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Autore: Hullabaloos    17/08/2011    7 recensioni
"Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate"
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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La Storia ha subito una deviazione.

Ciò che mi appresto a raccontare è realmente accaduto, non è solo mera fantasia. In quel mondo, lo spazio e il tempo sono staccati dal nostro, e le vite scorrono indipendenti dai mutamenti che avvengono nelle nostre terre. Forse è un altro pianeta, forse è un’altra dimensione, o più semplicemente puro frutto delle nostre menti. Non per questo è meno reale di ciò che vediamo.

Non sappiamo la sua ubicazione. Ci è concessa solo una conoscenza: che questi due mondi, il nostro e il loro, sono gemelli. Quando la materia non fu solo un concetto astratto e il tempo ebbe un senso, la linea della loro esistenza imboccò due vie distinte. Ma il cordone ombelicale che li lega non è mai stato reciso.

Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate.

 

 

 

Sangue.

Sangue dappertutto, sangue sui muri scrostati, sangue sulle assi marce del parquet, sangue che gronda da queste piccole mani bianche. Il fratellone piange e chiama i loro nomi. Mamma e papà non litigano più, sono abbracciati, ma sono distesi nel lago rosso. Mamma indossa la camicetta a fiori, quella che le piace tanto. Adesso però le rose si confondono e si mescolano nella pozza. Papà mi fissa, ma non mi vede. Il sangue gocciola sulla sua pupilla, ma l’occhio non si chiude. E mi fissa, mi fissa, non mi lascia nemmeno un secondo. E mille occhi rossi mi spiano dai muri scrostati e dalle assi marce del parquet. Voglio fuggire da qui. Guardo le mie mani sporche. E sembra che quel rosso non mi voglia abbandonare mai più.

 

 

13 settembre 1902. Nel pieno della Terza Crisi Globale. L’Europa Meridionale aveva risentito della brusca e improvvisa variazione climatica. Delle terre che si affacciavano sul Mediterraneo, una volta fertili e abbondanti, non rimanevano altro che colline brulle riarse dal sole. Le  sterpaglie ingiallite che vi crescevano erano seccate dal vento afoso proveniente dai deserti del sud. Le grandi città d’arte vennero abbandonate dai cittadini, che si riversarono in massa nelle campagne ai limiti delle steppe. Le metropoli, prima brulicanti di vita e commercio, erano allora solo gusci vuoti di calce e mattoni, l’ombra di loro stesse. Ormai, queste grandi glorie delle nazioni mediterranee erano diventati luoghi pericolosi, nell’ombra delle strade sudice e polverose si nascondeva la peggior feccia dell’esistenza umana, la più bassa risma di criminali e delinquenti. Nelle case diroccate dalle persiane sbarrate vivevano coloro che non potevano permettersi una nuova vita nelle campagne. Altri, nonostante ne avessero la possibilità, decisero di rimanere, per motivi che forse vanno al di là dell’immediata comprensione.

Un gracchiare ci distolse da questa miserabile vista. Un lento, continuo brusio, da cui nascevano voci e suoni, che si allungavano, si distorcevano, per poi venire nuovamente inghiottiti nel rumore. Dentro una vecchia mansarda, due ragazzi sedevano intorno a un vecchio tavolo. Da una fugace occhiata, stabilimmo che la loro età oscillava intorno ai vent’anni e, dai delicati tratti del viso, intuimmo uno stretto legame di sangue. Quello che sembrava essere il maggiore borbottava imprecazioni a mezza voce, armeggiando con la manopola di una radio che, un tempo, doveva essere l’orgoglio del salotto di qualche ricco borghese. Il giovane sbuffava e sputava insulti in dialetto, corrucciando le sopracciglia, innervosito dalla poca collaborazione dell’apparecchio. Di fronte a lui, un ragazzo dai capelli ramati, era intento a ripulire il piatto posto davanti a sé, portandosi alla bocca grandi forchettate di spaghetti, lanciando di tanto in tanto sguardi angustiati all’indirizzo del consanguineo.

Finalmente, la voce che uscì dalle vecchie casse riuscì a galleggiare fra le interferenze. Il moro si passò una mano sulla fronte imperlata dal sudore, maledicendo quella calura di fine estate. Si buttò stancamente sulla panca scricchiolante, rubando una forchettata dal piatto del vicino. Quest’ultimo tentò di avanzare una protesta, ma la mano del maggiore lo zittì, concentrandosi improvvisamente sulla voce che affiorava tra gli sfrigolii.

-Maschere Nere… Altre scomparse… Due corpi ritrovati… Quartieri alti… Chiesa di Sant’Anna-

Le parole vennero nuovamente risucchiate, l’apparecchio rantolò agonizzante, per poi spegnersi di colpo.

-Bastardi…-, sibilò il moro, sbattendo con violenza la forchetta sul bordo del piatto, producendo un familiare tintinnio di posate che cozzano sulla ceramica. Balzò in piedi, percorrendo il perimetro della soffitta a grandi falcate. Il più piccolo fissò intimorito il viso stravolto dall’ira del maggiore, che tirò un calcio violento al vecchio apparecchio radiofonico.

-Lovi, per favore calmati…-, pigolò, alzandosi lentamente e avvicinandosi al fratello. Il moro lanciò uno sguardo sprezzante al ragazzo, che arrestò la sua avanzata.

-…Calmarmi?-. Un sussurro, incredulità mista a sarcasmo. Proruppe in una risata sguaiata, folle.

-Tu mi chiedi di calmarmi…?-, ripeté canzonatorio, ridacchiando, con un ghigno beffardo che deformò i tratti delicati del viso. Il rosso tremò leggermente, mentre le lacrime pungevano ai lati degli occhi.

-Tu mi chiedi di calmarmi quando questi pezzi di merda ammazzano altra gente…?-

Di botto, non rise più. Il ghigno lasciò posto a una smorfia, gli occhi s’indurirono.

-Tu mi chiedi di calmarmi mentre questi assassini girano tranquilli per la città?-

Da ogni parola traboccava odio, ogni insulto era una miccia pronta a scoppiare.

-Gli stessi che hanno ammazzato mamma e papà e che camminano come se nulla fosse giù in strada?-

Sbatté con violenza il palmo della mano sul tavolo, gridando, sputando sillabe grondanti veleno. Nulla però ferì il giovane più degli occhi del fratellone: le iridi dorate, le stesse del padre, bruciavano, bruciavano di un fuoco nero, bruciavano su tutto ciò su cui si posavano.

-Smettila…-

Il moro spinse con violenza lontano da sé il più piccolo, che cadde a terra e sbatté con forza contro la panca di legno. Per un attimo, questo sembrò pentito di quel gesto, ma non lo aiutò a rialzarsi. Si voltò invece verso la finestra, che si affacciava sulla piazza della città decadente.

-Sai…-

La voce del maggiore riscosse il ragazzo semidisteso sul pavimento sudicio.

-… Vorrei tanto scendere in strada per ammazzarli…-

Un gemito uscì dalle labbra del rosso.

-…Vorrei farli a pezzi come hanno fatto con la mamma…-

L’odio lasciò spazio alla follia.

-…Smettila…-

-… E lo farei lentamente, facendoli soffrire tanto…-

-Smettila-

-… E riderò quando chiederanno pietà…-

-Smettila!-

-… E li sentirò urlare quando li taglierò, piano piano…-

-Smettila, smettila, smettila!-

Lovino si riscosse, sentendo le braccia del fratello che lo stringevano forte.

Era successo. Di nuovo. E lui stava ancora piangendo per lui.

Posò una mano dietro la testa del fratellino, per portarlo maggiormente a sé.

-Io le ho viste…-

Feliciano alzò gli occhi. Il moro guardò fisso un punto imprecisato dello stanzone. Strinse maggiormente le mani sulla camicia del fratellone.

-Lo so…-

Le parole stentavano a uscire, cercavano di spiegare un dolore troppo grande.

-Mamma e papà erano lì… E lui era accanto… E li fissava…-

-Si-

-E poi mi ha visto… Si è girato e se ne è andato, capisci…? Non una parola, né uno sguardo…-

Lovino scosse la testa, come se le sue stesse parole non fossero che discorsi vuoti, privi di significato. Sciolse forzatamente l’abbraccio, e si diresse velocemente verso la porta.

-Non li ucciderai, vero…?-

Il moro si bloccò, la mano pronta ad abbassare la maniglia.

-Non proverai a ucciderli, vero?-

La voce del rosso cercava una conferma che non sarebbe mai arrivata.

-Non rischierai la vita per vendicarti, vero?-

Il maggiore sentì il suo sguardo implorante scorrere sulla sua schiena.

-Esco. Non aspettarmi per cena-

Aprì la porta e se ne andò. E lo lasciò così, solo, in quella vecchia soffitta nel centro di Roma.

 

14 settembre 1902.

Ticchettio. Rumore di lancette. E ogni secondo che passava era una tortura. Feliciano era seduto sul materasso buttato con poca cura sul pavimento polveroso. Il tacco della scarpa consunta batteva sulle pietre ad un ritmo nervoso. Lanciava occhiate febbricitanti alla porta. La sera prima non l’aveva chiusa a chiave. Una pazzia, dato i numerosi casi di furti e omicidi nel quartiere. Ma in questo modo il fratellone sarebbe potuto rientrare quando avesse voluto. Con questa speranza, la sera prima si era addormentato sul suo giaciglio improvvisato, cadendo in uno stato di dormiveglia alternato da sogni agitati. E al risveglio la casa era ancora vuota. La porta ancora chiusa. E lui sempre solo. Ticchettio. E il tempo scorreva inesorabile.

Feliciano balzò in piedi, camminò più volte avanti e indietro, tendendo l’orecchio per captare il suono familiare delle suole che sbattevano lungo il selciato.

-Tornerà, tornerà, tornerà…-

Doveva essere così. Si portò un dito alle labbra, tormentandosi le unghie con i denti.

-Tornerà, tornerà, tornerà…-

Non poteva essere stato così avventato. Già altre volte si era talmente arrabbiato da uscire di casa sbattendo la porta, ma mai aveva trascorso la notte fuori. Il sangue uscì dalla tenera carne.

-Tornerà…-

E gli tornarono in mente gli occhi dorati divorati dal fuoco. Vide gli stessi occhi fissi su di lui, vitrei, immobili. Vide la pupilla rossa, vide il sangue che gocciolava e la ricopriva. Vide gli occhi di cinque anni fa.

-Tornerà…-

Passi sempre più veloci e pesanti. Il ritmo si fondeva con il rumore delle lancette del vecchio orologio. Ticchettio. E il tempo passava. E lui non era ancora tornato.

-Tornerà…-

Ticchettio. Lui non era tornato. E a nessun’altro importava.

Con un gesto veloce, la mano del ragazzo scaraventò l’orologio sul pavimento della soffitta. Respirava affannosamente. Il vetro si era incrinato, le lancette si erano fermate. Fissò per un istante il vecchio orologio, poi incredulo la propria mano, vergognandosi di quello scatto d’ira. Raccattò l’oggetto, uno dei pochi cimeli lasciati dal nonno, tolse la polvere che si era adagiata sulla vernice scrostata, come per scusarsi, e lo poggiò di nuovo sulla mensola.

Si tuffò sul materasso, alzando sbuffi di polvere. Quel silenzio era anche peggio del ticchettio. E l’immagine di quegli occhi dorati non voleva uscire dalla sua testa. Così prese la sua decisione. Infilò una mano sotto il giaciglio sudicio, tirando fuori un sacchetto colmo di monete d’oro. Era una cifra ragguardevole, i risparmi che il nonno gli aveva lasciato prima di morire. Afferrò un mantello appeso alla parete e si precipitò giù per le scale.

-Ti troverò…-

E lo avrebbe fatto a qualsiasi costo.

 

Quartieri alti, nei pressi della chiesa di sant’Anna. Il luogo dell’ultimo avvistamento delle Maschere Nere. Nonostante fosse mezzogiorno, quei luoghi erano impregnati d’oscurità. Alti edifici di pietre calcaree si alternavano ad alti archi che un tempo avevano lo scopo di sostenere il peso delle massicce pareti della cattedrale. Dopo il suo crollo, le curve architettoniche si protendevano minacciose verso il cielo azzurro, come arti staccati di un enorme organismo. Gli incroci delle case puzzavano di urina e di aria stagnante, le strade piene di buche, le pietre rubate per la costruzione di ripari pericolanti. Dagli stretti vicoli il buio s’agitava, gorgogliava, allungava le sue mani nere per afferrare la tua ombra. Loschi individui si riparavano dalla calura sotto le tettoie delle case, oppure sedevano sui gradini di vecchi edifici. Dai visi oscurati, solo un breve luccichio.

Feliciano strinse maggiormente il sacco di monete contro il petto, mentre la mano sbiancava intorno al colletto del mantello. Procedeva con passo malfermo lungo le strette vie, lanciando sguardi smarriti e impauriti verso i muri e gli abitanti di quella zona malfamata. L’istinto che gli urlava di scappare più lontano possibile lottava contro il desiderio di ritrovare il suo fratellone. Cercava di convincersi che la paura che gli stava attanagliando le viscere fosse del tutto infondata, solo frutto della sua mente stanca e provata. Ma qualcosa dentro di sé, qualcosa di istintivo, di animale, lo stava mettendo in allarme, una profonda inquietudine aleggiava intorno a lui. I sensi si erano acuiti, percependo presenze malvagie dietro di sé.

 Con la coda dell’occhio, vide due individui, già notati qualche incrocio precedente. Un altro uomo con una cappa nera calata sul viso, a un loro cenno, s’allineò sulla scia dei loro passi. Il ragazzo girò la testa di scatto, aumentando la sua andatura. Il gruppo non cercava più di celare la propria presenza. Feliciano sentì che il numero di suole che battevano sulla strada polverosa erano aumentate. Con il cuore che batteva all’impazzata, avanzava con ampie falcate verso il  bivio davanti a sé. Ma come imboccò la via a destra, vide avanzare verso di sé, un altro drappello di uomini dall’aria sinistra. Con il cervello impantanato nella sensazione vischiosa del panico, indietreggiò, correndo verso la strada che conduceva a sinistra. I due gruppi si erano fusi. E dallo scalpitio che rimbombava tra le alte mura, capì che lo stavano braccando. Il sangue scorreva veloce dentro di se, le tempie pulsavano violentemente, il respiro gli bruciava nella gola. Il piede incespicò in una buca, ma riprendendo un equilibrio precario, si precipitò in avanti, svoltando alla curva successiva. Si fermò di colpo. La strada si srotolava per qualche altro metro, per poi essere interrotta bruscamente da un muro che si ergeva dritto tra le due pareti. In trappola.

Si voltò verso la svolta. Gli uomini si stagliavano sul ritaglio di luce che proveniva dalla strada principale, con ampi ghigni che deformavano i visi in penombra. Lo stesso sguardo sanguinario del fratello. Si strinse maggiormente nel mantello, mentre istintivamente indietreggiava verso il muro. Basse risate uscivano dalle loro bocche, la malvagità delle loro azioni malcelata dalle cappe che adombravano gli occhi affilati.

D’un tratto, uno di essi si slanciò contro di lui e gli afferrò il braccio. Feliciano urlò, ma fu strattonato con violenza. Cadde in avanti. La borsa volò più giù, quelli nelle file addietro vi si lanciarono come bestie affamate. Qualcuno lo costrinse a mettersi in ginocchio, gli calò con poca grazie il mantello dal viso. Il gruppo si divise, ne emerse un uomo, probabilmente il capo, che si avvicinò con passo sicuro al corpo tremante del ragazzo.

Aveva lunghi capelli neri, sudici, la pelle indurita dal sole e dalla crudeltà degli occhi orientali. Una vista spaventosa per il giovane, che abbassò il capo, strinse così forte gli occhi da veder danzare sotto le palpebre luci biancastre.

-Alza la testa-.

La voce era metallica, tagliente, perentoria. Non voleva rincontrare quello sguardo in cui era scritto il suo imminente destino.

-Alza la testa!-

La violenza dell’urlo fece mozzare il fiato al ragazzo. Non vedendo cambiamenti, l’uomo avanzò di un passo, afferrò i capelli rossastri della nuca e li tirò violentemente indietro. Dalle labbra sfuggì un gemito di dolore, mentre sentiva il suo sguardo che forava la sua pelle come un milione di aghi.

Con occhi spaventati, Feliciano fissò con orrore il ghigno allargarsi sul viso incartapecorito, i denti affilati che brillavano sinistratamente. Un dito sporco percorse lascivo la linea della mascella. Da dietro di se senti uno sbuffo.

-Cosa ne facciamo di lui?-

Il viso del capo si allontanò. Il ragazzo non osava respirare, aspettando con angoscia il suo destino. L’orientale si strinse il mento tra l’indice il pollice, in una finta posa pensosa.

-Mmmh… Potremmo venderlo a uno dei bordelli su a nord, potrebbe essere scambiato per una donna. Ma scommetto che qualche vecchio maiale pagherebbe oro per vederlo in calzoni…-

Dal gruppo provenne qualche risata di divertita crudeltà.  

-Oppure…-

L’uomo afferrò il viso del ragazzo, tirando fuori dal mantello un coltello incrostato di sangue nero. Feliciano boccheggiò quando questo passò la lama fredda sulla guancia sudata.

-Potremo ammazzarlo e vendere gli organi…-

L’asiatico puntò la lama verso gli occhi del giovane, da cui scendevano due caldi rivoli salati che solcavano le guance.

-No…-

-Tanto con tutti i morti che ci sono nessuno si accorgerà di te…-

Nella sua mente apparve l’immagine di Lovino.

-No!-

Tentò di liberarsi, strattonò le  braccia tenute dietro la schiena. Il capo rise forte, sadismo compiaciuto trasudava da quei gracidii.

-No?-

L’uomo avvicinò il viso al suo, gli occhi più freddi della stessa lama.

-Cosa credi di fare?-

Alzò il pugnale, pronto ad affondarlo.

-Tanto morirai, qui e adesso!-

Feliciano chiuse gli occhi, chinando il capo, pronto a sentire il ferro gelido che affondava nel suo cranio. E aspettò, pochi ma interminabili secondi. Solo un urlò disumanò lo costrinse a riprendere coscienza di se. Alzò lo sguardo. L’asiatico spalancò gli occhi, mentre rivoli di sangue uscivano dalla bocca semi aperta. Si portò una mano all’altezza del petto, dove altro liquido vermiglio sgorgava copioso. Afferrò qualcosa. La sua mano stringeva un braccio che gli aveva attraversato la cassa toracica. Spalancò la bocca, tentando di gridare, ma l’arto che lo trafiggeva venne ritratto lentamente, provocando un fruscio umido di carne contro carne. L’uomo si accasciò a terra, dove si allargò una pozza di sangue. Feliciano vide i propri pantaloni strappati inzupparsi di caldo liquido denso. Sul vicolo calò il silenzio.

Dietro all’ammasso di delinquenti, erano apparsi una decina di figure umane, coperte da stracci maleodoranti. Ai loro piedi, i corpi agonizzanti di uomini colti alle spalle, che rantolavano e si dibattevano tra il sangue e le interiora.

Un urlo di terrore ruppe quel precario stato di quiete. Nel vicolo scoppiò il caos. Gli uomini dalle pelle tumefatta avanzavano, uccidendo e sventrando i ladri più vicini. I più coraggiosi snudavano pugnali e si avventavano sugli uccisori dei compagni. Vennero però uccisi a loro volta. Gli uomini vennero annebbiati dal panico, qualcuno cercò di sfondare la fila compatta degli assalitori, ma venne trafitto dalle mani immonde. Gli altri tentarono di fuggire dalla presa assassina, inutilmente.

Feliciano sentì il proprio aguzzino mollare la presa sulle sue braccia, così poté gattonare nell’angolo tra la parete del vicolo e l’alto muro. Davanti i suoi occhi, scene di inaudita violenza e crudezza si susseguivano, una dopo l’altra, senza fine. Le urla disperate dei ladri lo laceravano, il sangue schizzava sul suo viso e sugli abiti.

Durò tutto pochi minuti. Alla fine, nei canali di scolo delle strade scivolavano rivoli di sangue nero, le pietre erano coperte da poltiglia umana. L’aria era impregnata da un olezzo talmente penetrante che il ragazzo temette di rimettere di stomaco. L’ultimo rimasto vivo era lui, stretto nel suo angolo.

Lentamente, uno dei mostri si girò verso di lui. Feliciano incontrò il suo sguardo, e gridò. Quelle persone non erano vive. Sulla pupilla era calata una velo trasparente, vitreo, come quello della madre in quello stanzino di cinque anni fa.  Quello avanzò nella sua direzione, barcollando tra i resti dei delinquenti. Il ragazzo si girò, le mani cercarono disperatamente un appiglio nelle mura per poter fuggire, le dita si riempirono di graffi. Udì i passi arrestarsi. Si voltò lentamente, e vide la figura del morto vivente stagliarsi su di lui. Gemette, premendo il corpo nell’angolo, in cerca di protezione. Urlò, quando il palmo della mano omicida si aprì su di lui. Sentì l’odore di carne putrefatta entrare nelle sue narici, riempirgli la testa. E credette davvero di morire lì, in quel vicolo buio.

D’un tratto, un lampo di luce bianca. E vide la testa del morto rotolare fino ai suoi piedi. Prima di poter realizzare alcunché, il corpo dell’assalitore fu mutilato delle braccia, delle gambe, il petto fu ridotto a pezzi. Neppure un goccio di sangue uscì dal mostro, che crollò a terra come una torre sgretolata.

Così lo vide per la prima volta. Un figura fasciata da attillate vesti nere, sfilò la lunga spada bianca dai resti putrescenti dell’aggressore. Indossava una maschera nera.

 

Note d’Autrice

Ed eccomi tornata con un nuovo esperimento! Dopo aver scritto così tante storie che oscillano da scleri mattutini a demenzialità pura, ho deciso di dedicarmi a questa long fic, decisamente più impegnativa.

Allora, qualche precisazione: tutti i fatti descritti sono  puramente inventati, avvengono in una fusione tra mondo reale e immaginario (per esempio, non so se esiste qualche chiesa di sant’Anna a Roma!). Inoltre, l’atmosfera della storia sarà steampunk, ovvero,cosa sarebbe successo se nel passato ci fosse stata la tecnologia. Come in Full Metal Alchemist, tanto per capirsi. Inoltre, gli avvertimenti e il raiting potrebbero alzarsi, chi vivrà vedrà… Infine, l’assalitore del vicolo è un personaggio random, non è nessuno degli asiatici di Himaruya. Farò altre precisazioni nei capitoli successivi. Buona lettura e recensite in tanti!!! :D

 

 

   
 
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