Prologo
Gaia.
Continente orientale.
Midgar.
La shinra tower.
Un’insegna gigante di
Sephiroth sul retro della Shin-ra
tower.
Un’insegna non visibile ai
palloni gonfiati del settantesimo
piano ma chiaramente spiaccicata in faccia ai poveracci
dell’hangar riparazioni,
i così detti operai della Shin-ra motor company.
Un cartellone gigante…
Come fanno a partire gli elicotteri
con un cartellone
gigante che copre la traiettoria di decollo?
Scarlett voleva forse che gli
elicotteri partissero ad
effetto, perforando la mastodontica fronte del photoshoppatissimo
Generale?
Forse avrebbe dovuto chiamare il
Settantesimo piano e
chiedere con quale liquore facessero colazione, almeno avrebbe capito
anche lei
il senso di quella scelta geniale. O chiamare direttamente Sephiroth e
chiedergli come faceva ad avere quella pelle rosea e rilassata dopo due
settimane di combattimento in Wutai, visto che lei era sottoposta ad
uno stress
paragonabile ad una guerriglia e le sue mani erano ampiamente coperte
di calli.
- John! John! –
Berciò, agitando il cacciavite a punta
piatta, all’insegna del giovane tirocinante tutto ginocchia,
che la guardò con
sgranati occhi spauriti. – Chiamami quelli del marketing e
digli che hanno
tempo fino a stanotte per togliere quello schifo da davanti il mio hangar.
Se per domani mattina è ancora lì li
smonto pezzo pezzo e li vendo al primo ristorante Gongaghiano che
incontro!
Il poveraccio annuì
rapidamente un paio di volte e si tuffò
sulla cornetta telefonica come se ne andasse della sua stessa vita. Gli
altri
meccanici si scambiarono qualche breve cenno e, sghignazzando,
tornarono a
concentrarsi sul loro lavoro. Houri Straw si legò alla
bell’e meglio la bandana
e si approntò al suo primo veicolo. Lanciò
un’occhiata alla scheda tecnica.
L’auto, una jeep di servizio, aveva problemi con il cambio.
Scrollando le
spalle si sedette al posto di guida e mise in moto. L’auto
rombò felice. Houri
schiacciò la frizione , controllando con attenzione il
freno, ingranò la prima.
La leva del cambio le rimase in mano.
Era uno di quei momenti in cui, colto
alla sprovvista,
l’essere umano medio non sa se ridere o piangere. Houri non
era un essere umano
medio, quindi si limitò a sospirare pesantemente, masticando
un centinaio di
imprecazioni in una mezza dozzina di lingue diverse. Era la terza volta
che le
capitava da quando aveva iniziato quell’ingrato lavoro. Non
sapeva chi fosse
quel microcefalo patentato che non riusciva a controllare la sua forza,
ma
sapeva dove gli avrebbe infilato la leva quando lo avrebbe incontrato.
Si tirò
su le maniche e, con molta molta pazienza, attivò la
piattaforma di
sollevamento. Sarebbe stata una lunga giornata.
La sua preda attraversò
l’atrio, due bicchieri di caffè in
mano, guardandosi costantemente attorno, come un coniglio spaventato.
Il
cacciatore, nascosto dietro un ficus di plastica, lo vide dirigersi
verso gli
ascensori e attese, pazientemente di vedere a quale piano si sarebbe
diretto,
pregustando il momento dell’inseguimento. Nessuno gli si era
mai opposto per un
tempo così lungo e ormai, l’eccitazione della
caccia, era divenuta una droga
insostituibile. Sorrise, quando l’ascensore
cominciò la sua lenta discesa verso
i garage e, fischiettando, si diresse verso le scale di servizio.
Nessuno poteva sfuggire a Genesis
Rhapsodos.