elliot. Alla fine
gli piacerai, sono sicuro.» aveva detto.
Poi
era andato a parlare con Elliot e il più piccolo, in un modo o
nell’altro, si era calmato quanto bastava perché
quell’espressione sul viso di Gilbert si ripetesse rarissime volte
– con soddisfazione di Vincent: la chiacchierata con Elliot, allora, era
evidentemente servita al suo scopo.
Ebbene,
in quel momento Gilbert sembrava tornato il ragazzino che non sapeva come
avvicinare il suo nuovo fratello minore.
«Vince?»
si sentì chiamare, riscuotendosi da quel pensiero, riportando
prontamente lo sguardo e l’attenzione sul moro, con un sorriso dei suoi:
«Dimmi Gil.»
«Stavo
pensando» disse Gilbert quando fu certo di avere l’attenzione del
fratello: «tu… non trovi che sia un
po’ strano?» esordì, l’aria quasi colpevole, come se
temesse le proprie stesse parole, e stesse ancora ponderando se fosse davvero
il caso di pronunciarle o meno.
Vincent
attese pazientemente, fin troppo abituato ad ogni
sfaccettatura del carattere del maggiore; Gilbert era così: rimuginava,
rimuginava, si colpevolizzava, ma alla fine parlava sempre. Se lo concedeva solo
con lui, e Vincent lo sapeva bene.
Per
questo non temeva mai che il moro potesse nascondergli qualcosa – magari
ci provava,
certo, ma non ci riusciva mai molto a lungo.
«Cosa?»
domandò quindi.
«Che
non ricordiamo quasi niente fino a poco prima dell’entrata a
Latowidge.» replicò, portando esitante gli occhi dorati sul
fratello.
Vincent,
con un sorriso bonario, sospirò: non era la prima volta che a Gilbert
prendevano quelle mezze crisi d’identità sul perché non
ricordassero delle cose, sul perché avessero quell’amnesia.
Su
quello, era vero, non era stato sincero con Gil: non gli aveva detto che ad
avere l’amnesia era solo lui, non gli aveva mai detto che i propri
ricordi erano pressoché intatti. Ma aveva un
buon motivo per farlo.
Suo
fratello era già… stato male una volta.
Non occorreva affatto che succedesse di nuovo.
«Forse è un po’ strano, ma non mi sembra così grave.
Alla fine, crescendo ci si dimentica comunque di episodi di quando si era
bambini. A noi è solo successo prima. Per i nostri veri genitori, se
avessero voluto ci avrebbero trovati facilmente, da
quando siamo parte di una delle famiglie ducali più famose Gil. E per il
resto, se ci fosse stato qualcosa di veramente importante, trauma o non trauma, penso che l’amnesia avrebbe risparmiato quei
ricordi, no? Insomma, io di te mi ricordavo, dopotutto. Un legame come quello
fraterno non si dimentica facilmente, o comunque noi siamo stati fortunati. Se
ci fosse stato qualcun altro così importante, non credi che ce ne
saremmo ricordati?» spiegò fluidamente,
come se fosse stato un pensiero articolato così tante volte da renderlo
ormai proprio.
Gilbert
sospirò: ammirava il fatto che Vincent fosse
così certo della cosa. Lui, invece, si ritrovava costantemente pieno di
dubbi.
Ad
esempio, perché ricordava Oz ma non il periodo a casa Bezarius?
Gli
unici ricordi degni di tale nome in proposito erano sostanzialmente tre: quello
riaffiorato al concerto a Latowidge – che più che un vero e
proprio frammento di passato Gilbert avrebbe piuttosto definito “vago flash”,
il ricordo da poco affiorato di un Oz più giovane che gli diceva della
morte di Jack e infine il ricordo molto vago di un sorriso gentile e di una
mano che gli scompigliava i capelli, che supponeva
appartenessero entrambi allo stesso Jack.
Ma per
il resto, non sapeva nemmeno distinguere se si trattasse di veri e propri
ricordi, o di nozioni acquisite col tempo: Ada, per esempio, o Oscar Bezarius,
o lo stesso Zai.
Li
ricordava a prescindere, o il fatto di averli incontrati poi in società
aveva risvegliato in lui la sensazione di conoscerli?
Non
lo sapeva, e quell’incertezza lo stava facendo impazzire.
Jack
avrebbe dovuto essere importante. Il tempo con Oz avrebbe dovuto esserlo.
Eppure
perché… non ne aveva praticamente
memoria?
«Ultimamente
ho ricordato una cosa.» se ne uscì dopo diversi minuti di
silenzio, facendo trasalire Vincent. Non per le parole inaspettate, quanto per
il chiaro significato dietro di esse che il biondo vi leggeva: Gilbert stava
iniziando a ricordare, il che significava che qualcuno o qualcosa stava
facilitandogli il compito.
«Credo sia un ricordo di quando non ero già più a casa
Bezarius. Mi chiedevo… so della morte di Jack, ma non riesco a ricordare
il momento in cui l’ho saputo. Ho solo delle immagini vaghe di Jack al
letto, di un Jack sorridente, quindi… quindi ho visto Jack stare male. Ma allora perché non ricordo con precisione? Se sono
cose così importanti, perché lo sono e perché Jack
è stato importante per noi, perché solo delle immagini?
Perché non ricordi interi, precisi?» ragionò
ad alta voce, mentre Vincent in silenzio cercava di comprendere quanto fossero
supposizioni del fratello e quanto, davvero, fosse riemerso dalla sua amnesia.
«Gil,
cos’hai ricordato che ti ha smosso
così?» chiese, premuroso, il sorriso più leggero ma
presente.
«Quando
Oz… è venuto a dirmi che Jack era morto.» mormorò:
«Forse è perché eravamo in una situazione simile a quella,
e mi è tornato in mente, non lo so.» aggiunse, un rossore leggero
che gli imporporò le guance ma che – a giudicare dalla mancanza di
reazione di Vincent – non fu troppo evidente probabilmente.
L’espressione
del biondo si era fatta più seria, quasi fredda, forse approfittando del
fatto che in quel momento Gilbert non lo stesse
guardando.
Ma
presto la sostituì con l’ennesimo incurvarsi di labbra, di quelli
che si sarebbero potuti definire enigmatici: «Era questo che intendevo,
Gil.» se ne uscì in risposta, non molto
chiaro. Ma non tardò a spiegarsi: «La
vicinanza di Oz Bezarius ti sta creando problemi e nient’altro. Da quando
lo abbiamo incontrato al rientro a Latowidge, hai più spesso il mal di
testa, sei confuso, e hai queste immagini che ti vorticano in mente e ti fanno
stare male.» commentò, Gilbert che alzava
lo sguardo su di lui dapprima sorpreso, poi perplesso.
«Forse
dovresti allontanarti un po’?» buttò lì, con tono
casuale.
La sentì ridere, ma non somigliava affatto alla risata gentile di una ragazza
per bene.
Era sguaiata, maligna; di chi
ha tutte le intenzioni di farti del male, e nel momento in cui ha la consapevolezza
di esserci riuscito, ne gode internamente e completamente.
«Non dirmelo, non lo
sapevi?» lo canzonò, sibillina.
«Proprio tu, che vuoi così bene a Jack non lo sapevi? Oh, forse non
te lo hanno detto perché non sei stato un bravo
bambino, Gilbert.» proseguì, lo sguardo su di lui.
Gilbert strinse i pugni, le
mani che tremavano.
«O forse» riprese:
«perché conosci il suo assassino,
Gilbert. Lo sai per colpa di chi è morto Jack?»
insinuò, crudele.
«Smettila! Jack era malato, era soltanto malato, non è colpa di nessuno!» le gridò contro Vincent, al proprio fianco.
Gilbert continuava a tremare,
e a guardarla.
E riusciva solo ad odiarla ogni volta che parlava.
Anche ora che rideva, di una
risata acuta e penetrante – di nuovo: «Questa è la
verità che hanno detto a Gilbert?» chiese, retorica, osservandolo.
Ma l’espressione mutò dal sadico
divertimento alla freddezza, all’odio.
«Ti proteggono, ti proteggono, non fanno altro che proteggerti. Ti trattano
bene, perché sei il figlio dei Nightray, ora. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio. È tutta colpa tua, se Jack
è morto, è solo colpa tua! Se fossi andato più spesso a
trovarlo, se ti fossi preso più cura di lui, Jack sarebbe guarito.
È colpa tua! Sei un assassino, un assassino, UN ASSASSINO!»
«SMETTILA!»
«G-Gil…!»
sentì pronunciare e inorridì quando vide la propria mano stretta
attorno al collo del fratello, che teneva le proprie sul polso del maggiore nel
tentativo di allentare la presa. La sciolse immediatamente, allontanandosi di
qualche passo da Vincent, spaventato dal proprio stesso gesto.
Lo
osservò tossire, gli occhi sgranati mentre il fratello minore riprendeva
fiato, il volto appena arrossato dalla sua presa di poco
prima.
«Io…
io…» borbottò, completamente nel panico, le immagini di quel
ricordo che non sapeva collocare ancora lì, nitide nella sua mente e
spaventose.
«Gil,
sta tranquillo, va tutto bene…» mormorò Vincent, facendo per
avvicinarsi, una mano appena protesa in avanti verso il fratello. Gilbert la
colpì istintivamente prima ancora di rendersi conto del proprio stesso
gesto, allontanandola da sé.
A
quel punto, non era chiaro se l’espressione più spaventata fosse
la sua o quella di Vincent; di certo quella del biondo fu quella che
tornò prima ad uno stato vicino alla calma, o
ad un tentativo di somigliarvi.
«Gil…
cos’hai visto?» chiese così a
bruciapelo che se soltanto Gilbert non fosse stato tanto sconvolto, avrebbe
trovato piuttosto sospetta tutta quella certezza nel porgli quella domanda.
Era
chiaro che Vincent fosse praticamente sicuro che il
fratello avesse visto qualcosa, come se si fosse sempre aspettato che prima o
poi qualche ricordo sarebbe tornato a galla, e che fosse solo questione di
tempo.
Gilbert
tacque, rifiutandosi di rispondere, scuotendo la testa – e Vincent
capì che stava succedendo di nuovo, mentre l’immagine di un
Gilbert più piccolo si sovrapponeva a quella del fratello.
Il
Gilbert del suo ricordo si portava le mani a sorreggere la testa, chiudeva gli
occhi e rannicchiato in un angolo continuava a
ripetere “non è vero”.
Il
Gilbert di ora… quanto sarebbe durato prima di precipitare nuovamente in un
principio di follia che lo aveva già fatto sprofondare anni prima?
Vincent
lo abbracciò, stringendolo possessivamente: «Andrà tutto
bene.» mormorò vicino al suo orecchio.
«Va
già tutto bene Gil. È stato solo un
momento, ora ti passa. Non pensarci più.»
continuò, il tono basso e conciliante – non avrebbe permesso che
succedesse di nuovo, a costo di fare in modo che Oz Bezarius si allontanasse da
quella scuola, anche con mezzi meschini.
Gilbert
tacque, le parole del fratello udibili, ma che non lo raggiungevano del tutto.
Nella
sua mente si ripeteva, sovrapponendosi continuamente,
la stessa frase.
Quella
di quel ricordo, era davvero Alice?
Fece
capolino con la testa da dietro l’angolo dove
stava nascosta, controllando che non ci fosse nessuno nel corridoio in cui si
stava immettendo.
Accertatasi
che fosse completamente deserto, si mosse in avanti, rivelando la figura nella
sua interezza: aveva indossato degli abiti che di femminile avevano poco, optando per quelli piuttosto che per il pigiama. Erano
vestiti semplici, quasi smessi e che poco si adattavano all’ambiente di
una scuola come Latowidge; la maglia, inoltre, era evidentemente più
grande della sua taglia.
Alice
di solito non girava in piena notte per la scuola, non tanto per il rispetto
delle regole, quanto per due motivi precisi: innanzitutto, aveva delle
abitudini di vita a loro modo sane, e che ricordavano
un po’ quelle di un bambino. Mangiava alle ore dei pasti e dormiva
durante la notte – cosa che ogni persona normale avrebbe dovuto
effettivamente fare.
Secondo,
ma non meno importante, quando aveva saputo che poteva succedere che o i capo dormitorio o i professori facessero delle ronde per
controllare, un fatto era stato chiaro per lei: un conto sarebbe stato
incrociare Sirjan Kolstoj – doveva ammettere che una cosa di ciò
che dicevano le oche nella sua classe era vera, e cioè che Kolstoj era
innegabilmente di bell’aspetto.
Un
conto sarebbe stato incrociare il docente di Matematica e no, incontrare nel
pieno della notte Xerxes Break era tutto
tranne che un suo sogno proibito.
Anzi,
era certa che sarebbe somigliato molto più ad
un incubo – incubo che come minimo l’avrebbe perseguitata per
almeno una settimana, altroché.
Il
motivo per cui, quindi, aveva interrotto la sua sana routine di nove ore di
sonno filate, era stata quasi banale: la sera
precedente aveva visto Oz sgattaiolare verso l’edificio scolastico ad
un’ora improponibile, in cui lei era sveglia per puro caso. E
ricollegarlo al discorso che tempo addietro le aveva fatto Noah, riguardo la sua preoccupazione per le piccole fughe notturne del
biondo, aveva completamente acceso la sua curiosità.
Perciò,
anche se non era proprio certa che avrebbe trovato Oz
in giro a quell’ora quella sera, era riuscita ad uscire senza essere
beccata e a dirigersi lì.
Quando
però era stato chiaro che del biondo non c’era nemmeno
l’ombra… le era venuto istintivo dirigersi in quel corridoio.
Quello dove aveva incrociato quella ragazza identica a lei, forse nella speranza
di vederla nuovamente per chiederle chi diamine fosse – non era affatto soddisfatta della risposta che aveva
ottenuto l’ultima volta, ed era stata troppo sorpresa per contestarla.
Sbuffò,
notando che non sembrava davvero esserci nessuno, né compagni o
professori, né quella tizia.
«Dannazione.»
borbottò sommessamente, lanciando un’ultima occhiata indagatrice,
senza volersi arrendere nemmeno all’evidenza.
E lo
vide: un guizzo strano, poco più avanti.
Si
mosse praticamente subito, quasi correndo, non più
attenta a cose come non fare rumore o al non farsi vedere; quando però
voltò l’angolo, chiunque fosse era sparito. O così parve;
dovette ricredersi quando sentì una risata leggera, cristallina.
«Di
nuovo alle spalle, maledet—»
sbottò voltandosi di scatto, ma zittendosi quando i suoi occhi
registrarono la figura che la guardava divertita.
Fu
immediatamente chiaro che non si trattava della stessa persona, ma allo stesso
tempo Alice fu certa che fossero due entità molto simili: non sentiva
odori particolari, avevano entrambe una figura quasi eterea e davano la
sensazione di qualcosa che non potesse essere toccato.
Tuttavia,
le loro immagini erano profondamente diverse: la ragazza che ora stava davanti
a lei aveva i capelli lunghi e scuri, lisci e gli occhi chiari, azzurri. Il
vestito che indossava era palesemente estivo, e quello di una ragazza molto
semplice, non appartenente all’alta società o comunque di un rango
piuttosto inferiore rispetto a quello medio lì all’istituto.
La
pelle era diafana e senza imperfezioni, i lineamenti delicati che ad Alice
ricordarono un poco Alyster Kolstoj: si chiese, per un attimo, se quella
delicatezza fosse della stessa natura della compagna più grande da poco
scomparsa.
Poi,
notò, il sorriso le incurvava le labbra e la risata cristallina di poco
prima si ripeté nuovamente; Alice si imbronciò:
«Che cavolo hai da ridere?» rimbrottò, osservandola con le
braccia incrociate al petto.
La
vide portare una mano a coprire le labbra, per poi girarle intorno –
Alice non amava particolarmente quando qualcuno lo faceva – compiendo un
intero giro.
Dopo
di esso, si allontanò da lei, ma sembrava quasi invitarla a seguirla: invito che non si fece rivolgere una seconda volta. Era
anche una questione di orgoglio, visto che quella
lì continuava a ridere.
Tuttavia
non andarono lontano: non avevano percorso neanche metà corridoio, che
l’avanzata come la risata si interruppero
bruscamente, lo sguardo della ragazza che guardava oltre Alice.
La
castana allungò una mano nell’esatto momento in cui quella
sconosciuta spariva; perplessa, sobbalzò quando avvertì una voce
alle proprie spalle.
«Ti
prego di scusarmi, è andata via per causa mia, temo.» sentì
pronunciare, voltandosi nell’immediato.
Sentì
mancare un battito, distintamente, in un punto del petto preciso.
Davanti
a lei stava un ragazzo la cui figura era sbiadita nella propria mente, ma di
cui era sicura di sapere qualcosa. Poi, lo ricordò: era la figura che
anche Oz gli riportava alla mente, quella su cui per tutto quel tempo aveva
indagato.
«…Jack?»
soffiò pianissimo, osservandolo quasi con timore.
L’altro
non si era probabilmente aspettato che l’altra conoscesse il suo nome e
quindi la sua identità, perché assunse un’aria sorpresa che
sciolse quasi subito in un sorriso gentile, annuendo.
Allungò
una mano verso di lei, prendendo la sua ed effettuando
un perfetto baciamano da gentiluomo: «Non pensavo conoscessi il mio nome,
Alice.» osservò.
«Non
pensavo che quelli come te potessero toccarmi.»
fece lei di rimando, sulla difensiva; bastò a Jack per capire che il
motivo per cui Alice conosceva il suo nome fosse diverso da quello che lui
aveva appena ipotizzato.
«Dipende
da spirito a spirito.» spiegò semplicemente: «Alcuni di noi,
come la ragazza di prima, non riescono.» aggiunse.
Alice,
sebbene senza avvicinarsi né ritrarsi, come se
lo stesse ancora studiando e valutando, annuì leggermente: «E da
cosa dipende?» indagò. Jack si limitò a sorridere, senza
sentirsi offeso da quella domanda: «Da molte
cose. Di solito anche da quanto e quante persone pensano a noi, o pregano, ma dipende molto anche dai sentimenti che abbiamo.
Se sono forti, oltre a tenerci in questo luogo ci permettono contatti leggeri.
Naturalmente, ci sono cose che non possiamo fare come se fossimo vivi.» chiarì, pronunciando quel “vivi”
con estrema dolcezza, facendo sussultare Alice.
La
castana scosse appena la testa, cercando di frenare il battito del cuore,
innaturalmente velocizzato: non aveva corso, e non era nemmeno particolarmente
spaventata, eppure qualcosa nella figura del fratello di Oz –
perché di lui si trattava – le metteva addosso
inquietudine e felicità al tempo stesso. A cosa fossero dovuti quei due sentimenti tanto diversi e la
confusione che scatenavano mescolandosi, non avrebbe davvero saputo dirlo.
«Tu
sei il fratello di Oz, vero?» domandò, retoricamente, tanto che
non attese la risposta pur notando l’annuire dell’altro:
«Quella ragazza…?» aggiunse invece, riferendosi a quella che
era sparita poco prima.
«Sta per sparire, credo. Definitivamente.» replicò, ma non con
la tristezza di chi sta per separarsi da qualcuno: «I sentimenti che la
portano qui sono di natura diversa dai miei, o da quelli di altri come noi che
sono in questo luogo. Lei è rimasta finora perché qualcuno
pensava ininterrottamente a lei… e forse un pochino anche perché anche io volevo vederla.» ammise infine, osservando il
punto in cui era scomparsa.
Alice
cercò di sbirciare sul suo viso, alla ricerca di un qualche particolare
che le rivelasse qualcosa in più, ma non lo trovò.
«La
conosci allora.» osservò soltanto, basandosi su quanto detto da
lui.
Jack
sorrise appena più ampiamente, e annuì:
«Eravamo compagni di scuola, qui. Io e Lacie.»
Perché
lo avesse seguito, Alice non avrebbe saputo dirlo con precisione.
Sapeva
soltanto che nel momento in cui Jack aveva proposto di spostarsi dal corridoio,
le era venuto completamente naturale assecondarlo; era come se qualcosa, in un
punto imprecisato del suo corpo, sapesse che era la cosa giusta da fare.
Se
fossero ricordi stipati nella sua mente, se fosse il corpo che istintivamente
si muoveva o se fosse il cuore che ancora batteva velocemente, Alice non lo
capiva.
Ritrovarsi
sola con lui però aveva in un certo senso risvegliato qualcosa che, con
ogni probabilità, c’era ancora e per assurdo già da molto
tempo prima: era un miscuglio senza una vera forma, fatto di dolcezza, di
felicità e di nostalgia. Di completa fiducia, ma anche di timore.
Era
qualcosa che, un po’ come tutte le cose che riguardavano il passato di
cui non aveva memoria precisa, Alice non riusciva a spiegare con le parole,
fossero queste pronunciate ad alta voce o solo nella propria mente.
Jack
era una presenza particolare: era qualcuno che sentiva di dover ascoltare e che
nascondeva qualcosa.
Avevano
parlato di cose che Alice non aveva mai saputo, e di cui non si era mai
interessata prima; degli spiriti, per esempio. Di Lacie, nello specifico, e di
altri il cui nome era un mistero su cui non aveva indagato. Forse il biondo
glieli avrebbe anche detti, se lei avesse chiesto, ma
ad Alice non interessavano.
Era
probabile che comunque li avrebbe dimenticati.
Lacie,
secondo quanto spiegato da Jack con le parole semplici e gentili che si
rivolgono ad un bambino, era una presenza
“leggera”. Era qualcuno che si trovava in questo luogo senza sapere
perché.
«Non sempre gli spiriti conservano il ricordo della propria vita. Alcuni
dimenticano, specialmente chi non ha nulla che lo trattenga fra i vivi.»
aveva spiegato: «Lacie non è qui perché ha qualcosa da
fare. È probabile che stia finalmente per tornare nel luogo in cui dovrebbe
stare.» aveva aggiunto.
«Parli
dei rimpianti, e delle questioni in sospeso e quella roba lì?»
aveva domandato Alice, guardandolo, basandosi solo su alcune cose che aveva
letto – più racconti fantastici che non studi in proposito.
Jack
aveva sorriso, una sfumatura genuinamente divertita: «Qualcosa
del genere. Lacie più che dal rimpianto era animata dalla tristezza e
dal dispiacere, credo. Ma con il tempo, lo ha
dimenticato. L’oggetto di quei suoi sentimenti… ora non è
più tra voi.» era stata la risposta, che
a dire il vero Alice non aveva capito completamente.
Eppure
Jack aveva catturato totalmente la sua attenzione, quasi come se le stesse
raccontando una favola.
«Non
ti dispiace che sparisca?» gli aveva chiesto, ingenuamente e senza alcuna
malizia.
Lo
sguardo di Jack si era fatto triste. Era stata la prima cosa che aveva notato,
e che per la prima volta le aveva fatto rimpiangere di aver aperto bocca senza
riflettere; se ne era stupita: lei aveva il vizio – perché
difficilmente poteva considerarsi un pregio – di aprire bocca incurante
di quanto le proprie parole potessero ferire, o essere comunque brusche.
Ma
non le era mai capitato di pensare: “non avrei
dovuto dirlo”. Con Jack era la prima volta.
«Mi
dispiace perché sono egoista.» fu l’inizio della risposta
che catturò nuovamente la sua attenzione: «So
bene che essere bloccati qui non fa bene, a quelli come me e come Lacie. I
sentimenti che ti inchiodano senza permetterti di fare
un passo in avanti e lasciarti la vita alle spalle… non sono mai sentimenti
positivi.» mormorò piano, come se fosse un segreto solo fra lui ed
Alice.
Alice,
osservandolo, si chiese se una persona così potesse davvero essere
animata da sentimenti negativi.
«Tu…
non mi sembri una persona cattiva.» diede subito voce a quel pensiero, il
broncio leggero come se Jack avesse offeso in qualche modo lei. Lui la
osservò, l’espressione un po’ sorpresa forse, ma le sorrise
comunque.
«È
un po’ difficile da spiegare.» ammise: «Quando parlo di
sentimenti negativi intendo negativi per noi. La tristezza,
il rimpianto, la solitudine. A volte anche la rabbia, purtroppo.» si spiegò meglio, ma non avrebbe potuto
immaginare la domanda a bruciapelo che seguì quel chiarimento da parte
sua.
«Per
te il motivo è Oz?» chiese Alice, nello sguardo la sfumatura
decisa e per certi versi autoritaria che era tipica di lei, come se per un
attimo i ruoli si fossero invertiti, e il bambino a cui
spiegare pazientemente le cose fosse stato Jack.
Lui
ridacchiò piano, di una risata nervosa e imbarazzata: «Sono un
fratello troppo protettivo, secondo te?» domandò di rimando,
rispondendo quindi anche alla sua domanda e portando una mano dietro la nuca in
un gesto impacciato che Alice riconobbe facilmente, perché tipico anche
di Noah.
«Beh,
hai tutte le ragioni di preoccuparti.» se ne uscì in quella che
non era propriamente una premessa rassicurante: «Oz
è uno stupido e un testardo. Attira i guai, e soprattutto le persone
ambigue. Come Vincent, ad esempio. O anche quel pagliaccio feticista delle
bambole e Anna dai capelli rossi.»
proseguì infastidita – volendo soprassedere sulla risata spontanea
che Jack cercò di trattenere agli epiteti rivolti a Break e Rufus.
«Quando
ha bisogno di aiuto non lo chiede mai, e si pianta in
faccia quel sorriso stupido che ormai non convince più nessuno. E lo fa
come se credesse davvero che io e Noah non ce ne accorgiamo. E insomma, se ne
accorge persino quello scemo di Gilbert, quindi ho detto tutto. Dice bugie a non finire, e io odio le bugie. E alla fine,
quando poi le cose vanno male, sorride di nuovo anziché piangere!» sbottò arrabbiata, stringendosi le ginocchia
al petto come se i poveri arti fossero in qualche modo colpevoli.
Poi,
quando ormai chiunque si sarebbe aspettato una sequela di insulti
a concludere il tutto, l’espressione della castana si addolcì
appena: «Però… ultimamente è cambiato un po’.
Non è tanto, e ancora sorride dicendo bugie
effettivamente. Ma l’Oz che è arrivato qui
all’inizio, quando ti sorrideva non comunicava nulla. Era solo
un’espressione vuota come ce ne sono un sacco. Oz adesso… sorride
davvero. È solo una volta ogni tanto, ma quando guardi la sua
espressione, adesso riesci almeno a capire se sta bene o se sta
male. Si sta impegnando, credo. Piano piano… sta migliorando.»
mormorò, suscitando in Jack un sorriso dolce mentre gli occhi verdi
erano fermi sulla sua figura.
«E poi ora tuo fratello è il mio servitore. Perciò, che faccia
cose sbagliate o cose giuste, ci sono comunque anche io
a proteggerlo. E anche Noah: è un po’ scemo, ma non è male.
Poi un giorno se vuoi te lo presento.» aggiunse
con aria saccente.
Aria
che mutò in una sorpresa e quasi spaesata quando si sentì
sfiorare le guancia e, voltandosi verso Jack, si rese
conto che era proprio una mano del biondo a toccarla.
Il
contatto non era né particolarmente caldo, né freddo: era
tristemente come se non ci fosse, ma allo stesso tempo abbastanza palpabile per essere percepito. Leggero, come se Jack stesse sfiorando
qualcosa di prezioso.
Le
sorrise, grato e gentile; senza un motivo logico,
Alice pensò che fosse l’unico modo in cui Jack Bezarius sapesse
sorridere.
«Alice è diventata una ragazza buona e forte. Sono contento.» mormorò piano, con dolcezza.
La
castana non seppe definire, stavolta, la sensazione che ebbe: seppe solo che
Jack e Oz, per un momento soltanto, si erano sovrapposti nella sua mente e
davanti ai suoi occhi. E che sentiva di voler piangere.
Ancor
prima di rendersene conto, tuttavia, gli occhi si erano fatti pesanti a tal
punto che tenerli aperti non era diventato più
possibile.
Prima
di chiuderli del tutto, sprofondando in un sonno improvviso e pesante,
formulò un solo pensiero incoerente.
Il
sorriso di Jack – e di Oz? – non era vero che poteva essere solo
dolce e gentile.
Il
sorriso che gli si addiceva di più era… quello triste che riusciva
ad intravedere in quel momento, come un’ombra
sfocata.
Jack
la osservò, l’espressione dispiaciuta: «Scusami
Alice.» sussurrò.
«Pensavo
che le avresti raccontato la verità.» lo interruppe una voce pacata, impersonale. Non doveva davvero alzare lo sguardo
per capire di chi si trattasse, ma lo fece ugualmente trovando facilmente
conferma nella figura che inquadrò, e che si stava avvicinando con passo
lento.
«E io pensavo che mi avresti fermato molto prima,
Sirjan.» replicò con gentilezza, con il tono di un fratello maggiore;
dopotutto, il legame con i gemelli era stato di poco differente.
Sirjan
gli rivolse un sorrisetto divertito: «Non stavi
dicendo nulla che sia mia competenza nascondere. Che vuoi farci, mi sto
rammollendo Jack.» osservò falsamente
casuale. Il biondo vi lesse diverse cose, nel tono e nella frase, ma non
domandò nulla.
Sarebbe
stato superfluo chiedergli come stava.
«Credo ti si addica di più. Quando si ha un’indole gentile,
essere severi è molto più difficile.»
commentò, con un sorriso complice.
Sirjan
si chinò in avanti, prendendo Alice fra le braccia, ma rimanendo in un
primo momento inginocchiato alla stessa altezza di Jack, che era seduto: «Ti sta bene che Oz scopra da solo la verità?
Ti sta bene anche che Alice non si ricordi di te?» domandò a bruciapelo,
lo sguardo significativo e puntato negli occhi verdi
del più grande.
Jack
sospirò piano, lentamente.
«Che
sono un codardo, ce lo insegna anche la storia. Alice
è… diventata più forte. Nei miei ricordi è una
bambina estremamente fragile, da difendere quasi da
ogni cosa che la circondava. Credo che sia così anche perché non
ha ricordi. In questo, lei e Gilbert sono simili ma diversi. Lui si
colpevolizza perché non ricorda, e non avere memoria lo paralizza a
volte. Alice invece riesce a guardare avanti, anziché indietro. Ed
è… un dono, secondo me. Io che sono qui per il passato, so quanto
sia importante riuscire a non essere completamente inglobati da esso.» parlò piano, udibile per Sirjan nel silenzio
che li circondava.
Il
ragazzo tacque, osservandolo.
Non
ripeté la domanda per sollecitare una sua risposta riguardo ad Oz.
«Mio fratello… se lo incontrassi, probabilmente starebbe molto, molto
più male di come starà quando avrà scoperto la
verità. Per una volta, Sirjan, una sola… vorrei non essere egoista.
Lo sono stato nei confronti di mio padre, e di Oz. Ho preteso che il primo mi
capisse pur sapendo com’era fatto, e ho caricato le spalle del mio
fratellino delle aspettative perdute di mio padre, del
dolore di Ada e di quello che ero. Sono stato egoista nei confronti di Glen, e
ora lo sono persino con Lacie, aspettandomi un perdono che lei non è
nemmeno cosciente di dover dare. Per questa volta, nonostante parlargli è una cosa che desidererei fare…
vorrei cercare di agire per il suo bene, non per il mio.» concluse, lo
sguardo sul viso di Alice che – Sirjan ne era certo – non vedeva
davvero la ragazza.
Come
si fosse arrivati ad una cosa del genere, Oz non se ne
capacitava.
Nemmeno
ora, mentre erano nel pieno di un vero e proprio litigio – per altro, nell’atrio
dell’edificio scolastico, dove di certo non dovevi discutere se non
volevi che almeno mezza scuola sapesse i fatti tuoi.
Lui e
Ada non litigavano mai.
Un
po’ perché erano sempre stati molto legati e perché
andavano d’accordo fin da piccoli, un po’ perché lei per lui
era stata sempre come una figura materna oltre che quella di una sorella
maggiore.
Ada
aveva un carattere così mite, almeno quando erano insieme e per la
maggior parte del resto del tempo, che era piuttosto difficile discutere
aspramente con lei. E Oz non si era certo mai impegnato
in tal senso.
Ada
era stata… una fiaba raccontata per far addormentare un bambino
spaventato da un incubo; si era presa cura di lui, lo
aveva affiancato ripetendogli che sarebbe andato tutto bene. Specialmente dopo
la morte di Jack.
Già,
suo fratello.
Il
motivo per cui ora stavano alzando la voce per la
prima volta l’uno contro l’altra.
Oz a
dire il vero non avrebbe mai voluto dirle di essere entrato in possesso del
diario di Jack, né delle cose in cui si stava immischiando
guidato da esso. Le aveva chiesto durante la colazione se sapeva dove fosse
Elliot, nel momento in cui non aveva notato il minore dei Nightray – in
verità non c’era ancora nessuno dei tre – in mensa.
Gli
era parsa una domanda come tante altre, che non suscitasse chissà quale
dubbio; ma evidentemente, per Ada c’era stato qualcosa, perché lo
aveva guardato come se Oz le avesse appena chiesto di dirle dov’era il
loro peggior nemico.
«…Come
mai vuoi parlare con Elliot?» era stata la domanda che aveva sostituito
la semplice risposta con una locazione che Oz si era aspettato.
L’aveva guardata stupito, e forse quello l’aveva tradito.
O
magari, ad averlo smascherato era stata la propria risposta: «Devo
chiedergli una cosa che riguarda il periodo in cui Jack c’era ancora.»
Ammetteva
che non fosse certo la cosa più intelligente da dire, ma era pur vero
che potevano essere milioni di cose quelle che voleva
chiedere: poteva riguardare Gilbert, ad esempio, o poteva riguardare lo stesso
Elliot. E dal momento che erano di anni diversi,
sarebbe suonato strano usare la scusa dello studio, persino del pianoforte
– considerando che non aveva fatto chissà quali progressi,
insomma.
Ada,
se possibile, l’aveva guardato persino più preoccupata di quando
gli aveva posto la domanda: «Lascia stare.» gli aveva detto, lasciandolo in parte perplesso e in parte…
irritandolo.
Ora
non era nemmeno libero di chiedere di suo fratello? Ora anche Ada si comportava
come se Jack fosse un passato troppo lontano per essere ancora rivangato o
ricordato?
Non
avrebbe saputo dire cosa fosse meglio: se quello, o suo padre che si era
convinto della non esistenza di un figlio minore perché in lui era
convinto di avere in realtà di nuovo il suo amato primogenito vivo.
Il
risultato, comunque, era lo stesso.
Nonostante
fossero coscienti di stare praticamente dando
spettacolo – non che urlassero così forte, ma due fratelli che
discutevano animatamente nell’atrio, sebbene con toni ancora controllati,
attiravano l’attenzione comunque.
Non
si accorse nemmeno dei Nightray che arrivavano in quel momento, probabilmente
diretti alla mensa per fare colazione, né di Gilbert che nello specifico
aveva avvicinato Noah ed Alice, imitato poi dai
fratelli.
«Che
sta succedendo?» aveva chiesto perplesso a Noah, che sembrava combattuto
fra l’intervenire e il non immischiarsi in quello che ormai era decisamente un affare di famiglia.
«Ti giuro Gilbert, non ci ho capito nulla nemmeno io. Stavamo mangiando tutti insieme, Oz ha chiesto di Elliot ad Ada, e quando le
ha detto che lo cercava per chiedergli una cosa di quando il fratello era vivo
hanno iniziato a discutere.» riassunse brevemente, lo sguardo che
continuava ad alternarsi fra i due fratelli poco distante e il suo
interlocutore.
Gilbert
parve spaesato e cercò lo sguardo di Elliot, che non sembrava meno
perplesso di lui: «Cosa deve chiederti?»
chiese confuso, ottenendo in risposta un’occhiata altrettanto dubbiosa.
«Non
ne ho la più pallida idea, non ne so niente.» disse sincero il
minore, ma se Gilbert avesse voluto replicare, lo scambio tra Ada e Oz glielo
impedì totalmente.
«Insomma,
qual è il problema?! Non sai nemmeno cosa gli
devo chiedere!» obiettò Oz, testardo,
fissandola.
Ada
sembrava spaventata. Se dal fratello che non aveva mai litigato con lei
così bruscamente, o se dall’idea che sapesse qualcosa di cui lei
era già a conoscenza, Oz non poteva dirlo.
«Dico soltanto… che non è necessario! Neanche Jack
avrebbe—»
«IO
NON SONO JACK!» fu l’esclamazione che fece tacere non solo Ada, ma
che zittì anche il leggero brusio che aveva iniziato a diffondersi
nell’atrio.
Gilbert
non riusciva a staccare gli occhi da Oz.
«Ci sto provando, va bene? Ci sto provando da anni! Tu non hai nemmeno
un’idea vaga di quanti tentativi io stia facendo, ma non importa quante
volte provo, non riesco ad assomigliare a Jack più di così, va
bene?! Non ci riesco!»
continuò, incapace di fermarsi.
Non
avrebbe voluto dirlo, e non avrebbe dovuto
dirlo.
Anche
Ada era stata male. Anche lei soffriva come lui; per contro, però,
c’erano cose che lei non poteva capire.
«Mi dispiace se lui non avrebbe voluto, o se non lo avrebbe fatto e mi
dispiace se pensi che lui si sarebbe comportato in un altro modo e se quindi ti
aspetti che io faccia lo stesso. Ma io non sono Jack Bezarius, sono soltanto
Oz!»
Mentre
si allontanava dall’atrio, e qualche docente – ignaro di quanto
accaduto e appena giunto placava il chiasso che si era alzato richiamandoli
all’ordine – qualcuno seppe che quel “soltanto” aveva
più significati di quanto potesse sembrare.
Corse.
Non
importava quanto fosse vietato, considerando che i docenti erano verosimilmente
tutti a colazione.
Voleva
solo allontanarsi.
Dalla
mensa, da sua sorella, da Gilbert, da Latowidge.
Da
tutti quelli che avevano visto o conosciuto Jack e che inconsciamente
continuavano a paragonarli.
Non
importava che fosse istintivo, voluto, in buona fede.
Era
solo stanco di sentirselo dire persino dove era scappato per non ascoltarlo
più dalle labbra di suo padre – perché era quella la
realtà, anche se non l’aveva detta a nessuno.
Sapere
di andare a Latowidge era stata una liberazione:
lontano dalle mura di casa Bezarius, impregnate di ricordi
e aspettative, sarebbe stato meglio. Era stato convinto, quando aveva varcato
il cancello, che lì sarebbe andato tutto bene.
Come
nelle favole che Ada raccontava quando erano bambini, finché lui non si
addormentava placidamente permettendole di andare a dormire a sua volta.
Ma Oz
lo sapeva, perché ogni tanto fingeva solo di appisolarsi e poi
sgattaiolava fino alla camera della sorella; Ada, ogni tanto, piangeva da sola.
E la
mattina andava a svegliarlo con un sorriso e gli occhi rossi e un po’
gonfi.
Voltò
un angolo a caso, bloccandosi quando lo riconobbe.
Era
il corridoio in cui Sirjan gli aveva vietato di andare e in cui una volta era
stato salvato per un pelo da Aedan.
Abbassò
lo sguardo, indeciso sul da farsi.
Nella
sua mente, le parole di Sirjan erano ancora chiare come se il più grande
le stesse pronunciando in quel momento lì, di fronte a lui.
Non avvicinarti a Glen
Baskerville più dello stretto necessario.
Quello
era molto più dello stretto necessario, e persino più del limite
consentito, ma… alle parole di Sirjan, in quel momento, si sovrapponevano
altre parole.
Quelle
di Rufus – perché
Xerxes
Break ti metterà alla prova.
Quella
lo era sicuramente.
«Ah, Oz, prima che te ne
vada.»
lo aveva interrotto, facendolo
voltare
quando era ormai in
prossimità della porta.
«Dai ascolto
al tuo capo dormitorio.
Sarebbe davvero un grosso
problema,
se ti imbattessi nello spirito
di Glen Baskerville la prossima volta.»
Glielo
aveva detto di proposito.
Break
sapeva perfettamente che in un modo o nell’altro lui, Oz, sarebbe finito
nuovamente lì.
E
sapeva anche che una parte di verità poteva scoprirla solo facendo
domande direttamente a Glen Baskerville – non pensò a quanto
potesse essere pericoloso, considerando il primo e unico avvertimento che lo
spirito gli aveva dato tramite Elliot.
Fissò
di fronte a sé, nel punto in cui una volta aveva già visto quella
stessa porta che ora stava prendendo forma davanti ai suoi occhi come in un
gioco di prestigio.
Si
aspettava persino Cheshire, ma… non arrivò nessuno.
La
porta era lì, ferma, chiusa e non si sentivano né voci, né
rumori.
Era
un invito ad andarsene, o ad entrare?
Probabilmente,
solo Glen potrebbe rispondere.
Scosse
la testa, muovendo un passo in avanti e poggiando la mano sulla maniglia.
Inaspettatamente
non accadde nulla di strano o pericoloso; semplicemente la porta si
aprì, lasciando intravedere quella che sembrava una stanza buia, vecchia
e abbandonata da tempo.
Ne
varcò la soglia, deglutendo.
E
chissà perché, non si stupì affatto
di sentire l’uscio richiudersi alle proprie spalle, sebbene senza colpi
violenti, ma anzi come se qualcuno l’avesse socchiuso per lui.
E solo quando riportò lo sguardo davanti a sé, intravide la figura che non aveva mai visto, ma che sospettava non potesse essere confusa con nessun altro: ne conservava un ricordo vago, anche piuttosto annebbiato in un certo senso.
Ma
tutto nella persona che era placidamente ed elegantemente seduta sulla vecchia
poltrona, accanto alla finestra dalle tende tirate, sembrava dire che si
trattava di Glen Baskerville.
Dalle
movenze affascinanti, al viso perfetto, al cipiglio austero, agli occhi scuri
che annoiati ma penetranti si posarono su di lui.
Vi
sostarono poco, e quando tornarono alla piccolissima porzione di vetro non
nascosto dalle tende, la voce di Glen riempì il perfetto silenzio che
era aleggiato fino a quel momento.
«Toglimi
soltanto una curiosità.» esordì tediato dall’argomento
o forse – più probabile – dal proprio interlocutore:
«Per quanto mi applichi, mi sfugge se la tua sia stupidità o mero
istinto masochista.» concluse scortese,
nonostante il modo di parlare impeccabile.
Oz si
morse il labbro inferiore, senza rispondere.
Sussultò
impercettibilmente quando gli occhi freddi di Glen tornarono su di lui:
«Io credo sia stupidità.» concluse,
come se avessero disquisito per ore e fossero finalmente arrivati alla
risposta.
Non mi piacciono,
le persone che ficcano il naso
nei miei affari.
Non riuscì a dire nulla, come paralizzato sul posto, mentre di nuovo lo sguardo di Glen lo abbandonava per passare ad altro, l’espressione comunque annoiata.
«Jabberwocky.»
chiamò semplicemente, senza nemmeno voltarsi.
Oz
non seppe quando la stanza era mutata attorno a lui, distorcendosi quasi e
assumendo sembianze che di una stanza non ricordavano nulla, somigliando
più ad una dimensione piena solo di buio e
nient’altro.
Seppe
solo che qualcosa brillò nell’oscurità, che un verso
gutturale e grottesco ne riempì il silenzio, e che il dolore improvviso
al braccio si tradusse in un liquido denso che sentì a contatto con la
propria mano quando istintivamente la portò all’arto colpito.
Ed
infine, che Glen Baskerville stava sorridendo.
Note
Voglio morire. Questa è la frase che una ficwriter arriva a pronunciare in un momento di disperazione, che può essere dato da vari fattori. Nel mio caso, dall’immondo ritardo causa esami XD
Soprassediamo
e arriviamo al dunque.
La
frase in apertura (Nice to meet you, my pain)
è presa da un’immagine trovata per il web, tra l’altro a
sfondo Durarara!!
Mi
è piaciuta tanto che alla fine l’ho inserita come citazione di inizio capitolo *sisi*
Qui
non si vede la fine degli intrippi mentali della
trama, ma almeno avete visto l’inizio di qualche chiarimento XD
Passo
a rispondere alle recensioni:
Gioielle:
ogni volta
che tu tessi le lodi di Noah io vado in brodo di
giuggiole, ne sei consapevole, sì? XD
Purtroppo
ci sono volte in cui posso muoverlo fino alla nausea e volte in cui mi sparisce
totalmente (il lato negativo di aver messo troppa gente collegata alla trama
base 8D). Quanto alla tua analisi di Oz, posso solo dirti di continuare ad
analizzare, perché qualsiasi cosa io dica
finirei in un modo o nell’altro per spoilerare
qualcosa XD
Come
avrai visto, Oz ha fatto esattamente l’opposto di quanto detto da Sirjan
all’inizio: per quanto riguarda la persona vicina ad
Oz che si suppone nasconda qualcosa… no, non mi posso sbilanciare, ma
diciamo che qualche indizio vago è stato lasciato recentemente, e non
dico altro XP
Il
rapporto Sirjan-Oz è uno di quei rapporti che
si è sviluppato da solo: all’inizio non dovevano
affatto ritrovarsi così vicini, ma temo che con Alyster a fare da
“collante” alla fine fosse inevitabile.
Ti
ringrazio molto per i complimenti su Vincent (è uno di quei pg che
scrivo di getto, ma poi ho mille ripensamenti sul suo IC) e per la scena GilOz,
che so aspettavate tipo tutti da almeno 10 capitoli XD
Sul risvolto, come il rating stesso dice, non sarà approfondito
più di un certo limite (leggasi: niente lemon). Più che altro,
penso di poter impazzire se inserisco pure più romanticismo oltre alle
beghe di trama che mi ritrovo 8D
Yoko891:
donna, tu
risollevi il mio ego. *annuisce*
Ti
ringrazio per i complimenti riguardo l’essere riuscita a portare la trama
di ph (con dovuti accorgimenti per forza di cose), in questa AU. Era uno dei miei
obiettivi, e sapere di esserci riuscita quantomeno finora mi ripaga dei mal di
testa che mi stanno venendo quando nel mezzo di una scena mi rendo conto di
sputtanare qualcosa che avevo già scritto – sì, succede
perché è tutto troppo intrippato.
Felice
che
Grazie
anche per i complimenti allo stile e tranquilla, sei perdonata
anche se commenti ogni due capitoli <3
Makotochan:
sì,
io ti ucciderò andando avanti così, ormai si è capito XD *pat pat*
Vorrei
poter dire, in merito anche alla tua recensione al 15,
qualcosa come “visto? C’era una scena VinceGil!”,
ma considerando come si è svolta, non so quanto fosse adatta a
conciliare il cuore di una fangirl XD
Mi
ha fatto particolarmente piacere il commento riguardo la
descrizione dei sentimenti: purtroppo per me è sempre estremamente
drammatico descrivere i luoghi. Faccio fatica come autrice e come lettrice e
questo comporta che non mi ci sia mai applicata troppo prima di Rinnega, anche
perché è questa la prima esperienza di longfic
che faccio. Perciò sapere di riguadagnare terreno con le descrizioni
introspettive mi fa piacere <3
Il
lato oscuro di Oz è solo all’inizio (o almeno credo). So soltanto
che il moccioso mi sta dando delle grane non indifferenti *non capisce mai
quando lo tiene IC e quando no*
Prendo
nota e ti riconfermo per il fan club di Noah, eh? ù.ù
Fiamma
Drakon: ammetto
che, arrivata a rispondere alla 4^ recensione, non mi aspettavo che il dialogo Sirjan-Oz piacesse a tal punto. Temevo quasi di
appesantirvi, ma d’altronde non ci posso fare granché. Sono
esattamente 15 (o possiamo dire 16?) capitoli che vi riempio di
interrogativi e iniziare a spiegare serve. E di solito il personaggio a cui tocca l’ingrato compito ci rimette sempre, ma
sono lieta che – a quanto pare – non sia stato così :3
Non
saprei dire, infine, se la situazione stia migliorando: posso dirvi solo di non
riporre troppe speranze, ma di leggere capitolo per capitolo
– finché vorrete seguirmi – e prenderne quel che ne viene.
È un modo carino per dire che le beghe non son finite XD
Bacinaru: la tua recensione mi ha tolto dieci minuti di
autonomia cerebrale. Perché non importa che io sia l’autrice e che
ami questa longfic nel bene e nel male: non è
umano (in senso buono eh!) leggerla in due full immersion. Cioè,
è troppo persino per me che l’ho scritta X°D
Hai
tutta la mia ammirazione, oltre che gratitudine ovviamente <3
Sono
felice che la parte di Alyster sia stata chiara nei sentimenti che venivano espressi: come scrissi già una volta mi sa,
ci tenevo particolarmente. Tengo a tutto, scontato dirlo, ma parti come i
sentimenti di Alyster che rimangono leggeri e quasi taciuti per 13 capitoli, condensati in uno solo temevo non rendessero
l’idea, ma per fortuna ero in errore :3
Ti
ringrazio per i complimenti sullo stile, e spero che anche questo capitolo sia
stato di tuo gradimento ^^
NatsuVIII:
felice di
leggerti in recensione <3
Gilbert
dorme un po’ da piedi, ma c’è da dire che povero, Oz non
è proprio facile come persona da capire XD Vincent e il suo lato
bastardo imperano tanto per cambiare, ma sia mai che
questo in un modo o nell’altro dia anche una scossa a Gilbert (ormai
ribattezzato Monnalisa in sede di recensione xD)
Zai
è il personaggio che io più odio in tutto Pandora Hearts, e ho
idea che non si faccia molta fatica a intuirlo dal ruolo che gli ho dato anche
qui. Vedremo se combinerà ancora altri danni, o se basta così.
Spero
che anche questo nuovo capitolo ti sia piaciuto :3
Infine,
un grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito
“Ciak, si gira!”: FiammaDrakon,
makotochan, NatsuVIII, nacchan, Gioielle, Yoko891, bacinaru
e Meimei <3