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Autore: Dew_Drop    22/07/2011    1 recensioni
Le chimere sono i desideri di tutti: sogni ed ambizioni che crediamo di non poter mai raggiungere, ma che invece, anche a distanza di un decennio, reclamano quell'angolo di memoria che il tempo non riesce a scalfire.
Dopo dodici anni c'è chi è rimasto a Namimori e chi invece ha lasciato il Giappone. Ma qualcuno è ritornato. Tre capitoli che mostreranno come una rimpatriata di tre amici possa rispolverare i ricordi dell'adolescenza.
- Cap. I : di una chimera che giocava a baseball (8059)
- Cap. II : di una chimera che aveva paura dei temporali (5927)
- Cap. III: di una chimera che impara a volare (8027)

[Fanfiction scritta per il contest "Il Legame tra Cielo, Tempesta e Pioggia - Katekyo Hitman Reborn! Contest", putroppo annullato. ]
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hayato Gokudera, Takeshi Yamamoto, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap I: Di una chimera che giocava a baseball






Disclaimer:
i personaggi appartengono ad Akira Amano. Nulla di ciò che è scritto è ovviamente a scopo di lucro.







< LE CHIMERE, DODICI ANNI PRIMA >




Cap I : Di una chimera che giocava a baseball (80+59)



“Non esistono persone normali
che giocano a baseball; però esistono
persone normali che ci provano”

Giovanni Gaspa




Hayato Gokudera appoggiò il borsone e alzò gli occhi sull’ingresso. Non era sicuro di voler bussare e l’istinto gli suggeriva insistentemente di lasciar perdere.

Tornare a Namimori dopo tutti quegli anni trascorsi in Italia era a dir poco traumatico. Se non fosse stato per l’invito diretto del Decimo, con molte probabilità non si sarebbe preso l’impegno di lasciare la cattedra di Pisa per due settimane, ed anzi l’idea di astenersi dal lavoro non l’avrebbe minimamente sfiorato. Eppure non aveva potuto far altro che accettare, anche se quel viaggio, più che una rimpatriata, per lui nient’altro rimaneva che un ordine del suo superiore. Tanto per digerire meglio la cosa.

Stava ancora rimuginando fra sé e sé, l’indice insicuro già appoggiato sul citofono, quando qualcosa – qualcuno? – gli si appese alla gamba. Abbassò gli occhi con un pericoloso fremito d’irritazione ad arcuargli il sopracciglio destro; ma cambiò del tutto espressione quando realizzò che l’oggetto non identificato in questione era una bambina dagli enormi occhi color nocciola. Lo fissava dal basso con la piccola bocca un poco spalancata, mentre le sue manine artigliavano spasmodicamente il tessuto del completo.

Gokudera sbatté instupidito le palpebre. Non gli erano mai andati a genio i piccolini, figuriamoci quelli che osavano stracciargli i vestiti. “E tu da dove spunti?” gli scappò, e scoprì con orrore che la voce gli tremava. E la colpa era di quegli immobili, sbarrati, spaventosi occhioni castani.

Oji.

“Prego...? Mi hai chiamato zio?”

La bambina rimase ancora un momento a fissarlo, quasi per accertarsi di non aver sbagliato persona. Il tempo di un altro strattone ai pantaloni e strillò, galoppando verso la portafinestra che dava sul giardino: “Oji!, oji!”

“Ehi! E adesso dove corri?” le gridò dietro Gokudera, attonito da tutta quell’improvvisa gioia. La bimba finì dritta tra le braccia di un giovane uomo uscito in quel momento nel cortile, e lì diede sfogo al suo gioioso annuncio:

 “Oji!, oj...!”

“Sì Himizu, ho capito, ho capito!”, e gli scappò una risata mentre sollevava in braccio la bambina.

L’italiano allora non ebbe più dubbi. Quella voce, quella risata così infantile, quel comportamento spontaneo...

“Ya-Yamamoto?” fu l’unica cosa che la sorpresa gli concesse. “Yamamoto, quella è tua figlia?”

“Confermato.”

“Accidenti” borbottò Gokudera, e si passò una mano dietro al collo con fare tutto d’un tratto imbarazzato. “Scusami, proprio non l’avevo riconosciuta. Da quanti anni non vengo qui? Due, tre...?”

“Quattro anni e due mesi” puntualizzò Yamamoto benedicendolo con un sorriso. Dopodiché fece un cenno verso l’interno. “Andiamo. Mia moglie ha preparato un pranzo per quattro, oggi.”

Mangiarono attorno a quello che pareva un tavolo da cerimonia. Himizu si stancò ben presto di fare la brava bambina e schizzò in giardino dopo essersi sorbita le doverose raccomandazioni del padre. Riguardo quest’ultimo, era incredibile quanto il tempo non l’avesse scalfito: certo era più alto, i suoi lineamenti più marcati ed asciutti, ma nello sguardo era rimasto il caro, vecchio baseball freak di sempre. Il modo in cui rideva era già di per sé l’indiscutibile indizio del ragazzino che continuava a vivere sotto le spoglie di quel corpo fattosi terribilmente maturo. Gokudera lo sbirciò più volte, durante il pranzo, colse il suo sorriso di sempre, quell’aria di eterno bambino. La cosa gli strappò una serenità anormale, una sensazione di calore familiare che nemmeno l’Italia gli aveva mai concesso. Per quanto di prima battuta avesse ritenuto assurda l’idea di farsi ospitare dall’idiota per l’ultimo giorno di permanenza in Giappone, in quel momento quasi gli dispiacque d’aver alloggiato in un hotel fino a quel pomeriggio.

Takeshi Yamamoto, anni ventisette, sposato, con una figlia, era un giocatore di baseball. Uno sportivo, intendiamoci, con il piccolo difetto di avere rapporti con la mala italiana, in quanto anche in quel futuro che si erano procurati avevano deciso di seguire Tsuna sotto allo stemma dei Vongola. Era ovviamente, questo, un particolare che i più ignoravano, ma che loro erano costretti a tenere in considerazione. Non che quello fosse un periodo di conflitti – al contrario potevano persino permettersi il lusso di una seconda occupazione e di una casa propria -, ma i cavalloni dell’esistenza li avevano spinti su rive straniere fra loro. Gli unici rimasti a Namimori, a onor d’esempio, erano Yamamoto e il Decimo. E be', Hibari Kyoya, ma non c'era da stupirsi.

Fu mentre discutevano al tavolo, terminato il pasto, che squillò il telefono. Yamamoto non si alzò, anzi fece un cenno all’ospite per accordargli il permesso di rispondere. Sorrideva. Gokudera si allungò dalla sedia, arraffò la cornetta, se la portò distrattamente all’orecchio:

“Pronto? Qui casa Yamamoto.”

“Gokudera-kun? Gokudera, sei tu?”

“Ju-Juudaime!”

Sarebbe stato impossibile non riconoscere quella voce. Gokudera sbirciò il sorrisetto di Yamamoto e si mise più comodo sulla sedia: “Juudaime, sì, sono io.”

Il suo battito era accelerato. Non si aspettava di sentirlo e questa era certo la causa dell’esaltazione che gli stritolava l’anima. Tsuna non era cambiato, affatto: poco importava che il timbro della sua voce si fosse indurito, poco importava che anche lui fosse cresciuto. Il Boss era rimasto il Boss.

“Gokudera-kun, vi aspetto davanti alla scuola media, come da programma. Hibari-san ci ha concesso la visita.”

“Kyoya, avete detto?”

“È il preside, ora, sai?”, e la linea gli restituì una limpida risata. “Non esiste occupazione migliore per un tipo come lui.”

Il Guardiano rise con lui. “Ben detto, Juudaime! Allora... allora a più tardi. Ah, posso...?”

“...puoi?”

“...concedermi un approccio confidenziale, se non dispiace?”

Tsuna rise di nuovo e a Gokudera bastò questo.

“Non vedo l’ora di rivedervi” concluse con un sorriso, e riattaccò.


* * *


Dodici anni prima...


Mi chino su di lui e gli bacio il collo. Sento la sua pelle fremere sotto al velo della pioggia, le dita farsi improvvisamente più rigide. Con quel gesto gli rubo un brivido, ne avverto lo squisito tremore sulle labbra.

Gokudera si scosta da me con veemenza, si volta. Il colpo della mazza da baseball che cade nella fanghiglia risuona nel tuonante scrosciare dell’acquazzone.

“C-che accidenti stai facendo, Yamamoto?”

“Hayato...”

“Era questo il tuo obiettivo sin dall’inizio? Questo?!”

Abbasso gli occhi a pugni stretti. Certo non posso negare le sue parole, almeno non in quella situazione, soprattutto perché è proprio la situazione in sé a spiegare tutto. Che mi sono offerto di insegnargli il baseball in vista del torneo di fine anno; che nonostante il maltempo ci siamo accordati per quel giorno; che non ho fatto altro che aspettare il momento in cui lui mi avrebbe dato le spalle, per prendergli le mani e stringere insieme la mazza. Ma che poi non ci ho più visto, per colpa della pioggia sui suoi vestiti, sui suoi capelli. Per colpa insomma di tutta quella vicinanza che da tempo rincorro nell’immaginazione. E adesso quello che tanto ho inseguito si è ribellato e mi fissa con furiosi occhi smeraldini.

“Ma si può sapere che diavolo ti ha preso? Ehi...? Ohi, idiota!”

Ascoltare è troppo impegnativo. Evito lo strattone che segue all’ennesimo richiamo ignorato, so quanto lui possa essere violento. Eppure non mi limito ad afferrarlo per il colletto e per la spalla, incurante della sua disapprovazione.

Oh no.

L’animalesca reazione di Gokudera viene soffocata dal mio bacio incredibilmente possessivo. Ad incorniciare il silenzio, il borbottio della pioggia.
Ascolto il suo cuore pietrificarsi.

Io, l’invasato del baseball, che lo tengo immobile con un’arroganza del tutto inaspettata, con quel gesto d’affetto egoista. Egoista perché non corrisposto.
Gokudera si divincola, sguaina tutta la sua rabbia. Solo dopo avermi assestato un pugno sulla mandibola, spedendomi platealmente a terra, riesce a liberarsi e ad indietreggiare in fretta, quasi rischiando di inciampare.

“Stupido! Sei uno stupido, Takeshi!”

Takeshi.

Keshi.

Mi pare che il mio nome rimbalzi sulle invisibili pareti del senso di colpa. Mi porto una mano alle labbra, asciugo un rivolo di sangue. Nei miei occhi si legge l’assoluta incredulità, come se nemmeno io stesso mi renda conto di quanto accaduto. Come ho potuto baciare Gokudera senza nemmeno riflettere? In che modo la mia chimera si è trasformata in quella prepotenza assurda? Alzo gli occhi mentre le dita affondate nella fanghiglia si chiudono, incapaci di contenere il fremito della voce:

“Hayato... ti chiedo scusa.”

Gokudera si azzanna il labbro guardandomi sprezzante dall’alto. È un gesto intraducibile, forse il figlio di Rabbia e Sconcerto, prontamente riflesso nei pugni che si serrano a tenaglia.

“Stammi lontano” soffia irritato. Poi mi volta le spalle e si allontana a passo di marcia sotto la pioggia battente. Non voglio seguirlo.


* * *

_Il Piccolo Ritaglio_

Che dire? Tre capitoli, ognuno dedicato ad un momento presente e ad uno passato, ognuno focalizzato sul rapporto fra due di questi tre amici del cuore. Essendo un'amante delle 8059, non potevo non scrivere qualcosa a riguardo già nel primo capitolo.
Il nome "Himizu" è nato da una piccola fusione: "hime" è "principessa", "mizu" invece "acqua". Mi piaceva l'idea di dare un nome simile alla piccina del nostro Yama-senpai. Riguardo Gokudera... be', mi piaceva vederlo come professore a Pisa. Averlo io un prof così *-* Ho approfittato di questa fic per coronare i sogni dei personaggi: Takeshi è un giocatore di baseball professionista, Hibari il preside della Namimori. Penso mi ringrazieranno a vita v_v Ah, non prendo in considerazione i fatti riguardanti la Famiglia Shimon, proprio perché quando ho scritto questa fic non ero a conoscenza della nuova serie.
Non so quando pubblicherò il secondo capitolo - che ritengo assai fluffuso -, forse aspetterò una settimana o qualche piccolo commento... anche critiche per l'amor del cielo, ma insomma mi piacerebbe avere qualche parere, dal momento che, dati i risvolti inaspettati del contest, non posso riceverne dalla giuria - che però ringrazio di cuore.

Grazie per essere arrivato in fondo xD
Bye-bii,

Dew_








   
 
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