Inizio col dire, "EFP, ma quanto
mi sei mancato" **
Pronta a rituffarmi nel fantastico mondo delle fanfiction, tempo ed impegni
permettendo U_U
Vi avviso già adesso, non potrò dedicarmi a lavori troppo impegnativi, ma vedrò di fare del mio meglio ** Questa è una trama che ho in testa da tempo e proprio ieri ho gettato l'amo al largo per ripescarla e porla sotto revisione *mode professoressa on*. Saranno giusto cinque capitoletti, forse sei. Spero con il cuore che vi piaccia e che io riesca a trasmettervi tutto l'amore che provo per Saint Seiya e per questa coppia che le giovani fan sbavose - lol - hanno creato.
Questa fic mi è stata ispirata dalla canzone di cui ho scritto un brano qui sotto *mostra con ditino* Vi invito ad ascoltarla **
Buona lettura **
Dew_
"In good old times, remember, my friend
Moon was so bright
and so close to us, sometimes
We were still
blind and deaf, what a bliss?
Painting the world
of our own, for our own eyes, now?"
Sonata Arctica - Shamandalie
FOULARD - trattato sui sensi
Parte prima - de gustibus
Sciolgo il nodo.
Lo faccio piano, con un cert'atteggiamento colpevole, come se alle mie dita
proprio non interessino i pensieri che mi inquinano la mente. So che lui non
vorrebbe, e ciò che sto facendo mi è dettato più dall'istinto che dalla
razionalità. Alzo lo sguardo su mio padre mentre stringo nel pugno i lembi del
foulard. Forse mi aspetto una sua reazione,
(che stupido che sei, Aiolia)
ma come previsto si limita a farmi un cenno verso la porta. Allora i miei occhi
scivolano su quell'uscio che mai avrei voluto varcare.
Sto ancora accarezzando quel fazzoletto di seta quando le mie gambe hanno già mosso i primi passi.
Tre mesi prima
Artigliai con così tanta rabbia la cornice d'argento che per un istante
ebbi quasi paura di incrinarla; e la stessa sensazione l'ebbe molto
probabilmente mio padre, perché il suo sopracciglio destro si arcuò un poco in
quell'espressione che odiavo. Era la tipica faccia di un genitore che sa di
aver sbagliato, una di quelle che ti fanno sentire prepotentemente nel giusto.
Ma più che nel giusto, in quel momento mi sentivo una bestia.
- No. Non puoi - gli soffiai addosso.
- Ma...
- Quel biondo qui dentro non ci entra.
Mentalmente rettificai, biondino. Biondo ero io, perché
"biondo" è un aggettivo superiore. Un ragazzo biondo è un ragazzo
conteso. Invece Shaka Mudaliar era solo un biondino e nient'altro. Detestavo
tutto di lui: l'atteggiamento, l'abbigliamento, il nome. E i capelli, troppo
lunghi per un ragazzo, più luminosi dei miei. Il subconscio mi suggeriva che
tutto sommato la mia fosse solamente invidia e non odio, ma il mio orgoglio
aveva soffocato con arroganza tutte queste fastidiose vocine interiori. E le
stava soffocando anche quel pomeriggio d'agosto, mentre l'afa oppressiva di
Bristol boccheggiava sulle finestre spalancate della mia stanza.
- Te l'ho detto papà, io quello qui non lo voglio.
- Aiolia, sei grande ormai. Ti chiedo solo un po' di comprensione.
Lo sbirciai di traverso. - Comprensione per un cieco? Sai che proposta
interessante...
Il sopracciglio di mio padre tremò pericolosamente. Si stava arrabbiando, e
io
(ci godevo)
rimpiansi di aver parlato. Furono le mie stesse parole a darmi fastidio. Il
perché non lo seppi mai, ma pur guardando in basso e torturandomi le dita per
ingannare il silenzio che improvvisamente era calato attorno, sentivo che il
mio interlocutore mi stava fissando. Ebbi quasi un fremito.
- Quel ragazzo è cieco dalla nascita, figliolo – mi disse.
- Questo non c'entra.
-
Quello che voglio farti capire è che... con il tempo mi sono
affezionato
a lui. I Mudaliar sono sempre rimasti una famiglia di grandi musicisti,
e
Shaka, così come i suoi genitori, ha sempre coltivato la
passione per la
musica. Ora suo padre e sua madre sono passati a miglior vita, e
nonostante lui abbia vent'anni ha bisogno d'essere seguito. Lo capisci,
questo?
Negai con il capo. Mi sentii idiota, perché quel gesto mi parve più un
brivido causato dal senso di colpa che un no vero e proprio. Sulle prime non
dissi nulla.
La verità era che avevo paura. Solo quattro mesi prima avevo perso il mio
fratello maggiore Aiolos. Lui sì che era un grande. Era stato lui a comprarmi
tutti i poster del Bristol Rovers Football Club, era stato lui a regalarmi
tutti i dischi dei leggendari fratelli Young. E quel dannato incidente d'auto
se l'era portato via.
Non avevo voglia di avere un nuovo fratello. La verità era questa. Scarna,
semplice, bastarda, ma sincera.
- Papà - incominciai in tono magro, senza alzare gli occhi, - io... non ne
ho voglia. Lo sai.
Stavolta fu lui a concedersi qualche attimo di silenzio. Poi mi sfilò la
cornice d'argento dalle mani, giocando d'astuzia su quel mio momento di
fiacchezza, e la mise da parte, sul mobile vicino al letto. La foto di Aiolos
ora mi sorrideva da lì.
- Significa accettare gli eventi. Lui vorrebbe la tua felicità, figliolo;
non certo che spendessi la vita incollato ad una cornice d'argento -,
e abbozzò un sorriso che io evitai di incrociare. Solo colsi la sua grossa mano
spelacchiarmi i capelli biondi in un digiuno gesto d'affetto e la sponda del
letto distendersi quando lui si alzò. Uscì senza aggiungere alcun'altra parola
sulla questione.
La differenza era che io in quel momento non avevo nemmeno voglia di aggiungere un pensiero.
Mio padre andò a prenderlo alla stazione e io non andai con lui. Non avevo
voglia di uscire, ecco perché.
Così lo aspettai direttamente a casa. Cercavo in tutti i modi di mascherare
l'ansia per l'attesa, tanto che finii persino col prendere in mano un polveroso
libro dei tempi che furono.
Avevo piantato la scuola circa un anno prima. Mi ero stancato di studiare già
nei miei primi tre anni di carriera scolastica - ammesso e non concesso che la
voglia di studiare mi sia ogni tanto venuta -, e i libri di testo che mio
padre s'era pagato col sudore finirono ben presto sulla vetta del mio mobile
costellato di adesivi. Solo mio fratello tentò di crocifiggermi sulla croce
della routine da studente, ma quando non voglio sentir ragione, non ne sento e
basta. E allora eccomi lì, ragazzo biondo con portamento da classico
scansafatiche.
Ma quanto mi amavo.
I tentativi di ingannare l'ansia mi andarono a genio finché non sentii il
rullare secco delle ruote sulla ghiaia. Non era necessario correre alla
finestra per vedere, mi bastava la visione della Bmw nera che si arrestava sul
vialetto per destinare al rogo tutte quelle mie maschere di tranquillità.
Buttai sul mobile il libro di scienze e mi tuffai sul divano, agguantai il
telecomando, no anzi, che stavo facendo?, rovistai sotto al tavolino di vetro,
braccai un giornaletto qualunque, distesi i piedi sui cuscini, poco
appropriato, sul bracciolo, gettai un braccio lungo lo schienale, aprii la rivista.
La sferzata delle pagine corrispose con lo zap! gelido della
chiave nella serratura.
Angus Young aiutami tu.
Più passi. Due persone. Forse una con tre gambe.
(Aiolia ma dico?, sei impazzito? Da quando esiste gente con tre gambe?)
Mi sentivo così idiota a dover accettare questi miei ragionamenti assurdi,
ma l'importante era tenere gli occhi fissi sulla rivista. Come gambe non erano
male. E poi accidenti, non ero mai stato un grande ammiratore delle donne coi
reggicalze, ma quelli lì rossi... abbinati alla mutandina color pesca...
Ancora oggi non credo che la vecchiaia si porterà via la gran figura
(di merda)
che feci quel giorno. Ripresi il totale controllo delle mie capacità
deduttive solo quando buttai il giornaletto dietro al divano in un giostrare rabbioso
di pagine translucide. Non era necessaria una laurea per capire che mio padre
si era trattenuto dal mollare la mandibola in seguito a quel che s'era trovato
davanti: suo figlio minore, rettifico Aiolia "il Biondo" Iracà,
intento a spogliare con gli occhi le già seminude modelle di una rivista di
intimo femminile. In realtà era solo un inserto, ma in ogni caso restava sempre
il fatto che si trattava di un certo argomento. Avere vent'anni non autorizza a
certi comportamenti, non quando si è figli di un avvocato noto in mezza
Inghilterra.
Non feci alcuno sforzo a sfoderare un sorrisetto da bravo ragazzo, dato che
quando serviva un alibi credibile ero un ottimo improvvisatore. Eppure,
nonostante mi sforzassi di non farci caso, avvertii la sgradevole sensazione
d'essere arrossito.
Dio non me ne voglia, ma per una volta ringraziai il cielo che Shaka Mudaliar fosse cieco.
Accadde questo il primo giorno che il biondino si presentò a casa mia. Era
lì sull'uscio del salotto, occhi chiusi, espressione serafica ed
imperturbabile, quel caldo pomeriggio d'agosto. Era lì e ci sarebbe rimasto per
tre mesi. Ancora ricordo i suoi abiti di flanella bianchi, i suoi lunghi
capelli d'oro, la sua immobilità. Mi sembrò uno di quegli adesivi
attacca-stacca che se ne stanno fermi per anni sulla stessa pagina.
(Attacca-stacca Shaka Mudaliar! Sarà felice di visitare la carta
translucida del paesaggio-bosco! Che ne dici di staccarlo e spostarlo nel
paesaggio-spiaggia?)
Questi pensieri mi fecero quasi ridere, ma mi trattenni e mi limitai a
quella mia espressione ebete cui ero ricorso per fronteggiare l'imbarazzo.
Conoscevo il biondino da forse due anni, da quando mio padre aveva incominciato
ad invitarlo a casa per pranzo. Questo perché così come file e file di ragazzi
si affollano nei cinema, noi Iracà ci affollavamo - "mi facevano
affollare", nel caso esista una forma passiva - nei teatri; e nei teatri
di Bristol molto spesso si organizzavano serate di musica classica.
A onor di cronaca, Shaka Mudaliar era un pianista nato. Il fatto che fosse
cieco non gli aveva proibito di mettere la dita sui tasti e di lasciarli lì per
anni ed anni ancora. Odiavo ammetterlo, ma suonava da spaccare. So bene
che il termine è più affibbiabile a musica di ben altro tipo, ma allora,
invasato com'ero da AC/DC, Reverendo e compagnia bella, non potevo trovare
altri termini per esprimere quanto in realtà apprezzassi il suo stile. Ma
questo non l'avrei mai ammesso. Neanche buttato al rogo mi avrebbero sputato
quest'altra verità.
Decisi di lasciare da parte i pensieri attacca-stacca quando mio
padre mi invitò con un cenno della mano ad avvicinarmi. Scivolai via dal
divano, quatto quatto, piccolo piccolo, e zampettai timidamente finché non mi
trovai di fronte a lui. E di fronte a quell'altro. Sapevo che non poteva
vedermi, ma per una ragione più profana del profano stesso la sensazione che mi
spiasse mi punzecchiava i nervi. Mi metteva quasi suggestione.
- Shaka - incominciò mio padre, con quel suo bel tono d'avvocato d'altri
tempi, - presumo tu ti ricordi di mio figlio Aiolia, uhm? - .
In tutta risposta lui accennò a un sorriso pallido e disse, in un tono che
faceva invidia alla parola dei pesci: - Certo che sì - .
Mi sembrò già tanto che avesse detto quello. Per come lo conoscevo io,
avevo già messo in conto le frasi senza senso con cui ogni tanto farciva le
discussioni a tavola, sommando ad esse i "sì" e i "no" che
precedevano quasi sempre un silenzio di tomba. Dove c'era lui c'era imbarazzo.
Oh questo l'avevo capito bene. Decisi di tirare un nuovo sorrisetto che fosse
il più credibile possibile, e mio padre, che aspettava solo un mio cenno di
vita, sembrò appagato da questo mio sforzo.
-
Perfetto ragazzo - buttò lì dopo quella breve e concisa
(ri)presentazione, - allora posso lasciare a te la valigia,
Aiolia?
- S...sì - mi affrettai con cinque secondi di ritardo, pescando con lo
sguardo una valigia rossa appoggiata contro lo stipite. - A me, sì.
Agguantai una delle cinghie del bagaglio e mi caricai tutto sulla spalla.
In un primo momento gioii della speranza di poter salire da solo le scale, di
mollare il fardello in qualche angolo della stanza degli ospiti e di scendere
in meno di due minuti pronto ad arraffare le scarpe di tennis ed uscire di
casa. Avrei scaricato a mio padre Shaka Mudaliar almeno fino a sera, che dico?,
notte fonda. E invece no.
Quando mossi il primo passo verso il primo gradino, il biondino aveva già
colto il mio movimento e si era voltato per seguirmi.
Perspicace.
- Attento a non fare movimenti bruschi - lo sentii dire quando feci per
piantare il piede sulla scala, - ci sono dentro oggetti fragili.
Non so cosa mi passò per la testa, ma approfittando del fatto che mio padre
era già in salotto ghiacciai Shaka Mudaliar con lo sguardo più truce che mai
avessi mai dedicato a qualcuno in vita mia. Si era appena trasferito nel mio regno
(nostro, ormai)
e già si permetteva di correggermi? Il leone più anziano si tiene il
proprio territorio, si sa; se poi ne arrivava uno giovane con
l'intenzione di soppiantarlo, il re avrebbe rivendicato il suo status di
sovrano. Mi fermai sul primo gradino con le dita aggrappate al corrimano come
se impugnassero l'elsa della spada che avrei voluto sfoderare e piantargli in
corpo.
- Mudaliar - lo ammonii in tono misurato, - non so se andremo mai
d'accordo, e se hai intenzione di creare nuove leggi qui dentro, sappi che
questa tua proposta di governo non può esistere. I bagagli li ho sempre portati
io, per tutti gli ospiti che ha avuto mio padre, e non vedo perché dovrei farmi
cadere proprio il tuo.
In tutta risposta ricevetti quel suo placido sorriso. La differenza fu che
stavolta colsi anche un velo di ironia sul suo viso, e ciò mi convinse che sì,
quel nuovo coinquilino mi avrebbe reso la vita ancor più difficile di quanto lo
fosse già. Non diedi retta al suo silenzio e ripresi a salire i gradini a
grandi balzi, con l'atteggiamento del leone che guizza sugli spuntoni di roccia
per dominare il territorio dall'alto. Il mio giovane ed inesperto avversario
politico sarebbe stato ancora in fondo, oh sì, incapace di muovere un solo
passo se non accompagnato. D'altronde era cieco, e i ciechi hanno un pessimo
rapporto con scale sconosciute. Shaka Mudaliar non era mai salito al primo
piano di casa mia.
E invece il sorriso trionfante mi morì in faccia quando dalla vetta vidi il
nuovo coinquilino a metà del percorso.
(Buttagli la valigia addosso, Aiolia, buttagliela addosso e vedrai che
rotolerà già, lui e i suoi dannati capelli biondi)
Scartai quello sleale pensiero e lo aspettai in cima alle scale, mentre la
mia mente voleva percorrere il corridoio, buttare da qualche parte il bagaglio
e uscire di casa, tutto ancor prima che il biondino avesse varcato l'ultimo
gradino. Ma il mio corpo rimaneva lì. La conseguenza era la scomoda sensazione
d'essere stato plagiato persino nel modo di pensare. Stavo ancora combattendo
tra ragione astratta e ragione fisica quando Shaka mi raggiunse; o meglio,
tentò di farlo, perché in un battito di ciglia rischiò di scivolare quando
poggiò male il piede sul pianerottolo.
Lo agguantai per il polso prima che potesse esibirsi nel triplo salto
mortale giù per le scale. Il tuffo sarebbe stato da record se non l'avessi
braccato in tempo. Dopo un momento di batticuore, tirò un sospiro e si issò
completamente vicino a me:
- Grazie Iracà... Grazie.
Risposi con una smorfia che voleva bensì essere un abbozzato "di
nulla", poi mi ricaricai il bagaglio sulla spalla. Fu in quel momento che
Shaka Mudaliar mi prese a braccetto infilando il braccio attorno al mio con
un'astuzia forse ereditata dai vent'anni da cieco, e mi sorrise candido quando
avvertì il mio brivido contrario a quest'iniziativa.
- Se ti dà fastidio, dimmelo - mormorò in tono innocuo.
E io, tenendo per me un gorgoglio infastidito, scossi il capo dicendo: -
No, tranquillo. Hai fatto bene.
In fondo al cuore nutrivo però l'insano pensiero che l'avessi salvato dalla caduta solo per non fargli vincere l'oro nelle Olimpiadi di Caduta Libera dalle Scale. Io non avevo mai vinto una medaglia d'oro, e lui non poteva permettersi in nessun modo di superarmi. Neanche in una gara di tuffo acrobatico.
Finalmente buttai la valigia sul letto della camera per gli ospiti. In
quell'attimo mi resi conto di quanto i miei piani di abbandono nei confronti di
Mudaliar fossero insensati. Non seppi descrivere il sentimento che mi convinse
a restare a casa con lui quel pomeriggio, ma più avanti, in un futuro non
troppo lontano, l'avrei definito affetto, quella razza di affetto quasi
obbligato che si prova per chi è destinato a vivere con te. In ogni caso
accantonai nella mente le scarpe da tennis e tutto il resto e rimasi lì con lui.
Per prima cosa disfammo il bagaglio. Shaka si era seduto sul letto e mi
guardava
(Aiolia, ma allora sei proprio scemo. I ciechi non vedono!)
...sì, mi guardava senza muovere un muscolo. Sulle sue labbra color pesca
si era allungato un sorriso deliziato. Era sereno ed io ero sereno per la sua
serenità.
- Scusa se metto le mani tra le tue cose, ma...
- Tranquillo, Iracà. Grazie infinite, invece.
Gli scoccai un'occhiata e ripresi a frugare fra i suoi vestiti. Divisi i
pantaloni dalle maglie e da tutto il resto disponendo gli abiti sul letto come
se avessi indetto a casa mia un mercato dell'usato. A dire il vero non aveva
con sé molto.
- Papà mi ha detto che puoi usare i miei vestiti, per il momento - mi
affrettai, punto da questo ricordo, - e che tra qualche giorno, o non so, tra
un po' andremo a fare compere per trovarti qualcosa di più appropriato. Tanto
abbiamo la stessa taglia, anche se sono un poco più robusto non fa niente.
- Fa niente, hai ragione - mi rispose. Si alzò e piano piano, misurando i
passi, riuscì a raggiungere il balcone. Per un attimo ebbi il timore che
volesse ritentare il record di Caduta Libera, ma quando vidi che afferrava il
cornicione e si limitava a crogiolarsi al sole, il mio animo tirò un sospiro di
sollievo. Lo spiai ancora qualche secondo, poi ripresi con il mio lavoro.
Ed eccolo, che spuntava da sotto un guazzabuglio di camicie di flanella. Un
foulard verde raggomitolato in un angolo, timido nella bianca luce d'estate,
che se ne stava a fissarmi dal suo nero nascondiglio. Lo acciuffai senza tante
grazie e me lo distesi davanti agli occhi. La morbida brezza di Bristol lo
abbracciava in sinuosi movimenti.
- Mudaliar - dissi, e lui si voltò verso di me, avvertendo nel mio tono una
nota di dubbio, - e questo dove lo metto?
- "Questo" sarebbe...?
- Un foulard. Un foulard di seta verde. Dove vuoi che te lo metta?
- Non è mio.
Aggrottai le sopracciglia. - Ma era nel tuo bagaglio.
- Sì, ma non è mio. Non so come ci è finito dentro - E detto questo si
rivolse ancora all'afa d'Inghilterra, lasciando che le dita della bella
stagione gli pettinassero i capelli. Io rimasi dietro di lui come un ebete. Il
foulard si dimenava come un infante capriccioso e io non sapevo dove accidenti
piazzarlo. Buttarlo nell'armadio sarebbe stato volgare, schiacciarlo
nell'angolo di qualche cassetto ancora peggio. Era seta, e la seta va trattata
con un certo riguardo.
- Tienilo tu - disse d'un tratto Shaka Mudaliar, senza voltarsi. - Tienilo
pure.
Sentivo che stava sorridendo. Nel suo tono colsi quasi una vena di
cordialità. Decisi di non dir nulla e mi legai il fazzoletto attorno al collo.
Non penso siano mai esistiti cowboys con foulard verdi, ma poco mi importava:
sbirciando la mia immagine riflessa allo specchio vidi che non stavo nemmeno
tanto male. Mi donava.
- Be', grazie - mi scappò dalle labbra, e rituffai le mani nel bagaglio per
ignorare il formicolio alle dita. L'imbarazzo d'aver ringraziato il giovane
leone che minacciava il mio terriotorio mi costò anche un molesto calore al
volto.
Lui non poteva vederlo, di questo ero certo. Forse lo avvertì nel silenzio
che seguì.
Ma preferivo non dare una risposta a questo mio dubbio.
Così Shaka Mudaliar e quel foulard verde entrarono nella mia vita.
Nel salotto di casa Iracà...
*Sorseggia tranquillamente del thè inglese* Very good u.ù Ecco a voi il primo capitolo di questo mio tentativo di trama. Spero d'aver aperto questo mio secondo sbarco su EFP attirando la vostra attenzione ** Come detto prima, è una storia che ho ripescato dai meandri della memoria. Mi piace l'idea che alcuni (mwahahah forse non solo due u.u") dei nostri amati Saints vengano inseriti in ambienti nuovi ed attuali, come mi piace sperimentare ambientazioni e comportamenti OOC. Spero che quest'idea piaccia anche a voi **
Il nostro Aiolia sopporterà il nuovo coinquilino? (checcari chessono ** *sbava sbava*) Vi lascio con questo interrogativo e con il primo capitolo ^^ Aggiornerò in settimana gente **
A presto °°
Dew_