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Autore: Josie_n_June    05/06/2011    2 recensioni
Io sono Andrés. Sono un Assassino.
E, per quanto mi fosse permesso da questa particolare accezione della mia vita, facevo una vita piuttosto normale.
Questo finché mia sorella non è scomparsa. E adesso sono in un casino immane, costretto a cercare cripte, risolvere enigmi e a volare in Tunisia in compagnia di ladri ed esperte di mitologia in cerca di un fantomatico vaso.
Inutile nascondere che la cosa non mi entusiasma. Ma, se voglio liberare mia sorella, ho bisogno di trovare quel fottuto vaso. E, ovviamente, prima che ci arrivino i Templari.
24 Dicembre 2010. Una Vigilia di Natale del cazzo. 
Genere: Azione, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Andrés'
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24 dicembre 2010
(Venerdì)
Quello è il giorno in cui, se mi ricordo bene, tutto ha cominciato a cambiare.
Camminavo con le mani affondate nei più profondi meandri delle mie tasche. Madrid, in quel periodo dell’anno, è gelida quasi quanto è rovente in estate.
Io me ne andavo in giro con addosso soltanto la solita, pesante felpa bianca, e i jeans neri che fasciavano le mie gambette da cicogna per poi sparire dentro le fruste All Star a collo lungo. Non indossavo il cappotto. Non so cos’avessi, allora, contro i cappotti, ma non ne avevo neanche uno, nell’armadio.
Era la Vigilia di Natale. Vedevo le luci degli alberi che ammiccavano dalle finestre sulla strada di periferia dove camminavo. I bambini giocavano per strada, e si scambiavano supposizioni su quali regali i Re Magi avrebbero portato loro il 6 Gennaio, come si crede qui in Spagna.
Alcuni di loro si voltarono a guardare lo strano individuo –sarei io- che se ne andava in giro col cappuccio calato sulla faccia.
Ricambiai i loro sguardi e li salutai con la mano. Poi, approfittando del fatto che avevo avuto il coraggio di tirarla fuori dalla tasca, detti un’occhiata allo schermo dell’orologio digitale che avevo al polso.
Le 3 e mezza.
Eva mi avrebbe ammazzato. O meglio, avrebbe organizzato il mio omicidio perché qualcun altro mi ammazzasse. Dopotutto, era quello che le riusciva meglio.
Già me la immaginavo, la mia sorellina, con le mani sui fianchi davanti alla porta e, presumibilmente, una macchia di pomodoro sulla guancia.
Com’è possibile, sapevo avrebbe detto, che con tutti gli aggeggi tecnologici che ti porti dietro tu non sia mai in orario, Andreu?
Per l’appunto Eva, che non somigliava affatto a mio padre –al contrario di me che, sfortunatamente, sono la sua copia sputata- era riuscita a prendere da lui la fastidiosa abitudine di chiamarmi Andreu. Ma, visto che sapeva benissimo che m’infastidiva, lo faceva soltanto quando era offesa o arrabbiata. Io non dicevo niente e la lasciavo sfogare, anche perché devo ammettere che il più delle volte me lo meritavo. E quando finalmente sentivo un Andrés uscire dalle sue labbra, sapevo che mi aveva perdonato.
Eva ha tre anni meno di me ma, tra di noi, è lei ad aver assunto il ruolo di sorella maggiore. Anche perché le si addice molto più che a me.
E’ cresciuta a Sevilla con me, mia madre e, saltuariamente, mio padre; poi, nel 2008 - cioè a diciannove anni- si è trasferita per frequentare la Facoltà di Biologia all’Università autonoma di Madrid.
Io, quello stesso anno, mi ero stabilito da qualche mese a Valencia. Non ci vedevamo molto da allora.
Da parte mia, avevo sempre qualche missione da qualche parte del mondo, e non mi dispiaceva, certo, ma la cosa non mi lasciava molto tempo. E, anche quando non era così, stentavo ad allontanarmi dalla mia Valencia, con le sue strade larghe e la sua tecnologia.
Eva, dal canto suo, aveva sempre qualcosa da fare. Se c’è un estremo contrario di “pigra” –adesso non mi viene in mente niente di appropriato- quello era Eva. Oltre a studiare, lavorava in un Orto Botanico in centro, ogni tanto la chiamavano per fare qualche turno in un ristorante, e collaborava con noi alla Dimora di Madrid.
Ah, Eva non si era omologata a quella particolare caratteristica della mia famiglia.
Certo, aveva seguito come me l’addestramento da Assassino a cui ci aveva simpaticamente prestato nostro padre, ma una volta finito aveva deciso che non era quello che voleva fare. Non fu una sorpresa; la mia sorellina, amante di tutti gli esseri viventi, che uccideva qualcuno? Non ci credevo neanch’io.
Così continuava a lavorare nel nostro ambito, ma senza agire direttamente sul campo. Dalla Dimora di Madrid, insieme ad altri componenti della Confraternita, organizzava le missioni e perfezionava strategie. E, per essere così giovane, non era male.
Comunque il punto è che, a parte nei momenti in cui lavorava ad operazioni in cui ero coinvolto anch’io, non ci vedevamo molto.
Eva mi lasciava passare tutte le volte che potevo andare a trovarla e non lo facevo. Credo pensasse che, anche in questo, assomiglio a mio padre. E, detesto ammetterlo, probabilmente aveva ragione.
Gli unici momenti che mi chiedeva erano le festività, nelle quali ci riunivamo io, lei e, fino a poco tempo prima, nostra madre. Ci vedevamo per tradizione tutti i Natali, le Pasque, i compleanni e i Ferragosto, a cui Eva aveva aggiunto anche Halloween e il Ringraziamento, benché non fossimo Americani e il tacchino ci facesse piuttosto schifo.
Ma erano le uniche occasioni in cui ci vedevamo, e l’unica cosa che esigeva da me. E poi, avevamo anche saltato la riunione per il mio compleanno, dato che lei era stata in Canada a agosto e settembre. In fondo, avrei anche potuto arrivare puntuale.
Mi ripromisi che la volta successiva sarebbe stato così, ben sapendo che mentivo a me stesso. A quel punto arrivai davanti al palazzo di Eva.
Mi avvicinai al citofono e premetti il pulsante sulla sesta linea di campanelli, vicino al nome Eva Sirera. Non rispose nessuno. Provai un altro paio di volte a vuoto, poi alzai la testa verso la sua finestra.
Forse si era addormentata, o magari era a farsi la doccia. O, auspicabilmente, si era stancata di aspettarmi e aveva chiamato lo studente carino di Lettere di cui mi aveva parlato.
Rimasi un altro po’ all’ingresso col naso all’insù, mentre il fiato mi si condensava in nuvolette di vapore. Mi stavo congelando, e non potevo aspettare, nel caso A, che si svegliasse o, nei casi B e C, che finisse.
Conoscevo diversi modi per arrivare ai sesti piani dei palazzi senza usare le scale, ma non ero sicuro che Eva avrebbe apprezzato la mia entrata in scena alla Spiderman. Così decisi di suonare alla sua vicina.
La signora Jiménez fu molto gentile, mi aveva già visto un paio di volte e mi aprì la porta principale. Salii le scale e raggiunsi il sesto piano, porta di destra, poi appoggiai una mano sul pomello.
Fu allora che cominciai a capire che qualcosa non andava.
La maniglia girò nella mia mano senza opporre resistenza, e la porta si socchiuse. Scacciando quel brutto presentimento bussai energicamente alla porta, senza entrare.
“Eva?” chiamai.
Nessuno rispose.
A quel punto oltrepassai la soglia con lentezza, lasciando la porta aperta dietro di me. Lo stretto corridoio che portava alle camere era buio. Non accesi la luce, ma accelerai il passo.
“Eva?” chiamai ancora.
Dietro l’angolo mi aspettavo di vedere il piccolo salotto come lo ricordavo, il divano a due posti contro il muro, con davanti il tavolino del telefono e la libreria di fianco alla finestra.
Non era affatto così.
Il tavolino era in pezzi sul pavimento, la libreria era per terra e aveva vomitato tutti i libri, il divano era rovesciato e sventrato dai cuscini.
A quel punto iniziai ad avere paura.
“Eva!” urlai, senza ricevere risposta.
Mi precipitai in cucina, sperando che mia sorella si fosse messa a provare un nuovo fottuto tipo di yoga che prevedesse caos, luci spente e porte aperte.
Imprecai ad alta voce; anche quella era sottosopra. Gli armadietti erano aperti e alcuni erano stati staccati dal muro, il frigo era sdraiato sullo sportello anteriore, il tavolo era per terra spaccato a metà.
Rimasi piantato sulla porta, fissando le macchie di sangue rappreso sulle mattonelle del pavimento e sul bancone.
Due domande vorticavano nella mia testa tanto da farmi venire la nausea. Una, piuttosto prevedibile, era: dove cazzo è mia sorella?
La seconda, che invece richiedeva un po’ più di concentrazione, era: perché?
Il chi era abbastanza chiaro. Era ovvio che Eva era stata rapita; non c’erano tracce di furto, soltanto un gran casino, e nemmeno abbastanza sangue da pensare a un omicidio. Certo questo particolare non escludeva del tutto l’ultima ipotesi, ma mi sforzavo di non pensarci.
Eva era una studentessa universitaria, non scriveva sul giornale né si occupava di politica, viveva nella discrezione e non rompeva i coglioni a nessuno, e qualsiasi organizzazione criminale se ne sarebbe fregata altamente di lei. Senza contare che era stata addestrata da Assassina, e avrebbe fatto il culo a chiunque l’avesse aggredita senza saperlo.
In conclusione, rimaneva un unico, banale sospettato; l’Abstergo Industries. Per gli amici, l’Ordine dei Cavalieri Templari.
Ma come diavolo avevano fatto a sapere chi era lei? Avevamo cancellato qualsiasi traccia che insinuasse anche lontanamente la nostra parentela.
Lei usava un cognome falso, non aveva mai partecipato a nessuna missione per cui avrebbero potuto riconoscerla, e non era possibile che l’avessero vista entrare nella Base, o avrebbe voluto dire che sapevano dove fosse la Base. Quando andavo da lei facevo in modo che nessuno lo sapesse, mi accertavo di non essere seguito e non scoprivo mai la faccia. E poi i Templari non conoscevano il mio nome; tra di loro mi chiamavano il Sevillano, per via del mio accento, oppure il Catalán, perché spesso parlavo la lingua della Catalunya per essere meno identificabile.
Se i Templari l’avevano presa doveva esserci un motivo, e credevo impossibile che quel motivo fosse legato a me.
Quanto mi sbagliavo.
Smisi di fissare le macchie di sangue e decisi di muovermi. Uscii dalla cucina in modo meccanico, e fu nel momento esatto in cui rimisi piede in salotto che sentii il rumore.
Senza pensare scattai verso la camera da letto, spalancai la porta già socchiusa e mi gettai addosso alla figura che stava accanto alla finestra.
Ricordo benissimo il mio primo incontro con quel figlio di puttana.
Rovinammo addosso alla specchiera, che si rovesciò all’indietro. Lo specchio si spaccò e i frammenti di vetro mi tagliarono dappertutto, ma non lo mollai. Lottammo a terra per qualche secondo, poi riuscì a rialzarsi; lo spinsi con violenza contro il muro, feci scattare la lama al mio polso e gliela puntai alla gola.
A quel punto smise di muoversi.
“Chi cazzo sei? Dov’è mia sorella?”
Il tizio che avevo davanti era poco più alto di me, e decisamente più robusto. Doveva avere più o meno la mia stessa età, aveva la pelle scura più della media degli spagnoli, ricci neri e occhi scuri dal taglio obliquo che suggerivano venisse da un qualche paese del Nordafrica. Indossava una molto inappropriata felpa degli Aiden.
Il tipo alzò le mani quanto la mia presa glielo permetteva.
“Ehi, non c’è bisogno di essere così aggressivi.”
“Non sono d’accordo.”
La lieve ombra d’accento nel suo spagnolo confermò le mie ipotesi sulle sue origini.
“Dov’è mia sorella?” urlai di nuovo.
Il tizio mi guardò per un po’ senza rispondere. Inquieto, ma non come sarebbe ovvio aspettarsi. Sembrava piuttosto indeciso.
“Non ti conviene farmi incazzare.” incalzai, premendo la lama sulla sua gola.
“Non ne possiamo parlare con calma? Sai, non è che mi senta molto a mio agio con quella cosa puntata al collo.” protestò il tizio.
Non so se lo facesse per sdrammatizzare o per semplice idiozia. In ogni caso, la situazione era folle.
“Credi che me ne freghi qualcosa?” sibilai, sbattendolo contro la parete “Dov’è Eva?”
“Il punto è” disse lui, guardandomi come a scusarsi “Che se parlo con te, poi loro mi ammazzano.”
“Se non parli ti ammazzo io adesso.” gli feci presente.
“Anche questo è vero.” considerò lui.
Non avevo nessuna voglia di perdere tempo, e lo sbattei ancora una volta contro la parete.
“Dimmi che è successo ad Eva, o non avrai tempo di preoccuparti di chi ti ucciderà prima.”
“Oh, avanti, lo sai che le è successo.” fece il tizio “Sembri un tipo sveglio. Fai due conti.”
Lo sapevo; ma il fatto che mi prendesse anche per il culo non mi divertiva affatto.
Dov’è?” ringhiai.
“Questo... Io non lo so.”
Lo sbattei di nuovo al muro con poca grazia.
“Chi cazzo sei tu?” gli chiesi.
“Samir Navarro, investigatore privato. Occasionalmente ladro. Occasionalmente, su commissione.”
Certo. Ecco come aveva fatto ad entrare senza passare dalla porta.
“E ti hanno pagato perché gli consegnassi mia sorella?” sbottai.
“Minacciato.” mi corresse Navarro.
Inutile dire che non mi faceva pena per niente.
“In realtà l’avevano già trovata. Io dovevo solo eliminare ogni traccia del loro passaggio qui, e confermare che fosse tua sorella.”
Abbassò una mano all’improvviso, e mi ero già preparato a disarmarlo quando mi accorsi che, dalla sua tasca, non aveva estratto un’arma, ma un pezzo di carta. Me lo porse.
“Un'asse mobile sotto il letto. Un trucco da liceale.”
Gli presi di mano quella che si era rivelata essere una foto.
Eravamo io ed Eva, qualche anno prima, nel giardino della nostra vecchia casa. Ci abbracciavamo e sorridevamo all’obbiettivo; eravamo più piccoli, lei era più bassa e io avevo i capelli più corti, ma eravamo noi.
“Tu devi essere Andrés.” aggiunse Navarro.
Imprecai sottovoce. Stupida, stupida Eva. Avrei scommesso che teneva una mia foto anche nell’agenda.
Me la ficcai in tasca e tornai a tenere fermo Navarro.
“Perché l’hanno presa?” domandai per l’ennesima volta. “Vogliono me? Mi vogliono ricattare?”
Il ladro abbozzò un sorriso.
“Non sei tu che vogliono.” rispose “E’ Eva che gli serve.”
Il suo nome, pronunciato così tranquillamente da quel bastardo, mi fece salire il sangue alla testa.
“A che cosa?” feci tra i denti, esasperato.
Il ladro mi fissò per un attimo.
“Tua sorella è quella che loro chiamano Soggetto 15.” rispose.
Non ci fu nessun attimo di suspance o di tensione rivelatrice.
“E che cazzo vorrebbe dire?” mi limitai ad urlare.
“Non lo sai?” replicò Navarro, sorpreso “E voi dovreste essere i buoni? Non è che così invogliate la gente a venire dalla vostra parte.”
“Cerca di rispondere alle domande evitando commenti.” tagliai corto.
“Da qualche anno a questa parte, l’Abstergo Industries sta sviluppando una... macchina.” cominciò a spiegare Navarro, leggermente titubante “Io l’ho vista una volta sola, e non perché sia sotto gli occhi di tutti. Ci fanno stendere le persone e gli ficcano in testa una specie di casco. Da quello che ho capito, loro lo chiamano Animus.”
Non fraintendetemi. Non fu quel pomeriggio, nella camera devastata di mia sorella, che per la prima volta la Confraternita venne a conoscenza dei piani dei Templari. Soltanto la notizia non era ancora arrivata a me.
“Cos’è?” chiesi “Cosa fa?”
“Da quello che ho capito” ripeté Navarro, lentamente “Serve a leggere i ricordi genetici.”
Aggrottai la fronte.
“Cazzate.”, fu la mia sentenza.
Non esisteva la memoria genetica. Avevo letto qualcosa a riguardo, ed ero sicuro che fosse dimostrato che il DNA non registra i ricordi. E non avevo nessuna voglia di continuare a farmi prendere per il culo.
“E’ quello che ho sentito.” replicò Navarro.
“E vorrebbero leggere i ricordi genetici di mia sorella?”
“Suppongo di sì.”
“Credi che sia stupido?”
Navarro sussultò quando gli premetti la lama sul collo. Non è bello da dire, forse, ma godevo nel vedere finalmente che aveva paura.
“Puoi non credermi,” disse “Ma non pensi che se avessi voluto raccontarti una balla avrei potuto inventarmene una migliore?”
Effettvamente.
Rimasi in silenzio per qualche secondo, cercando di tornare lucido e di riflettere.
Lo fissai; ero ancora convinto che stesse mentendo, ma c’era il remoto caso che stesse dicendo la verità. Cercavo di valutare le cose oggettivamente, non ero sicuro che mi riuscisse, ma alla fine presi comunque una decisione.
“Bene.” dissi “Dimostramelo.”
Navarro spalancò gli occhi.
“Come pensi che possa fare?”
“Avrai un appuntamento con i Templari per dare loro questa, no?” feci, sbattendogli la foto stropicciata di me ed Eva sul petto “Vengo con te.”
Navarro era seriamente spaventato.
“Senti, tu mi sei simpatico, e davvero non ho nulla contro tua sorella, però se gli porto un Assassino all’incontro, loro mi ammazzano.”
“Forse ti sembrerà strano, ma non mi metterò a piangere.”
Il ladro sorrise, come se la cosa lo divertisse molto. Se non fosse stato l’unica speranza che avevo di ritrovare mia sorella, non credo avrei resistito al desiderio di affondargli la lama nella gola.
“Immagino che se non obbedisco mi ucciderai tu.”
“Non sei un completo idiota, allora.”
“E come farai a convincerlo a dirti la verità? Quelli piuttosto si fanno ammazzare.”
“Vedrai che con me parlerà. E, comunque sia, sono affari miei.”
Navarro rimase qualche secondo in silenzio. Poi sospirò.
“In Plaza de Colón. Oggi.”
Posto affollato: ottimo.
Lo so. Era la più grande stronzata che potessi fare. Sapevo benissimo che quella poteva essere una trappola; Eva poteva essere già morta, Navarro poteva volermi attirare lì per consegnarmi ai Templari, ed io rivelarmi essere il vero bersaglio come avevo pensato fin dall’inizio. Lo sapevo perfettamente, ma non m’importava.
In ogni caso, quella era l’unica possibilità che avevo di trovare Eva. Avevo bisogno di fare qualcosa e, in quel momento, non mi sembrava così assurda l’idea di andare in contro a una molto probabile morte. O forse sì ma, l’ho già detto, non potevo impedirmi di farlo comunque.
Vi sarà chiaro che la cosa di pensare lucidamente non era andata in porto.
“Andiamo.” mi limitai a dire.
Rinfoderai la lama e lo mollai. Navarro gettò un’occhiata al mio antibraccio.
“Prova a scappare, e te la ritrovi conficcata nella schiena prima di ricordarti da che parte è la porta.”
Lui fece una smofia.
“Lo so. Perché credi che sia ancora qui?”
Anche se ancora non lo conoscevo, vedevo da solo che, in quanto a forza fisica, Navarro era avvantaggiato su di me. Allora io ero meglio addestrato ma, sinceramente, non so se sarebbe bastato. L’unica ragione per cui non aveva già tentato la fuga era che io ero armato, lui no. Nonostante questo, per quanto ero incazzato, forse l’avrei battuto anche a mani nude.
“Fuori.” gl’intimai di nuovo.
Navarro uscì dalla camera di mia sorella senza guardarsi indietro.
Io, invece, non potei fare a meno di bloccarmi un istante a guardare il pavimento pieno di schegge e vetri, i mobili spostati, il letto sfatto, e ogni angolo della stanza che portava i segni evidenti di una battaglia. Eva si era fatta valere, e non avevo idea se la cosa mi rassicurasse o mi spaventasse ancora di più.
Seguii Navarro fuori dalla stanza, ed evitai di guardare qualsiasi altra cosa lungo il tragitto fino alla porta d’ingresso.



 

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Dove nove mesi di gestazione, alla fine mi sono decisa a pubblicare questa storia. Io la chiamo short fic XD Diciamo che prevede un numero limitato di capitoli, ed è parte integrante di una serie sul protagonista, Andrés. Mi sono molto affezionata a lui e, anche se più scrivevo questa storia, più mi rendevo conto che è inadatta alla sezione, non ho potuto smettere di scriverla, e dato che qualcuno mi aveva strappato una promessa, ho deciso anche di pubblicarla. Spero davvero che qualcuno l'apprezzi.
I capitoli sono già pronti, quindi ne pubblicherò uno a settimana, credo sempre di domenica. Il titolo della serie è provvisorio, e anche la presentazione delle storie, dato che mi trovo a corto di idee XD Se chi passa di qui, oltre a lasciare una graditissima recensione, ha qualche suggerimento, non si preoccupi -anzi, è pregato- di rendermi partecipe XD
Come sempre, consigli e critiche sono apprezzati, anzi, si accolgono a braccia aperte. Ultima cosa, esiste già una one-shot pubblicata in questa serie, che si colloca nel 2012, ovvero due anni dopo la storia che state leggendo. Perciò non è obbligatorio che la leggiate se non ne avete voglia, anche se, ovviamente, mi fa piacere.
Adesso vi lascio. Alla prossima settimana :)

Josie

  
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