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Autore: emily colburn    10/10/2011    6 recensioni
Quando il tuo migliore amico è un idiota, non è che tu possa fare molto.
Giusto fargli compagnia, ecco.
- sospesa, almeno per ora -
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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chappo nonsochenumero
16 gennaio 2010
 
 

“Ci siamo conosciuti alle superiori. A dir la verità ci eravamo conosciuti prima, alle elementari, ma io non mi ricordavo di lui. In pratica quando avevamo otto anni si era innamorato di questa bimbetta, no?, e voleva sposarla. Siccome io ero la più brava con gli anellini di margherite, ha chiesto a me di fargliene uno per potersi dichiarare.”
Marisol sorride.
“Non si è dichiarato, però. E quando ci siamo rivisti alle superiori lui aveva quel sentore familiare, qualcosa che mi richiamava dal passato. Ma non pensavo fosse quel bimbetto che era venuto sicuro sicuro da me chiedendomi di fargli un anellino di margherite in cambio della sua merenda.” Mi fermo un attimo e prendo un respiro profondo. Poi bevo un sorso di cioccolata calda e mi osservo intorno.
Marisol vive in una piccola casettina bianca, alta e stretta a Chiswick. Appena saputo della zona in cui viveva, da brava fan di Doctor Who, mi sono emozionata a tal punto da mettermi quasi a saltellare.
Per cui, eccomi qui. Bloccata nello stanzino dalle pareti chiare di Marisol, con i suoi vestiti colorati buttati su una sediolina di legno, la finestra che dà sul prato innevato e un buon odore di terra nuda spagnola. Mi ha presa per la gola, la cara Marisol. Mi ha preparato la cioccolata calda, una bella ciotola di fragole tagliuzzate e i marshmallow da inzuppare. Mi sembra di stare al centro di un rito di iniziazione, con Robert che ha tanto insistito perché conoscessi la sua Marisol e le dessi la benedizione per entrare a far ufficialmente parte del branco.
Per quanto mi riguarda, la tipetta qui mi sta pure simpatica. O almeno, l’altra sera al pub mi ha narrato alcuni aneddoti sui ragazzi spagnoli da morirci. E alla fine della serata – tra birre e risate – non riuscivo neanche più a tenermi in piedi. Insomma, diciamolo, scene patetiche come queste non si ripetevano da quando a 16 anni mi  sono sbronzata a casa di Sam assieme agli altri. Che poi suo padre ci abbia beccati tutti ubriachi fino al midollo, è un altro paio di maniche. Probabilmente marinare la scuola per darsi all’alcolismo non era stata l’idea migliore, viste le conseguenze.
Continuo a guardarmi intorno. Sulle pareti color crema del muro sono state incise delle frasi, citazioni e pezzi di canzoni, qualche disegno cicatrizza le crepe e strani oggetti celtici spuntano di qua e di là in lunghi fili di significati che non comprendo. Sono tentata di farmi spiegare il tutto.
Parlandoci chiaro, come fa a non starmi simpatica una che mi prepara cioccolata, fragole, marshmallow e ha una stanza simile? Ecco.
“E tu e Bobby? Come vi siete conosciuti?”
Marisol aggrotta la fronte e sorride. Lei sorride spesso. Non di un sorriso forzato, o tirato, nemmeno di un sorriso sfacciato. Lei ha il sorriso sincero e un po’ timido dei bambini, di quelli che quando sorridono sorridi anche tu. Non si tratta dei sorrisi della pubblicità Colgate, non è un sorriso sicuro di sé. Un sorriso così non te lo aspetti. Cioè, il momento prima stai parlando e quello subito dopo eccolo spuntare, senza alcun preavviso, niente di niente, solo denti e occhi luminosi e pieghe del volto che vanno all’insù.
“Non te l’ha raccontato?”
“Ovvio che l’ha fatto”, ribatto sconvolta. “Però mi piace ascoltare i due punti di vista.”
Si blocca per un secondo e mi fissa dritta negli occhi. Sono grandi, di un nocciola chiaro, profondo, spezzato in mille sfumature. “Mi hai ricordato una cosa, sai?”
“Cosa?”
Mi fa segno di aspettare, quindi si alza e va nella piccola libreria a muro alla ricerca di qualcosa. Non trovandola, si guarda intorno, poi si avvicina alla scrivania e prende a controllare anche lì.
“Mmm, vediamo… oh, ecco!” Esclama e si volta verso di me con in mano un libriccino minuscolo, sulla copertina del quale capeggia a chiare lettere un nome che è tutt’altro che chiaro. “Leggilo”, mi dice. “Poi capirai.”
“Ma cosa?”
“Due punti. I due punti di vista.”
Vedendo che non capisco, aggiunge. “E’ il titolo della raccolta”, e indica il libro. “Amo la Szymborska. E… sai, è buffo.” Abbassa lo sguardo, incredula.
Forse dovrei smettere di ingozzarmi mentre questa poveraccia sembra così presa dai suoi ragionamenti. Però è tutto talmente buono! Sorseggio altra cioccolata e prendo dalla ciotola un cucchiaione di fragole. Mmm, avrei voglia di un po’ di panna!
Quando riporto lo sguardo su Marisol, noto con orrore che lei ha ripreso a guardarmi.
Oddio.
Riprenditi, Peggy. Fai bella figura, per favore. Almeno tu tra tutti gli amici di Robert!
Mi schiarisco la voce: “Cosa c’è di tanto buffo?”
“A parte te?”
Spalanco la bocca, fintamente offesa.
Ma poi non resisto e scoppio a ridere, lei mi segue.
“Scusami – faccio – ma se si tratta di cioccolata e fragole non c’è nient’altro che valga al mondo.”
“Eh sì, se per questo ti capisco.” Annuisce.
“Torniamo serie, dai. La cosa buffa a parte me?”
“E’ che la Szymborska ha scritto tutta una poesia che riguarda i sentimenti improvvisi. Ora provo a spiegarmi.” Si siede meglio sul letto e io appoggio la mia merenda luculliana sul tavolino accanto alla scrivania. Mi metto quindi a gambe incrociate e appoggio la schiena al muro.
“In questa poesia si parla di un uomo e una donna. Loro sono certi di non essersi mai visti prima e che il loro sia quello che tutti chiamano amore a prima vista. Ma non c’è da esserne sicuri, provoca la Szymborska, perché il caso, prima di diventare destino, può aver giocato con loro. E c’è quest’immagine stupenda di una foglia che si è appoggiata prima sulla spalla dell’uno e poi su quella dell’altra. O di un sogno identico che entrambi hanno avuto in una notte e che poi hanno dimenticato. O nella marmaglia di gente contro cui si va a sbattere uno scusi sussurrato senza sapere chi lui sarebbe poi diventato. E… be’, non ti sembra buffo?” Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “A otto anni tu fai un anello di margheritine ad un bimbo di cui poi ti scordi completamente e lo incontri di nuovo solo molti anni dopo e diventate amici. Tu neanche ti ricordavi di lui. Pensavi che quello fosse il vostro primo incontro, e invece non era per niente così. Il caso aveva giocato con voi. E chissà quante altre cose potreste aver fatto insieme senza saperlo, chissà quante altre volte le vostre strade si saranno incontrate, ma mai incrociate. E poi prendi me. Mi trasferisco dalla Spagna a Londra non so neanche io esattamente perché, così, perché mi manca l’aria, perché mi manca una bussola, perché mi manca lui nella vita, mi manca un senso, insomma, mi manca un tutto!, e comincio a girovagare per i vari quartieri vicino a Chiswick, cantando i Pogues, che amo alla follia, e tutto ad un tratto, eccolo che spunta, si piazza davanti a me e dice che anche lui ama i Pogues. Pensaci. Chissà quante volte abbiamo ascoltato le stesse canzoni negli stessi momenti, chissà quante volte abbiamo entrambi girovagato con gli occhi bene aperti alla ricerca di qualcosa, pensaci bene. Io lo stavo cercando quel giorno e lo sapevo. E lui stava cercando me, solo che non lo sapeva. E qualche mese dopo io incontro la sua migliore amica che mi fa tornare alla mente delle poesie della Szymborska.” Si porta le mani al volto, visibilmente divertita. “Guarda un po’ come ti gira la vita.”
Ho la pelle d’oca. Marisol e le sue parole e i suoi pensieri hanno qualcosa di luminoso in sé. Qualcosa di magico che non avevo mai sperimentato prima. Hanno speranza e amore. Mi rendo conto, con una punta di invidia e ammirazione, che i suoi occhi vedono tutto meglio dei miei. Anzi, che i suoi occhi hanno coraggio di vedere ogni singolo particolare e renderlo significativo e prezioso.
“Gesù. I tuoi ragionamenti”, le dico, “sono di un altro mondo.”
Scuote la testa, divertita.
Mi mordicchio il labbro, pensierosa. C’è una cosa che vorrei chiederle. Tentenno: “Ma… sei mica fan di Bobby? Voglio dire… hai detto che lo stavi cercando e…” Mi blocco.
Marisol guarda fuori dalla finestra. Ha lo sguardo un po’ perso, quasi a cercare le parole giuste, a raccogliere tra le mani come i fiocchi di neve che scendono giù da un cielo bianco da far mancare il fiato.
“Non è esattamente così, Peggy.” Mormora. “E’ una cosa che… non so neanche spiegarla. E’ complicato.”
Cos’è che dicono nei film a questo punto? “Mettimi alla prova.” Uhm, sì, credo sia così. Anche se a volte mi chiedo com’è che tutti riescono ad avere sempre una risposta pronta, brillante ed esilarante – e io no, ovvio.
“Mmm, suona bene.” Mi incoraggia lei.
“Grazie!”
Fa un respiro profondo e si guarda le mani. Ha le dita lunghe e bianche, leggere. “Non sono una sua fan. Voglio dire… ok, ho visto tutti i suoi film e lo ammiro tantissimo. Però non è questo.” Fa una pausa, come a prepararsi. Le esce una risatina nervosa. “Non prendermi per pazza, per favore.”
E lo dice a quella che si è fatta nemiche le papere del Barnes Pond.
“La prima volta che l’ho visto ero al cinema. Per un film che tra l’altro neanche volevo vedere. Ero… ero molto diversa dalla persona che sono oggi. Ero triste, stanca, avevo questo qualcosa che mi mangiava da dentro a fuori e non mi faceva dormire la notte. Non avevo pace. E… sai, ad un certo punto – non ero nemmeno attenta, non avevo idea di cosa parlasse il film – ho visto i suoi occhi. Io non lo so. Io non lo so perché uno sguardo scateni una tempesta, non ho idea di come sia possibile che crei una rivoluzione, sradichi fondamenta per crearne alcune tutte sue. Non ne ho idea. Però i suoi occhi hanno forato quello schermo, hanno spezzato ogni confine e mi hanno investita con una violenza tale da svegliarmi da quella specie di coma.” Si prende il volto tra le mani e mi guarda sorridente, con un’espressione che sembra volermi dire sono matta, vero?
“E poi?” Mi rendo conto leggermente imbarazzata che ho sussurrato con voce tremante. Sento le mani gelide e ho un’improvvisa voglia di abbracciarla forte e piangere.
“Poi… be’, ho preso a scrivere”, mi spiega.
“Scrivere?”
“Sì, sai. Non potendo averlo nella mia vita, l’ho voluto con me nelle mie storie. Ogni parola, ogni spazio, ogni virgola mi riportava a lui. Non avevo altro che lui che mi trascinava fuori da quel pozzo in cui mi sembrava di essere caduta.” Si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e il suo volto si stende, tranquillo. “Ma non ne potevo più di quella mancanza. Mi uccideva il fatto di non essere sotto quel cielo che aveva la stessa vernice dei suoi occhi. Un giorno ho fatto le valigie, ho salutato tutti – molti li ho semplicemente mandati affanculo – e sono arrivata qui a Londra. Non avevo altro nelle mani se non le mie storie e tanta speranza, e stavo benissimo così, perché finalmente stavo vivendo la mia vita, mi stavo rialzando e avevo così voglia di poter respirare ancora a pieni polmoni! Mi mancava, certo. Ogni giorno di più e in modi che non credevo possibili. Sai, non è una mancanza che sta solo nella testa, non si trattava solo di pensare oh, mi manca. Se fosse stata una mancanza ferma alla testa, avrei pure potuto combatterci, perché si tratta della mia mente, posso ragionarci. Ma lui mi mancava dappertutto. Mi mancava nel cuore, nel ginocchio, nell’incavo del gomito, nei polpastrelli, e spiegami tu come posso farli ragionare, i polpastrelli. Lui mi mancava di una mancanza che cancella il resto e riempie ogni singolo spazio, così da diventare presenza. Poi, un pomeriggio, è davvero diventato presenza. Quando me lo son trovato piazzato davanti a me mi son detta oh, cazzo, e ho perso non so quanti battiti. Due secondi. Due secondi senza fiato, mi sembrava non ci fosse nemmeno più il tempo e la terra. E poi basta. Dopo quei due secondi, tutto mi è sembrato tornare al suo posto, come se i puntini fossero stati infine collegati l’uno all’altro. Io ero al mio posto, davanti a lui, coi suoi occhi nei miei. E lui era al suo posto, in un ordine che non so dirti se fosse prestabilito, ma mi sono sentita come fossi stata davanti a lui da almeno mille anni, senza sforzo, senza ripensamenti, solo io e lui, io e il suo fiato e i suoi occhi e le sue mani e il suo tutto, del resto non me ne importava proprio niente.” Riprende fiato. Mi osserva da sotto le sue lunghe ciglia in attesa di una mia mossa.
“Complicato un cazzo, voglio dire. Questa cosa non te la sa spiegare il National Geographic.” Commento.
E ci lasciamo andare in una risata.












lo so che non ho scuse. me ne rendo conto.
però le utilizzerò lo stesso.
per cui.
scusate il ritardo. ma sapete, c'è quella robina chiamata scuola. peggio ancora, ci sono quei cosi chiamati prof che ti ricordano ogni due secondi che ci sono quelle altre cosine chiamate esami di stato - super yay.
scusate quel mescolamento di parole totalmente insensato che mi son messa in testa di chiamare capitolo. ma ho poco tempo, e in quel poco tempo che ho sono tipo devastata. però ci tengo ad aggiornare, per cui ecchime qua!
spero che i prossimi capitoli siano più carucci. io continuo ad illudermi - spero anche voi!
nel mentre, vi stringo forteforte e ci vediamo al prossimo aggiornamento!
dee.
  
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